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Biblioteca di I paesaggi dell’allume Archeologia della produzione ed economia di rete project UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA Alum landscapes Archaeology of production and network economy a cura di / edited by Luisa Dallai, Giovanna Bianchi, Francesca Romana Stasolla SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA All’Insegna del Giglio BIBLIOTECA DI 29   Cultura materiale. Insediamenti. Territorio. Rivista fondata da Riccardo Francovich Comitato di Direzione Sauro Gelichi (responsabile) (Dipartimento Gian Pietro Brogiolo (già Università degli di Studi Umanistici – Università Ca’ FoStudi di Padova) scari di Venezia) Comitato Scientifico Lanfredo Castelletti (già Direttore dei Musei Civici di Como) Rinaldo Comba (già Università degli Studi di Milano) Paolo Delogu (Professore emerito, Sapienza Università di Roma) Richard Hodges (President of the American University of Rome) Antonio Malpica Cuello (Departamento Carlo Varaldo (Dipartimento di antichità, de Historia – Universidad de Granada) filosofia, storia, geografia – Università Ghislaine Noyé (École nationale des chartes) degli Studi di Genova) Paolo Peduto (già Università degli Studi Chris Wickham (già Faculty of History – di Salerno) University of Oxford) Juan Antonio Quirós Castillo (Departamento de Geografía, Prehistoria y Arqueología de la Universidad del País Vasco) Redazione Andrea Augenti (Dipartimento di Storia Cristina La Rocca (Dipartimento di Scienze Culture Civiltà – Università degli Studi storiche, geografiche e dell’antichità – Unidi Bologna) versità degli Studi di Padova) Giovanna Bianchi (Dipartimento di Scienze Marco Milanese (Dipartimento di Storia, Storiche e dei Beni Culturali – Università Scienze dell’uomo e della Formazione – degli Studi di Siena) Università degli Studi di Sassari) Enrico Giannichedda (Istituto per la Alessandra Molinari (Dipartimento di Storia della Cultura Materiale di Genova Storia – Università degli Studi di Roma [ISCuM]) Tor Vergata) Corrispondenti Paul Arthur (Dipartimento di Beni Culturali – Università degli Studi di Lecce) Volker Bierbrauer (Professore emerito, Ludwig-Maximilians-Universität München) Hugo Blake (già Royal Holloway – University of London) Maurizio Buora (Società friulana di archeologia) Federico Cantini (Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere – Università degli Studi di Pisa) Gisella Cantino Wataghin (già Università del Piemonte Orientale) Enrico Cavada (Soprintendenza per i beni librari, archivistici e archeologici – Trento) Neil Christie (School of Archaeology and Ancient History – University of Leicester) Mauro Cortelazzo (Archeologo libero professionista) Fr ancesco Cuteri (AISB, Associazione Italiana Studi Bizantini) Lorenzo Dal Ri (già Direttore ufficio Beni archeologici – Provincia autonoma di Bolzano Alto Adige) Franco D’Angelo (già Direttore del Settore Cultura e della Tutela dell’Ambiente della Provincia di Palermo) Alessandra Frondoni (già Soprintendenza Archeologia della Liguria) Caterina Giostra (Dipartimento di Storia, archeologia e storia dell’arte – Università Cattolica del Sacro Cuore) Federico Marazzi (Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa) Roberto Meneghini (Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali) Egle Micheletto (direttore della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria, Asti e Cuneo) Massimo Montanari (Dipartimento di Storia Culture Civiltà – Università degli Studi di Bologna) Giovanni Murialdo (Museo Archeologico del Finale – Finale Ligure Borgo SV) Claudio Negrelli (Dipartimento di Studi Umanistici – Università Ca’ Foscari di Venezia) Michele Nucciotti (Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo – Università degli Studi di Firenze) Gabriella Pantò (Musei Reali di Torino – Museo di Antichità) Helen Patterson (già British School at Rome) Luisella Pejrani Baricco (già Soprintendenza Archeologia del Piemonte e del Museo Antichità Egizie) Sergio Nepoti (responsabile sezione scavi in Italia) (Archeologo libero professionista) Aldo A. Settia (già Università degli Studi di Pavia) Marco Valenti (Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali – Università degli Studi di Siena) Guido Vannini (Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo – Università degli Studi di Firenze) Philippe Pergola (LAM3 – Laboratoire d’Archéologie Médiévale et Moderne en Méditerranée – Université d’Aix-Marseille CNRS/Pontificio istituto di acheologia cristiana) Renato Perinetti (già Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali della Regione Autonoma Valle d’Aosta) Giuliano Pinto (già Università degli Studi di Firenze) Marcello Rotili (Seconda Università degli Studi di Napoli) Daniela Rovina (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Sassari, Olbia-Tempio e Nuoro) Lucia Saguì (già Sapienza Università di Roma) Piergiorgio Spanu (Dipartimento di Storia, Scienze dell’uomo e della Formazione – Università degli Studi di Sassari) Andrea R. Staffa (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo) Daniela Stiaffini (Archeologa libera professionista) Stanisław Tabaczyński (Polskiej Akademii Nauk) Bryan Ward Perkins (History Faculty – Trinity College University of Oxford) I paesaggi dell’allume Archeologia della produzione ed economia di rete Alum landscapes archaeology of production and network economy a cura di / edited by Luisa Dallai, Giovanna Bianchi, Francesca Romana Stasolla con contributi di María Martínez Alcalde, Lorna Anguilano, Ioanna P. Arvanitidou, Çiğdem Özkan Aygün, Giovanni Arcudi, Marica Baldoni, Giovanna Bianchi, Didier Boisseuil, Mirko Buono, Chiara Carloni, Beatrice Casocavallo, Laura Chiarantini, Luisa Dallai, Marianna D’Amico, Michele Di Filippo, Maria Di Nezza, Alessandro Donati, Giulia Doronzo, Stefania Fineschi, Vittorio Fronza, Cristina Martínez-Labarga, Vasco La Salvia, Alessandra Nardini, Giulio Poggi, Elisabetta Ponta, Giuseppe Romagnoli, Eleonora Romanò, Francesca Romana Stasolla, Fabiana Susini, Paolo Tomei, Fabrizio Vallelonga, Vanessa Volpi, Andrea Zifferero All’Insegna del Giglio In copertina: Tolfa-Allumiere, fronte di cava (Archivio Progetto Cencelle, Sapienza Università di Roma). Monterotondo Marittimo (GR), le fornaci del sito di Monteleo (foto P. Nannini, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Siena, Grosseto e Arezzo). Ove non altrimenti specificato, le fotografie sono degli Autori dei singoli contributi. Il volume è stato sottoposto alla double-blind peer review. L’idea del volume nasce dal convegno internazionale: I paesaggi dell’allume: archeologia della produzione ed economia di rete; Alum landscapes: archaeology of production and network economy, tenutosi a Roma e Siena nei giorni 9-11 Maggio 2016. Il convegno si è svolto con il contributo di: Sapienza Università di Roma (disposizione rettorale 652/2016) Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali École française de Rome CNRS Comune di Allumiere Comune di Monterotondo Marittimo This project has received funding from the European Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme (grant agreement n. 670792) ISSN 2035-5319 ISBN 978-88-7814-989-2 e-ISBN 978-88-7814-990-8 © 2020 All’Insegna del Giglio s.a.s. via Arrigo Boito, 50-52; 50019 Sesto Fiorentino (FI) tel. +39 055 6142 675 e-mail redazione@insegnadelgiglio.it; ordini@insegnadelgiglio.it sito web www.insegnadelgiglio.it Printed in Sesto Fiorentino (FI), luglio 2020 MDF print Le cose semplici si capiscono attraverso lunghe scadenze (R. Guttuso, 1975, Come nasce un’opera d’arte, Teche RAI) Dedichiamo questo volume ad Orano Pippucci, amministratore entusiasta e tenace, innamorato della ricerca archeologica, della storia dell’allume e del sito di Monteleo. Gli dobbiamo molto. CONTENTS I PAESAGGI DELL’ALLUME ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE ED ECONOMIA DI RETE ALUM LANDSCAPES ARCHAEOLOGY OF PRODUCTION AND NETWORK ECONOMY INTRODUZIONE AL TEMA INTRODUCTION Giovanna Bianchi, Luisa Dallai, Francesca Romana Stasolla Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa . . . . . . . . . . . . 11 Studying alum and its landscape: open questions, tools and objectives of a complex research . . . . . . . . . . . . . . 14 Didier Boisseuil L’alun à la fin du Moyen Âge: nouvelles approches, nouvelles perspectives. Le GdRI EMAE . . . . . . . . . . . . . . 19 Alum at the end of the Middle Ages: new approaches, new perspectives. The GdRI EMAE.. . . . . . . . . . . . . . . 22 RISORSE E AMBIENTE NATURAL RESOURCES AND ENVIRONMENT Maria Di Nezza, Michele Di Filippo Coltivazione e circolazione dell’alunite nel bacino del Mediterraneo dall’Epoca Antica all’inizio del ’900 da “indicatori geologici” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 Exploitation and circulation of alunite in the Mediterranean basin since Antiquity until the beginning of the 20th century through “geological indicators” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 Alessandro Donati, Vanessa Volpi, Luisa Dallai La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Chemical mapping of alum production contexts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 L’ALLUME LAZIALE THE LATIUM ALUM LANDSCAPE Francesca Romana Stasolla Le allumiere dei Monti della Tolfa tra archeologia ed economia di indotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 The allumiere of the Tolfa district: archaeology and economical network . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 Fabrizio Vallelonga L’insediamento della Bianca, il primo villaggio dei cavatori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 The settlement of La Bianca, the first village of miners? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 Marica Baldoni, Marianna D’Amico, Giovanni Arcudi, Cristina Martínez-Labarga I minatori dell’allume: la struttura della popolazione alla luce delle analisi antropologiche . . . . . . . . . . . . . . 69 Alum miners: population structure in the light of anthropological analysis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 Chiara Carloni, Giulia Doronzo Modalità di estrazione e tracce di lavorazione dell’allume sui Monti della Tolfa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 Alum: methods of extraction and traces of processing in the Tolfa mountains . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 Beatrice Casocavallo Circolazione delle ceramiche nei territori dell’allume tolfetano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 Circulation of pottery in the territories of the Tolfa alum district . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 Giuseppe Romagnoli L’“allume di Ferento” e il “vetriolo di Viterbo”: continuità di una produzione tra Medioevo ed Età Moderna . . . . . . 89 The “alum from Ferento” and the “vitriol from Viterbo”. Continuity of a production between the Middle Ages and the Modern Era . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 Andrea Zifferero Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma): conoscenze storiche, criticità e prospettive di valorizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 Archaeology of mines and production in the Tolfa mountains (Rome): historical knowledge, issues and opportunities of valorization . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 Eleonora Romanò, Fabiana Susini Allume: attestazioni tecniche del termine e sue derivazioni linguistiche nelle fonti letterarie dall’Età Romana all’Età Moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 Alum: technical references and linguistic derivations of the term in literary sources from the Roman to the Modern Age . . 111 IL CONTESTO TOSCANO THE TUSCAN ALUM LANDSCAPE Luisa Dallai Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo. Nuovi dati per la produzione dell’allume alunitico nel tardo Medioevo . . . . . 115 The excavation of the Allumiera di Monteleo. New archaeological data for the production of alum in the Late Middle Ages . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 Vanessa Volpi, Laura Chiarantini Archeometria dell’allume: cicli produttivi a confronto fra il sito di Monteleo e gli altri contesti produttivi delle Colline Metallifere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131 Archaeometry of alum: a comparative analysis of the production cycles in the site of Monteleo and in other production contexts of the Colline Metallifere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Giulio Poggi, Mirko Buono Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso dell’Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 The study of a productive context through production quantification: the site of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145 Elisabetta Ponta Cultura materiale e contesti topografici. L’Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR): studio dei reperti ceramici e confronto con il territorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 Material culture and topographical contexts in the territory of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR): analysis of pottery finds and comparison with the territory . . . . . . . . . . . . . 154 Giovanna Bianchi, Paolo Tomei Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume . . . . . . . . . . 155 Natural resources and settlement contexts in the Early Medieval Colline Metallifere: the possible role of alum. . . . . 166 Lorna Anguilano, Vittorio Fronza, Vasco La Salvia, Alessandra Nardini Paesaggi minerari altomedievali dell’Alta Val di Merse. Il caso di Miranduolo (Chiusdino, SI). . . . . . . . . . . . 167 Early Medieval mining landscapes of Alta Val di Merse. The case of Miranduolo (Chiusdino, SI) . . . . . . . . . . 172 L’ALLUME MEDITERRANEO THE MEDITERRANEAN ALUM CONTEXTS Çiğdem Özkan Aygün The flesh eating stone: alum mining and trade in Asia Minor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 La pietra che divora la carne: estrazione e commercio di allume in Asia Minore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182 María Martínez Alcalde El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 The cultural heritage of alum in Spain. The testimonies of Mazarrón . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194 Ioanna P. Arvanitidou Alum Mines in Medieval Greece . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195 Le miniere di allume nella Grecia medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200 Stefania Fineschi La produzione di allume nell’Italia meridionale. I casi di Agnano – Ischia (NA) e Lipari-Roccalumera (ME) . . . . 201 The production of alum in southern Italy. The examples of Agnano – Ischia (Naples) and Lipari-Roccalumera (Messina) . .208 INTRODUZIONE AL TEMA INTRODUCTION Giovanna Bianchi*, Luisa Dallai*, Francesca Romana Stasolla** STUDIARE L’ALLUME ED IL SUO PAESAGGIO: DOMANDE, STRUMENTI ED OBIETTIVI DI UNA RICERCA COMPLESSA A quindici anni dall’edizione del volume L’alun de Méditerranée (Borgard, Brun, Picon 2005), che raccolse numerosi contributi sul tema della produzione, dell’impiego e della circolazione dell’allume fra l’Antichità ed il Medioevo, molte nuove ricerche di carattere archeologico e storico-documentario si sono indirizzate allo studio di questa importante materia prima, del suo ciclo produttivo e della sua commercializzazione a cavallo fra Medioevo ed Età Moderna. In questa sede abbiamo raccolto i contributi proposti in occasione di due intense giornate di studio svoltesi nella primavera del 2016 a Roma (Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Scienze dell’Antichità) ed a Siena (Università degli Studi, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali), aggiornandoli alla luce degli ulteriori sviluppi emersi dalla ricerca in corso. Queste nuove indagini offrono l’opportunità di analizzare una materia prima di grande rilievo per l’economia del Medioevo, descrivendone non solo la produzione, ma anche l’impatto sul territorio ed i riflessi sulle reti economiche. L’argomento si inserisce inoltre pienamente nelle linee di ricerca promosse dal progetto ERC Advanced nEU-Med: Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region (http://www.neu-med.unisi.it), grazie al quale dal 2015 sono state intraprese nuove indagini multidisciplinari sulle valli costiere e sulle aree interne delle Colline Metallifere (Toscana sud-occidentale), là dove insistono significativi depositi polimetallici e rilevanti giacimenti di alunite ed allumi naturali sfruttati sin dall’Antichità. L’indagine su di una simile preziosa risorsa presente all’interno del territorio chiave del progetto può fornire validi spunti per comprendere in maniera più completa i meccanismi che contribuirono alla crescita economica di questo distretto tra alto Medioevo e secoli centrali, obiettivo principale dello stesso progetto ERC. La questione della produzione e circolazione dell’allume (o, ancor meglio, degli allumi) può essere affrontata, e così è stato, da molti punti di vista; nel corso del tempo i contributi più significativi si sono focalizzati sulle implicazioni socioeconomiche e sulle dinamiche di controllo, circolazione e gestione della risorsa, offrendo un punto di sintesi attento in particolar modo agli aspetti emersi dalla ricerca documentaria. Dai lavori di Lopez (Lopez 1933), Fiumi (Fiumi 1943), Singer (Singer 1948), Delumeau (Delumeau 1962), solo per citare i titoli più celebri, fino ai recenti contributi miscellanei raccolti nei Mélanges de l’Ecole Francaise de RomeMoyen Âge (Boisseuil, Ait 2014), sono numerosi i lavori che, per aree geografiche e cronologie differenti, hanno messo a fuoco aspetti di storia sociale, istituzionale, economica, di certo interesse. Diverso è invece il quadro offerto dalla ricerca archeologica. Pur trattandosi di un argomento, quello della lavorazione e circolazione dell’allume, che ha molto a che fare con l’archeologia della produzione, la storia della tecnologia e più in generale con la cultura materiale, l’archeologia se ne è occupata assai poco, ed ancor meno ci si è dedicati a studiarne le caratteristiche produttive in epoca medievale e moderna, e ciò malgrado i molteplici campi d’impiego della materia prima, che la hanno resa oltre che preziosa, assai versatile. Potremmo dire, prendendo a prestito le parole di Delumeau, che non solo “la grande storia”, ma anche “l’archeologia” ha a lungo ignorato l’allume, «… protagonista assai discreto delle vicende umane, così come ha lungamente trascurato il grano, l’olio e, in generale, tutto ciò che è indispensabile alla vita quotidiana: del resto è solo quando il fornaio non ha più il pane che si parla di lui…» (Delumeau 1962, p. 301). Dopo i fondamentali contributi di Maurice Picon che hanno delineato con precisione la cornice entro la quale inserire i diversi tipi di produzione d’allume a partire dalla materia prima utilizzata (a lui si deve la distinzione in allume naturale, artificiale e di sintesi, che corrisponde a cronologie successive ed a tecnologie sempre più articolate; Picon 2000, 2005), pochissimi progetti hanno approfondito il tema della sua produzione e circolazione, e con essi del legame fra paesaggio storico, produzione ed economia di rete. Le ragioni di questa poca fortuna sono però piuttosto facili da individuare: la prima, la più evidente, è la sostanziale “invisibilità archeologica” del prodotto “allume”; in quanto sale, l’allume non si conserva. La sua lavorazione inoltre, a differenza di quella degli altri cicli di produzione, ad esempio i metalli, non produce scorie. Mancano per conseguenza anche buona parte degli “indicatori di produzione” e questo rende complesso, oltre all’approccio archeologico, anche quello archeometrico. Quest’ultimo è risultato inoltre inefficace anche nel caso, più canonico e consolidato, delle cosiddette “analisi funzionali”. Come noto, fra la metà del I secolo a.C. ed il IV secolo d.C., l’allume venne commercializzato da alcune delle storiche aree di produzione (su tutte le Isole Eolie e l’area * Università degli Studi di Siena – Dipartimento Scienze Storiche e dei Beni Culturali (giovanna.bianchi@unisi.it; luisa.dallai@unisi.it). ** Sapienza Università di Roma – Diprtimento di Scienze dell’Antichità (francescaromana.stasolla@uniroma1.it). 11 G. Bianchi, L.Dallai, F.R. Stasolla scritte e quelle più propriamente tecniche (ad esempio la trattatistica rinascimentale e le opere di Biringuccio – De la Pirotechnia, ed Agricola – De re metallica), ponendo attenzione agli aspetti tecnologici innovativi ed anche alla persistenza delle tradizioni empiriche. Ciò con l’obiettivo di individuare tanto le nuove acquisizioni ed i nuovi saperi, quanto le tempistiche lunghe dei consolidati “saper fare”, in alcune aree territoriali particolarmente ben studiati (ad esempio per la Toscana Meridionale e la sua tradizione estrattiva e metallurgica). Studiare l’allume da questo punto di vista vuole dire, in estrema sintesi, approfondirne gli aspetti tecnici come dato di partenza, per arrivare alla ricostruzione di un quadro sociale e storico più ampio. Su questo ambito squisitamente cronologico e tecnologico il dialogo fra archeologia e fonti documentarie può apportare significativi elementi di novità al dibattito. Lo studio della produzione così declinato si inquadra nel più generale concetto di “archeologia globale”: la solidità delle ricostruzioni e le nuove acquisizioni sono infatti in buona misura il risultato di un confronto schietto di carattere multidisciplinare che individua nella geologia, nell’archeometria e nella chimica ambientale interlocutori privilegiati, in grado di offrire nuovi spunti alla ricerca, di porre quesiti, di scongiurare pericolose scorciatoie interpretative. Di questo approccio multidisciplinare si giova particolarmente lo studio dei paesaggi minerari: leggerne le tracce estrattive e di trasformazione, i sistemi di infrastrutture, la gestione agricolo-forestale, il reticolo idrografico e le sue modificazioni, significa interpretare un complesso palinsesto, consapevoli che gli aspetti produttivi ne sono una delle premesse iniziali. Un simile approccio è essenziale nello studio di qualunque tipo di risorsa rispetto alla quale è necessario individuare non solo la presenza di aree estrattive e strutture produttive, delle quali il volume fornisce numerosi esempi, ma anche (e soprattutto) il rapporto tra luoghi di approvvigionamento, centri di trasformazione e mercati di consumo. Negli ultimi decenni il rapporto tra risorse e assetti territoriali è stato uno dei temi maggiormente trattati da archeologi e storici delle fonti documentarie di età medievale. Meno frequenti, ma comunque presenti nella letteratura archeologica, sono i lavori relativi allo studio dello sfruttamento delle risorse minerarie in rapporto alla stessa maglia insediativa. La scuola senese ha fatto di questo tema un consolidato ambito di ricerca, seguito con continuità a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo ed affrontato con gli strumenti interpretativi propri dell’archeologia medievale. Ancora meno frequenti sono, invece, gli studi che affrontano tali tematiche partendo da una generale analisi del contesto territoriale, analizzando quindi il più complesso rapporto esistente tra insediamenti, paesaggio naturale e trasformazioni antropiche. La rilevanza dell’allume in quanto fondamentale e preziosa risorsa utilizzabile in molti campi della cultura materiale rende lo studio dei segni del suo sfruttamento un indispensabile ‘fossile guida’ per comprendere sia le dinamiche che regolarono la formazione o lo sviluppo di una rete insediativa connessa a tale sfruttamento, prossima o meno ai luoghi di produzione, e delle infrastrutture legate alla lavorazione e al trasporto, sia il rapporto tra insediamenti, delle Cicladi) in anfore, le Richborough 527, e le “Milo 1” (Borgard 2005). Le analisi condotte sui contenitori non hanno però potuto rintracciare alcun resto di allume, e ciò non stupisce affatto. L’allume è infatti un sale che contiene alluminio, e l’alluminio è un elemento talmente diffuso nei suoli e nelle rocce che solo una concentrazione altissima dello stesso (difficilmente rintracciabile a causa delle condizioni di giacitura dei materiali) potrebbe indicare la presenza di un contenuto, piuttosto che la natura dell’argilla o dei dimagranti impiegati nella produzione del contenitore. L’identificazione funzionale è stata affidata di conseguenza non tanto a dati di natura fisico-chimica, quanto ad una osservazione delle reti di commercio e dei mercati nei quali i contenitori sono documentati: mercati privilegiati, siti con vocazione artigianale e produttiva. La strada dell’archeometria, per quanto complessa, è stata invece percorsa con risultati assai interessanti più di recente, e proprio grazie al progetto nEU-Med, sul territorio delle Colline Metallifere; alcuni degli esiti più promettenti sono proposti all’interno del volume. La seconda ragione della scarsa fortuna dell’allume in archeologia è certamente l’ambiguità del termine stesso, che non designa con esattezza una singola materia prima, ed è stato usato per descrivere un più generale insieme di sostanze mordenzanti di varia natura ed origine (Picon 2005). Ciò rende ancor più difficile la messa a fuoco dei caratteri peculiari del ciclo di produzione dal punto di vista delle evidenze materiali. Dunque: come si può studiare l’allume, ricostruirne il ciclo produttivo e le implicazioni economiche, definire nuove cronologie, evidenziarne l’impatto sul paesaggio a partire dal dato materiale? È proprio su questi diversi campi di ricerca che il volume si propone di offrire nuovi spunti di riflessione. Il primo obiettivo è naturalmente quello di fare il punto sullo stato delle ricerche sul campo, sia in Italia sia all’estero. I contributi presentano i dati disponibili per i principali ambiti produttivi della Penisola (l’Italia meridionale, il Lazio ed in particolare il distretto di Tolfa Allumiere; la Toscana meridionale ed il territorio delle Colline Metallifere), confrontandoli con quelli di alcuni fra i principali distretti produttivi del bacino del Mediterraneo (Asia Minore, Grecia, Spagna). Le sintesi proposte, oltre a fornire uno “stato dell’arte” della ricerca archeologica, ci auguriamo forniscano lo stimolo per un rinnovato e stringente confronto con i dati tratti dalla ricerca documentaria. Assieme a questo fondamentale punto di partenza, il volume affronta un insieme di tematiche di indagine che la ricerca sul campo può intercettare e sviluppare in vario modo. Un primo punto che ci preme mettere a fuoco è quello dello studio del ciclo produttivo declinato secondo i principi dell’archeologia della produzione. Ciò implica l’individuazione e la valutazione accurata degli indicatori di produzione e la loro quantificazione per misurarne l’impatto sul contesto sociale e territoriale di riferimento. Studiare la produzione in ambito cronologico medievale e della prima Età Moderna vuole inoltre dire misurarsi criticamente con sistemi di fonti complessi e multidisciplinari, all’interno dei quali rivestono un ruolo di rilievo le fonti 12 Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa delle presenze religiose, spesso attrici di queste operazioni, che prevedono anche nuovi edifici di culto. Il caso de La Bianca è di nuovo estremamente sintomatico, anche per la possibilità che fornisce di ricostruzione del contesto sociale sotto l’aspetto antropologico. Su scale diverse, ampie porzioni di territorio rispondono alle nuove esigenze con l’organizzazione concentrica di fasce areali destinate a funzioni diverse. Le esigenze del processo di trasformazione dell’alunite prevedono in primo luogo sistemi di regimazione delle acque (in entrata ed in uscita dai siti di produzione); la gestione degli scarti di produzione; l’organizzazione degli approvvigionamenti di legna. Quest’ultimo aspetto appare dominante, per il paesaggio del Lazio settentrionale (almeno fino alla diffusione di nuove strategie tecniche di introduzione delle caldaie in rame, che richiederanno un quantitativo minore di combustibile), e ridisegna il paesaggio boschivo attorno alle allumiere, a volte riconsegnandolo quasi desertificato al termine dello sfruttamento. Un paesaggio che spesso è strettamente connesso con l’allevamento, anch’esso promosso dai nuovi ed accresciuti consumi. A distanza maggiore dalle cave, il ridisegno investe anche il piano colturale del territorio, che cerca di riconvertirsi alle nuove esigenze alimentari limitando al minimo le importazioni e concentrando i costi vivi della produzione in un circuito alimentare quanto più possibile ristretto. Anche in questo caso, le campagne del comprensorio di Tolfa ed Allumiere, destinate a colture specifiche e talvolta intensive, provocano dislocazioni contadine in forme diverse dal popolamento sostanzialmente accentrato che aveva caratterizzato buona parte del Medioevo e soprattutto la sua ultima parte. Lo stesso panorama delle colture viene adattato ad esigenze alimentari poco variegate ma massicce nella quantità, ora direzionate verso l’interno, cioè verso i territori delle cave. L’intero paesaggio viene ridisegnato e conformato alle nuove esigenze con risultati eccellenti, ma a prezzo della perdita di ogni autonomia insediativa nel raggio di azione destinato a soddisfare l’ecomonia “di indotto” delle allumiere. Ne faranno le spese centri di modesta entità, ma anche città comunali di una qualche consistenza, come Cencelle, che pure mostrava una sua floridezza, privati di ogni autonomia amministrativa e soggiogati alle disponibilità degli appaltatori dell’impresa dell’allume. Questa organizzazione investe infine le vie di comunicazione, generando percorrenze che collegano le aree boschive ai forni e le cave alle strade che conducono ai magazzini ed ai porti. Nei Monti della Tolfa ponti e passaggi vengono edificati a cura di enti ecclesiastici e di privati, diretti appaltatori delle allumiere oppure convolti nell’economia di indotto, convogliando i fasci di vie verso direttrici che a volte cambiano completamente la geografia stradale, contribuendo di conseguenza a mutamenti anche profondi nelle gerarchie del popolamento. Le esigenze del processo estrattivo dell’alunite e delle attività ad esso collaterali, o da esso dipendenti, hanno profonde ripercussioni anche in un’altra impresa, quella legata alla lavorazione dei metalli. I territori dell’allume sono spesso anche territori ad alta concentrazione di metalli, il cui sfruttamento ha preceduto risorse e sfruttamento dell’ambiente naturale. Quest’ultimo aspetto necessita dell’apporto indispensabile delle scienze archeometriche e delle bioarcheologie. In quanto risorsa ‘sensibile’ e di primaria importanza, lo studio dello sfruttamento dell’allume intercetta anche il tema di ricerca che fa riferimento alla cosiddetta “archeologia del potere”. Se in generale per ‘potere’ si intende la capacità di raggiungere determinate finalità esercitando funzioni di controllo, questa definizione acquisisce maggiore significato quando tali finalità sono connesse allo sfruttamento di risorse naturali di particolare rilevanza, collegate a cicli produttivi complessi, che necessitano di particolari strutture produttive e di conoscenze specializzate. Le strutture e le aree di produzione dell’allume (e conseguentemente anche la rete insediativa ad esse associata) divengono, pertanto, uno dei segni delle strategie economiche, politiche e sociali attuate da specifici poteri. Di questi ultimi le fonti documentarie possono individuare i diversi attori e per periodi più vicini anche decifrare i meccanismi di macro attuazione. L’archeologia, attraverso il riconoscimento dei segni materiali presenti all’interno del contesto territoriale, è invece in grado di apportare elementi di conoscenza relativi all’avvicendamento dei poteri che si suppongono preposti a tale sfruttamento, sia grazie al riconoscimento dell’organizzazione degli spazi, dei cicli produttivi e delle relative infrastrutture, sia attraverso lo studio del più complesso quadro economico (ben ricostruibile in base all’analisi della cultura materiale). Tali dati sono essenziali per comprendere il livello di pervasività dei poteri stessi e la loro centralità anche in rapporto al tessuto sociale del territorio. La produzione di allume genera infatti profonde modificazioni nei territori che ospitano le cave e crea legami fra questi e le aree di commercio, soprattutto marittimo. Malgrado l’impossibilità di riconoscere tracce di allume a partire dall’analisi dei contenitori da trasporto, numerose sono le possibilità di riscontro archeologico sia delle relazioni commerciali che esso favorisce, sia delle ripercussioni economiche che la sua produzione provoca nei territori che ne ospitano le cave. Su questi aspetti, la ricerca archeologia e topografica è solo agli inizi, e non può trovare risposte senza l’integrazione della documentazione scritta, che consente di delineare l’estensione dei quadri territoriali interessati da quella che potremo definire “l’economia dell’allume”. Le potenzialità sono tuttavia enormi, come dimostra il complesso di Tolfa ed Allumiere, fino ad ora studiato esclusivamente sotto il profilo storico. La dispersione dei suoi numerosi fronti di cava rende complessa l’indagine archeologica; tuttavia in taluni casi le ricerche consentono di cogliere le tracce di strutture produttive, come evidenziato dai contributi presenti nel volume. Come qualsiasi impresa, soprattutto se di medio-grandi dimensioni, anche quella dell’allume (basata sull’allumiera) non può sussistere senza un territorio che la sostenga, secondo dinamiche che possono esser almeno in parte categorizzate. In primo luogo, cambiano gli accentramenti demici in modo programmato; in area tolfetana l’esempio de La Bianca rappresenta un caso eclatante di un insediamento costruito ex novo per ospitare le squadre di minatori ed eventualmente le loro famiglie. Con i centri abitativi cambia anche la gerarchia 13 G. Bianchi, L.Dallai, F.R. Stasolla quello dell’alunite. Ora, la necessità di legare la produzione alla manutenzione delle attrezzature da scavo, da carico, da trasporto, alla ferratura degli animali adibiti al trasporto, agli accessori di abbigliamento e di vita di quella parte della popolazione che gravita attorno alle cave, promuove una intensa ripresa di attività metallurgiche. Il trasporto del prodotto finito, infine, coinvolge la progettazione e la costruzione di magazzini e strutture per lo stoccaggio del materiale, oltre che lo sviluppo e l’ampliamento delle strutture portuali. Queste inoltre si gerarchizzano secondo criteri che sono strettamente legati alle scelte delle direttrici di commercio del nuovo prodotto. L’analisi delle direttrici è studiata sulla base della documentazione scritta, ma riteniamo che anche la ricerca archeologica possa dare il suo contributo. Se il prodotto allume non lascia tracce certe del suo trasporto, le merci di accompagno o dei carichi di ritorno possono costituire invece una testimonianza importante della rete di diffusione del mercato dell’allume anche oltre le tratte strettamente portuali. La circolazione dei prodotti ceramici e l’individuazione di mercati e scambi sia in area toscana che per il Lazio settentrionale forniscono interessanti spunti di analisi. Alla luce di queste brevi riflessioni si pone la scelta del titolo del volume: delineare i paesaggi dell’allume vuol dire cercare di comprendere il fenomeno della sua produzione in un ampio spettro di visuale, leggerlo come chiave di un processo economico ampio e diversificato. Significa anche individuare delle linee di indagine che consentano una effettiva comparazione di situazioni che, pur diverse, sono unite da un mercato a tratti comune, da modalità produttive ed economiche simili, e per le quali crediamo sia possibile delineare delle linee di ricerca comparabili. STUDYING ALUM AND ITS LANDSCAPE: OPEN QUESTIONS, TOOLS AND OBJECTIVES OF A COMPLEX RESEARCH Fifteen years after the edition of L’alun de Méditerranée (Borgard, Brun, Picon 2005), which included numerous contributions on the production, use and circulation of alum between Antiquity and the Middle Ages, new archaeological and historical research has focused on the study of this important raw material, its production cycle and commercialization, between the Medieval and Modern Era. In this volume the contributions presented over the course of a two-day long workshop held in Rome (Sapienza University of Rome, Department of Antiquities) and Siena (University of Siena, Department of Historical Sciences and Cultural Heritage) in the spring of 2016 have been gathered and updated in light of newly acquired data from the still ongoing research. These offer the opportunity to focus on a raw material of great importance for the economy of the Middle Ages, not only illustrating its production but also the impact and effects it had on the territory and the economic networks. The topic is also in line with research promoted by the ERC Advanced project nEU-Med: Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region (http://www.neu-med.unisi.it). Thanks to this project, since 2015 new multidisciplinary investigations have been undertaken on the coastal valleys and inland areas of the Colline Metallifere (south-western Tuscany), an area that hosts significant polymetallic, alum and alunite deposits exploited since ancient times. The analysis of such a precious resource attested within the key territory of the project can provide valuable insights for a better understanding of the main topic of research raised by nEU-Med, namely the mechanisms that contributed towards the economic growth of this territorial district between the Early Middle Ages and the turn of the millennium. The issue of alum (or, more properly, “alums”) production and trade can and has been addressed from different perspectives; in time, the most significant contributions have focused on socio-economic matters as well as on the dynamics of resource control, circulation and management, offering particularly attentive syntheses as to aspects emerged from the written sources. From the works of Lopez (Lopez 1933), Fiumi (Fiumi 1943), Singer (Singer 1948), Delumeau (Delumeau 1962), just to mention some of the most well-known publications, to the most recent miscellaneous contributions collected in the «Melanges de l’Ecole Francaise de Rome Moyen Age» (Boisseuil, Ait 2014), research carried out in various geographical areas and for different chronological periods has focused on significant aspects of social, institutional and economic history. As to archaeological research, the picture is quite different. While the processing and circulation of alum is a subject very much related to the history of technology and production and, more in general, with material culture, archaeology has given little attention to it and even less to the study of its production characteristics in both Medieval and Modern times, BIBLIOGR AFIA Fiumi E., 1943, L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale, Firenze. Delumeau J., 1962, L’alun de Rome, XVe-XIXe siècle, Paris. Singer C., 1948, The earliest chemical industry. An essay in the Historical Relations of Economics and Technology illustrated from Alum Trade, London. Boisseuil D., Ait I., 2014 (a cura di) Le monopole de l’alun pontifical à la fin du moyen âge, «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Âge», 126-1, pp. 147-148. Biringuccio V., 1540, De la Protechnia, Venezia (ristampa anastatica a cura di A. Carugo, Milano 1977). Agricola G.,1556, De re metallica, Basilea (ed. a cura di Hoover H.C., Hoover L.H., New York 1950). Picon M., 2000, La préparation de l’alun à partir de l’alunite aux époques antique et médiévale, in Arts du feu et productions artisanales, XX Rencontres Internationales d’Archéologie et d’Histoire d’Antibes, Antibes, pp. 519-530. Picon M., 2005, Des aluns naturels aux aluns artificiels et aux aluns de synthèse matières primières, gisements et procédés, in L’Alun de Méditerranée, a cura di Ph. Borgard, J.P. Brun, M. Picon (Napoli-Lipari 2003), Napoli-Aix-en-Provence, pp. 13-38. Borgard P., Les amphores à alun (Iersiècle avant J.-C.-IVesiècle après J.-C.) in L’Alun de Méditerranée, a cura di Ph. Borgard, J.P. Brun, M. Picon (Napoli-Lipari 2003), Napoli-Aix-en-Provence, pp. 12-38. Lopez R.S., 1933, Genova marinara nel Duecento, Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante, Milano-Messina. 14 Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa despite the many fields of application this raw material could find, making it a precious and versatile resource. Quoting Delumeau’s words, we could say that not only “la grande histoire”, but also, to some extent, archaeology «a longtemps oublié l’alum, parce qu’il était un personage discret, comme elle a longtemps négligé de s’intéresser au blé, á l’huile et en general á tout ce qui est indispensable á la vie quitidienne. C’est seulment quand le boulanger n’a plus de pain qu’on parle de lui.» (Delumeau 1962, p. 301). Following the fundamental contributions of Maurice Picon, who outlined in detail the framework in which the different forms of alum production might be chart according to raw material type (Picon classified alums as natural, artificial and synthetic, each corresponding to subsequent chronologies and increasingly articulated technological practices; Picon 2000; Picon 2005), few projects have carried on the topic of its production and circulation, and with them the nexus between the historical landscape and a networked economy. The reasons for this are, however, easily identifiable: the first, and most evident, is the substantial “archaeological invisibility” of alum as a product: alum is a salt, and consequently does not stand the test of time; moreover, its processing, unlike that of other production cycles (such as metals) does not generate byproducts. As a consequence, a good part of typical production markers is missing, making for a complex archaeological and also archaeometric approach. The latter has also proved ineffective in the more traditional and well-established case of the so-called “functional analyses”. As we know, in the Roman world, between the middle of the 1st century BC and the 4th century AD, alum was traded from some of the historical areas of production (on all the Aeolian Islands and in the area of the Cyclades) in amphorae, the Richborough 527 type and the so-called “Milo 1” (Borgard 2005). However, the analyses carried out on pottery have not been able to trace any residue of alum. This is not surprising; alum in fact is a salt containing aluminium, a ubiquitous element in soils and rocks whose presence only in sufficiently high concentrations (difficult to trace due to the conditions of the archaeological deposit) can point to the original nature of the vessel’s content, rather than to clay or slimming agents used for the making of pottery. Functional identification was therefore entrusted not so much to data of a physico-chemical nature, but rather to the observation of trade networks and markets in which the amphorae are documented, such as privileged centres and sites where craft and productive activities were carried out. The archaeometrical approach, however complex, has been recently carried out with remarkable results, thanks also to the nEU-Med project, on the territory of the Colline Metallifere; some of the more interesting outcomes are presented in the volume. The second reason for alums ill fortune in archaeology is certainly due to the ambiguity of the term itself, that does not indicate a single raw material but has been used to describe a wide set of etching substances of different nature and origin (Picon 2005), making it even more difficult to focus on the peculiar characteristics of the production cycle and its material evidence. Consequently, how can alum be studied? How can its production and subsequent economic implications be reconstructed? How can archaeology define new chronologies and highlight exploitation impact on the landscape, starting off from material data? It is precisely on these different fields of research that this volume aims to offer new food for thought. The first objective is to assess the current state of research, both in Italy and abroad. Contributions present data available from the main explotation areas in the Peninsula (southern Italy; Lazio and the district of Tolfa-Allumiere in particular; southern Tuscany and the territory of the Colline Metallifere), comparing them with evidence from some of the best renowned alum districts across the Mediterranean basin (Asia Minor, Greece, Spain). The hope is that these summaries, in addition to providing a “state of the art” of the archaeological research, will stimulate a renewed and systematic comparison with data garnered from the documentary sources. Together with this fundamental starting point, the volume addresses also a number of scientific questions that field research can intercept and develop in various ways. A first point on which we want to focus is the study of the alum cycle according to the principles of the archaeology of production. This implies the identification and accurate evaluation of production indicators and their quantification, so as to measure the impact on the social and territorial contexts of reference. Studying alum production in the Medieval and Early Modern Age also implies a critical approach to complex and multidisciplinary sources, where the written and more properly technical ones (such as Biringuccio’s De la Pirotechnia and Agricola’s De re metallica) play a major role, emphasizing innovative technological aspects and the persistence of empirical traditions. This with an aim also at identifying newly acquired knowledge as well as long timeframes of consolidated ‘know-how’s’, particularly well-analyzed in some areas (for example in the mining and metallurgical tradition of Southern Tuscany). From this perspective the study of alum implies, as starting point, a more in-depth analysis of those technical aspects that allow to reconstruct a wider social and historical framework. In this purely chronological and technological field, the dialogue between archaeological and documentary sources can provide significant new elements to the debate. The study of alum production thus declined is part of the more general concept of “global archaeology”: the reliability of the reconstructions and new acquisitions are in fact largely the result of direct comparison of a multidisciplinary nature that sees in geology, archaeometry and environmental chemistry its main spokesmen, capable of putting forward new research questions and at the same time avoiding dangerous interpretative shortcuts. This multidisciplinary approach is particularly useful in the study of mining landscapes: decoding their exploitation and transformation traces; reading their infrastructure systems; focusing on the modifications of their agricultural-forestry management and hydrographic network, means interpreting a complex matrix, aware that the productive aspects are just one of the initial premises. 15 G. Bianchi, L.Dallai, F.R. Stasolla Such data is essential to understand the level of pervasiveness of these forms of control, also in relation with the territories social fabric. Alum production generates great changes in the territories that host the quarries, forming links between them and the areas of trade, especially maritime ones. Archaeology does not offer direct evidence as to the trading of the finished product, due to the impossibility of recognizing traces of alum from pottery analysis. There are, however, numerous ways by which archaeology can highlight evidences of those commercial networks fostered through alum exploitation and the economic repercussions that its production causes in the quarrying districts On these specific aspects, archaeological and topographical research has just started taking its first steps, and cannot as yet provide answers without the integration of written documentation, making it possible to outline the extent of the territorial frameworks included in what we might define as “the alum economy”. However, the potential is enormous. The extraordinary complex of Tolfa, so far studied from an exclusively historical perspective, is a good example; the area is not easy to read archaeologically because of the dispersive nature of its numerous quarries; nevertheless, the surveys have allow to view some of the production structures, as highlighted by a specific contribution in the volume. Like any enterprise, especially if of medium-large size, alum (based on the “allumiera”) cannot exist without a territory to support it, according to dynamics that can at least be partially categorized. At Tolfa-Allumiere the population centres change in a planned manner; the example of La Bianca represents a striking case of an “ex novo” settlement, built to house the mining teams and possibly their families. With these centres religious hierarchies, often playing a key role in these very operations, also change, involving in the process new places of worship. Again, the case of the settlement of La Bianca is extremely indicative, also for the possibility it provides of reconstructing, from an anthropological point of view, the social context. On different scales, large portions of territory respond to the new needs with the organization of concentric buffer areas intended for different functions. The requirements of the alunite processing cycle include, first of all, systems of water regulation (both in and out of the production sites); the management of production waste; the organization of wood supplies. This last aspect appears to dominate the landscape of northern Lazio (at least until the spread of new technical strategies, such as the introduction of copper boilers which required a smaller quantity of fuel), and redesigns the forest landscape around the allumiere, at times returning it in an almost desertified form at the end of the exploitation. A landscape that is often closely linked to livestock farming, also promoted by new and increasing demand. At a greater distance from the quarries, this remodelling affects also the territories cultivation plan, trying to reconvert it to new food requirements by limiting imports to a minimum and concentrating the live costs of production in a food circuit as restricted as possible. Again, the Tolfa and Such an approach is essential in the study of any type of resource with respect to which it is necessary to identify extraction areas and production structures, of which this volume provides numerous examples, but also (and above all) the relationship between places of supply, processing centres and consumer markets. In recent decades, the relationship between economical resources and territorial structures has been one of the most discussed topics by medieval archaeologists and scholars. In the field of archaeological research a two-fold approach to this theme has generally been preferred: settlement analysis in relation to production structures situated inside or immediately adjacent to the inhabited area; the study of nucleated settlement patterns in relation to the exploitation of agricultural resources. Less frequent, but still present in the archaeological literature, are studies focusing on the exploitation of mining resources in relation to settlement patterns. The Sienese school has made the latter a consolidated topic of research, followed with continuity since the 1980s, tackling the subject with those interpretative tools typical of medieval archaeology. Less frequent are studies that deal with these themes starting from a general analysis of the environmental context, thus studying the more complex relationship between settlements, natural landscape and anthropic transformations. The importance of alum as a fundamental and precious resource that can be used in many fields of material culture makes the study of the traces left by its exploitation an indispensable ‘index fossil’; it highlights the dynamics that regulated the formation or development of a settlement network connected to such exploitation, located in the vicinity or at a distance from the production sites and the infrastructures linked to the processing and transport, both in relation to settlements, resources and the natural environment. This last requires the fundamental contribution of archaeometry and bioarchaeology. As a ‘key’ resource of primary importance, the study of alum exploitation also intersects another topic of research, the so-called “archaeology of power”. If, in general, ‘power’ represents the ability to achieve certain goals by exercising control functions, such a definition acquires greater significance if these goals are connected to the exploitation of natural resources of particular importance, related to complex production cycles, which require specific structures and specialized knowledge. The areas and structures were alum is worked (along with the related settlement network) become therefore a key feature of the economic, political and social strategies implemented by specific powers. As to the latter, written sources can identify the different players involved and, for more recent historical periods, decipher their general strategies. Archaeology, through the identification of the material signs preserved within the territorial context, is instead capable of shedding light on those changing authorities supposedly in charge of such exploitation. In order to achieve this goal workspace organization, production cycles and the related infrastructures, all encompassed in a more complex economic framework (carefully reconstructed through the analysis of material culture), must be taken into account. 16 Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa Allumiere district countryside, intended for specific and sometimes intensive crops, causes peasant relocation in forms that are different from the substantially centralised pattern that had characterised much of the Middle Ages, especially its later centuries. The same selection of crops is adapted to food requirements that are not varied but massive in quantity, now directed inland towards the quarrying districts. The whole landscape is reshaped, conforming to the new requirements with excellent results, but at the price of the loss of any settlement autonomy within the territorial range of action destined to satisfy the “supply chain” economy of the allumiere. It will be at the expense of small towns, but also communes of some size, such as Cencelle, stripped of any administrative autonomy and subject to the priorities of the alum company’s contractors. Finally, this organization invests the roadways, generating routes that connect the wooded areas to the furnaces and the quarries to roads that lead to warehouses and ports. In the Tolfa mountains, bridges and passageways are built by ecclesiastical and private bodies, direct contractors of the allumiere or involved in its related economy, conveying the roadways indirections that at times completely change the routes geography, consequently contributing to at times significant alterations in settlement hierarchies. The needs of the alunite extraction process and the activities related to or dependent on it, have profound repercussions also on another economic cycle, the one related to metalworking. Alum territories are often areas with a high concentration of metals whose exploitation often preceded that of alunite. The need to link this production to excavation upkeep in the form of loading and transport equipment, the shoeing of animals used for transport, along with clothing and daily-life accessories of that part of the population that gravitates around the quarries, promotes an intense resumption of metallurgical activities. The transport of the final product involves the planning and construction of warehouses for the storage of material, as well as the development and expansion of port facilities. These are also hierarchized according to criteria that are closely linked to the choices of the new product trade routes. The analysis of the trade network is studied on the basis of written documentation, but we believe that archaeological research can also give its contribution. If alum in itself does not leave definite traces of its passage, the accompanying goods or return cargoes can be an important witness s to its commercial network, even beyond strictly maritime routes. The circulation of ceramic products and the identification of markets and trade goods, for example both in the Tuscan area and in northern Lazio, provide interesting insights for future analyses. In light of these brief reflections the book’s title is chosen: outlining the alum landscape, in fact, means trying to understand the phenomenon of its production in a wide range of views, reading it as the key to a broad and diversified economic process. It also means identifying lines of investigation that allow an effective comparison of various geographical contexts that, although diversified, are linked by a sometimes common market and by similar productive and economic methods, for which we believe it is possible to outline comparable lines of research. 17 Didier Boisseuil* L’ALUN À LA FIN DU MOYEN ÂGE: NOUVELLES APPROCHES, NOUVELLES PERSPECTIVES. LE GdRI EMAE Alum at the end of the Middle Ages: new approaches, new perspectives. The GdRI EMAE L’initiative de la rencontre qui s’est tenue à Rome et à Sienne en 2016 est née d’une réflexion menée dans le cadre des travaux d’un Groupe de Recherche Internationale (acronyme GdRI), formé à partir de 2014, grâce au CNRS, et qui réunit une dizaine de partenaires : les universités de Rome (Sapienza), de Sienne et de Sassari (en Italie), de Valence (en Espagne), de Gand (en Belgique), de Berlin (Max-Planck Institut), de Paris (Paris1-Sorbonne), de Tours, à travers deux UMR (le Lamop et le CESR, en France) et l’École Française de Rome. L’objectif de ce GdRI intitulé EMAE: Exploitation of Mediterranean Alums in Europe, est d’étudier la production, la commercialisation et les usages des aluns à la fin du Moyen Âge (entre les XIIIe et le XVIe siècle). L’alun est un produit connu de tous ceux qui étudient l’histoire de la Rome d’Ancien Régime, puisqu’il a fait l’objet d’une étude remarquable réalisée par Jean Delumeau, publiée en 1962, sous le titre L’alun de Rome (Delumeau 1962), ouvrage traduit récemment à l’initiative de la commune d’Allumiere (Poggi 1990). Cette recherche met en avant l’importance du minéral produit à Tolfa, notamment entre 1550 et 1650, qui a soutenu l’essor d’une industrie textile à Venise, en Lombardie, à Naples et sans doute ailleurs dans la seconde partie du XVIe siècle. Il s’agit d’une enquête exemplaire d’histoire économique, fondée sur des analyses quantitatives et qui dispose, pour l’Espagne, d’un équivalent : le vaste travail de Felipe Ruiz Martín, publié seulement en 2005 (Ruiz Martin 2005). Ces ouvrages complètent les travaux plus anciens de Charles Singer qui soulignait déjà le rôle de l’alun dans l’essor de l’artisanat et de l’industrie en Occident et les balbutiements de la chimie moderne. Ils s’inscrivent surtout dans le prolongement des études menées sur le commerce de l’alun au Moyen Âge qui insistent sur le rôle de ce minéral dans la fortune des hommes d’affaires génois – notamment Benedetto Zaccaria (Lopez 1933), entre le XIIIe et le XVe siècles. En sorte que l’alun est devenu le paradigme des produits méditerranéens qui ont suscité l’essor de monopoles commerciaux comme le suggérait Armando Sapori (Sapori 1967, pp. 331-335). L’objectif de notre enquête est de revenir sur ce paradigme à la lumière des travaux récents qui font place à des interrogations et des approches plus contemporaines. Les travaux de nos collègues antiquisants ont, à ce titre, été déterminants : l’étude des amphores de Lipari incite à regarder de plus près la circulation des aluns; les contributions du volume collectif édité à Naples en 2005 par Philippe Borgard, Jean-Pierre Brun et Maurice Picon, L’alun de Méditerranée (à l’issue d’une rencontre de 2003) (Borgard, Brun, Picon 2005) nous a poussé à mener une réflexion plus approfondie sur les lieux de production, sur le commerce de cette matière première à l’époque médiévale. L’enquête se heurte, toutefois, à plusieurs écueils que les travaux antérieurs avaient déjà, pour partie, signalés. – La définition même de l’alun. Il est communément admis que l’alun est un sulfate double d’aluminium et de potassium, mais cette définition chimique ne désigne qu’une partie des sulfates appelés aussi autrefois aluns. Ainsi, il est parfois délicat d’interpréter les expressions anciennes – voire fort anciennes. Il est très probable que ces expressions désignaient d’autres produits chimiques proches (ou aux effets/usages proches dans un cycle de production notamment) que nous connaissons mal. Ces incertitudes sont renforcées par le fait que les hommes du Moyen Âge eux-mêmes hésitaient ou utilisaient des distinctions parfois nombreuses pour qualifier les produits qu’ils commercialisaient ou employaient. Ainsi dispose-t-on d’une gammes très étendue d’aluns : aluns de roche, alun de plumes… Il n’est pas rare que dans la littérature historique, on identifie rapidement ces produits à tel ou tel type de sulfate ou à des produits de telle ou telle qualité ou provenance. Je reste pour ma part très circonspect face à ces interprétations qui ne sont souvent fondées que sur quelques références archivistiques et qui sont peu discutées. Je considère que le meilleur moyen de s’assurer de leur origine ou de leur nature est d’identifier leur cheminement ou de comprendre leur mode de production. Or, sur ce dernier plan, il faut bien admettre que les études manquaient encore il y a peu. L’alun n’a pas bénéficié des travaux poussés que les métaux (le fer, l’argent notamment) ont suscités. Sans doute parce qu’il paraît moins ‘utile’ dans les systèmes économiques anciens, moins important dans l’histoire des techniques, mais aussi parce les traces archéologiques de son existence sont plus discrètes. Certes, la belle description de Vannoccio Biringucci dans son De la Pirotechnia (Biringuccio 1540), reprise par Agricola, est connue – notamment, dès le XVIIIe siècle, par Targioni Tozzetti 1 –, mais elle n’a été commentée que par Charles Singer et plus récemment par le regretté Maurice Picon (Picon 2000, pp. 519-530). * Université de Tours, Département d’Histoire et d’Archéologie – Cethis (didier.boisseuil@wanadoo.fr). 1 Comme l’atteste un manuscrit du savant toscan conservé à Florence, BNCF Mss Palatino 1065. 19 D. Boisseuil C’est dans ce contexte que Luisa Dallai et moi-même avons initié en Toscane des recherches auxquelles très vite ont été associés nombre de nos collègues : d’abord Ivana Ait et par la suite Francesca Romana Stasolla, David Igual, Jan Dumolyn, Pinuccia Simbula, Enrico Basso et beaucoup d’autres ainsi que plusieurs étudiants. C’est avec eux que nous avons organisé plusieurs rencontres associant histoire et archéologie, soutenues par l’École Française de Rome (à Sienne en 2009 2, à Allumiere en 2010 3, à Sassari en 2014 4) qui ont donné lieu notamment à deux publications dans les Mélanges de l’École Française de Rome Moyen Âge 5. C’est en s’appuyant sur ces rencontres, que nous avons proposé la constitution d’un groupe de recherche élargi autour des aluns au Moyen Âge (XIIIe-XVIe s.) dont vous pouvez suivre l’activité grâce à notre site internet 6. Le GDRI a organisé sa première rencontre à Mazarrón en 2015 7 : une rencontre sous le soleil de Carthagène qui nous a permis de nous rapprocher de nos amis espagnols et de préparer notre table ronde d’aujourd’hui. Le projet du GDRI tire sa cohérence d’un faisceau d’éléments directement empruntés à l’historiographie que j’évoquais précédemment et à nos recherches en cours : ont été employées pour faire de l’alun – ce que rien n’atteste pour l’heure –, c’est vraisemblablement à une autre échelle, plus petite (selon un mode de production artisanal). La séquence que nous avons retenue est un moment dans l’histoire du produit alun, celle où s’affirme un procédé industriel. – La deuxième observation qui donne cohérence à notre enquête, c’est le cadre. Il s’avère qu’au cours des XIIIe-XVIe siècles, la production d’alun s’est essentiellement (peut-être même exclusivement) concentrée autour du bassin méditerranéen : d’abord en Anatolie et ensuite en Méditerranée occidentale. Le reste de l’Europe (et même l’espace français actuel) sont complètement absents (tout au moins en l’état de nos recherches) 8. Dans cet espace, et je le retiens comme un fait majeur, les lieux de production sont nombreux, bien plus nombreux que nous l’avions soupçonné initialement notamment pour la seule fin du XVe siècle ; ce qui offre une fenêtre d’observation plus étendue que ce que nous avions imaginé. Il s’agit d’un espace qui du point de vue politique est morcelé, mais cela ne signifie pas qu’il est cloisonné : bien au contraire, la Méditerranée est un espace de circulation pour les produits comme pour les les hommes et leurs techniques. – Troisième facteur qui contribue à donner cohérence à notre projet : les acteurs du commerce de l’alun. Au cours de cette longue période de trois siècles, ce sont d’abord et avant tout des hommes d’affaires italiens : des Génois, bien sûr, mais aussi des Florentins (au premier rang desquels les Médicis à la fin du XVe siècle), voire des Vénitiens, des Siennois. Ils se sont chargés du transport (occasionnellement de la production) de l’alun méditerranéen, et ont permis son acheminement vers le reste de l’Europe, notamment et surtout autour de la Manche ou de la Mer du Nord (Flandres, Angleterre) où l’alun était consommé et redistribué, entrant dans de nombreux cycles de production surtout ceux du textile. – Le mode de production d’abord. Il s’avère que la période du XIIIe au XVIe siècle est marquée par l’exploitation d’un type de roche, les roches alunifères et plus particulièrement l’alunite, selon une chaîne opératoire décrite notamment par Vannoccio Biringucci permettant d’obtenir, en quantité, de façon régulière un alun de qualité constante (du sulfate double d’aluminium et de potassium): bref selon un procédé que l’on peut qualifier d’industriel (selon les canons désormais admis des historiens des techniques d’Ancien Régime). Cela ne signifie pas pour autant que d’autres modes de production n’aient pas été employés (notamment les plus anciens : la collecte et purification des aluns natifs), mais la production d’alun d’alunite paraît, au cours de notre période, dominante. Par la suite, des aluns ont été produits dans le nord de l’Europe notamment en Angleterre, mais avec d’autres matières premières et selon des procédés techniques distincts (Miller 2002). Cela ne signifie pas non plus que l’alunite ou d’autres roches alunifères aient été ignorées auparavant, mais si elles 1. AXES DE RECHERCHES Pour mieux saisir le rôle véritable de ces acteurs essentiels du commerce, il convient de comprendre comment ils participèrent à la mise en œuvre d’une chaîne de produit (commodity chain: pour reprendre un concept utilisé par les historiens de l’économie, notamment Immanuel Wallerstein) (Hopkins-Terence,Wallerstein 1986, pp. 157-170). Ils furent les intermédiaires actifs entre des producteurs et des utilisateurs. Toutefois, pour bien mesurer l’étendue et la capillarité des trafics de ces commeçants, il nous a semblé qu’il était souhaitable de mieux connaître les usages de l’alun. Dans quel cycle de produits manufacturés intervenait-il ? Dans quelles chaînes opératoires est-il attesté ? Quelles sont les qualités chimiques des aluns qui étaient sollicités ? Ces questions sommairement posées sont au cœur de la réflexion de l’un des axes de notre GDRI. Elles sont essentielles. Il s’agit de se faire une idée la plus précise possible des secteurs dans lesquels les aluns étaient mobilisés. Bien sûr, le cycle de production auquel on pense principalement est celui de la teinturerie. 2 I Senesi e le risorse naturali (secc. XV-XVI)/Les Siennois et les ressources naturelles (XV e-XVIe siècles), I. Ait, D. Boisseuil dir. avec le soutien de l’École française de Rome, Università degli Studi di Siena avec le soutien de l’École française de Rome, Sapienza Università di Roma (Sienne, le 30 novembre 2009). 3 Le monopole de l’exploitation et de la commercialisation de l’alun de Tolfa autour de 1500/Alle origini del monopolio commerciale: le miniere di allume del papa dir. D. Boisseuil, I. Ait, avec le soutien de l’EFR, Sapienza, Università di Roma (Rome, décembre 2010). 4 Tra Storia e Archeologia. L’allume mediterraneo nell’Occidente tardo-medievale, Università di Sassari, Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione, Corso di Laurea in Scienze dei Beni Culturali, Corso di Dottorato in Archeologia, Storia e Scienze dell’Uomo, Giovedì 6 Marzo 2014. 5 Production d’alun et monopole romain en Toscane méridionale (fin XV e-début XVIe siècles), Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge [En ligne], 1261 | 2014, URL : http://mefrm.revues.org/1879. 6 https://aluns.hypotheses.org/sample-page. 7 Seminario Internacional “ Mazarrón en los espacios mediterráneos del alumbre (siglos XV-XVI) ” (ed.) Didier Boisseuil (université de Tours), David Igual Luis (Universidad de Castilla-La Mancha), María Martínez Alcalde (Ayuntamiento de Mazarrón/Museo de Mazarrón), les 5 et 6 février 2015 (Mazarrón (España), espacio Centro Cultural de Mazarrón). 8 Je ne connais, à travers la littérature du XVIIIe siècle, que des velléités d’exploitation à Prades (Pyrénées), au Mont Dore (Auvergne), à Cransac (Rouergue). 20 L’alun à la fin du Moyen Âge: nouvelles approches, nouvelles perspectives. Le GdRI EMAE Depuis l’Antiquité, l’alun sert de mordant et son rôle paraît si essentiel que Vanoccio Biringucci rappelait « qu’il était aussi essentiel au teinturier que le pain à l’homme » 9, mais il convient de dépasser cette péremptoire évidence. Car il n’était pas utilisé pour toutes les teintures naturelles, pour toutes les fibres textiles (Cardon 2014). Il convient donc de déterminer le plus précisément possible dans quel cycle son usage est attesté, voire s’est imposé. Une grande quantité d’alun produit en Méditerranée alimentait la draperie flamande : mais à quel type de drap servait-il exactement ? Les draps de luxe exclusivement ? Dans quelle quantité était-il nécessaire ? Dans quelles structures de production intervenait-il : dans les ateliers de teinturerie, selon des chaîne de production contrôlées par quels entrepreneurs ? Observe-t-on des écarts/ des évolutions selon les périodes ? Peut-on assurer, sur près de trois siècles, un usage égal, une stabilité des besoins qui structureraient les échanges ? Ne faut-il pas considérer aussi des procédés techniques alternatifs ? Franco Franceschi a ainsi montré combien l’alun n’est pas indispensable à un drapier arétin du XVe siècle alors qu’il lui était tout à fait accessible (Franceschi 2012, pp. 127-136). Les sources documentaires doivent nous permettre d’y voir plus clair – notamment les livres de recettes dont nous avons pu apprécier l’importance à travers une belle initiative du Max Planck : “ colour in context ”, une base de données sur les recettes de couleurs 10 –, mais il faudrait aussi aller plus loin dans une analyse des processus chimiques mis en œuvre. Toutefois, ces questionnements fondamentaux qui concernent les textiles ne doivent pas nous empêcher de penser à d’autres cycles de production et à un usage plus diffus, moins concentré de l’alun. Je pense notamment à l’industrie des cuirs (qui a fait ces dernières années l’objet de remarquables enquêtes), celle du papier et même timidement celle la métallurgie. Ces questions intéressent étroitement le thème de notre rencontre, car il est important de connaître à quel type de besoin répondait les aluns commercialisés et par conséquent, éventuellement, quels aluns étaient recherchés et quels aluns étaient produits. Je ne reviendrai pas sur les enjeux de la production 11. Je voudrais juste insister sur plusieurs points qui me semblent importants. Outre les matières premières mobilisées et les structures de production, je crois qu’il faut prendre en considération, dans les observations, la taille des exploitations et les structures entrepreneuriales : le mode de gestion de la Chambre Apostolique qui déléguait la production et la commercialisation à des sociétés choisies ne vaut pas pour toutes les alunières, notamment celles plus modestes. En Toscane, l’activité n’était pas contrôlée par un acteur dominant, mais par des sociétés industrielles (largement dominées à la toute fin du XVe siècle par des banquiers) qui produisaient de façon autonome de l’alun. Je serais curieux de connaître la forme entrepreneuriale des exploitants des autres alunières du bassin méditerranéen… Cela m’amène au dernier axe de nos recherches : la commercialisation de l’alun. Nous avons pris le parti de traiter ce thème en étudiant les réseaux d’acteurs. Il ne s’agit pas de céder à la mode actuelle qui fait de l’analyse des réseaux un gage de sérieux (Lemercier 2005, pp. 88-112; Malamut, Ouerfelli 2012) mais de s’emparer d’un mode de réflexion, de construire un outil qui puisse nous aider à mieux comprendre les conditions d’organisation, les modalités de cette commodity chain que je citais précédemment. L’idée n’est pas tant de connaître les acteurs (même si cela paraît nécessaire) que d’identifier leurs actions. Il s’agit de suivre l’alun en pistant les transactions dont il fait l’objet, les étapes, les moyens de sa circulation (bref de considérer des routes et des vecteurs de la circulation de l’alun). Pour ce faire, nous nous proposons de mettre en place une banque de données qui identifie outre les acteurs, les temps, les lieux, les moyens de transport, de stockage, de distribution des aluns (en considérant très précisément leur dénomination), en restant conscients des cadres normatifs qui autorisent, construisent ses transactions. C’est une initiative délicate fondée sur l’exploration de quelques fonds documentaires (actes notariés, registres de fiscalité indirecte), la disponibilité et l’expertise de nos collègues. Cette entreprise n’a pas pour ambition d’être exhaustive ; elle cherche à révéler une structure, une architecture dans ses principaux traits et dans ses évolutions à l’échelle de l’Europe. C’est un travail expérimental et la banque données est destinée à manifester ce qui articule plus qu’à produire des résultats concrets (durée, coût de circulation) qu’on espère pouvoir exposer à l’occasion, néanmoins. Cette structure esquissée, révélée doit permettre : 1- d’identifier ce qui fonde les conditions des marchés localement – avant d’entrevoir un hypothétique marché unifié – de l’alun : 2- les goulots d’étranglement, le rôle de certains acteurs comme les métiers urbains, ou les arts dans leur politique d’achat, de stockage : 3- de pointer les situations paradoxales lorsqu’elles existent. Il conviendra aussi de considérer les lacunes, les zones d’ombres et de dépasser la simple dénomination des produits pour apprécier leur origine ou leur qualité, en suivant l’iter, le parcours des cargaisons, les opérations commerciales de leurs détenteurs successifs, pour autant que cela soit possible. Ces recherches, ces questionnements que je viens d’esquisser, ont aussi un sens bien pratique, pragmatique : ils doivent servir d’appui à des recherches futures que des financements publics de calibre européen permettraient de mener à bien, articuler à des enquêtes nationales, régionales et locales. Il est encore prématuré d’établir la liste des « appels à projet » auxquels nous pourrions répondre, mais la masse des savoirs collectés est, conformément aux sollicitations du CNRS (et de la plupart des partenaires), destinée à faciliter la mise en œuvre d’un dossier de candidature. Sans préjuger des options que nous prendrons pour répondre aux appels, il me semble pouvoir conclure cette brève présentation du GDRi, en esquissant plusieurs perspectives qui pourraient soutenir des recherches futures. J’en vois au moins trois (mais elles ne sont ni exclusives, ni définitives): 9 (…) anchor li tintori di panni et lane, alli quali non le altrimenti necessario chel pane a l’homo (…).,Biringuccio 1540, fol. 31. 10 COLOUR ConTEXT. A Database on Colour Practice and Colour Knowledge Sylvie Neven, chargée de recherches du FRS-FNRS. http://web. philo.ulg.ac.be/transitions/colour-context-2/ 11 cf. l’intervention de Stasolla, Bianchi et Dallai dans ce même volume. – la place de l’alun dans les cycles de production (qui pourrait par exemple permettre de répondre à des demandes très contemporaines, en matière de restauration des œuvres 21 D. Boisseuil d’art (peinture, tissus, etc.) en comprenant mieux son rôle chimique, et son usage dans des procédés alternatifs (mais cela reste sujet à des besoins qui ne sont pas en l’état identifiés) ; – La connaissance des réseaux de l’alun permettrait de proposer un modèle d’analyse des réseaux de circulation des produits d’ancien régime ; – enfin, l’étude des structures de production et de la circulation des produits offrent un moyen original de saisir une organisation de l’espace à l’échelle méditerranéenne voire européenne et surtout de la faire saisir, à différents niveaux, en proposant par exemple des itinéraires, des routes de l’alun (maritimes, terrestres). Dans cette perspective, notamment, comment ne pas se réjouir de l’écoute et du soutien des collectivités territoriales et notamment des communes d’Allumiere, de Monterotondo Marittimo et de Mazarrón, qui nous a accueillis. Lopez R., 1933, Genova marinara nel Duecento. Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante, Messina-Milano. Malamut E., Ouerfelli M. (dir.), 2012, Les échanges en Méditerranée médiévale: marqueurs, réseaux, circulations, contacts, Aix-enProvence. Miller I.(ed.), 2002, Steeped in history; the alum industry of North-East Yorkshire, North York Moors National Park Authority (indicare sede di edizione). Picon M., 2000, La préparation de l’alun à partir de l’alunite aux époques antiques et médiévales in P. Pétrequin, P. Fluzin, J. Thiriot, P. Benoît (dir.), Arts du feu et productions artisanales. XXe rencontres internationales d’archéologie et d’histoire d’Antibes, Antibes, pp. 519-530. Ruiz Martín F., 2005, Los alumbres Españoles: un índice de la coyuntura económica Europea en el siglo XVI, Madrid. Sapori A., 1967, Monopoli e pratiche capitalistiche: l’allume nel Quattrocento, «Studi di Storia Economica», III, Firenze, pp. 331-335. English abstract BIBLIOGR AFIA In 2014 an international network of researchers has promoted a multidisciplinary research group, initiated by the the CNRS an denominated Exploitation of Mediterranean Alums in Europe. Its main interest was to shed light on the importance of alum in western Europe at the end of the Middle Ages. The research themes selected by the researchers and their main questions are organized around three axes : alum production and its technological aspects between the 13th and 16th centuries; the use of alums in the manufacturing of goods (textiles, tanning, etc.); exchange networks generated by alum trade in the Mediterranean and across the European continent. The results of this work aim to establish the importance of a type of almost unknown product (sulfates) in economic and social history, in the history of science and technology and in archaeology. BiringuccioV., 1540, De la pirotechnia. Libri X, Venezia. Boisseuil D., Ait I., 2014 (a cura di) Le monopole de l’alun pontifical à la fin du moyen âge, «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Âge», 126-1, pp. 147-148. Borgard Ph., Brun J.-P., Picon M. (dir.), 2005, L’alun de Méditerranée, Napoli-Aix-en-Provence. Cardon D., 2014, Le monde des teintures naturelles, Paris. Delumeau J, 1962, L’alun de Rome, XVe-XIXe siècle, Paris. Franceschi F., 2012, «Più necessario ai tintori del pane all’uomo». L’allume e la manifattura tessile toscana del tardo Medioevo, in M. Baioni, P. Gabrielli (a cura di), Non solo storia. Saggi per Camillo Brezzi, Cesena, pp. 127-136. Hopkins Terence K., Wallerstein I., 1986, Commodity Chains in the World Economy prior to 1800, «Review, the Journal of the Fernand Braudel Center», 10-1, pp. 157-170. Lemercier C., 2005, Analyse de réseaux et histoire, «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 2, pp. 88-112. 22 RISORSE E AMBIENTE NATURAL RESOURCES AND ENVIRONMENT Maria Di Nezza*, Michele Di Filippo** COLTIVAZIONE E CIRCOLAZIONE DELL’ALUNITE NEL BACINO DEL MEDITERR ANEO DALL’EPOCA ANTICA ALL’INIZIO DEL ’900 DA “INDICATORI GEOLOGICI” Exploitation and circulation of alunite in the Mediterranean basin since Antiquity until the beginning of the 20th century through “geological indicators” 1. INTRODUZIONE 2. GENESI L’allume, nell’accezione più ampia del termine, è stato impiegato largamente già nell’Antichità. Tale minerale aveva infatti un utilizzo in molti campi: oltre a favorire il fissaggio della colorazione vegetale sui tessuti e ad essere impiegato nella concia delle pelli per impedirne l’indurimento e la putrefazione (Franceschi 2014), l’allume era usato anche nell’industria della carta, per la disseccazione del pesce, per utilizzo farmaceutico, nell’imbiancatura delle monete 1, come fondente nella lavorazione dei metalli (Bianchi, Bruttini, Dallai 2011) e del vetro (Plinio, Nat. Hist., II, XXXV; Fiumi 1943; Di Carlo et al. 1984). Non è ben chiaro a quale periodo risalga il complesso procedimento di trasformazione dell’alunite in allume. La presenza di un ciclo di produzione artificiale o industriale consente di riconoscere gli impianti di lavorazione e trattamento della materia prima, dei quali non sono noti esempi anteriori alla fine de XV secolo, mentre risulta più complesso identificare i possibili fronti di cava, anche se sia in area toscana che laziale ne sono documentati significativi esempi (si vedano i contributi di Dallai; Donati et al.; Carloni, Doronzo e Stasolla in questo volume). In questo lavoro ci proponiamo di identificare alcune aree idonee a tale produzione prendendo in considerazione degli indicatori geologici che saranno integrati e verificati con indizi indiretti di carattere storico-archeologico, spia di eventuali estrazioni minerarie effettuate nell’Antichità. Gli indicatori geologici sono stati selezionati in base alla genesi dei depositi di allume; essi si originano per particolari condizioni chimico-fisiche in ambiente fumarolico, cioè nella fase finale del processo magmatico, partendo da rocce ricche di alluminio. Il diverso grado di alterazione della roccia madre e la tipologia di fluido endogeno possono portare alla formazione di associazioni di minerali di alterazione di elevato pregio economico, tra cui alunite e caolino, nonché metallici, in particolari casi anche facilmente cavabili. Tali condizioni geologiche però si verificano solo in alcune aree del bacino del Mediterraneo, che coincidono anche con i luoghi dove si sono avuti già nell’Antichità insediamenti molto fiorenti e grandi scambi commerciali legati a questa materia prima. Con il termine allume viene designato un gruppo di sali (solfati doppi idrati di metalli trivalenti e monovalenti) che, a seconda dell’elemento prevalente, assumono nomi specifici diversi. Ne parlano già Strabone (Strabone, Geografia, V, 9) Columella (Columella, De re rustica, II, 11, 1.) e Plinio, che definisce l’allume un sale sudato dalla terra (Plinio, Naturalis Historia, II, XXXV); oggi sappiamo che si tratta in realtà di un solfato doppio di alluminio e potassio (K2SO4 Al2(SO4)3 24H2O), che assume il nome di allume di rocca quando si presenta sotto forma vetrosa. Questo minerale si trova in natura in rocce vulcaniche ricche in potassio, che sono state soggette all’azione chimica e fisica delle acque termali e del vapore acqueo. L’allume è un sale costituito da solfato di ammonio e potassio con 24 molecole di acqua di cristallizzazione che si presenta in bei cristalli bianchi e trasparenti, solubili in acqua. A causa della sua solubilità in genere esso non si trova in natura (le piogge l’avrebbero disciolto nel corso dei millenni), ma viene prodotto artificialmente per trasformazione di minerali di alluminio meno solubili, come la allumite o alunite, un solfato basico di alluminio e potassio. La formazione dell’alunite avviene in ambiente subvulcanico, nella fase finale del raffreddamento di un corpo magmatico plutonico intruso all’interno della crosta. Un ruolo importante assume la fase del vapore acqueo, che contiene agenti potenzialmente molto importanti per il trasporto di elementi metallici nei sistemi idrotermali. In un sistema idrotermale i fluidi acquosi possono contenere quantità variabili di fasi volatili (H2O, CO2, SO2, H2S, N2), e sali in soluzione, quali ad esempio i sali di cloruro; se presentano quantità maggiori del 24% in peso di NaCl equivalente, i fluidi sono definiti salamoie (ipersaline). Anche il vapore acqueo riveste un ruolo importante per il trasporto degli elementi metallici. La fase vapore in un sistema idrotermale diventa sempre più densa all’aumentare di temperatura e pressione; al punto critico di 374°C e 225 bar, la fase fluida e quella vapore diventano indistinguibili, e si comportano come un fluido supercritico, ovvero come un fluido acquoso (di alta pressione e temperatura) che ha densità analoga a quella del liquido e viscosità analoga a quella del gas. I fluidi supercritici sono miscibili tra di loro e hanno alta capacità di trasporto del materiale disciolto. I sali sublimano intorno alle fumarole e forniscono la prova diretta del ruolo dei vapori nel trasporto di quantità * Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma (maria.dinezza@ ingv.it). ** CNR-IGAG, Roma (michele.difilippo@uniroma1.it). 1 Ciò è ben documentato per l’epoca classica ma anche per il Medioevo (Giumla-Mair 2005). 25 M. Di Nezza, M. Di Filippo fig. 1 – L’evoluzione dei regimi di fluidi idrotermali, all’interno e al di sopra di una camera magmatica, che porta alla formazione e deposizione dei minerali connessi ad un’intrusione a carattere acido. La sequenza (A) (B) e (C) è illustrata nel testo. Immagine modificata da William-Jones, Heinrich 2005. 26 Le fonti rinascimentali testimoniano che la cavatura nel territorio di Tolfa era effettuata con dei picconi in ferro immanicati in acero, provenienti da Montieri, centro siderurgico attivo in quel periodo, localizzato nel territorio delle Colline Metallifere (Toscana meridionale) (Cortese, Francovich 1995). A distanza di due secoli le descrizioni di Targioni Tozzetti evidenziano per la Toscana un’innovazione sostanziale legata all’utilizzo dell’esplosivo, che comportò anche una maggiore specializzazione del lavoro e che sicuramente ne incrementò la produttività 3. Per quanto riguarda la possibilità di estrazione e l’approvvigionamento pre-rinascimentali, ancora è controversa la tipologia di cavatura adoperata, in quanto eventuali tracce di coltivazioni sui fronti di cava più antichi sono state cancellate da lavori più moderni. Fino a qualche decennio fa, l’allume veniva estratto anche trattando rocce di natura sedimentaria, come bauxite in giacitura secondaria. significative di elementi metallici. Tra i fluidi sono presenti, oltre ad H2O, altri componenti importanti quali CO2, H2S, così come HCl, CO e H2. La concentrazione di elementi metallici nei vapori vulcanici è variabile e dipende dalla composizione e dalla natura del magma sorgente. I magmi basaltici, ad esempio, poveri di alluminio, sono particolarmente arricchiti in Cu, Zn, Pb, Sb, As, Ag, Au, mentre i magmi andesitici, ricchi di alluminio, mostrano una relativa abbondanza di Cu, Pb, Zn, così come Mo e Hg; i magmi felsici presentano invece concentrazioni minori degli elementi di cui sopra, ma più alti tenori in Sn e Mo. I depositi fumarolici di vulcani attivi o di intrusioni subvulcaniche sono poveri di sali, ma ricchi di SO2, H2S, HCl nella fase vapore, che si traducono in un liquido ipersalino residuale (fig. 1). La fase vapore si condensa formando un liquido che contiene HCl e H2SO4, con un pH molto basso; ciò produce generalmente aloni di avanzata argillificazione caratterizzati da minerali, come pirofillite e alunite, accompagnati da intensa lisciviazione. Questo tipo di alterazione è comunemente osservato in tutte le fumarole ad alto contenuto in solfuri dei sistemi epitermali. I vapori favoriscono anche il trasporto di minerali metallici e possono formare depositi minerali di importanza economica per precipitazione diretta dai fluidi gassosi o dalla loro condensazione in acque meteoriche 2. 4. RICOSTRUZIONE E INTERPRETAZIONE DEI DATI GEOLOGICI ALLA LUCE DELL’ARCHEOLOGIA 4.1 La geografia dei giacimenti Per studiare i processi di formazione dell’alunite si devono prendere in considerazione una concomitanza di fenomeni geologici, tra cui la presenza di rocce intrusive recenti (Pliocene), testimoniate dalle aree geotermiche o dai sistemi vulcanici attivi, cioè le zone in cui il gradiente geotermico è superiore ai 30°C/km, dove è maggiore lo stato di fratturazione dei corpi vulcanici (faglie; Morbidelli, Negretti 1965a, 1965b), ma soprattutto dove si registra una maggiore permeabilità delle rocce ed emissione di fluidi acidi (Negretti, Lombardi, Morbidelli 1966). A ciò si associano fenomeni di alterazione delle rocce (caolinizzazione, alunitizzazione e argillificazione) 4, e la diffusione di zolfo, di solfati di potassio e di alluminio (allume e allumite) e di solfato di rame (calcantite; Lombardi 1969). Dal punto di vista geologico e vulcanologico, la ricorrenza di questi fenomeni geologici permette di ubicare possibili centri di cavatura nella penisola italiana in Toscana, nel Lazio, in Campania, nelle isole Eolie e nella zona etnea, e di includere numerose altre zone europee e del bacino del Mediterraneo. Nelle diverse regioni italiane menzionate era possibile reperire il minerale in giacitura secondaria, per l’azione dei vapori sulfurei, dei soffioni e delle solfatare esercitata 3. ATTIVITÀ ESTR ATTIVA Sulla base della genesi di formazione da processi geologici, l’alunite può trovarsi in giacitura primaria e secondaria. I corpi vulcanici in giacitura primaria conservano la posizione della superficie geologica nelle condizioni originarie della sua formazione (batolite, laccolite, dicco o filone per le rocce eruttive intrusive; cupole, colate, espandimenti, protrusioni per le rocce eruttive effusive), mentre quelli in giacitura secondaria hanno subito successive modificazioni; in questo caso specifico, la giacitura secondaria si ha quando il corpo vulcanico è stato interessato da un diverso grado di alterazione da parte dei fluidi idrotermali e fumarolici. Tale processo di alterazione può arrivare anche al disfacimento totale del corpo principale in zone subaeree, con diverso grado di pezzatura e granulometria della roccia madre, e quindi anche alla mobilizzazione del materiale a notevole distanza dal luogo dove è avvenuta l’alterazione. In caso di giacitura primaria ed in base a come si presenta il giacimento, la coltivazione può avvenire per cava o distacco, e può essere eseguita a cielo aperto o all’interno di gallerie o pozzi; nel caso di giacitura secondaria l’estrazione avviene solo a cielo aperto. L’estrazione in sotterraneo con pozzi o gallerie avveniva lungo giunti di raffreddamento della colata vulcanica o lungo fratture da cui i gas avevano trovato la via più facile di risalita per alterare le trachiti e latiti. All’aperto, la coltivazione in cava avveniva per gradini, sfruttando i piani di stratificazione delle rocce, con maestranze che utilizzavano strumenti da lavoro relativamente semplici. 3 Il Targioni scrive che oltre all’attività manuale, per la quale erano impiegati gravine, zappe e picconi, la cavatura avveniva anche tramite l’utilizzo di esplosivo. Il principio era semplice: veniva praticato un foro tramite l’utilizzo di gucchie (strumenti simili a degli scalpelli) di grandezze diverse all’interno della roccia. Quando il foro era abbastanza profondo veniva inserita la polvere da sparo ed il tutto coperto con un tappo di legno all’interno del quale veniva fatta una traccia per permettere l’accensione, realizzata gettando sopra alla polvere dei tizzoni ardenti (Targioni Tozzetti 1745). Una volta effettuata l’esplosione si procedeva manualmente alla rimozione delle parti di roccia che non fossero cadute. Se i pezzi fossero risultati troppo grossi, i fenditori si occupavano di ridurne le dimensioni con grosse mazze. A questo punto il cavatore sceglieva le pietre buone da destinare alla lavorazione (Riparbelli 1984). 4 Per un approfondimento sul tema si rimanda a Lombardi 1967, 1973, 1984; Field, Lombardi 1972; Giavarini, Lombardi 1977; Alietti et al. 1979; Lombardi, Mattias 1979; Lombardi, Mattias 1987; Lombardi et al. 1987 2 Per maggior dettagli si rimanda Cambi, Elli 1964, 1965a, 1965b, 1966; Cambi, Elli, Tangerini 1965; Skinner 1966; Maurel 1967. 27 M. Di Nezza, M. Di Filippo 28 fig. 2 – Distribuzione dei siti dove ricorrono i fattori geologici che permettono la formazione dell’alunite. Coltivazione e circolazione dell’alunite nel bacino del Mediterraneo su rocce feldspatiche e leucitiche, che alterava fortemente la roccia madre intensamente fratturata. Le zone maggiormente interessate da tali fenomeni sono quella della Toscana meridionale (le Colline Metallifere: Massa Marittima, Monterotondo Marittimo, Castelnuovo Val di Cecina, Campiglia Marittima, la regione dei soffioni boraciferi di Larderello, e l’Argentario) 5, dell’alto Lazio (Canale Monterano ed area di Tolfa-Allumiere, Zifferero 1992), della Solfatara di Pozzuoli, di Agnano e Capo Miseno in Campania, dell’isola di Ischia 6, delle Isole Eolie ed in particolare di Lipari (Picon 2005) e Vulcano (De Poerck 1951; De Roover 1970), di Ustica (Pichler 1968) e Pantelleria (Spera 2011). Nell’area mediterranea (fig. 2), la concomitanza di questi fattori si può osservare in diverse regioni dell’arco vulcanico egeo, come illustrato dal contributo di Arvanitidou in questo volume, ed in particolare nelle isole di Lesbos 7, Lemnos 8, Milos 9, Nysiros (Ambrosio et al. 2010), Kos (Papoulis et al. 2005) e Santorini (Vespa et al. 2006); nella Tracia, a nord della Grecia, essi ricorrono a Sapes-Kassiteres (Voudouris 2014; Voudouris et al. 2014). In Turchia si riconoscono importanti giacimenti nelle provincie di Kütahaya (Tolun 1974), Giresun (Tolun 1974), Izmir (Tolun 1974), Bodrum (Rabayrol 2018) e Afyon (Kuşcu, Yildiz 2016) ed in Anatolia occidentale (Seyhan 1969; Oygür 1997; Oygür, Erler 2000). Altri giacimenti sono noti in Siria, in particolare ad Edessa (Boyle 1979). L’alunite si può trovare inoltre in notevole concentrazione nell’ovest e nel centro della Slovacchia, a Viglasska Huta (Kuthan 1956) e presso Dekys (Forgáč 1972). In Ungheria si riconoscono giacimenti presso le montagne di Velence (Bajnóczi et al. 2002; Ondrejka et al. 2018); in Bulgaria se ne localizzano nella provincia di Srednogorie (Dabovski et al. 1991; Lerouge et al. 2006) e nel distretto di Breznik (Radonova, Velinov 1970; Lerouge et al. 2006). In Francia concentrazioni sono documentate presso Madriat ed in altre località della regione del Puy de Dôme (Charrin 1940, 1948), mentre in Spagna sono noti i depositi di Rodalquilar (Friedrich 1960; Lodder 1966; Arribas et al. 1995) e Mazzaron (si rimanda al contributo di Martínez Alcalde, in questo volume); giacimenti di alunite, associata a caolinite, si rinvengono anche in prossimità della vetta del cratere del vulcano Teide a Santa Cruz de Tenerife, nelle Isole Canarie (Hoyos de Castro, Mata 1958). In Germania infine depositi sono localizzati a Wurzen, presso Lipsia (Kashkai 1973). 4.2 I dati storici Nella nostra Penisola, le parti affioranti delle vene alunitiche localizzate nei territori sopra menzionati sono state oggetto di intensa raccolta per tutto il Medioevo e per buona parte dell’Evo Moderno. Già nel corso del XIII secolo vi sono le prime testimonianze scritte dell’esistenza di una “industria” dell’allume; un documento del 1284 attesta la vendita al comune di Massa Marittima di lumaie, zolfinaie e bagni del territorio di Monterotondo Marittimo (Fiumi 1943). Altre indicazioni, ancora duecentesche, riguarderebbero l’isola d’Ischia, come si ricava dagli atti processuali del 1271, circa la rivendicazione fiscale delle miniere di allume e di zolfo (Testi 1931, p. 442; per l’approfondimento relativo ai documenti si rimanda al contributo di Fineschi, in questo volume); presso Pera erano ancora visibili nell’Ottocento grandi vasche in muratura che servivano per la fabbricazione dell’allume, che veniva poi portato a Casamicciola (Chevalley de Rivaz 1831). Anche se reputato di mediocre qualità, il prodotto veniva esportato in vari paesi; è a questo periodo che, forse, va riferita la notizia riportata da De Roover (1970) secondo la quale «L’allume d’Ischia era così scadente che a Bruges e a Parigi gli statuti delle corporazioni ne proibivano l’uso» 10. Nel Quattrocento ed almeno fino al 1456, anno del terremoto del Sannio, il più devastante dell’appenino centromeridionale, è ben attestata la produzione di allume nell’area flegrea 11; l’attività interessava anche Agnano e la Solfatara di Pozzuoli, che forniva il mercato di Barcellona (Del Treppo 1967) (per dettagli si rimanda al contributo di Fineschi in questo volume). L’estrazione dell’allume è documentata per il XV secolo anche nell’isola di Lipari e a Paternò (Heers 1954; Trasselli 1964; Heers, De Gröer 1978; Pipino 1976; 2003), alle pendici dell’Etna; fra le zone di estrazione più note vi è quella presso Roccalumera, nei Peloritani. Se si considerano gli indicatori geologici ed i rinvenimenti archeologici associati all’attività estrattiva dell’alunite, appare chiaro come le caratteristiche mineralogiche-petrografiche e la paragenesi caratteristica, nonché quelle geologico-strutturali della formazione, abbiano condizionato non solo la tipologia di estrazione, ma anche i successivi processi produttivi. La paragenesi dei giacimenti di alunite li arricchisce di minerali argillosi, anche economicamente importanti, come ad esempio le argille più o meno caoliniche e i minerali metallici. Tale associazione è dovuta alla fase idromagmatica, che porta non solo ad arricchire questi minerali lungo fratture dei corpi magmatici, ma rende molto alterata la roccia madre. I caratteri geo-strutturali delle latiti e trachiti alterate dai gas senza dubbio assumono da questo punto di vista un ruolo 5 Per una bibliografia si rimanda a Dallai 2003, 2009, 2014; Dallai, Francovich 2005; Dallai et al. 2008; Dallai 2009a, 2009b; Dallai, Ponta 2009; Bianchi, Bruttini, Dallai 2011. 6 Una rassegna in Pipino 1988, 1989; Feniello 2003, 2005a, 2005b (si rimanda inoltre al contributo di Fineschi in questo volume; Costantini et al. 1990; Lazzarotto 1993). Celebri sono gli studi pionieristici di geotermìa condotti da Paolo Mascagni, scienziato eclettico e professore di medicina presso l’Università degli Studi di Siena, famoso a livello internazionale per le sue scoperte anatomiche formulate nella seconda metà del secolo XVIII sul funzionamento del sistema linfatico umano. Attraverso l’analisi delle caratteristiche geologiche dei lagoni delle Colline Metallifere nei dintorni dell’abitato di Pomarance (PI) donde proveniva, Mascagni si dedicò all’estrazione di allume per uso industriale (Mascagni 1779) e medico (Vannozzi 1996, 2015). 7 Voudouris, Alfieris 2005; Vamvoukakis 2009; Voudouris et al. 2014. 8 Voudouris, Alfieris 2005; Voudouris et al. 2007; Voudouris et al. 2014. 9 Riferimenti in Markopoulos, Katerinopoulos 1986; Kelepetsis 1989; Rye et al. 1992; Hall et al. 2003a, 2003b; Alfieris et al. 2013; Voudouris et al. 2014. 10 Per tale affermazione l’Autore fa preciso riferimento a De Poerck (1951, I, p. 170), che riferisce: «… l’isola di Vulcano… forniva una qualità d’allume di cui la cattiva qualità era solidamente stabilita; è quindi a giusto titolo era proibito a Valenciennes. L’allume che si estraeva dalle miniere d’Ischia (“Nysche”) non doveva essere migliore, poiché la stessa misura è presa nei suoi riguardi a Bruges». 11 Sull’argomento si rimanda alla bibliografia di Feniello, in particolare: Feniello 2003, 2005a, 2005b. 29 M. Di Nezza, M. Di Filippo primario; se fratturate, esse permettono infatti l’alterazione e la deposizione dell’alunite in filoni (giacitura primaria). L’alterazione si ha lungo i filoni mineralizzati che si formano nelle fratture dei corpi geologici o vulcanici, ma può arrivare anche in superficie ed alterare enormemente la roccia madre (giacitura secondaria). Ciò comporta che le pezzature del materiale da cavare saranno molto diverse. Nella giacitura secondaria, a seconda del grado di alterazione della roccia madre, la pezzatura risultante del deposito potrà essere più o meno grossolana, a seconda del basso o dell’alto tasso di alterazione; più i corpi geologici hanno un basso grado di pezzatura, più risulterà facile l’estrazione del materiale. In presenza di queste caratteristiche giaciturali la maggior parte della raccolta del minerale poteva avvenire a cielo aperto, con attrezzi non troppo sofisticati; ciò rende maggiormente complessa l’individuazione di segni di cavatura. La lavorazione poteva infatti avvenire semplicemente attraverso la setacciatura, in quanto la pezzatura del minerale doveva essere molto fine. Quando la richiesta del minerale cominciò ad aumentare iniziarono ad essere cavati anche depositi in giacitura secondaria con pezzatura più grossolana e in giacitura primaria (seguendo i filoni). 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L’indicatore preso in considerazione è la presenza di rocce vulcaniche ricche di alluminio in ambiente fumarolico, soggette ad un alto grado di alterazione dovuta all’attività vulcanica tardiva. Tale condizione ha portato ad identificare delle aree del Mediterraneo, ed in particolare della nostra Penisola, che, per la presenza di associazioni mineralogiche caratteristiche, in passato sono state dei centri produttivi di questa materia prima. La relativa abbondanza dell’alunite, associata alla presenza di rocce alterate nella fase idrotermale in giacitura secondaria, e la facile accessibilità del giacimento, hanno contribuito allo sviluppo di una lunga attività estrattiva, che ha interessato minerali in giacitura primaria e secondaria, coltivati sia a cielo aperto che per pozzi e gallerie. 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Geological association of aluminous volcanic rocks and the presence of alteration minerals were the geological-mineralogical indicators used in this research, in order to detect possible quarries area in the Mediterranean basin. 32 Alessandro Donati*, Vanessa Volpi*, Luisa Dallai** LA MAPPATURA CHIMICA DEI CONTESTI DI PRODUZIONE DELL’ALLUME Chemical mapping of alum production contexts 1. INTRODUZIONE concentrazione dei depositi alunitici, ha permesso inoltre di caratterizzare funzionalmente specifiche aree connesse alle fasi di produzione dell’allume ed ha fornito interessanti elementi di valutazione in relazione ai residui di lavorazione della materia prima (alunite). Si presenteranno infine i primi risultati comparativi ottenuti con la spettroscopia di assorbimento atomico (GF-AAS) applicata a campioni di alunite prelevati nelle cave del distretto di Monterotondo MarittimoMontioni (Toscana, GR) e nell’area tolfetana (Cava della Concia, Cava Grande, Lazio, Roma), allo scopo di fornire una preliminare comparazione fra i diversi bacini di approvvigionamento e di ipotizzare future analisi di provenienza. Le Colline Metallifere sono da anni un territorio di sperimentazione multidisciplinare, dove le analisi geochimiche, a partire dai lavori pioneristici del secolo XVIII (ad esempio le osservazioni di Paolo Mascagni sui lagoni, che furono oggetto di una sua comunicazione presentata all’Accademia dei Fisiocritici di Siena il 16 Marzo 1779, oggi conservate in un manoscritto presso la stessa Accademia), hanno contribuito in tempi più recenti alla migliore lettura storica dei siti a vocazione produttiva. L’approccio multidisciplinare allo studio del paesaggio storico e delle sue risorse ha visto coinvolti il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali ed il Dipartimento di Biotecnologie, Chimica e Farmacia dell’Università di Siena attraverso un primo progetto pilota avviato nel 2009 e denominato Ar.Chi.Min., Archeologia e Chimica per il Patrimonio Minerario (www.archimin.unisi.it). Lo scopo della ricerca è stato definire e testare un protocollo combinato di metodologie archeologiche e scientifiche per lo studio, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio archeominerario della Toscana meridionale. A questo fine sono stati utilizzati dati chimico-ambientali realizzati direttamente sul campo, a supporto di banche dati già disponibili per il territorio, con l’obiettivo finale di evidenziare e verificare la possibile congruenza fra la presenza di anomalie geochimiche e la localizzazione di siti archeominerari ed archeometallurgici non ancora censiti. Il protocollo è stato modulato su scale differenti per essere applicato a contesti topografici piccoli e medio-grandi. In questo contributo presenteremo e discuteremo una parte dei dati ricavati dal progetto Ar.Chi.Min., rileggendoli alla luce delle più recenti acquisizioni della ricerca multidisciplinare condotta nel territorio delle Colline Metallifere, con l’obiettivo di identificare a scala territoriale le possibili zone di estrazione e produzione dell’allume alunitico in base alla concentrazione di alcuni elementi chimici diagnostici. A tal fine saranno considerati in particolare Al (Alluminio) e K (Potassio), la cui presenza è stata determinata attraverso l’analisi di sedimenti fluviali. Lo studio di dettaglio intra-situ condotto sul complesso delle Allumiere di Monteleo, sito localizzato nel territorio di Monterotondo Marittimo, nel cuore di una delle aree di A.D., V.V., L.D. 2. I GIACIMENTI DI ALUNITE: VALUTAZIONE TERRITORIALE A “GR ANDE SCALA” Sul territorio delle Colline Metallifere la valutazione a grande scala è stata impostata utilizzando il noto censimento Rimin, database di analisi chimiche realizzato tramite prospezione geochimica ed analisi di sedimenti fluviali, in parte consultabile attraverso il portale Geoscopio della Regione Toscana (Banca Dati Indagini Geotematiche – BDIG; risorsa consultabile all’indirizzo: www.regione.toscana.it/-/ banche-dati-sottosuolo). I sedimenti analizzati si formano a seguito della continua erosione, lisciviazione e miscelazione dei versanti; essi sono perciò rappresentativi dei terreni che costituiscono il territorio d’indagine, e forniscono un valore medio degli elementi considerati. Nel nostro studio i dati Rimin sono stati integrati con le informazioni di carattere bibliografico relative ad aree estrattive sfruttate in diverse epoche storiche (Inventario 1995). L’alunite (solfato doppio insolubile di K e Al; KAl3(SO4)2 (OH)6) non è molto comune in natura; essa si forma a causa della circolazione di fluidi di origine magmatica con presenza di S, che attraversano rocce incassanti ricche in Al e K e povere in Ca 1. In Toscana meridionale la genesi dell’alunite è associata a fenomeni idrotermali acidi legati all’attività magmatica recente del Pliocene inferiore (Giannini 1955; Costantini et al. 1990; Lazzarotto 1993; ISPRA 2002). Contemporaneamente alla tettonica di tipo distensivo che ha generato le depressioni dove si sono depositati i sedimenti * Dipartimento di Biotecnologie, Chimica e Farmacia, Università di Siena (alessandro.donati@unisi.it; vanessa.volpi@unisi.it). ** Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali (luisa.dallai@ unisi.it). 1 Per agevolare la lettura dei dati esposti si richiamano qui le corrispondenze fra i simboli e gli elementi chimici che saranno menzionati nelle pagine seguenti: K-Potassio, Al-Alluminio, Cu-Rame, Pb-Piombo; Ag-Argento, Zn-Zinco, FeFerro, As-Arsenico, Cr-Cromo, V-Vanadio, S-Zolfo, Ca-Calcio. 33 A. Donati, V. Volpi, L. Dallai continentali marini, fluidi idrotermali legati alla messa in posto di corpi magmatici hanno permeato gli ammassi rocciosi fratturati, reagendo con le rocce incassanti (Liotta et al. 2010). La maggior parte dei giacimenti alunitici della Toscana meridionale si è formata perciò su litotipi di origine sedimentaria (scisti argillosi o argille ricche in Al e K, appartenenti alle formazioni di Poggio al Carpino e del Verrucano: Casini et al. 2007, 2008); è questo in particolare il caso di Monteleo e dell’Accesa. L’eccezione è invece costituita dal giacimento di Montioni, dove sono presenti litotipi di origine magmatica (ignimbriti e rioliti) (Costantini et al. 1990; Thirion Merle, Cantin 2009) (fig. 1). Tramite l’analisi della banca dati Rimin si è verificata la congruenza fra la presenza di alti tenori di Al e la localizzazione di siti di estrazione e lavorazione dell’alunite storicamente attestati nella Toscana meridionale. Poiché l’Al è uno dei più diffusi elementi chimici che compongono la maggior parte dei minerali, il suo impiego come elemento diagnostico per identificare le aree di estrazione dell’alunite è risultato più problematico di quanto non sia, ad esempio, utilizzare le alte concentrazioni di metalli pesanti (Cu, Pb, Ag, Zn e Fe) come traccianti dei relativi cicli produttivi. Osservando la fig. 2, realizzata sulla base dell’elaborazione della banca dati Rimin, risulta evidente che i siti a vocazione produttiva (ciclo di produzione dell’allume alunitico) di epoca pre-industriale si posizionano nelle aree dove i valori di Al corrispondono a concentrazioni medio-alte (Cavone dell’Acqua-Massa Marittima; Montioni; Montieri). Fra questi, la corrispondenza più efficace fra evidenze archeominerarie e valori geochimici riguarda il contesto estrattivo del Cavone dell’Acqua, localizzato nel territorio di Massa Marittima; si tratta di un’area di rilevante impatto economico, sulla quale fig. 1 – Carta geologica della Toscana, progetto CARG; APA: Argille a Palombini, CCA: Calcare Cavernoso, VER: Gruppo del Verrucano. In figura vengono riportati i dettagli dell’area di Buca dei Falchi per Monteleo e dell’area del Cavone per l’Accesa. fig. 2 – Mappa di concentrazione dei valori di Al nel territorio delle Colline Metallifere. Elaborazione prodotta sulla base dei valori estratti dalla banca dati Rimin, Risorsa: Regione.toscana/geoscopio/database geologico regionale. Elaborazione: A. Bardi. 34 La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume la coltivazione dell’alunite è attestata a più riprese fra la metà del XV ed il XVI secolo (Dallai et al. 2018). Meno evidente è invece la corrispondenza fra concentrazione di Al ed area estrattiva nel caso dell’Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo), il contesto meglio studiato dal punto di vista archeologico; il sito si attesta infatti su valori di concentrazione medio-bassi, difficilmente compatibili con quanto evidenziato dalle prospezioni di indagine e dalla documentazione storica (cfr. Dallai in questo stesso volume). La lettura di questo dato ci porta a formulare alcune ulteriori considerazioni: Descrizione Strati di colore bianco a granulometria prevalentemente fine e consistenza plastica Strati di colore rosa/rosso a granulometria prevalentemente fine e consistenza plastica Strati terrosi di colore marrone chiaro Al % Fe % S % As mg/Kg 11 0.3 4 400 8 2 4 1000 6 3 1 300 tab. 1 – Area 3000, stratigrafia indagata all’interno della canalizzazione (Saggio F). mento utile ad identificare le diverse fasi di trattamento dell’alunite. Posto che l’identificazione dell’area di calcinazione (Aree 1000 e 2000) non presentava particolari problemi interpretativi, l’analisi si è concentrata maggiormente sull’Area 3000, che doveva ospitare le fasi di macerazione, lisciviazione e cristallizzazione del prodotto, ed in particolare sugli spazi localizzati a ridosso di una delle caldaie da lisciviazione. Per questi ultimi si era ipotizzata la funzione di possibile deposito temporaneo di materiale estratto e forse calcinato, databile all’ultima fase di vita del sito. Un’ulteriore area di indagine è stata inoltre individuata all’interno di una grande canalizzazione di scolo delle acque dalle diverse aree del sito (Area 3000, F) (fig. 3). All’interno di quest’ultima struttura è stata individuata una stratigrafia molto interessante, composta da un’alternanza di materiale di scarto con diverse granulometrie e colori (bianco, rosa e rosso) e terra (ulteriori dettagli in Dallai, in questo stesso volume). I valori di Al riscontrati sul suolo, nei pressi della struttura probabilmente destinata alla lisciviazione, e sull’area di deposito di materiale da trattare, si attestano intorno al 5%-6% (fig. 4), percentuali molto significative, certamente relazionabili alla presenza di minerale sul posto. I dati più interessanti provengono tuttavia dall’interno della canalizzazione di scolo (Area 3000, F). La descrizione sintetica della sequenza stratigrafica in relazione al valore degli elementi diagnostici è riportata in tabella (tab. 1). La tabella mostra come gli strati di colore bianco presentino il contenuto più elevato di Al, mentre gli strati di colore rosa o rosso contengano una quantità inferiore di Al e maggiori impurità; la colorazione rosa o rossiccia è infatti attribuibile alla presenza di Fe. È interessante notare come in tutti questi strati sia presente un contenuto di As elevato, fino a 1000 mg/Kg. Simili valori attestati nei residui di lavorazione potrebbero far presupporre che gli strati rosa e rossicci, più ricchi di impurità e di consistenza pastosa, siano relativi alla fase di ripulitura delle caldaie di lisciviazione (dopo ogni ciclo di cottura il materiale impuro si stratificava sul fondo della caldaia e questa doveva essere svuotata e ripulita), senza escludere che essi siano il prodotto della lisciviazione legata alla fase di macerazione, ed in particolare alle acque di innaffiamento delle piazze da macerazione. Secondo la descrizione di Targioni Tozzetti (metà del XVIII secolo), le opere di canalizzazione dell’allumiera facevano infatti confluire anche i residui delle piazze di macerazione all’interno della canalizzazione principale (Targioni Tozzetti 1751-1754, IV, pp. 312-315). La presenza di As si lega infine alla fase di calcinazione della materia prima; percentuali così elevate indicano che in questo primo step di trattamento dell’alunite non si erano realizzate le condizioni 1. A Monteleo la ricchezza del giacimento, attestata da tutte le fonti storiche, si controbilancia con la sua limitata estensione. 2. Lo sfruttamento storico del giacimento, attestato dalle fonti e valutato anche quantitativamente con l’utilizzo di metodi di calcolo volumetrici (si vedano le considerazioni di Poggi e Buono in questo volume) risulta piuttosto intenso e potrebbe aver inciso significativamente sui tenori di Al registrati in epoca recente. 3. I valori più alti registrati dalla mappatura geochimica per l’elemento Al si localizzano in corrispondenza dei filoni mineralizzati a solfuri misti (area di Serrabottini-Cavone e Niccioleta-Massa Marittima; Poggio di Montieri; Poggio Trifonti-Monterotondo Marittimo), mentre nel caso della sola attestazione di alunite, essi risultano complessivamente meno elevati sull’intero territorio analizzato (Montioni, Monteleo). L.D. 3. MONTELEO: LO STUDIO DI DETTAGLIO INTRA-SITU Le analisi geochimiche sono state utilizzate sia a scala territoriale che, come detto in premessa, all’interno di singoli siti (come sul sito Allumiera di Monteleo), in contemporanea con le attività di scavo; in questo caso le analisi si sono avvalse dell’uso di uno strumento portatile di fluorescenza a raggi X (pXRF). Le analisi sono state condotte impostando griglie regolari di 1 m², al cui interno sono state effettuate tre analisi per quadrato; il valore su metri quadrati ottenuto per ciascun elemento è il risultato della media delle tre misure. Oltre ai set di analisi sistematici su griglia si sono effettuate anche analisi supplementari su stratigrafie particolarmente significative (singole US) e su strutture produttive (Dallai, Volpi 2015). Il materiale di partenza per la produzione dell’allume è, come detto, l’alunite (KAl3(SO4)2OH6), che diviene allume attraverso un ciclo produttivo ben descritto in altri contributi e sintetizzabile nei quattro fondamentali passaggi: calcinazione (eliminazione di anidride solforosa ed infragilimento della roccia); macerazione (alterazione spinta delle pietre cotte attraverso l’utilizzo di acqua, fino a formare un materiale di consistenza pastosa, ricco di allume); lisciviazione (cottura e concentrazione del materiale proveniente dalla macerazione in soluzione acquosa) e cristallizzazione (sedimentazione e formazione di cristalli di allume). Attraverso le analisi pXRF effettuate sul sito di Monteleo, si è voluto testare se l’Al potesse essere utilizzato come ele- 35 A. Donati, V. Volpi, L. Dallai fig. 3 – Allumiere di Monteleo, area 3000. Localizzazione delle analisi pXRF on-site. venienti da aree geografiche diverse. Per questo tipo di analisi vengono generalmente utilizzati gli elementi minori e le terre rare, che sono legati alla genesi dei minerali e delle rocce nelle diverse aree geografiche. In questo studio preliminare si è cercato di caratterizzare i depositi alunitici analizzando gli elementi in traccia tramite spettroscopia di assorbimento atomico (GF-AAS), utilizzando alcuni campioni provenienti dai siti delle Colline Metallifere (Montioni e MonteleoMonterotondo Marittimo), e confrontandoli con campioni provenienti dal distretto laziale dei Monti della Tolfa (Cava Grande e Cava della Concia). I risultati delle analisi sui campioni prelevati dalle cave di Monteleo e Montioni visibili in fig. 4 (in particolare nell’istogramma A), evidenziano per Monteleo elevate concentrazioni per la sua totale eliminazione. Questo non significa però che l’allume prodotto non fosse di buona qualità; dalle caldaie di lisciviazione si recuperava infatti la soluzione più pura e priva di corpo, che poteva produrre la cristallizzazione di un ottimo prodotto. V.V. 4. TR ACCIATUR A DELLA PROVENIENZA DELL’ALUNITE L’identificazione della provenienza delle materie prime è uno dei temi di ricerca più interessanti per l’archeometria e l’archeologia della produzione; le indagini si basano sulla diversità composizionale che esiste tra le materie prime pro36 La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume fig. 4 – A: Analisi chimiche dei campioni di suolo provenienti da Monteleo (Monterotondo Marittimo) e da Montioni (Follonica); B, C: Confronto tra i valori dei campioni di suolo toscani (Monteleo e Montioni) e laziali (Cava della Concia e Cava Grande, Tolfa). 37 A. Donati, V. Volpi, L. Dallai di As e bassi valori di Cr rispetto alle cave di Montioni; queste ultime, al contrario, mostrano elevate concentrazioni di Cr, Pb e V. La diversa concentrazione di tali elementi può essere dovuta alla natura delle rocce incassanti su cui i fluidi idrotermali, all’origine dei giacimenti alunitici, hanno circolato; nel caso di Montioni le rocce incassanti sono formate da litotipi di origine vulcanica, mentre nel caso di Monteleo i litotipi sono di origine sedimentaria. Se i campioni della Toscana Meridionale vengono confrontati con quelli provenienti dalla Cava Grande e dalla Cava della Concia (Monti della Tolfa), la provenienza delle materie prime risulta ulteriormente diversificarsi. In fig. 4 (grafico B) possiamo osservare che il campione laziale si differenzia da quelli di Monteleo per l’assenza di elevate concentrazioni di As, e dai campioni di Montioni per l’assenza di V. Dal grafico C (fig. 4) si può infine osservare la similitudine fra i depositi alunitici che si sono generati dall’alterazione di rocce vulcaniche (campioni provenienti da Montioni e dalla Tolfa) e la loro diversificazione rispetto al deposito di Monteleo, che si è generato per alterazione di rocce sedimentarie. Questo tipo di indagine preliminare può aprire una interessante linea di ricerca sulla distinzione geochimica tra materie prime provenienti da siti diversi e quindi sulla loro provenienza. mettenti riguardo alla possibilità di caratterizzare la materia prima, ed ha permesso di differenziare, in base ad alcuni elementi in traccia (in particolare As, Pb, Cr e V), minerali provenienti da siti estrattivi diversi all’interno delle Colline Metallifere e campioni di altri contesti italiani, come quello alto-laziale. Considerando infine la presenza dell’arsenico (As) nello scarto della canalizzazione dell’Area 3000 di Monteleo alla luce dell’analisi di provenienza, le elevate concentrazioni di questo elemento avvalorano il dato storico secondo cui la materia prima utilizzata in questo sito fosse esclusivamente quella della cava di Buca dei Falchi e del Poggio Marruche. In conclusione, le analisi chimiche e pXRF potrebbero essere impiegate in prospettiva per una mappatura estensiva dell’alunite proveniente dai contesti estrattivi storicamente attestati sulla Penisola, con l’obiettivo di determinare i bacini di approvvigionamento dei diversi siti di produzione. A.D., V.V., L.D. BIBLIOGR AFIA Benvenuti et al. 2014= Benvenuti M., Bianchi. G., Bruttini J., Buonincontri M., Chiarantini L, Dallai L., Di Pasquale G., Donati A., Grassi F., Pescini V., Studyng the Colline Metallifere mining area in Tuscany: an interdisciplinary approach, IES Yearbook, pp. 261-287. 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Malgrado la corrispondenza solo parziale fra le concentrazioni più elevate ed i siti noti di estrazione e lavorazione dell’alunite, riteniamo che tale elemento possa essere utilizzato come valido tracciante per concorrere a determinare le aree a maggiore potenziale archeominerario. Le mappe di concentrazione evidenziano tuttavia, sia nel caso dell’Alluminio (Al) che per gli altri metalli storicamente coltivati nel territorio delle Colline Metallifere (in particolare Cu, Pb, Fe), il fortissimo impatto ambientale determinato dalla fase estrattiva contemporanea; nel caso dei depositi di alunite, la cui coltivazione data ad epoca pre-industriale, ciò determina una scarsa visibilità dei valori di concentrazione in paragone a quelli frutto delle più recenti attività estrattive, e dunque una limitata evidenza del dato storico. Al contrario, le indagini pXRF on-site, svolte all’interno del sito dell’Allumiera di Monteleo, hanno permesso di identificare specifiche aree collegate ad una ben determinata fase della lavorazione dell’alunite. Le analisi condotte sui residui di lavorazione all’interno della canalizzazione dell’Area 3000 in particolare si sono rilevate utili sia per caratterizzare composizionalmente il materiale, sia per fornire elementi relativi alla qualità del prodotto di scarto, e quindi determinare una stima del grado di efficienza del processo produttivo. Ciò evidenzia alcune potenziali criticità del ciclo, in particolare la mancata eliminazione di parte dell’As, e l’elevata percentuale di Al residuo nelle acque di risulta. L’analisi di provenienza, seppur basata su un limitato numero di campioni, ha fornito risultati preliminari pro38 La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume English abstract Dallai et al. 2015= Dallai L., Bianchi G., Donati A., Trotta M., Volpi V., Le analisi fisico-chimiche territoriali ed “intra-sito” nelle Colline Metallifere: aspetti descrittivi, “predittivi” e prima interpretazione storica dei dati in P. Arthur, M. Leo Imperiale (a cura di), VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Lecce 2015), Firenze, pp. 389-394. Giannini E. 1955, Geologia dei Monti di Campiglia Marittima (Livorno), «Bollettino della Società Geologica Italiana», 74, pp. 219296. Inventario 1995 = Cuteri F., Mascaro I., Colline Metallifere. Inventario del patrimonio minerario e mineralogico. Aspetti naturalistici e storico-archeologici, Firenze. ISPRA 2002, Carta Geologica d’Italia in scala 1:50.000, Progetto nazionale CARG – Foglio N. 306 “Massa Marittima”, Firenze. 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In this area archaeological, chemical and geological proxies have provided very significant data for the reconstruction of the historical and productive landscape (mining and metallurgical in particular). In this paper we will discuss the concentration of some chemical elements (i.e. Al and K) emerged during the multidisciplinary investigations, which can be considered diagnostic of ancient activities related to alum extraction and processing. The detailed intra-situ physico-chemical study conducted on the Monteleo productive complex has also allowed to functionally characterize the areas inside the site on the basis of elemental analysis of the soil. Finally, chemical comparison between alum samples taken from the Colline Metallifere and the Tolfa areas, represents a first step in planning an extensive mapping of the deposits at national level, with the aim of determining the supply basins of the various production sites. 39 L’ALLUME LAZIALE THE LATIUM ALUM LANDSCAPE Francesca Romana Stasolla* LE ALLUMIERE DEI MONTI DELLA TOLFA TR A ARCHEOLOGIA ED ECONOMIA DI INDOTTO The allumiere of the Tolfa district: archaeology and economical network cui fanno parte e alle quali spesso danno il proprio nome 4. Così, ad esempio, accade nel caso del castrum Centumcellensis, per il quale la Margherita Cornetana nel 1451 documenta la riduzione a tenuta assegnata alla mensa episcopale di Corneto e Montefiascone 5 (figg. 2-3). Le cause di queste profonde modifiche sono legate da un comune destino politico, ma poi soggette a situazioni contingenti, fra le quali vengono ricordate la recrudescenza della malaria, la peste del 1348 o il terremoto del 1349. Va però detto che non sempre questi eventi portano immediatamente a fenomeni di abbandono; ad esempio, a Cencelle la ricostruzione del palazzo pubblico dopo l’evento sismico è indizio di un potere comunale ancora saldo alla metà del XIV secolo 6. Certamente, però, lo stato di tensione fra nobiltà e papato e la distruzione mirata di alcuni centri da parte papale determinarono profonde trasformazioni nel territorio; ciò va tenuto presente per un riequilibrio storiografico che non si limiti ad attribuire allo sfruttamento dell’allume ogni forma di modifica topografica dell’area. In realtà, la decisione di procedere al massiccio sfruttamento dell’alunite contribuì a catalizzare la rifunzionalizzazione dei castelli superstiti ed agì in modo rinvigorente nell’economia del territorio. Tutta l’area dei Monti della Tolfa venne infatti, a seguito del ritrovamento di Giovanni da Castro, rapidamente riorganizzata in modo funzionale alla nuova industria, gerarchizzandosi in relazione ai nuovi poli produttivi. Innanzitutto, nel cuore del bacino tolfetano si assiste ad una concentrazione dell’abitato attorno prima a Tolfa Nuova, quindi ai nuovi piccoli centri demici nei pressi degli impianti, come La Bianca, o a centri che avranno uno sviluppo autonomo, anche come sede delle strutture per la gestione delle industrie, come nel caso di Allumiere 7 (fig. 4). Questi costituiscono il cuore pulsante del popolamento dell’allume ed ospitano coloro che, in modo diretto o mediato, sono legati ai processi estrattivi e colturali, a cominciare dai minatori e dalle loro famiglie. Il paesaggio demico tende a spostarsi La complessa attività estrattiva che lo sfruttamento dell’alunite nel comprensorio dei Monti della Tolfa genera, ha profonde conseguenze in un’ampia fascia di territorio 1. Per una lettura della topografia storica e delle fonti documentarie la prospettiva archeologica consente di acquisire elementi di maggiore comprensione di un fenomeno nel suo complesso: in questo caso la risposta di un territorio agli stimoli indotti da una determinata attività 2. A seguito della chiusura dei mercati orientali, dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, si pose in Occidente in grave problema della penuria di allume, sostanziale per la tenuta di alcune delle attività strategiche nell’orizzonte economico europeo, come ad esempio quella tessile. La ricerca del prezioso minerale generò affannose ricerche, nella consapevolezza di quanto il successo dell’impresa avrebbe giovato ai territori interessati dallo sfruttamento dell’allume. Fu quindi l’occasione di riprendere, e mettere a regime, le attività estrattive che in modo sporadico erano state condotte nei periodi precedenti nell’area del Lazio settentrionale, nell’entroterra di Civitavecchia; l’accordo fra Giovanni da Castro, a cui si deve l’individuazione delle cave del minerale, e la Camera Apostolica generò una delle industrie più proficue ed estese della prima Età Moderna 3. Le trasformazioni dell’area tolfetana erano in realtà avvenute già prima dell’iniziativa di Giovanni da Castro. Nel XV secolo l’area dei Monti della Tolfa (fig. 1) può dirsi del tutto sotto il controllo pontificio, grazie alle vittorie dell’Albornoz contro i di Vico e gli Anguillara. Tale controllo prevede il possesso diretto di molte zone da parte della Camera Apostolica, oppure indiretto per mezzo di ordini religiosi, come quello di S. Giovanni o del S. Spirito; si avvia cioè un processo che si concluderà con il reale monopolio delle zona per il remunerativo sfruttamento dell’allume. Questo processo di accentramento politico ed amministrativo, immediatamente anteriore all’avvio dell’industria allumierifera, genera la perdita delle funzioni militari o di presidio territoriale di molti centri, che nel corso del XV secolo subiscono un progressivo abbandono o vengono trasformati in poli amministrativi delle tenute di 4 Per le trasformazioni dell’area tolfetana nel Medioevo, e sulla situazione immediatamente precedente l’avvio dell’industria dell’allume, si vedano le riflessioni di F. Vallelonga in Vallelonga 2006a, 2006b, 2012a, 2016 ed infine Vallelonga, Del Ferro, De Lellis 2018, con ulteriori riferimenti bibliografici. 5 Supino 1969, doc. 581, pp. 429-430. Per alcuni spunti di analisi topografica sulla base dei documenti della Margherita Cornetana nel territorio dei Monti della Tolfa, si rinvia a Sorrento 2014. 6 Somma 2014a; Somma in Somma, Stasolla 2016; Somma 2018. 7 Zifferero 1996, pp. 739-756. Per le indagini nell’area de La Bianca, si rimanda a Vallelonga 2012b, oltre che ai contributi in questi stessi atti dello stesso Fabrizio Vallelonga per l’analisi archeologica e di Cristina MartínezLabarga per quella antropologica. * Sapienza Università di Roma (francescaromana.stasolla@uniroma1.it). 1 Per l’industria dell’allume in area tolfetana, nella ricca bibliografia ci si limita a rimandare a Zippel 1907; Monaco 1983; Jacoby 2005, oltre al recente contributo di Ivana Ait in Ait, Dallai, Ponta 2018. 2 Per una prima lettura in chiave archeologica, si rimanda a Stasolla 2014, 2018b. 3 Nella vasta bibliografia, si rimanda al solo Ait 2014 per una sitensi delle vicende ed un’ampia bibliografia di riferimento. 43 F.R. Stasolla fig. 1 – Area dei Monti della Tolfa, attorno ad Allumiere, ancora identificabili da zone rurali e boschive. fig. 2 – Localizzazione di Cencelle. verso le colline dell’interno, complice anche il processo di impaludamento di parte della fascia costiera, ancora per i secoli XVI-XVII, che spinge ad utilizzare la via Clodia o la via Cassia per le lunghe percorrenze. Questa situazione favorisce la frequentazione, e quindi la rivalutazione economica, dei centri dell’Etruria interna, soprattutto di quelli situati lungo il percorso di queste arterie stradali 8. Anche lo sfruttamento del territorio venne ripensato in funzione delle operazioni legate alle pratiche minerarie: le piante dei numerosi catasti, a cominciare dall’Alessandrino, mostrano come le macchie camerali, destinate a fornire legname per la lavorazione del materiale alunitico, si concentrassero nel cuore del bacino tolfetano (fig. 5). Del resto, la preoccupazione di sopperire al bisogno di materie prime risulta anche dai primi contratti di appalto, come quello del 1463 che riporta il diritto di incidere et estrarre tam lapideis quam ligna nelle zone delle cave e negli immediati dintor- ni 9, o come quello del 1465, che prevede l’obbligo da parte del locatore ogni anno durante detta locatione di sementare nel tenimento e paesi de la Lumera almeno cinque rugla di ghiande per la reparatione de le silve che se tagliano, a cio che non manchano legna a detta Lumera 10. La preoccupazione per il disboscamento si esprime anche con norme a tutela dei boschi, che prevedono il divieto di tagli per esemplari inferiori ai 30 anni; altri boschi erano protetti, riservandoli alle attività costruttive, ed evitando quindi il taglio delle piante in età giovane 11. Sotto il pontificato di Alessandro VI (1492-1503) è attestata l’esistenza di un apposito ufficiale per la sorveglianza delle selve di Tolfa. Le aree periferiche, come quelle di Cencelle (fig. 6) e di S. Maria sul Mignone (fig. 7), ripresero velocemente la loro vocazione agricola, o perché troppo distanti dai luoghi dell’attività estrattiva, o per la natura dei terreni, che si prestavano a questo tipo di impiego 9 In un documento del 14 gennaio 1463, tali diritti vengono specificatamente ricondotti da un’area in fundo vallis fiumicelli, qui dicitur montis Maiestatis ad sinistram respicit, versus Tulfa circa locum etiam qui dicitur Il Campo del Horto, prope aquam videlicet fontis dicti castri (ASR, Camerale III, b. 2360). 10 Theiner 1861-1862, doc. 379, pp. 434-436; Zippel 1907, pp. 438-444. 11 ASR, Camerale III, b. 2380. 8 Per l’assetto viario medievale della zona, per le modifiche e per i raccordi tra costa ed aree interne, si vedano Vallelonga, Del Ferro, De Lellis 2018; Casocavallo, Maggiore, Quaranta 2018, due quadri d’insieme che sistematizzano molta della bibliografia precedente, più parcellizzata e dispersa. 44 fig. 3 – Cencelle, veduta aerea. fig. 4 – Pianta, e Veduta Dell’Allumiere, e Cave D’Alume. ASR, Disegni e Piante, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani, coll. I, cart. 122, f. 48. 45 F.R. Stasolla fig. 5 – Mappa delle tenute dell’allume, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani. fig. 6 – Tenuta di Cincelli, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani. meglio di quelli dell’entroterra collinare 12. Il timore che la preziosa risorsa lignea, da utilizzarsi sia come combustibile che per le numerose infrastrutture di cava, venisse a mancare portò sin dall’inizio a prevedere opere di rimboschimento, spesso per una quota – anche la metà – a carico della Camera Apostolica, che compartecipava in questo modo alle spese per la gestione indiretta delle allumiere 13. Ciò che colpisce fin dai primi accordi fra la Camera Apostolica e gli appaltatori è la chiarezza organizzativa nel contemperare lo sfruttamento diretto delle cave con l’economia di indotto, indispensabile per garantire la sostenibilità del territorio e quindi un successo di lunga durata dell’intera impresa. Un documento del 1462, un accordo stilato fra la Camera Apostolica da una parte e Giovanni da Castro, Bartolomeo da Fra Mura e Carlo Caetani dall’altra, rinnovato in prima istanza per tre anni, poi di nuovo per nove, prevede che gli appaltatori possano usufruire delle cave, delle risorse boschive dell’area, dei corsi d’acqua e delle sorgenti per l’approvvigionamento idrico; possono inoltre avere fieno e paglia a titolo gratuito, seminare fino a 60 moggi di grano, orzo ed altri cereali ed avere l’esclusività del raccolto, usufruire dei diritti permanenti di pascolo, fino ad un massimo di 90 mucche, 120 buoi da lavoro, 120 bufali, 600 montoni, 1.500 pecore, oltre che 12 Per S. Maria al Mignone e le sue vicende, oltre che per l’area ad essa riferibile: Del Lungo 1994, Nardi Combescure 2002; Vallelonga 2012a. 13 Così in un documento del 1 novembre 1462: ASR, Tolfa, b. 2378, Allumiere 1467, f. volante; Delumeau 1990, pp. 79 ss. fig. 7 – Tenuta di S. Maria del Mignone, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani. 46 fig. 8 – Cencelle, chiesa romanica di S. Pietro (ricostruzione L. Pardo). fig. 9 – Cencelle, chiesa romanica di S. Pietro, cripta. dell’esenzione del pagamento dei diritti di dogana. A fronte di questi vantaggi, i contraenti sono tenuti alla realizzazione e alla gestione degli impianti, alla produzione di 30.000 cantari di allume (circa 1.500 tonnellate), oltre che al rimboschimento in collaborazione con la Camera Apostolica 14. Queste condizioni ritornano in più contratti successivi, con 14 le medesime percentuali, segno che si era trovato un equilibrio fra necessità delle allumiere e sfruttamento delle risorse locali 15. La necessità di strumenti ed animali per il servizio della allumiere e per la produzione agricola che il territorio 15 Così ad esempio in più documenti di appalti del 1465: Theiner 18611862, doc. 379, pp. 434-436; Zippel 1907, pp. 438-444; ASR, Camerale III, n. 2378; ASV, Arm. XXIX, n. 34, cc. 60r-62v; Delumeau 1990, p. 80; Barbieri 1940, p. 21. ASR, Tolfa, b. 2378, Allumiere 1467, f. volante; Delumeau 1990, p. 79 ss. 47 F.R. Stasolla minato la statica, subisce in modo definitivo la tamponatura degli accessi legati alla sua funzione cultuale. All’area presbiteriale si accede attraverso una porta ricavata nel muro perimetrale sinistro, appena all’inizio della navata; una delle scale di discesa nella cripta, quella sinistra, viene tamponata e l’area doveva ospitare una qualche attività produttiva, della quale restano una vaschetta ed i resti di una canaletta; nella muratura dell’abside principale della cripta viene aperta una porta. Quest’ultima apertura attesta non solo della definitiva perdita della funzione cultuale dell’edificio, ma anche del nuovo rapporto topografico fra questo edificio e lo spazio extraurbano. Le pareti della cripta vengono ricoperte di intonaco grigiastro, sul quale vengono tracciati numerosi graffiti, che comprendono anche tracce di computi 17. In questa fase, certamente sono in uso la zona presbiteriale e la sottostante cripta, destinate appunto al centro gestionale di una azienda agricola 18 (fig. 9). Nell’area presbiterale, riconvertita a scopo abitativo, doveva alloggiare il gestore della tenuta, non sappiamo se in modo stabile o sporadico: il rinvenimento di una serie di ceramiche rivestite attesta che era ancora al suo posto al momento del crollo definitivo dell’intera struttura, che conservava almeno in parte gli arredi liturgici (fig. 10). Il corredo ceramico è costituito soprattutto da maioliche rinascimentali di provenienza altolaziale, che evidenzano lo scollamento del centro dal mercato romano e la sua saldatura con la nuova realtà imprenditoriale. Ma i dati più interessanti provengono dall’area della ex cripta, adibita a sede di attività agricole e dotata di un accesso carraio nell’abside centrale. Il ritrovamento di focolari, fosse per la cenere e noccioli di quercia e rovere riconduce ad un contesto contadino. In particolare, l’analisi del contesto unitamente ad un lavoro di archeologia sperimentale 19 ha indotto a riflessioni interessanti sulla sua funzionalità. La cripta nel XVI secolo è ormai adibita a magazzino, ospita attrezzi da lavoro e molta ceramica da cucina, oltre che un luogo per attività produttive legate alla preparazione del cibo. Dopo una bollitura in olle ceramiche, in un focolare le ghiande venivano tostate, quindi gettate, insieme a cenere e braci, sul pavimento in lastre litiche per il raffreddamento, infine lasciate in recipienti o buche nel pavimento, alternate a strati di cenere. Dopo alcuni giorni esse venivano prelevate e le ceneri erano riutilizzate per un nuovo ciclo di tostatura; le ghiande tostate erano pronte per la macinatura. Questa preparazione era indispensabile per consentire l’uso di ghiande nell’alimentazione umana, ed il suo carattere seriale a Cencelle costituisce un elemento importante di qualifica del tipo di alimentazione di contadini, evidentemente impiegati nella tenuta. Inoltre, ciò costringe a rivalutare la presenza di macchie di quercia e rovere nel panorama tolfetano, che tradizionalmente si associa alla sui- fig. 10 – Cencelle, ceramiche dalla cripta della chiesa romanica di S. Pietro. attorno garantiva ai lavoranti appare chiara anche dall’elenco dei beni di Carlo Gatanis e di suo figlio Alfonso del 1515, che divide bubalos centum domitos, equos currus et alias massaritias da 50 buoi pro agricoltura 16. Più distante dalle cave, infatti, il territorio si organizza in tenute agricole facenti capo spesso ai vecchi castra, sottoposti spesso all’autorità della Camera Apostolica o di enti religiosi, variamente affittate dagli appaltatori delle allumiere per il sostegno diretto dei lavoranti. Queste tenute dovevano avere un centro di riferimento per esigenze legate alle attività agricole che erano chiamate a svolgere, e/o per l’alloggio dei lavoranti e dei contadini. La documentazione materiale di queste strutture appare estremamente rarefatta, se in genere restano solo le menzioni delle fonti. Acquista quindi una certa rilevanza il caso del sito Cencelle, dove uno spazio legato ad un’azienda agricola è stato chiaramente identificato nell’area della chiesa romanica, ormai rifunzionalizzata (fig. 8). Qui, in un periodo che compreso tra il XV e il XVI secolo, l’edificio perde il suo carattere religioso e l’area del presbiterio viene presumibilmente adibita a centro della nuova tenuta agricola, che nei catasti storici è nota come Tenuta di Cincelli, una delle strutture in dotazione degli appaltatori delle allumiere. La chiesa di S. Pietro, che aveva già subito una serie di trasformazioni dopo il terremoto del 1349, che doveva averne 16 17 Tonizzo Feligioni 2010. L’assetto della cripta aveva in prima istanza fatto ipotizzare la possibilità di un uso carcerario della struttura, viste le attestazioni nelle fonti scritte della presenza di una struttura di detenzione a Cencelle. Il proseguo delle indagini tende a far propendere per un uso esclusivamente agricolo della struttura, banché il contesto sia ancora in fase di analisi e di riflessione. 18 Stasolla 2012, pp. 34-35; Stasolla 2014b; Barone 2014, 2015; Stasolla 2018a. 19 Il lavoro è stato oggetto di una tesi di laurea magistrale in Archeologia Medievale presso l’Università di Roma Sapienza, ad opera di Valentina Guaglianone; la parte sperimentale è stata seguita da Cristina Lemorini, correlatrice della tesi; le analisi paleobotaniche si devono ad Alessandra Celant. ASR, Salvatore, cass. 468, 82 F e 82 G. 48 Le allumiere dei Monti della Tolfa tra archeologia ed economia di indotto fig. 11 – Pianta delle strutture molitorie dell’area delle allumiere (ricostruzione di C. Carloni). «Perché nel carreggiar li Allumi a Civita Vetula c’è bisogno della tenuta di Ferrara a commodità della posta delli Bufali promette la detta Camera che il Dohaniero pro tempore delle pecore consegnerà ogni anno alli appaltatori delle tenuta per il prezzo che li Grimaldi et moderni appaltatori l’hanno continuamente avuta havendone però essi bisogno per tal uso» 21. Le tenute erano destinate ad usi diversi e quelle agricole necessitavano anche di infrastrutture per la trasformazione delle derrate. La preoccupazione di fornire il territorio di mulini sembra essere prevalente, cosa comprensibile anche nella necessità di sostenere un numero progressivamente sempre più ingente di personale adibito alle cave (fig. 11). Le strutture di molitura nell’area dei Monti della Tolfa ancora nel XII secolo sembrano saldamente nelle mani dei comuni. Abbiamo, ad esempio, notizie di mulini lungo il fiume Marta, controllati dalla comunità di Corneto ed assegnati in gestione a privati, come riportato nei resoconti quattrocenteschi delle assemblee comunali della città, confluiti nelle riformanze. Questi dovettero rimanere a lungo attivi in modo quasi esclusivo, se negli statuti di Corneto si specifica che città e contado dovevano usufruirne necessariamente, senza serie alternative. In realtà fu proprio l’attività delle allumiere a sviluppare anche quella molitoria, e la Chiesa se ne fece parte attiva, anche perché si occupava della riscossione delle tasse sul grano e sul macinato. Ancora nel 1473 Corneto concesse in locazione a Carlo Gaytano de Pisis molendina comunis civitatis prefate quibus molitur frumentum apud fluminum Marte; i locatari sono tenuti a far macinare grani a tutti i Cornetani, nicoltura. È evidente che queste specie arboree, e soprattutto i loro frutti, rappresentavano uno dei cardini dell’alimentazione non solo animale, e vanno ascritte a buon diritto nel computo delle risorse alimentari primarie nell’area delle tenute dell’allume. La necessità di difendere beni e derrate qui accumulate sembrano tradite dal ritrovamento di armi, alcune delle quali del periodo di passaggio fra XV e XVI secolo, come nel caso di punte da balestra. Altro centro dove è chiaro questo processo è il Castrum Ferrariae: nel borgo, grazie alle liste del sale e del focatico, vengono calcolati 100 abitanti nel 1416, mentre esso risulta distrutto nei censimenti successivi. Ferraria è concessa in feudo con Tolfanuova, Monte Castagno e Valmarina a Francesco Orsini, prefetto di Roma, da Eugenio IV, privilegio rinnovato da Nicolò V e Callisto III; quest’ultimo nel 1457 trasferisce la prefettura, e quindi i territori, a Pierluigi Farnese, suo nipote. Con Pio II (1458-1464) il sito torna agli Orsini per breve tempo, finché nel 1540 se ne impadronisce Everso degli Anguillara. Con l’avvio dello sfruttamento dell’allume, la zona suscita l’interesse del papato e viene trasformata in una tenuta, probabilmente a seguito delle vicende di Tolfa Nuova. A questo punto Ferraria non è più nominato come castrum, ma come tenimento: in un verbale di un consulto secreto del 28 novembre 1578, è menzionato il tenimento Ferrario a proposito di cavalli presi o catturati in quel fondo sottoposto ai Dohaneris Patrimonii. Nella prima metà del XVI secolo la tenuta viene destinata al pascolo dei bufali, tanto da diventare incolta e stepposa 20. La tenuta, citata nell’appalto delle Lumiere del 1578 al capitolo 11, apparteneva dunque alla Camera Apostolica, che l’aveva adibita a pascolo, alla cui amministrazione era preposto il Doganiere del Patrimonio: 20 21 Per le notizie, sostanzialmente documentarie, sul castrum Ferrariae, si rimanda a Brunori 1984 e a Toti 1999; a parte qualche saltuaria ricognizione, il sito attende ancora una indagine archeologica. È pertanto rientrato nell’interesse del Progetto Cencelle, vista la sua funzione estrattiva collegata con le dinamiche di sfruttamento del territorio. ASR, Camerale III, b. 2380; De Cupis 1911, pp. 193-195. 49 F.R. Stasolla alla manutenzione dei mulini, a pagare una quota destinata alla riparazione della turris palatii comunitatis et fabbrica lige molendini fatta da magister Dattolus in fine versus cannetum quod est in insula flumini Marte 22. Così, Pio II Piccolomini e Gregorio XIII, oltre al vescovo di Corneto e Montefiascone, fra XV e XVI secolo risultano committenti di tre strutture molitorie: la mola delle Lumiere, il mulino del capitano Ettore Blancardo e le Mole del Mignone. Si tratta di mulini a sei ruote, quindi opifici significativi e predisposti per un uso che potremo definire pre-industriale. Solo nel 1661 abbiamo informazioni circa un mulino a Civitavecchia, segno che il grosso della produzione veniva macinata nei pressi delle aree di coltivo, e destinata alle esigenze delle allumiere. Ancora nel 1746 questi mulini sono considerati strettamente associati all’attività allumerasca e dati in affitto agli appaltatori; per essi si organizza anche un sistema di convogliamento delle acque che risulterà compromesso solo alla metà del XVIII secolo, in occasione dei lavori per la captazione delle acque funzionali al nuovo acquedotto di Civitavecchia. Lo stesso papa Piccolomini aveva concesso a Giovanni da Castro di edificare un mulino presso la chiesa di S. Severella, che con l’occasione venne restaurata e dotata di un sacerdote per la “comodità delle Lumiere” 23. Una situazione che sembra abbastanza standardizzata, esemplificativa di una modalità di creare servizi attorno ad un’attività principale, ben evidente nell’articolazione rivelata dallo scavo archeologico nel sito de La Bianca 24. Oltre ai mulini, a volte ad essi connessa è nota l’attività metallurgica, fondamentale per la produzione di strumentazione nelle cave, di attrezzi agricoli, di elementi di carpenteria, di ferri equini per gli animali adibiti al trasporto dell’allume. E, dobbiamo immaginare, in primo luogo per la manutenzione delle caldaie. Non stupisce quindi che già nei primi accordi Pio II ribadisse a Giovanni da Castro il diritto di sfruttamento non solo dell’allume, ma anche dei diversi metalli presenti nell’area e che il medesimo da Castro ottenesse, accanto al mulino di S. Severella, anche un appalto per 25 anni di un forno per lo sfruttamento del ferro. Di fatto, l’articolazione del bacino tolfetano, caratterizzato a settentrione dai giacimenti di alunite e a meridione da una maggiore concentrazione di materiali ferrosi, ben si presta ad un’organizzazione razionale di gestione di risorse in questo caso complementari 25. Una terza fascia di territorio comprende invece quegli insediamenti il cui sfruttamento sembra connesso con la commercializzazione dell’allume. È il caso, ad esempio, della Castellina sul Marangone, le cui ultime fasi di vita sembrano connesse con il controllo della strada per la quale transitava l’allume fino al porto di Civitavecchia, per l’imbarco 26. A questo punto, la Camera Apostolica in mancanza di una propria rete commerciale, si affida a distributori esterni, fra i quali spiccano ad esempio i Medici 27, mentre non mancano accordi per fare compagnia et unione de tutte allumiere, come, ad esempio, quello del 1470 fra il papato e re Ferdinando II di Napoli 28. La rete viaria subisce profonde mutazioni, che vanno a definire quelle che potremo definire le “strade dell’allume”, fra luoghi di produzione e luoghi di immagazzinamento e di commercio, ma anche fra tenute agricole e cave, e centri residenziali, e mulini, in un complesso reticolo che solo in parte sfrutta l’apparato stradale precedente. Parte di tale viabilità si deve proprio alle nuove esigenze, e la sua predisposizione e la sua manutenzione non infrequentemente rientra negli accordi contrattuali: nei nove anni di contratto, a partire dal 1465, Pierantonio di Andrea da Macerata si impegna in esclusiva a far fare la strada che va da locho de la Lumera a Civitavechia, in tal forma e modo spianare et disponete, che agevolmente li carri potterano carrigiare e portare li alumi, e di mantenere detta via a tutte sue spese durante questo tempo di detta sua conduca. Item promesse detto Perantonio fra termine di due mese proximi sequenti haver in ordine tante carra et buffali, che seriano sufficienti a portare de dicta Lumera a Civitavecchia ogni quantità di alume che sia di bisogno, e promesse far fare le dette carra e mantenere a tutte sue spese durante detto tempo di locatione. Gli è inoltre permesso edificare a Civitavecchia, presso le aree di produzione o dove necessario, capanne et ogni altro edificio li piacessi per comodità di se e soi al portare e carrigiare detto alume. Una interessante annotazione riguarda il periodo previsto per le attività di trasporto, dal 1 marzo al 30 novembre, a meno che necessità specifiche non richiedano trasporto eccezionali nel periodo invernale 29; e ne deduce che anche nei pressi dei luoghi di produzione dovessero essere previsti luoghi con conservazione del prodotto finito. L’obbligo di costruire strade compare in più contratti, anche coevi. Parallelamente, la contrattualistica prevede anche il monitoraggio sulle bestie da soma e gli impegni nel trasporto: ad esempio, nel 1571 un appalto prevede il servizio a carreggiare con 200 cavalli dalle cave al porto di Civitavecchia, oltre che l’impegno alla manutenzione delle strade 30. Anche alcune infrastrutture, come alcuni ponti, si devono agli stessi appaltatori delle allumiere, ad esempio nel caso della famiglia Olgiati fra la fine del XVI ed i primi decenni del XVII secolo, che realizzò un ponte sopra il fiume Mignone, di travi, tavoloni et ferramenti per poter condurre li strami per le bestie, come riportato dal Catasto delle tenute delle allumiere 31. 22 ASR, Salvatore, cass. 468, 82B. Per una prima analisi delle strutture molitorie, si rimanda a Stasolla 2012, pp. 108-111. 23 Il papa concesse licenza a Giovanni suddetto non solo di fabbricar l’edifitio per l’alume, ma anco di edificar forno di vena di ferro, e il molino a grano nelle ruine delle chiesa di Santa Severa hora Santa Severella, posta vicino al castel di Cincelli. Et fu nel fabbricar il mulino ricoperta et restaurata ncora la chsola di Santa Severella deputadovi un Sacerdote secolare per comodità delle Lumiere (Insolera 2007, p. 277). In una visita pastorale dell’8 aprile 1656, la chiesa della SS. Trinità viene collocata supra Molas Allumierarum pedictas in distantia duorum miliarum circiter in itinere ad Allumieras (Brunori 1993, p. 220). 24 Si rimanda al contributo di Fabrizio Vallelonga in questi stessi atti. 25 Nella conferma papale degli accordi fra Giovanni di Castro, Corneto e la Camera Apostolica, datata al 20 agosto del 1461, si specifica la possibilità de fodendis albumine aliisque mineriis et metallis diversis et sculptis seu non sculptis, que pro tempore in dictis conventionibus contento tam lapides pro dicto albumine, quam etiam metalla alia (Theiner 1861-1862, doc. 365, pp. 419-420). Lo sfruttamento metallurgico dell’area dei Monti della Tolfa attraversa molte epoche, ed è stato oggetto di svariati studi: si rimanda a Zifferero 1994; Giardino 2006, Drago 2018, e per quanto attiene specificatamente al Medioevo, a Zifferero 1996 e Passigli 2000, quest’ultimo soprattutto nella relazione tra risorse minerarie e ambiente. Gran Aymerich, Prayon 1996, p. 1127. Si rimanda, a titolo di esempio, al contratto con i Medici del 1466: Delumeau 1990, p. 82 ss. 28 Documento del 1 giugno del 1470: Theiner 1861-1862, pp. 464-467. 29 Theiner 1861-1862, doc. 379, pp. 434-436. 30 ASR, Camerale III, b. 2360. 31 Per gli appalti con gli Olgiati, e per la contrattualistica con i vari appaltatori, soprattutto per quanto attiene alle forniture di legname, si rimanda a Passigli, Spada 2014. 26 27 50 Le allumiere dei Monti della Tolfa tra archeologia ed economia di indotto La ricostruzione delle viabilità minore si appoggia anche all’analisi delle presenze ceramiche, che nel caso di Cencelle mostrano chiaramente come fosse ben attivo il collegamento con Tuscania e Blera, quindi con l’asse della via Clodia; non è forse un caso che proprio sulla Clodia e sulla viabilità minore ad essa correlata sorgano Vallerano, Farnese, Castro, centri importanti nel panorama delle maioliche rinascimentali. Nella stessa direzione, i legami con Acquapendente evidenziano la vitalità delle relazioni di quest’area con la Cassia e da qui con la Toscana. Lo spostamento delle presenze ceramiche nell’area tolfetana verso la Toscana meridionale proprio in corrispondenza cronologica con l’avvio dello sfruttamento dell’allume rappresenta un tassello importante del quadro di slittamento delle gerarchie territoriali dalla fascia costiera verso l’interno collinoso ed ora più densamente abitato e sfruttato 32. Il collegamento con l’area toscana è confermato anche dalle presenze numismatiche, fino ad ora note solo da dispersione monetale nei centri dei Monti della Tolfa, e soprattutto da Cencelle, sito per il quale la presenza di emissioni toscane è elevata. Va notata però una estrema rarefazione del dato numismatico dalla fine del XIV secolo, proprio in concomitanza, evidentemente, con la riduzione del centro urbano a tenuta agricola a servizio delle allumiere 33. I nuovi ritrovamenti de La Bianca assumono a questo proposito un valore di segnale del cambiamento dei luoghi del commercio, che si concentra nell’area delle cave e nei centri di stazionamento del materiale e soprattutto della direzione dell’attività minatoria 34. Infine, l’industria dell’allume promosse inevitabilmente lo sviluppo portuale. Va notato come da parte dei pontefici si sia attuata anche la ristrutturazione del sistema difensivo costiero, strettamente legato alle infrastrutture portuali sia maggiori, come il grande porto di Civitavecchia, sia minori, come il piccolo scalo presso il castello di S. Severa, quest’ultimo ad opera di Urbano VIII. Nel 1567 Pio V emette un decreto che stabilisce l’edificazione di nuove torri di avvistamento (Torre Chiaruccia, Marangone, S. Agostino e Le Graticce a Pescia Romana) e la ristrutturazione di quelle già esistenti (Maccarese, Palidoro, Flavia, Corneto, Il Torraccio, Montalto) 35. A livello politico, la scoperta dell’alunite segna la battuta finale della giurisdizione di Corneto sul comprensorio. In un primo momento Corneto si dimostra interessata all’impresa dell’allume in un territorio da lei controllato da secoli; in una lettera del papa al di Castro si accenna ad un contratto stipulato fra questi, la Camera Apostolica e la città di Corneto, secondo il quale Giovanni avrebbe versato due ducati per ogni cantaro di allume fabbricato e il 15% del valore degli altri metalli alla Camera 36. Una parte del profitto sarebbe spettato a Corneto per la ricostruzione delle mura della città. L’interesse di Corneto scema quando si vede privata dei suoi possedimenti nel territorio e vede diminuire l’importanza del suo porto a vantaggio di quello di Civitavecchia 37. Il porto civitavecchiese costituisce lo snodo fondamentale del commercio dell’allume, e numerosi contratti menzionano la presenza di magazzini e della rete dei trasporti trasmarini, benché alcuni accenni lascino intuire anche la possibilità di un trasporto almeno in parte via terra 38. Molto ancora resta da fare nella comprensione delle mille sfaccettature di una industria di livello internazionale come l’allume tolfetano. Va però sottolineato come, anche a fronte di un fenomeno estremamente noto, ricchissimo di documentazione scritta, il contributo archeologico possa arricchire il quadro delle informazioni ed ampliare l’angolo di visuale, per una migliore comprensione del fenomeno storico. BIBLIOGRAFIA Ait I., 2014, Dal governo signorile al governo del capitale mercantile: i Monti della Tolfa e ‘le lumere’ del papa, «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge», 126-1, pp. 187-200. Dallai L., Ait I., Ponta E., 2018, Sfruttamento e commercio dell’allume tra Lazio e Toscana, in C. 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Del 20 marzo 1465: Perantonius Andree de Macerata stabilisce un contratto con la Camera Apostolica, in base al quale garantisce che porterà da lochi dove si fano li alumi nel tenimento de la Tolfa fino a Civitavechia tutte le quantità de li alumi che le serano consignati da li officiali a ciò deputati per la Camera. 32 Barone 2015, Casocavallo, Maggiore, Quaranta 2018, con ampi riferimenti bibliografici. 33 Vanni 2012, 2014; Mancini 2014. 34 Si rimanda al conributo di Fabrizio Vallelonga in questi stessi atti. 35 Sulle ristrutturazioni del porto di Civitavecchia in relazione al commercio dell’allume: Curcio, Zampa 1995; Strangio 2006; Vaquero Piñeiro 2011. 36 Theiner 1861-1862, III, p. 429; Zippel 1907, pp. 16-17. 37 Calisse 1936, pp. 294-295: Corneto avrebbe impedito di provvedere a grano e bestiame per i lavoranti. 51 F.R. Stasolla Drago L., 2018, Circolazione dei metalli in Etruria meridionale tra protostoria e prima età repubblicana: dati e problemi, in C. Citter, S. 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The whole territory was divided into estates, which produced different and complementary products. The dynamics of these transformations are analyzed from an archaeological point of view, in order to understand the changes in the landscape and the settlement structures. The entire territory around the alum quarries is in fact transformed in function of an economy functional to the needs of production, transformation, transport and export of the products of the alum industry. 52 Fabrizio Vallelonga* L’INSEDIAMENTO DELLA BIANCA, IL PRIMO VILLAGGIO DEI CAVATORI? The settlement of La Bianca; the first village of miners? 1. PREMESSA dell’età del Bronzo finale, in parte indagato negli anni ’70 del secolo scorso (Barbaro 2010, pp. 245-246). Nelle prossimità della fonte della Bianca, che è stata sicuramente un elemento catalizzatore della presenza umana, sono segnalate strutture e ritrovamenti riferibili al periodo romano 2. Inoltre a poche centinaia di metri da Prato Stopponi, in direzione est, nel fitto della boscaglia, si trovano due cave di alunite a cielo aperto, nei pressi delle quali sono ancora riconoscibili i resti di una fornace impiegata per l’arrostimento del minerale. L’esistenza di un edificio, conosciuto nell’area come “Cappella dei minatori”, era nota da tempo, anche se la memoria legata al culto era completamente scomparsa. Negli anni ’80 del secolo scorso, a opera dell’Associazione Klitsche de La Grange, fu effettuato un intervento di scavo che ebbe come risultato la completa messa in luce dell’aula di culto (Brunori 1985). Le indagini preliminari svolte nel 2010 hanno comportato l’escavazione di numerose trincee e saggi su gran parte della terrazza (fig. 2). Lo scavo preventivo ha permesso l’individuazione di nuove strutture attorno alla chiesa (Settore A) e, ad alcuni metri di distanza da esse in direzione ovest, il rinvenimento di resti di muri a secco, pertinenti un edificio del periodo etrusco, inquadrabile tra gli ultimi decenni del VI e gli inizi del V secolo a.C. (Settore B – fig. 2, n. 2). Nell’area a nord del percorso che dalla chiesa moderna della Madonna di Lourdes si dirige verso Allumiere, sono stati rinvenuti strati ricchi di materiale ceramico e acciottolati, associati a materiali dell’età del Bronzo antico, medio e finale, e alcuni apprestamenti riferibili al periodo rinascimentale, tra i quali una canaletta in mattoni e una vasta area di concentrazione di pietrame, riconducibili alle attività minerarie svolte nelle circostanti cave (fig. 2, n. 3). Alle scoperte effettuate nel 2010 bisogna aggiungere il recente ritrovamento (settembre 2016) di strutture murarie e di frammenti di mattoni e ceramiche inquadrabili nel periodo rinascimentale, nell’area a sudest di Prato Stopponi, nel piazzale antistante la moderna chiesa della Madonna di Lourdes (fig. 2, n. 4). Il ritrovamento lascia supporre l’esistenza di un edificio di notevoli dimensioni, plausibilmente una delle strutture pertinenti le attività estrattive effettuate nelle vicine cave, strutture di cui abbiamo una precisa testimonianza nel racconto seicentesco di fra Zenobi Simoni da Pescia, eremita nel vicino convento di Cibona, di cui si dirà più avanti. Le indagini archeologiche nella località La Bianca (Allumiere–RM), nell’area localmente indicata con il toponimo di Prato Stopponi, sono iniziate nel 2010, come attività preventiva alla realizzazione di edifici di civile abitazione, disposta dall’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. In seguito alle scoperte effettuate, venuta a cessare la possibilità di realizzare gli edifici progettati, grazie alla disponibilità del Comune di Allumiere e del competente ispettore della Soprintendenza Archeologica, dott. G. Gazzetti, si è proseguita l’indagine, sotto la supervisione scientifica di quest’ultimo. La prosecuzione dell’attività è stata resa possibile anche dall’impegno di decine di volontari dei Gruppi Archeologici d’Italia che, con dedizione e solerzia, si sono avvicendati sullo scavo nel corso di sette campagne: alla loro passione si deve la possibilità di presentare questi risultati 1. Grazie alla collaborazione costante con la cattedra di Archeologia Medievale della Sapienza Università di Roma, da anni impegnata in un vasto programma di indagini sul territorio, è stato possibile inserire le ricerche svolte in un quadro più ampio e avvalersi di preziose collaborazioni e ausili scientifici, che hanno già reso possibile l’avvio dello studio antropologico dei resti degli inumati da parte del Dipartimento di Biologia della Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, i cui primi risultati sono presentati all’interno di questo volume. 2. RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI ALLA BIANCA-PR ATO STOPPONI L’area di Prato Stopponi si trova su un’ampia terrazza naturale lungo le pendici meridionali del Poggio Elceto, in posizione dominante rispetto l’attuale centro abitato della Bianca e con una favorevole visibilità su un ampio tratto del massiccio montuoso tolfetano, fino al mare (fig. 1). La zona è densa di numerosi ritrovamenti di varie epoche: sulle pendici della collina dell’Elceto è localizzato un abitato * Museo Civico “A. Klitsche de La Grange”, Allumiere. Collaboratore della Direzione (vallelongaf@libero.it). 1 Tra i tanti si ringraziano in particolare l’arch. S. Pacchetti, che ha curato la grafica sullo scavo e nel post scavo, e F. Gentile, che ha contribuito all’organizzazione del cantiere. Un ricordo particolare va a Dino Gasseau, amico recentemente scomparso, che ha messo a disposizione le sue competenze professionali e curato il rilevamento topografico. Infine un ringraziamento va al dott. A. Regnani, presidente dell’Associazione Klitsche de La Grange di Allumiere, per l’incoraggiamento e l’aiuto concreto che ha costantemente fornito sin dalle prime fasi del lavoro. 2 Ringrazio per questa informazione l’assistente di zona della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, sig. A. Fedeli. 53 F. Vallelonga fig. 1 – L’area centrale dei Monti della Tolfa (base CTR 1:10.000) con localizzazione delle principali cave e località citate nel testo 1) La Bianca 2) Allumiere 3) Tolfa 4) Cappella di Cibona 5) S. Maria della Sughera 6) La Trinità 7) Struttura rinvenuta presso il casale della Concia 8) Strutture presso gli Sbroccati 9) Strutture presso gli Sbroccati. 54 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? fig. 2 – La Bianca e l’area di Prato Stopponi (base catastale 1:1000) con localizzazione degli interventi di scavo preventivo: 1) Cappella dei Minatori (foto da drone di L. Sestili-aggiornamento agosto 2012) 2) Edificio etrusco 3) Canaletta di epoca rinascimentale 4) Strutture murarie rinvenute di fronte alla chiesa della Madonna di Lourdes. 55 F. Vallelonga 3. LO SCAVO DELLA CAPPELLA DEI MINATORI 2010-2016 riduzioni in alcuni casi furono posizionate intenzionalmente nella nuova fossa, con una particolare attenzione al trattamento dei crani e delle ossa lunghe, a volte conservate ai piedi del nuovo individuo, secondo una pratica ben attestata nei cimiteri medievali (Becker 1996, pp. 702-704; Stasolla et al. 2015, pp. 279-280). Quasi tutti gli inumati erano sistemati in semplici fosse scavate nel terreno, prive di qualsiasi accorgimento. Nel caso della t. 39 (US 296) è stato possibile però riconoscere l’esistenza di una cassa lignea testimoniata dalla presenza di almeno undici chiodi, trovati sia nel riempimento che sul fondo della fossa, alcuni dei quali disposti simmetricamente a distanze regolari lungo i lati della fossa (fig. 4). Altre sepolture si trovavano all’interno della chiesa, sia lungo le pareti perimetrali che all’interno dell’abside. Le due sepolture individuate nell’abside erano entrambe orientate est-ovest, con testa ad ovest, e poste ai piedi di piccoli muri, forse utilizzati come sedili. Probabilmente una terza sepoltura, di cui rimanevano pochissimi resti, era posizionata nello spazio intermedio tra le due. La posizione delle tombe le connota come sepolture privilegiate, verosimilmente di membri del clero. La sistemazione della fossa della t. 14 (US 185), in cui venne realizzato una sorta di alveolo cefalitico con spezzoni di mattoni, e la medaglietta devozionale che accompagnava l’individuo deposto nella t. 4 (US 139) sembrano confermare il rilievo delle sepolture. Le altre tombe scavate all’interno dell’aula di culto erano collocate lungo i muri perimetrali, con una particolare concentrazione presso l’angolo sud ovest dove sono stati recuperati i resti di ben cinque individui sovrapposti l’uno all’altro. Lo scavo in corrispondenza dell’edificio religioso ha interessato l’aula di culto e l’area ad esso circostante (Vallelonga 2012a, pp. 57-71), perimetrata da un muro che la circonda a sud, ovest e su parte del lato nord (fig. 2, n. 1; fig. 3). Sul lato nord inoltre è stato portato alla luce un ambiente quadrangolare che si appoggia ai muri perimetrali della chiesa, dotato di due accessi, l’uno ad ovest, presso l’angolo, e l’altro all’angolo opposto. All’interno dell’ambiente al momento dello scavo si rinvenne uno strato composto da ceneri, carboni e scorie metalliche e qui E. Brunori suggeriva di localizzare la bottega di Vannino di Antonio di Sergiovanni, un artigiano attivo durante l’appalto di Agostino Chigi (Brunori 1985, pp. 25-26). L’aula di culto è a navata unica, orientata quasi perfettamente est-ovest, lunga 19 m e larga 8 m. L’abside ha un profilo esterno poligonale, ottenuto sagomando i mattoni in forma pentagonale e ammorsandoli sovrapponendo i lati tagliati in modo tale da ottenere l’angolo desiderato. Sulla struttura si aprono due accessi, l’uno al centro della facciata, l’altro sul lato nord, in prossimità dell’ambiente quadrangolare cui si è fatto cenno poc’anzi. La navata, coperta da un pavimento di mattoni rettangolari, è separata dalla zona absidale da un muro, conservato solo a livello della fondazione. L’area presbiteriale è leggermente sopraelevata rispetto al piano pavimentale dell’aula, assecondando tra l’altro la naturale pendenza del terreno che acquista quota procedendo verso est. Il muro che circonda la zona attorno alla chiesa, sui lati nord e ovest, racchiude lo spazio cimiteriale relativo all’edificio di culto. Al suo interno sono state infatti recuperate gran parte delle 61 tombe sino ad oggi scavate. Sul lato ovest inoltre si trovano due cisterne poste presso gli angoli dell’area cimiteriale, in posizione grossomodo simmetrica. Le cisterne hanno dimensioni simili (lato ca. 2×2 m e profondità ca. 1,50 m) ed erano entrambe coperte in origine da volte in mattoni di cui rimangono ancora alcuni elementi in situ. Il maggior numero di sepolture era concentrato nell’area antistante la facciata, il numero di inumati diminuiva procedendo verso la zona a nord della chiesa, dove il deposito naturale sale progressivamente, tanto che alcune rocce affiorano dal piano di calpestio esterno all’edificio. L’esterno della parete nord della chiesa era inoltre interessato da un grosso taglio a essa parallelo al cui interno trovarono posto alcune sepolture allineate. Nell’insieme le tombe mostravano una certa varietà di orientamenti dovuti probabilmente a condizionamenti legati allo spazio a disposizione, alla presenza di strutture e di elementi affioranti del substrato roccioso. È possibile tuttavia notare una pianificazione dell’organizzazione cimiteriale che sembra aver comportato, con le dovute eccezioni, prima la deposizione delle sepolture orientate nord-sud e successivamente lo scavo delle sepolture orientate est-ovest. Queste ultime, infatti, tagliavano costantemente quelle precedenti ed erano disposte su file regolari. La continua immissione di tombe all’interno dell’area cimiteriale comportò la parziale riduzione di quelle più antiche, i cui resti si trovavano molto spesso all’interno dei riempimenti di quelle posteriori. Le 4. I RITROVAMENTI I reperti rinvenuti durante lo scavo, principalmente ceramica e metalli, provengono per la maggior parte da depositi tagliati dalle sepolture o dai loro riempimenti. All’interno delle stratigrafie si nota una consistente quantità di materiali residui del periodo etrusco che, insieme ai resti di un muro posto presso l’angolo sud-est del recinto cimiteriale, testimoniano l’estensione del coevo insediamento individuato nel Settore B sino a quest’area. Un numero più consistente di frammenti ceramici, alcuni dei quali relativi a forme parzialmente ricostruibili, sono stati rinvenuti nei depositi che obliteravano le due cisterne. Le ceramiche recuperate, ancora in corso di studio, consistono per lo più in frammenti di maioliche rinascimentali (soprattutto ciotole, piatti con decorazione a monticelli e alcuni frammenti di boccali), e, in minor misura, maioliche arcaiche (soprattutto relative a piatti con decorazione ad archetti) e ceramiche ispano-moresche. I ritrovamenti sinora effettuati suggeriscono una cronologia compresa tra la seconda metà del XV secolo e gli inizi del secolo successivo (fig. 5). Come di consueto per i cimiteri di età medievale la maggior parte delle sepolture scavate non ha restituito reperti associabili ai defunti; lo scavo di alcuni inumati, che rappresentano, è bene sottolinearlo, delle eccezioni nel panorama del cimitero, ha restituito tuttavia dei reperti monetali e degli elementi di corredo personale di estremo interesse su cui vorrei soffermarmi in questa sede. Essi infatti possono 56 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? fig. 3 – Planimetria della c.d. Cappella dei Minatori (aggiornamento 2016). offrire un contributo utile alla definizione cronologica dell’insediamento, agli aspetti legati alla circolazione monetaria, alle problematiche relative alla loro interpretazione in ambito cimiteriale e alla definizione di alcuni caratteri della comunità dei cavatori. Le due tombe che hanno restituito monete sono entrambe pertinenti ad individui di età adulta, di sesso maschile; la loro posizione topografica all’interno del cimitero non denota alcuna particolarità. 57 F. Vallelonga posto, o forse gettato, dall’alto, dalla sommità della cisterna e quindi da est verso ovest, nello stretto spazio tra quest’ultima e il muro perimetrale dell’area cimiteriale. Se invece si ipotizza che tale giacitura sia stata voluta, la posizione del cadavere dovrebbe assumere un ben specifico significato. La posizione prona è interpretata generalmente come segno di condanna da parte della comunità verso il defunto o come espediente volto ad evitare il suo ‘ritorno’ (Bissoli 2001, p. 68; Mongelli et al. 2011, pp. 150-152). L’appartenenza a una categoria non accettata dalla società però si estrinsecava nel periodo medievale con l’esclusione dal cimitero. Tale destino era riservato agli scomunicati, agli eretici, ai fanciulli non battezzati (Lauwers 2005, pp. 166-176), e secondo alcuni esteso anche ai debitori e a chiunque fosse morto subito dopo aver commesso un misfatto (Finucane 2013, pp. 269-274). Ovviamente queste regole potevano essere applicate o disattese a seconda del contesto socio-culturale in cui ci si trovava e non escludono la possibilità che il biasimo collettivo si potesse esprimere anche in forme differenti, non canonizzate, e che alcune sepolture potessero risultare ‘marginali’ pur se nell’ambito di un cimitero. Nel nostro caso, inoltre, la posizione dello scheletro e la presenza delle monete potrebbero rafforzare e sostenere a vicenda una chiave interpretativa rituale della sepoltura, non escludendo però una (non impossibile) mera coincidenza o il valore rituale di solo uno dei due gesti e quindi la loro dissociazione. La presenza delle tre monete d’argento, infatti, impone altri interrogativi e lascia aperto lo spazio a molteplici ipotesi se ricondotta a motivazioni rituali, alla luce, si ribadisce, delle cautele avanzate sopra e di un orientamento della critica che tende a ridimensionare un’ampia diffusione di queste pratiche (Saccocci 2011) 3. Le monete sono state rinvenute in corrispondenza della mano sinistra del defunto, tanto da sembrare strette nel pugno. Purtroppo le condizioni di conservazione del ritrovamento non consentono di essere più precisi. La mano era incompleta e le monete sono state rinvenute, sovrapposte, sulle ossa metacarpali. Rimangono aperte quindi due possibilità, cioè che le monete fossero poste intenzionalmente nella mano o che fossero occultate nella manica della veste del defunto. La prima ipotesi implicherebbe una motivazione rituale nel seppellimento e una tale prospettiva potrebbe spiegare anche la posizione dell’inumato volutamente deposto in tale modo, in segno di condanna o, si potrebbe azzardare, di prosternazione (Vallelonga 2012a, p. 66; una tale interpretazione non è comunemente accolta: Simmer 1982, p. 44). Pur accettando tale chiave di lettura permangono comunque numerosi problemi interpretativi. In primo luogo, citando L. Travaini, ci troviamo di fronte a good coins o a bad coins? La presenza di oggetti preziosi all’interno delle tombe era condannata dalla chiesa, in particolare a partire dal XIII secolo e soprattutto nei confronti delle monete d’argento e d’oro, per il loro particolare valore (Travaini 2004, pp. 176-177 e pp. 179-181). In questo caso potremmo pensare allora che le monete associate al defunto fig. 4 – Particolare della tomba 39 (US 296) in corso di scavo. Si possono notare alcuni dei chiodi disposti lungo il margine della fossa (disegno reperti O. Cerasuolo). La t. 2 (US 110) era posta lungo il muro perimetrale dell’area cimiteriale, in prossimità della cisterna sud-ovest. L’individuo si conservava purtroppo in cattivo stato poiché l’area appariva rimaneggiata in periodi recenti e lo scheletro, molto superficiale, era stato oggetto dell’attenzione di ignoti ‘curiosi’ che avevano rimosso il femore destro (fig. 6). La prima particolarità della sepoltura, priva degli arti inferiori a causa degli interventi di cui sopra, consiste nella posizione dell’inumato, che era stato deposto prono all’interno di una fossa terragna. Inoltre, in corrispondenza della mano sinistra, conservava tre monete d’argento, dei grossi di zecca fiorentina, databili tra il 1476 e il 1483 (fig. 7). Il ritrovamento è alquanto singolare e induce a diverse considerazioni e interpretazioni delle quali si cercherà di rendere conto di seguito. Una prima ipotesi, sostanziata soprattutto dai dati di scavo, potrebbe spiegare l’anomala posizione come frutto del timore di contagio (nella seconda metà del Quattrocento l’area è afflitta a più riprese da epidemie di peste) o della semplice incuranza dei fossori che avrebbero causato l’affrettata deposizione del cadavere nella fossa, senza la minima attenzione alla sua posizione. Nel cimitero in esame altre tombe, del resto, sembrano subire un trattamento poco accurato. Nella t. 5 (US 144), ad esempio, l’inumato era deposto con le gambe piegate, probabilmente a causa delle ridotte dimensioni della fossa. Nella t. 43 (US 308) il braccio del defunto era rimasto sollevato e poggiava in verticale lungo la parete della fossa. La posizione dello scheletro della t. 2 lascia intuire che il cadavere era stato de- 3 Molto più argomentato e ricco di confronti l’intervento inedito reperibile all’indirizzo: https://www.academia.edu/19797914/ (ultima consultazione 16/9/2016). 58 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? fig. 5 – Ceramiche rinvenute nello scavo della Cappella dei Minatori: 1) Maioliche arcaiche 2) Maioliche rinascimentali (dis. O. Cerasuolo). 59 F. Vallelonga siano proprio la causa della sua condanna e ne simboleggino il peccato? Era necessario occultare un tale valore per rendere manifesto il biasimo nei suoi confronti già espresso dalla posizione prona? La pratica abbastanza frequente di aggiramento di tale divieto però testimonia che alle monete era riconosciuto anche un valore positivo. Essa è stata spiegata in numerosi modi: semplicemente come espressa volontà del defunto di non separarsi dai propri beni, come una sorta di obolo a Caronte, nella credenza che i denari potessero essere utili nell’aldilà, o ancora le monete potevano avere un particolare valore simbolico forse legato, in questo caso, anche al loro numero, tre, e essere considerate quindi un amuleto 4. Sembra invece di poter escludere un carattere rituale per il ritrovamento associato alla t. 30 (US 245), posizionata nell’area antistante la facciata della chiesa. Lo scheletro presentava una vistosa frattura di tibia e perone sinistri, evidentemente mai curata, tanto che le ossa erano risaldate in maniera anomala e la gamba sinistra doveva risultare più corta di diversi centimetri rispetto la destra, causando un handicap motorio dell’inumato (fig. 8). Oltre questa singolarità, la sepoltura ha restituito un gruzzolo monetale, composto da undici monete d’oro e due d’argento. Le monete sono state recuperate sul costato dell’individuo in corrispondenza della mano sinistra che sembrava posta a loro protezione 5. Esse hanno diverse provenienze: si tratta infatti di monete spagnole, un doble excelente de la granada e un excelente, di un “cruzado” portoghese, di ducati napoletani, pontifici, veneziani e di un ducato rodiota. Le due monete d’argento sono un grosso fiorentino e un grosso di papa Alessandro VI, tosati e fortemente usurati. La datazione delle monete presenti nel gruzzolo varia tra il 1464-1471, cronologia alla quale può essere ricondotto il ducato del pontefice Paolo II, e il 1504-1523, datazione presunta del doble excelente, almeno sulla base del simbolo del monetiere (figg. 9-10). Anche in questo caso il ritrovamento lascia il campo a varie ipotesi. Il primo dubbio ovviamente investe il carattere di intenzionalità o meno del deposito di monete. Si può ipotizzare che esse fossero occultate all’interno delle vesti del defunto (se abbigliato), forse dentro la manica data la loro posizione, e non sarebbero quindi state ritrovate al momento della sepoltura (Pigozzo 2005). I dati derivanti dall’osservazione tafonomica, suggeriscono però, non senza incertezze, la possibilità che il morto fosse avvolto in un sudario, il che presuppone un trattamento del corpo che dovrebbe escludere la possibilità di occultare alcunché. Questo darebbe forza all’ipotesi di un loro inserimento intenzionale nella tomba, magari per espressa volontà del defunto, che avrebbe portato con sé un gruzzolo di denaro corrente. L’incertezza è di non poco conto per interpretare il ritrovamento e comprendere l’identità dell’inumato. Questi gruzzoli monetali, infatti, sono spesso collegati a mancati recuperi e attribuiti a viandanti, a persone forestiere che, colte improvvisamente dalla morte, fig. 6 – Tomba 2 (US 110) con particolare delle monete rinvenute. 4 In realtà l’unica attestazione che mi sia nota è molto distante cronologicamente e geograficamente ed è riportata da C. D’Angela che ricorda come a Venosa negli anni ’60 vi fosse ancora l’usanza di deporre tre monete nelle sepolture: D’Angela 1983, p. 88. 5 Per un rinvenimento analogo a Zagabria, in un contesto di poco posteriore: Mašić, Pantlik 2008. fig. 7 – Tomba 30 (US 245) con particolare delle monete rinvenute. 60 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? fig. 8 – Monete rinvenute nella tomba 2. fig. 9 – Monete rinvenute nella tomba 30. 61 F. Vallelonga fig. 10 – Monete rinvenute nella tomba 30. della loro presenza. Anche in questo caso si possono richiamare diverse spiegazioni per il “mancato recupero” che vanno semplicemente dalla mancanza di un’opportunità propizia all’impossibilità di riconoscere il luogo di sepoltura (Saccocci 2011) 6. Si potrebbero inoltre evocare di nuovo la superstizione o la pietà religiosa, ma suggerirei anche di considerare una efficiente forma di sorveglianza del cimitero o una ancor più severa forma di controllo sociale, sicuramente necessaria in una comunità composta sì da artigiani specializzati, ma anche da individui di dubbia fama attratti dalla promessa di asilo accordato ai lavoranti delle miniere. Le questioni sollevate da questi ritrovamenti sono molteplici e di difficile soluzione allo stato attuale, non si può quindi che essere d’accordo con L. Travaini che suggerisce di procedere caso per caso, lasciando aperto il campo a molteplici soluzioni, in attesa che l’ampliarsi del panorama delle acquisizioni ci permetta di lavorare su una casistica significativa. sarebbero state sepolte con i denari necessari al viaggio che portavano accuratamente nascosti. In questo caso la varietà delle monete potrebbe ipoteticamente connotare l’inumato come un mercante, in grado di approvvigionarsi di valuta pregiata e di tesaurizzarla, forse in base a particolari criteri di selezione, data la molteplicità dei coni che difficilmente può riflettere direttamente la circolazione monetale in quest’area (per simili considerazioni, in altro contesto geografico: Travaini 1999). Ma se la deposizione delle monete fosse stata intenzionale, l’ipotesi di un loro “mancato recupero”, forse troppo spesso evocato per spiegare i ritrovamenti monetali in tomba, potrebbe risultare indebolita. Dovremmo allora pensare a un individuo ben inserito nella comunità per il quale la pietà dei congiunti, il loro rispetto, o forse la loro superstizione, possono aver fatto in modo che nessuno abbia osato appropriarsi del denaro. A questo si potrebbe obiettare domandandosi perché qualcuno non se ne sia impadronito in un secondo momento. Se la presenza delle monete era palese (e questo vale anche per la t. 2) è possibile che altri, estranei alla sfera dei congiunti, a partire dagli stessi fossori, eventualmente impiegati nello scavo della tomba, sapessero 6 Escluderei quest’ultima possibilità nel contesto in esame, date le limitate dimensioni del cimitero e la presenza di elementi strutturali (le cisterne, il muro perimetrale della chiesa) che rendono facilmente individuabili entrambe le sepolture. 62 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? fig. 11 – Tomba 4 (US 139) con particolare della medaglietta devozionale rinvenuta al suo interno. fig. 13 – Tomba 32 (US 269) con particolare degli elementi in ferro rinvenuti (elaborazione grafica Susanna Pacchetti). Un altro ritrovamento di notevole interesse è associato alla t. 4 (US 139), cui si è fatto cenno nelle righe precedenti. Sul costato del defunto, nella parte sinistra, si trovava una medaglietta devozionale di bronzo, di forma ovale con appiccagnolo trasversale (fig. 11). La medaglietta fu probabilmente posta qui al momento della sepoltura. Era infatti consuetudine portare questi oggetti al collo o attaccati al rosario ma anche al petto, su lato sinistro, il più possibile vicino al cuore (Ronc, Bertolini 2001, p. 121). Nel nostro caso il lato della medaglietta a vista al momento del ritrovamento era quello più usurato, perché originariamente a diretto contatto con il corpo, e rappresentata la figura di un religioso inginocchiato, forse in atto di ricevere le stimmate, probabilmente identificabile con san Francesco. Sull’altro lato, quello che doveva essere visibile quando l’individuo in vita indossava il pendaglio, è invece chiaramente riconoscibile la figura di Maria in gloria, circondata da fasci di luce. Ben visibile appare la legenda: IMMACVLATA CONCEPCIO. Il tipo rappresentato può essere assimilabile a quello della Madonna su una falce di luna circondata da un intenso irraggiamento solare, che si diffonde in particolare tra gli ultimi decenni del 1400 e l’inizio del 1500 (Simi Varanelli 2008, pp. 211-220; fig. 12 – Tomba 21 (US 210) con particolare del coltello e della fibbia rinvenuti al suo interno. 63 F. Vallelonga Zuccari 2005, p. 66). Del resto la devozione all’Immacolata Concezione ben si adatta al clima del pontificato di Sisto IV, fervente immacolatista, che nel 1476-1477 ne istituì ufficialmente la festa. Per completezza di esposizione si dà conto anche degli altri ritrovamenti effettuati nel cimitero che interessano la t. 21 (US 210) e la t. 32 (US 269). La prima, scavata durante l’ultima campagna di scavo (agosto 2016), è posizionata presso l’angolo sud-est del recinto cimiteriale. L’individuo è deposto in fossa terragna e presenta orientamento nord-sud, con testa a nord. Lo sepoltura è caratterizzata da un corredo composto da una fibbia di ferro e da un coltello che erano però collocati dietro la schiena dell’inumato (fig. 12). La t. 32, infine, ha restituito dei piccoli anelli di ferro ritrovati sopra il bacino dell’inumato e in prossimità del costato, forse pertinenti ad una cintola o a qualche elemento di guarnizione delle vesti (fig. 13). bili nell’area settentrionale del massiccio tolfetano, presso il fiume Mignone, dove però non sono conosciute tracce di escavazione del minerale. Le tenute sono posizionabili a non molta distanza dal Casalaccio. Infatti nella «Topografia dei terreni del Casalone» del 1836 è menzionato un «Piano della Montigiana» situato presso il «Quarto del Casalaccio» (ASR, Collezione disegni e mappe, I, cart. 1, f. 41). La Montigiana è posta presso il Casalone nella «Corografia del Territorio della Tolfa ed Allumiere» risalente al XIX secolo (ASR, Collezione disegni e mappe, I, cart. 123, f. 229). Sempre in quest’area è posizionata la «Monticianella» nel «Catasto del territorio di Corneto» del 1801 (ASR, Catasti antichi, coll I, 14). Al di là della possibilità che l’attività estrattiva sia stata tentata o praticata anche in questa zona, appare verosimile un riadattamento dell’insediamento di Santa Severella, che si veniva a trovare in una posizione strategica lungo la direttrice che metteva in collegamento Corneto con il bacino minerario. È utile inoltre ricordare che Corneto fu coinvolta nelle prime fasi dell’industria estrattiva per molteplici motivi, dalla possibilità di usare il suo porto a quella di rifornire di grano e animali gli insediamenti minerari. Inoltre è possibile che la città vantasse dei diritti sul bacino minerario se Giovanni di Castro nel 1461 chiese e ottenne proprio da Corneto il permesso di estrarre il minerale trovato nel suo territorio (Ait 2014). La parte interessata doveva essere necessariamente quella a sud del Mignone, corrispondente al territorio di Cencelle, che già nel XIII e XIV secolo con lunghe contese era stata sottomessa per brevi periodi a Corneto. Nel XV secolo i suoi proventi dovevano essere di pertinenza della mensa episcopale di Corneto, che fu riconfermata in questo possesso nel 1451, poco prima della scoperta dell’alunite (Supino 1969, pp. 421-422, doc. 570). L’area controllata dalla città si estendeva sicuramente fino alla Farnesiana e ai pressi dell’attuale Allumiere. Nei documenti medievali, infatti, l’eremo della Trinità, le cui prime notizie certe risalgono al 1243-1244, a poca distanza dall’ultimo centro nominato, è spesso definito «de Centumcellis». Nell’eremo, ad esempio, vennero tenuti due capitoli provinciali dell’ordine agostiniano «in loco de Centumcellis», nel 1275 e nel 1278. Ancora nel 1510 ci si prende cura «loci Centumcellarum, ubi Sancti Augustini quondam habitaculum» (Zazzeri 2008, pp. 254-259). Se quindi le motivazioni elencate sopra sarebbero di per sé sufficienti a spiegare il diretto coinvolgimento di Corneto nell’impresa dell’allume, rimane da interrogarsi sull’affermazione di Giovanni di Castro riguardante la scoperta del minerale nel territorio della città. A quali cave si riferiva lo scopritore dei giacimenti di alunite non è chiaro. Se effettivamente Corneto vantava diritti sul territorio un tempo controllato da Cencelle, quest’ultimo, come si è visto, si estendeva sino alla parte centrale del massiccio tolfetano almeno fino alla zona della Trinità. Due documenti del XIV secolo, uno datato al 1319, l’altro al 1349, elencano una serie di possedimenti posti nella città, nel suo distretto e forse nelle sue prossimità (ACV, pergg. 398 e 515). Si chiariscono così i confini dell’insediamento che comprendevano l’area della Farnesiana per attestarsi verso il Mignone nella zona dell’attuale Casalaccio, che è probabilmente identificabile con il «castrum de Breccis» citato nei documenti. Il toponimo Brecciaro è, infatti, attestato nella zona, a non molta distanza 5. LA BIANCA E I PRIMI INSEDIAMENTI MINER ARI Quanto sta emergendo dallo scavo della Bianca si colloca in un panorama ben più ampio legato alla scoperta dell’alunite sui Monti della Tolfa, tra la fine del 1460 e i primi mesi del 1461 (Ait 2014), e alle profonde trasformazioni indotte nel paesaggio da tale avvenimento. Parallelamente all’affermazione dell’industria estrattiva nell’area si assiste alla nascita di nuovi insediamenti o alla rivitalizzazione di centri di origine medievale connessi alle attività produttive e al controllo del bacino minerario. Allo stesso tempo l’intervento diretto dei pontefici nella zona accelera la crisi di alcuni insediamenti medievali, sancendo la fine delle dominazioni signorili con l’acquisto di Tolfa Vecchia e la distruzione di Tolfa Nuova (Vallelonga 2006a, pp. 196-198). Lo storico cornetano Muzio Polidori, nel XVII secolo, attribuiva a Giovanni di Castro la paternità di uno dei primi insediamenti nell’area. Lo scopritore dei giacimenti di alunite, stando al suo racconto, avrebbe infatti ottenuto da Pio II l’autorizzazione a costruire un «edifitio per l’alume, ma anco di edificar forno di vena di ferro et molino a grano nelle ruine della chiesa di S. Severa, hora S. Severella» (Polidori 1977, p. 260). Quest’ultima è identificabile nell’attuale località La Farnesiana ed è nota già in un documento farfense del 939 e citata più volte nei secoli XIII-XIV, tra i possedimenti di Cencelle e anche come pertinenza dell’eremo della Trinità presso Allumiere (Vallelonga 2006a, p. 197; Mazzon 2014, pp. 205-206, doc. LXXII, pp. 220-221 doc. LXXVII, pp. 266-268, doc. XCII, pp. 269-273, doc. XCIII, pp. 315-316, doc. CVII; ACV, perg. 398; ACV, perg. 1497). Quest’area fu del resto oggetto di interesse degli appaltatori dell’allume, come sottolineato da I. Ait, con specifico riguardo alle tenute della «Montexana» e «Montexanela», citate in un appalto del 1492 e già note tra le dipendenze del castello di Monte Cocozzone (Ait 2014) 7. I toponimi sono rintraccia7 S. Passigli ne sottolinea l’importanza per l’approvvigionamento di legna (Passigli 2014, p. 210). Il castello di Montecocozzone è attestato per la prima volta nel 1235 è stato a lungo oggetto di contesa tra Viterbo, Tarquinia e Roma. Le vicende del castello e della sua tenuta ci sono note a grandi linee sino al XV secolo (Cola 1985, pp. 69-85; ACV, perg. 1457; ACV, perg. 2737). 64 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? dal Casalaccio, presso Poggio Campo Sicuro, ma è possibile che in origine indicasse un’area più estesa caratterizzata dalla presenza di sedimenti fluviali. Del resto nelle strutture dell’attuale Casalaccio è ancora riconoscibile una planimetria organizzata attorno ad un cortile centrale cinto da mura e protetto da una torre, già riconosciuta come antica nel 1800, quando l’architetto Ignazio del Frate, incaricato dal Monte di Pietà di Roma, di costruire in loco un «procojo da vacche», riconobbe «un recinto quadrato di muri di antica costruzione, alti dal piano della terra palmi 20. Sulla estremità dei quali si veggono de’ così detti merli che uniti alla esistenza di una diruta torre, addimostrano il carattere di un’antico [sic] fortino» (ASFR, Fondo Monte di Pietà, sezione II, serie 1, b. 2, fasc. 4). È importante ricordare che proprio in quest’area sono individuabili i toponimi «Piano della Montigiana» e «Prato della Montigiana», probabilmente quindi in corrispondenza delle tenute della «Montexana» e «Montexanella» dell’appalto del 1492, citate nelle righe precedenti. I possedimenti di Cencelle, come si è detto, si spingevano sino all’Eremo della Trinità, presso Allumiere, dove durante l’appalto del Chigi fu aperta una cava e non è inverosimile pensare che anche a Giovanni di Castro fosse nota la presenza del minerale in questa zona, ma rimane un’ampia zona d’ombra che corrisponde proprio all’area mineraria che doveva essere al confine tra Tolfa Vecchia, Tolfa Nuova e Cencelle. Tra i possedimenti viene nominato il «castellare Tolfiziole», molto probabilmente identificabile con l’altura della Tolficciola, a poca distanza da Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova, il documento non specifica con chiarezza se esso fosse compreso all’interno del «districtus» della città, ma potrebbe essere un forte indizio della penetrazione di Cencelle verso l’interno dell’area montuosa. A testimonianza del profondo coinvolgimento di Corneto e della sua classe dirigente al di là del Mignone, fino nel cuore del bacino minerario, bisogna infine ricordare che Bartolomeo Vitelleschi, primo vescovo della neonata diocesi di Corneto-Montefiscone fu insignito, nel 1435, del feudo di Tolfa Nuova (Canonici 2011, p. 329). Quest’ultimo insediamento è il grande assente dalle trattative legate alla nascente industria dell’allume. Dopo Corneto, infatti, vengono coinvolti nell’impresa mineraria i signori di Tolfa Vecchia dai quali, sempre nel corso del 1461, Giovanni di Castro ottiene il permesso di estrarre e lavorare il minerale presente nel loro territorio (Ait 2014). Mai invece nelle trattative è coinvolta Tolfa Nuova. Il centro è citato almeno a partire dal 1223 quando appare costituito in libero comune (ACV, perg. 1062). Nel 1235 appare il nome di Gerardo di Cappello che risulta signore di Tolfa Nuova (ACV, perg. 1119). L’insediamento, come testimoniato dai documenti dell’Archivio dell’Ospedale del S. Salvatore e dell’Archivio Orsini, è molto attivo nel corso del secolo XIV, dominato dai signori della Tolfa è in grado di mettere in campo una politica molto aggressiva, fatta di rapine ai danni di castelli vicini, come quelli di Carcari, di Statua e di Santa Severa, ma anche di una politica di penetrazione e conquista territoriale che lo porta a controllare il castello di Monte Castagno, la Castellina del Marangone e la stessa Santa Marinella (Ait 2014; Archivio UCLA, Box 61, folder 7-vecchia segnatura I.A.I.4-I.A.I.5). Proprio nelle vicende legate alla conquista di Carcari si hanno probabilmente i precedenti che causeranno la definitiva acquisizione di Tolfa Nuova ai di Vico. Nel 1349, infatti, Nerio del fu Baldo dei Signori di Tolfa Nuova promette al prefetto Giovanni di Vico di rivendere solo a lui e ai suoi eredi il castello con il suo tenimento (ACV, perg. 3168). Del resto, come notato da I. Ait, la presenza dei di Vico nel castello è attestata dall’esistenza di un loro palazzo sulla sommità dell’insediamento (Ait 2014) e i Prefetti e i nobili di Tolfa Nuova si trovano già insieme nel 1247-1248, all’epoca di Innocenzo IV. Nel 1430 Tolfa Nuova è ormai proprietà di Giacomo II di Vico e verrà coinvolta nelle lotte tra questi ultimi e i pontefici. Una serie di eventi bellici traumatici che portarono probabilmente al graduale spopolamento dell’insediamento la cui rocca fu «scarcata» in almeno due occasioni, nel 1432 e nel 1435. Il castello appare quindi disabitato nel 1460, quando viene occupato da Everso d’Anguillara che ne riedifica le mura e cerca di ripopolarlo, stando almeno alla testimonianza di Niccolò della Tuccia (Vallelonga 2006a, pp. 182-183). Nel decennio seguente il centro fu ancora oggetto di contese e del tentativo dei pontefici di insediarvi un castellano. Fu proprio questa continua instabilità, che poteva risultare dannosa all’attività delle cave, a determinare la distruzione del castello voluta da Sisto IV, al momento della restituzione della tenuta agli Orsini, nel 1471 (Muntz 1882, p. 235). Una politica finalizzata all’abbandono dei vecchi castelli di origine medievale che porta alle estreme conseguenze quella già prefigurata da Pio II, che invitava gli operai a non recarsi nei castelli infestati dalla peste, e proseguita da Paolo II che aveva cercato di impadronirsi con la forza di Tolfa Vecchia (Nardi Combescure 2002, p. 129). Anche gli insediamenti di Rota e della Castellina del Marangone furono coinvolti nella ridefinizione del territorio determinata dall’attività mineraria (Vallelonga 2006a, p. 198; Vallelonga 2006b, p. 154). Per il secondo in particolare abbiamo recenti dati emersi dalle indagini archeologiche che confermano la frequentazione del sito a partire dal periodo tardo romano e per tutto il periodo medievale (Prayon 2016, pp. 153-168). L’insediamento è certamente identificabile, come già indiziato dalla toponomastica, con il castello di S. Silvestro, la cui esistenza è testimoniata da un documento dell’archivio Orsini, datato al 1289, che ci rivela come all’epoca il fortilizo fosse soggetto ai signori di Tolfa Nuova e dotato di un palazzo e di una chiesa (Archivio UCLA, Box 61, folder 7-vecchia segnatura I.A.I.4). Gli scavi nell’area centrale dell’insediamento, in corrispondenza di un zona pianeggiante (area B) hanno rivelato l’esistenza di due importanti fasi costruttive riferite a un grande edificio denominato Casale I, databile tra la fine del XIV secolo e gli inizi del successivo. Questo edificio venne ristrutturato agli inizi del XV secolo e rimase attivo sino agli inizi del secolo XVII secolo (Casale II), proprio in concomitanza con lo sfruttamento minerario quindi, ed è da rilevare la similitudine con quanto riscontrato, sempre su base archeologica, negli scavi di Cencelle, tra la fine del XV e gli inizi del XVII secolo (Stasolla 2014, p. 141). Si potrebbe quindi ipotizzare che l’edificio potesse rappresentare il ‘centro direzionale’ della tenuta della Chiaruccia, funzione a cui si dovrebbe la protratta frequentazione del sito, ipotesi più convincente di quella avanzata nelle prime fasi dell’indagine che voleva l’insediamento posto a controllo della via di transito dell’allume diretta a Civitavecchia, che 65 F. Vallelonga in realtà correva a nord-ovest di esso, alla distanza di ca. 5 km (Gran Aymerich, Prayon 1996, p. 1127; Vallelonga 2012b, pp. 120-122). La tradizione più consolidata vuole che le prime cave siano state aperte nell’area centrale dei Monti della Tolfa, tra Tolfa Vecchia e Allumiere. Le zone interessate sarebbero state quelle nella Selva degli Sbroccati (La Concia) e La Bianca (Zifferero 1996, pp. 745-748). Nella prima località sono ancora rintracciabili delle murature, nel sottobosco, probabilmente pertinenti alle infrastrutture per le cave, che sarebbe di estremo interesse indagare in maniera più accurata (fig. 1, nn. 8-9) 8. In località La Concia, presso l’odierno casale lì presente, sono emerse, durante dei lavori di scavo, interrotti e purtroppo immediatamente ricoperti in seguito alla scoperta, delle strutture murarie, anch’esse forse pertinenti ad opifici connessi con l’industria dell’allume (fig. 1, n. 7). A queste considerazioni si deve aggiungere però l’apporto di un’altra fonte di estrema importanza che è rappresentata dalle memorie di fra Zenobi Simoni da Pescia, eremita di Monte Senario che nel XVII secolo dimorò a lungo presso il santuario di Cibona, sito a poca distanza dalla Bianca (Dias 2008). Nei suoi scritti il religioso si occupò ampiamente della storia del santuario di Cibona e dell’origine dell’impresa dell’allume. In particolare nelle «Memorie antiche delle Lumiere», ci ha lasciato una descrizione particolareggiata delle cave aperte presso La Bianca, affermando che lì Agostino Chigi avrebbe spostato l’industria estrattiva, costruendo una fornace, caldaie, piazze per il minerale, un palazzo e la stessa cappella dei minatori dove fece «dipingere Madonna Santa Maria col suo Bambinello, Misere Santo Pietro e Misere Santo Agostino» (Cugnoni 1883, pp. 153-155). Quello che non torna però nel racconto dello Zenobi è l’inquadramento cronologico: egli infatti, con attenzione cronachistica, riferì questi avvenimenti al 1464-1465, ben prima degli appalti del Chigi. La difficoltà risiede proprio nell’individuazione dell’errore di Zenobi, se esso cioè riguardi la datazione degli avvenimenti o l’identità del protagonista del racconto. Gli storici che si sono occupati dell’argomento sono ormai propensi a considerare valida la datazione degli avvenimenti raccontati e ad attribuire la paternità delle opere descritte alla figura di Giovanni di Castro, ritenendo così La Bianca il più antico insediamento minerario (Dias 2008, pp. 127128; Baldini 2003). Si potrebbe, comunque, più cautamente riferire genericamente la cappella alla prima fase di sfruttamento minerario, poiché non mi sembra ci siano elementi che la possano ricondurre proprio alla figura del di Castro. L’attribuzione della cappella al Chigi, può essere effettivamente dovuta non a una svista di Zenobi, bensì alla precisa volontà di glorificare la figura del banchiere senese e attirarsi la simpatia del pontefice Alessandro VII (Fabio Chigi), al quale erano indirizzati i suoi scritti. In aggiunta a questo bisogna considerare che le testimonianze coeve all’appalto di Agostino Chigi ricordano il suo soggiorno presso «la ternità», cioè presso l’Eremo della Trinità dove era stata aperta una cava d’allume, o a una non meglio identificata «Lumiera» ed è nota l’esistenza di una sua abitazione collocata genericamente presso le cave (Rowland 2001, pp. 70-71, 78, 80, 177; Luzio 1886, pp. 528-529). Se è difficile comprendere a quale luogo si riferisca effettivamente la «Lumiera» citata nell’epistolario del Chigi, con più sicurezza possiamo localizzare alla Bianca la sottoscrizione di un altro documento, indirizzato al Chigi e datato al 1508, riguardante i lavori intrapresi alla chiesa della Sughera, in cui per la prima volta si citano esplicitamente «le lumere bianche», lasciando pochi dubbi sull’identificazione del toponimo (Cugnoni 1879, pp. 483-484). Nel carteggio riguardante la costruzione della chiesa della Sughera, in una lettera del 1504, Agostino lamenta gli elevati prezzi per la costruzione e li raffronta con i costi «di q(ue)lli ch(e) han(n) o murata la chiesa». Non è chiaro a quale chiesa si riferisca il Chigi, poiché manca qualsiasi altra specifica in tal senso. Secondo N. Mannino la chiesa citata sarebbe identificabile con la cappella della Bianca, che quindi l’autrice riconduce al banchiere senese, mentre E. Brunori era più propenso a credere che il testo si riferisse ad interventi successivi effettuati all’epoca del Chigi sulla chiesa (Mannino 1997, p. 137; Brunori 1985, p. 36). Un’ulteriore testimonianza che il sito della Bianca era precedente all’epoca di Agostino Chigi è fornita da un Chirografo dell’epoca di Urbano VIII, del 12 gennaio 1635, che dà facoltà a Tullio aiutante delle milizie di Castel S. Angelo, Massimo e «fratelli de’ Celli» della Tolfa di restaurare alcune case nel territorio di Tolfa in «luoco d(ict)o La Bianca, che altre volte in tempo della felice m(aest)à di Pio II nostro pred(ecessor)e erano habitate e servivano per il magistero delli Allumi» (ASR, Camerale I, Chirografi, registro 160, n. 617) 9. La questione merita sicuramente degli approfondimenti ed è utile puntualizzare quanto emerso negli ultimi anni in tal proposito. In primo luogo l’insediamento della Bianca si colloca su una direttrice viaria più antica, probabilmente in uso nel Medioevo. Una testimonianza in tal senso è rappresentata dalla retrodatazione della piccola cappella dedicata alla Vergine, che si trova proprio lungo il percorso tra la chiesa di Cibona e La Bianca, e precedentemente ritenuta coeva all’impresa mineraria (fig. 1, n. 4). La scoperta di affreschi attribuibili al XIV secolo testimonia l’esistenza di un’edicola sacra in quest’area ben prima dell’inizio dello sfruttamento minerario (Baldini 2003, pp. 29-37). I dati di scavo, ancora in corso di elaborazione, non consentono l’individuazione di chiare cesure cronologiche in un periodo presumibilmente di circa 40-50 anni, cioè dall’attivazione delle miniere all’operato del Chigi, circoscrivibile quest’ultimo nell’ambito di un ventennio, tra il 1500 e il 1520. La cronologia dei materiali rinvenuti, se da un lato è pienamente ascrivibile al periodo esaminato, sembra suggerire una certa antichità del contesto, testimoniata soprattutto dalla presenza delle maioliche arcaiche, addirittura un possibile indizio di una precedente frequentazione dell’area, se letto unitamente alla scoperta degli affreschi presso la cappelletta di Cibona. Anche la scansione temporale delle due fasi cimiteriali, contraddistinte da differenti orientamenti, potrebbe essere compatibile con una sequenza, che vedrebbe 9 Devo l’informazione dell’esistenza di questo documento a Don Augusto Baldini, esperto conoscitore della storia locale, che ringrazio per la disponibilità e per le indicazioni che mi ha fornito. Ringrazio il sig. G. Padroni per avermi indicato l’esistenza di queste strutture. 8 66 L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori? la prima sepoltura con gruzzolo inquadrabile ancora nella seconda metà del XV secolo e quella successiva, quella con le monete d’oro, nei primi decenni del secolo XVI. Questo suggerimento cronologico non può però che essere trattato con la massima cautela vista la lunga circolazione di queste monete, l’arco cronologico molto ampio da esse abbracciato all’interno di uno stesso gruzzolo e, in ultima analisi, le circostanze di formazione dei gruzzoli stessi. Alla seconda fase potrebbero inoltre collegarsi anche delle modifiche strutturali testimoniate dalla tamponatura dell’ingresso laterale della chiesa e dall’aggiunta dell’ambiente quadrangolare sul lato nord; questi interventi potrebbero essere riferibili all’operato del Chigi e aver contribuito a tramandare il ricordo di un suo intervento nell’area, come voleva E. Brunori. Il numero delle sepolture finora scavate, che non dovrebbe essere di molto inferiore al totale degli individui accolti nel cimitero, anche se rimangono ancora da scavare la zona a sud della chiesa e quella retrostante l’abside, sembra invece più compatibile con una cronologia breve, considerando il numero di operai impegnato nelle miniere che all’epoca del Chigi, ad esempio, era di ca. 500 persone (Passigli 2014). Questo ovviamente a patto che tutti fossero seppelliti presso questo luogo di culto. La documentazione scritta e i documenti del catasto Alessandrino dimostrano inoltre l’esistenza di altri piccoli agglomerati presso le cave (Santacroce 2014, pp. 30-31) 10. Di questi sappiamo ancora molto poco sia sulle fasi iniziali che sull’epoca di abbandono. L’insediamento della Bianca tuttavia sembra essere tra essi il più strutturato e quello destinato a una più lunga continuità di vita. Fino al trasferimento dell’attività direzionale a Monte Roncone (Allumiere), intorno al 1580, la direzione delle miniere si trovava alla Bianca e l’insediamento era dotato di una serie di botteghe artigiane accuratamente elencate in un inventario del 1572 (ASR, Camerale III, b. 2360; Santacroce 2014, pp. 30-34). I risultati dello scavo e le fonti scritte convergono invece sull’epoca dell’abbandono dell’edificio, ma non del villaggio quindi, che può ascriversi entro il primo trentennio del 1500, probabilmente poco dopo il 1522, quando nel santuario costruito dallo stesso Agostino alla Sughera, presso Tolfa, verrà spostato il luogo di culto e di sepoltura dei minatori, all’interno della Cappella di Sant’Antonio Abate (Mannino 1997, p. 139). Ait I., 2014, Dal governo signorile al governo del capitale mercantile: i Monti della Tolfa e ‘le lumere’ del papa, «Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge» [En ligne], 126-1 | 2014, ultima consultazione 3/9/2016. 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It’s still unclear if the commissioner of the chapel was Giovanni di Castro, who discovered the alum mines in 1460, or Agostino Chigi, a banker from Siena, who was the mining contractor at the beginning of the 16th century. 68 Marica Baldoni*/**, Marianna D’Amico*, Giovanni Arcudi**, Cristina Martínez-Labarga* I MINATORI DELL’ALLUME: LA STRUTTUR A DELLA POPOLAZIONE ALLA LUCE DELLE ANALISI ANTROPOLOGICHE Alum miners: population structure in the light of anthropological analysis 1. INTRODUZIONE non necessariamente sono costituiti da tutti gli individui della popolazione in esame (Ubelaker 1989; Alesan, Malgosa, Simó 1999). In un certo senso l’analisi paleodemografica e l’analisi antropologica in generale si riflettono in un paradosso: analizzare i morti per comprendere i vivi (Wood et al. 1992; Alesan, Malgosa, Simó 1999). Il presente lavoro riporta i risultati delle analisi preliminari condotte tra il 2015 e il 2016 e presentate in occasione del convegno sui paesaggi dell’allume tenutosi a Roma e Siena dal 9 all’11 maggio 2016. L’analisi dei resti scheletrici provenienti dal cimitero di La Bianca è stata sottoposta ad analisi più approfondite e multidisciplinari volte alla ricostruzione archeo-biologica di questa popolazione e presentate nel lavoro di Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018). Il nostro scheletro può essere considerato come un vero e proprio archivio biologico che conserva non solo le informazioni contenute nel nostro patrimonio genetico ma può conservare anche informazioni circa le abitudini di vita, gli stress funzionali e/o nutrizionali occorsi durante la vita dell’individuo e molto altro (Fornaciari, Mallegni 1981; Fornaciari, Mallegni 1989; Borgognini Tarli, Pacciani 1993), pertanto l’antropologo attraverso l’identificazione e l’analisi di tracce sulle ossa può ricostruire la biografia antemortem di un individuo e, più in generale, di una popolazione (Borgognini Tarli, Pacciani 1993; Cattaneo, Grandi 2004). Scopo del presente lavoro è l’analisi dei resti scheletrici rinvenuti presso il sito di La Bianca (Allumiere, VT). Verranno presi in considerazione in questa sede i risultati delle analisi volte alla determinazione del sesso e dell’età al momento della morte presentate nel 2016 in occasione del convegno “I paesaggi dell’allume: archeologia della produzione ed economia di rete/Alum landscapes: archaeology of production and network economy”, il prosieguo delle analisi antropologiche sia morfologiche sia molecolari e le analisi archeobotaniche sono state pubblicate nel lavoro di Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018). L’analisi antropologica è stata volta inizialmente a definire il quadro paleodemografico della popolazione in esame in quanto esso rappresenta un punto di partenza imprescindibile per le successive analisi sia morfologiche sia molecolari. Pertinenza della paleodemografia è l’identificazione dei parametri demografici di popolazioni del passato, quali ad esempio il tasso di natalità e di mortalità, l’aspettativa di vita, la frequenza di mortalità nelle diverse classi di età (BocquetAppel, Masset 1982; Hill, Hurtado 1995). L’analisi paleodemografica permette quindi, a partire da questi parametri, di ricostruire la struttura della popolazione in esame (Howell 1986). La teoria paleodemografica si basa su una serie di assunzioni, prima tra tutte che la stima del sesso e dell’età alla morte del campione in esame rifletta la reale composizione per sesso ed età della popolazione reale, tuttavia è necessario considerare che i resti scheletrici di provenienza archeologica 2. MATERIALI E METODI Una volta giunti in laboratorio si è proceduto a un’iniziale fase di pulizia a secco al fine di rimuovere l’eccesso di terra dai reperti osteologici. Sebbene possa sembrare banale, la fase di pulizia riveste una notevole importanza e rappresenta una fase molto delicata dello studio. La terra è stata rimossa mediante l’uso di bisturi e specilli unitamente a spazzole e spazzolini a setole morbide. Data la rilevanza dei resti in esame è stata effettuata la sola pulizia a secco, evitando qualunque contatto dei resti con l’acqua per evitare danni che avrebbero potuto inficiare le analisi molecolari (Borgonigni Tarli, Pacciani 1993). Una volta puliti, i resti sono stati restaurati prima di procedere all’analisi vera e propria. Il primo elemento imprescindibile di un’analisi antropologica è la definizione del numero minimo di individui (NMI), ovvero l’elemento osseo più rappresentato tenendo conto della lateralità dello stesso nonché del sesso e/o dell’età alla morte (Buikstra, Ubelaker 1994; Duday 2006; White et al. 2012). La stima del sesso è stata effettuata prendendo in considerazione cranio, mandibola e bacino, secondo il metodo proposto da Acsádi e Nemeskéri (AcsÁdi, Nemeskéri 1970), rivisto da Ferembach e collaboratori (Ferembach et al. 1977-1979) unitamente alla metodica messa a punto da Phenice (Phenice 1969), che permette la stima del sesso dalla sola analisi della sinfisi pubica mostrando un’attendibilità del 96% anche in resti scheletrici frammentati (Phenice 1969). La stima del sesso è stata effettuata sul solo campione adulto, dal momento che nei non-adulti (individui che non hanno ancora raggiunto la piena maturità scheletrica) il mancato sviluppo dei caratteri sessuali secondari può condurre a un risultato fuorviante e poco attendibile (Scheuer 2002). * Laboratorio di Biologia dello Scheletro e Antropologia Forense, Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” (marica. baldoni@gmail.com; cristina.martinez@uniroma2.it; marianna.damico0810@ gmail.com). ** Laboratorio di Medicina Legale, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Chirurgia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” (arcudi@med. uniroma2.it). 69 M. Baldoni, M. D’Amico, G. Arcudi, C. Martínez-Labarga La stima dell’età alla morte è stata invece condotta sull’intero campione scheletrico a disposizione. Per il campione adulto sono stati utilizzati metodi proposti da diversi autori 1. Analogamente anche per i non-adulti sono state utilizzate metodiche differenti per la stima dell’età alla morte 2. In questo modo è stato possibile suddividere l’intero campione in esame in classi di età. Una volta delineato il quadro paleodemografico della popolazione in esame, è stato condotto uno studio più approfondito al fine di tentare una vera e propria ricostruzione biologica di questa popolazione. Sono state raccolte informazioni in letteratura su popolazioni italiane al fine di inquadrare il campione in esame nello scenario della Penisola. Nel presente lavoro si riportano esclusivamente i risultati preliminari dell’analisi paleodemografica condotta tra il 2015 e il 2016 e presentata in occasione del convegno del 2016. Le analisi antropologiche si sono successivamente concentrate sulla stima della statura, sullo studio dei marcatori di stress muscolo-scheletrico (inserzioni di tendini, muscoli e legamenti sull’osso), e sull’analisi paleopatologica. Tali risultati unitamente a quelli derivanti dalle indagini molecolari e archeobotaniche sono riportati nel lavoro pubblicato nel 2018 da Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018). fig. 1 – Distribuzione per età del campione scheletrico rinvenuto presso il cimitero di “La Bianca”. 3. RISULTATI E DISCUSSIONE Il calcolo del NMI offre il punto di partenza per tutte le successive analisi (Buikstra, Ubelaker 1994; White et al. 2012). Il NMI stimato è risultato pari a 70 individui totali, 90% adulti e 10% non-adulti (Baldoni et al. 2018). La stima del sesso, come sottolineato precedentemente, è stata condotta sul solo campione adulto. I risultati ottenuti mostrano una netta prevalenza di maschi (68,5%) rispetto alle femmine (8,6%). Purtroppo in un 12,9% dei casi non è stato possibile procedere alla stima a causa del cattivo stato di conservazione e dell’elevata frammentarietà dei resti scheletrici a disposizione; tali individui sono stati identificati come NR (non registrabili) (Baldoni et al. 2018). L’elevata presenza di individui di sesso maschile si riflette anche nel valore di sex-ratio, ovvero nel rapporto tra individui di sesso maschile e individui di sesso femminile. Tale valore per la popolazione in esame è risultato pari a 8,00, mostrando una netta prevalenza del sesso maschile sul femminile (Baldoni et al. 2018). Tale valore, se confrontato con i valori di altre popolazioni italiane, coeve si mostra al di fuori della media ed eccezionalmente alto (tab. 1). Come mostrato in tab. 1 i valori di sex-ratio si aggirano intorno all’unità, con lievi eccezioni come Bologna, che mostra invece una netta prevalenza di individui di sesso femminile (Brasili, Veschi 1998). Nella popolazione di La Bianca si nota al contrario un netto sbilanciamento del sesso maschile, a testimoniare la particolarità dell’area cimiteriale che si ritiene collegata alle vicine cave di Allumiere. Anche ipotizzando che gli individui per i quali non è stato possibile fornire la stima del sesso fossero di sesso femminile, il valore di sex-ratio sarebbe comunque pari a 3,7 e pertanto si fig. 2 – Distribuzione del campione adulto per sesso ed età alla morte. discosterebbe dai valori riscontrati per le popolazioni coeve. Il risultato ottenuto non stupisce in quanto, nel campione in esame, è la natura del contesto archeologico che permette di spiegare lo sbilanciamento osservato tra i due sessi nonché le differenze riscontrabili con altri campioni provenienti da altri siti italiani. L’analisi si è quindi focalizzata sulla stima dell’età alla morte, prendendo in considerazione l’intero campione scheletrico a disposizione. I risultati della distribuzione per età del campione sono mostrati in fig. 1. Come si evince dal grafico, nel 12,9% dei casi non è stato possibile assegnare una specifica classe d’età a causa del cattivo stato di conservazione e dell’elevata frammentarietà dei resti scheletrici a disposizione, e gli individui sono stati definiti genericamente adulti (GA). Si riscontra la presenza di due individui perinatali, ma il picco di mortalità si osserva nelle classi 19-30 e 31-40 anni, la mortalità nei due sessi è tuttavia probabilmente ascrivibile a cause differenti. I risultati della valutazione della mortalità differenziale tra i due sessi sono mostrati in fig. 2. Come evidenziato dal grafico, per le donne il picco di mortalità si osserva nelle classi 19-30 e 31-40 anni; tale mortalità può essere correlata alle complicazioni durante la gravidanza o il parto, nonché all’insorgenza di infezioni che sono maggiormente comuni nelle donne in stato interessante a causa di un abbassamento delle difese immunitarie (Kamel 1984; Roberts et al. 2001; 1 Si rimanda in particolare a: Todd 1920; Brothwell 1981; Işcan et al. 1984; Işcan et al. 1985; Lovejoy et al. 1985; Meindl, Lovejoy 1985; Brooks, Suchey 1990. 2 Fazekas Kósa 1978; Stloukal, Hakanova 1978; Hoffman 1979; Ubelaker 1989; Scheuer, Black 2004; 70 SITO Allumiere Santa Severa (RM) Bergamo (BG) Torcello (VE) Padova (PD) Bologna (BO) Cencelle (VT) Albano (RM) Colonna (RM) DATAZIONE XV-XVI sec. d.C. IX-XIV sec. d.C. VII-XII sec. d.C. X-XII sec. d.C. IX sec. d.C. X-XI sec. d.C. IX-XV sec. d.C. XI-XII sec. d.C. VIII-X sec. d.C. sex-ratio 8,00 1,40 1,00 1,35 1,00 0,44 1,43 1,55 1,41 NON-ADULTI 10% 41,3% 6,7% 34,0% 26,3% 32,3% 37,5% 22,5% 38,0% ADULTI 90% 58,7% 93,3% 66,0% 73,7% 67,7% 62,5% 77,5% 62,0% BIBLIOGRAFIA presente ricerca; BALDONI et al. 2018 GNES et al. 2018 BRASILI, VESCHI 1998 BRASILI, VESCHI 1998 BRASILI, VESCHI 1998 BRASILI, VESCHI 1998 BALDONI 2019 CIAFFI et al. 2015 BALDONI et al. 2016 tab. 1 – Confronto relativo al valore di sex-ratio e delle percentuali di adulti e non-adulti della popolazione in esame con altre popolazioni italiane coeve. ereditato esclusivamente per linea materna, potrebbe ovviare questo limite. Il resto del campione mostra un picco di mortalità tra i 7 e i 12 anni; tale valore potrebbe essere spiegato con il passaggio dalla prima alla seconda infanzia, nonché con il probabile inizio di uno stile di vita molto simile a quello degli adulti anche a livello di attività lavorative. Si è quindi proceduto al calcolo dell’indice di giovanilità (IJ), ovvero il rapporto tra il numero di individui di età compresa tra i 5 e i 14 anni (D5-14) e il numero di individui di età superiore ai 20 anni (D20-x). Tale valore è risultato essere 0,06; i valori di riferimento secondo Bouquet-Appel e Masset (Bouquet-Appel, Masset 1977) sono compresi tra 0,1 e 0,3, il che indica che nel campione in esame i non-adulti sono poco rappresentati. Il risultato non stupisce anzi avvalora l’ipotesi che l’area cimiteriale rispecchiasse la realtà dei lavoratori dell’allume. È stato quindi calcolato l’indice bambini/adolescenti (B/A) al fine di valutare se, all’interno del campione dei subadulti, ci fosse uno sbilanciamento tra individui più piccoli (D5-9) e più grandi (D10-14). Tale indice ha restituito un valore di 1,0 al di sotto dei valori di riferimento compresi tra 1,5 e 2,0 (Bouquet-Appel, Masset 1977), il che indica che il campione dei bambini è poco rappresentato. Come si evince dai dati riportati in tab. 1, le percentuali riscontrate per la popolazione di La Bianca si discostano da quanto riscontrato per popolazioni italiane coeve. Avendo a disposizione la mappa dell’area cimiteriale si è cercato di valutare eventuali differenze nella disposizione degli inumati a partire dai dati paleodemografici. La mappa dell’area cimiteriale con le informazioni paleodemografiche del campione è riportata in fig. 4; in blu sono indicati gli individui di sesso maschile, in rosso quelli di sesso femminile, in verde gli individui per i quali non è stato possibile stimare il sesso e in viola i non-adulti. Sebbene la mappa sia aggiornata al 07/03/2016, non è possibile osservare una disposizione dei corpi in relazione al sesso degli inumati il che, ci fa escludere la presenza di aree di sepoltura e forse anche di rituali differenziali all’interno della comunità. Una volta delineato il quadro paleodemografico l’analisi antropologica è stata rivolta allo studio dei marcatori di stress muscolo-scheletrico, al fine di ricostruire le attività della popolazione di Allumiere e provare a relazionare ciascun individuo a una specifica fase di lavorazione dell’allume. Tali dati unitamente a quelli derivanti dall’analisi paleopatologica e dalle analisi molecolari e archeobotaniche sono riportati nel lavoro di Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018). fig. 3 – A sinistra resti scheletrici dell’US 108 di un feto di 5 mesi di gestazione, a destra quelli dell’US 349, un feto a termine. Rothberg et al. 2008; DeWitte 2017). Data la ridotta rappresentazione degli individui di sesso femminile nel campione in esame, tuttavia, qualsiasi considerazione relativa alla mortalità osservata è da considerarsi come una mera ipotesi in quanto la numerosità campionaria non consente di approfondire l’interpretazione dei dati riscontrati. Per gli uomini invece il picco maggiore si evidenzia nella classe 31-40 anni; in tal caso la mortalità maschile potrebbe essere correlata al sovraccarico lavorativo e il relativo stress fisico legato alla complessa lavorazione dell’allume. Solo pochi individui raggiungono un’età avanzata, probabilmente a causa dello stile di vita di questa popolazione nonché delle scarse condizioni igienico-sanitarie. Non si può infine escludere che la mancanza di donne al di sopra dei 50 anni di età possa essere legata all’esiguo numero di queste ultime nel campione oggetto di studio. Per quanto riguarda i non-adulti, il 2,9% della mortalità risulta ascrivibile tra i perinatali (individui al di sotto dell’anno di età); nel caso del cimitero di La Bianca questi sono rappresentati da due feti, l’US 108 un feto di 5 mesi di gestazione e l’US 349 un feto a termine. Entrambi i feti sono riportati in fig. 3. Per nessuno dei due è stato possibile, allo stato attuale dell’analisi, fare ipotesi sulla madre, l’analisi del DNA e in particolare del DNA mitocondriale (mtDNA), 71 M. Baldoni, M. D’Amico, G. Arcudi, C. Martínez-Labarga fig. 4 – Mappa dell’area cimiteriale con le indicazioni paleodemografiche. In blu gli individui di sesso maschile, in rosso quelli di sesso femminile, in verde gli individui adulti per i quali non è stato possibile formulare alcuna ipotesi sul sesso e in viola i non-adulti. La mappa riportata è aggiornata al 07/03/2016. Le analisi antropologiche sono successivamente state estese a un totale di 70 individui (Baldoni et al. 2018). 4. CONCLUSIONI mortalità si concentri nelle classi 19-30 anni e 31-40 anni. Data l’eccezionalità del campione a disposizione, l’analisi anatomo-morfologica ha preso in considerazione i marcatori di stress muscolo-scheletrico e la presenza di alterazioni patologiche. Tali risultati, unitamente a quelli derivanti dalle analisi di antropologia molecolare e archeobotaniche sono riportate nel lavoro di Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018). Il presente lavoro riporta i risultati preliminari delle analisi antropologiche sui resti scheletrici dei minatori dell’allume rinvenuti presso il sito di La Bianca (Allumiere, VT) 3, ricondotti a un numero minimo di individui (NMI) pari a 70: 90% adulti e 10% non-adulti. La diagnosi di sesso è stata condotta esclusivamente sul campione adulto mentre nessuna ipotesi di genere è stata avanzata per i non-adulti, non avendo questi ultimi raggiunto la piena maturità scheletrica. Il campione appare costituito prevalentemente da individui di sesso maschile (68,5%) mentre il sesso femminile costituisce solo l’8,6% del campione. Nel 12,9% dei casi non è stato possibile determinare il genere degli individui a causa del cattivo stato di conservazione e/o dell’elevata frammentarietà dei resti scheletrici a disposizione. Il valore di sex-ratio pari a 8,00 conferma la netta prevalenza del genere maschile sul femminile. La stima dell’età alla morte ha mostrato la presenza di individui perinatali (<1 anno di età), sebbene il picco di BIBLIOGR AFIA Acsàdi G., Nemeskéri J., 1970, History of Human Lifespan and Mortality, Budapest. Alesan A., Malgosa A., Simó C., 1999, Looking into the demography of an Iron Age population in the western Mediterranean. I. Mortality. «American Journal of. Physical Anthropology» 110, pp. 285-301. Baldoni M., 2019, Beyond the autopsy table: The potentials of a forensic anthropology approach for biological profiling of unknown skeletal individuals from ancient. A morphological, metric and isotopic analysis of the Medieval population of Leopoli-Cencelle. 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Ruzicka English abstract The present research reports the results of the preliminary anthropological analyses performed on the skeletal sample recovered in the cemetery area of La Bianca (Allumiere, Rome, Italy) presented during the congress “I paesaggi dell’allume: archeologia della produzione ed economia di rete/Alum landscapes: archaeology of production and network economy” held at Roma and Siena in 9-11 May 2016. The analyses have been subsequently deepened and published along with the results of the molecular and arcaheobotanical analyses (Baldoni et al. 2018). The sample counts a total of 70 individuals 90% adults and 10% non-adults. Non-adults are clearly underrepresented and, among adults, a high prevalence of males with respect to females was observed as witnessed by the sex-ratio value (8.00). Despite the observed paleodemographic draft is different from what commonly observed in coeval skeletal sample, the obtained results are not surprising as the archaeological context witnesses the cemetery area was connected to the neighboring alum production system. 73 Chiara Carloni*, Giulia Doronzo* MODALITÀ DI ESTRAZIONE E TR ACCE DI LAVOR AZIONE DELL’ALLUME SUI MONTI DELLA TOLFA Alum: methods of extraction and traces of processing in the Tolfa mountains 1. I LUOGHI DELL’ALLUME picconi da cava, martelline, asce, mazze e punte da ferro. Si tratta quindi di utensili che non hanno subito particolari evoluzioni morfologiche nel corso dei secoli: asce e picconi vengono utilizzati per il lavoro in cava senza soluzione di continuità fino all’avvento dell’industrializzazione, quando sono sostituiti dalle macchine a vapore o dalla polvere pirica utilizzata nelle mine. Nelle cave di allume del Lazio questi strumenti rimarranno attestati fino alla chiusura definitiva delle Fabbriche Camerali, a metà XIX secolo, con il solo apporto innovativo delle mine caricate a polvere che, durante la fase estrattiva, permettevano di velocizzare il lavoro staccando enormi quantità di materiale dalle pareti che veniva poi ridotto in pezzi più piccoli (fig. 2). Durante le ricognizioni effettuate sul territorio sono stati rinvenuti fronti di cava che conservano ancora, seppure molto labili, le tracce degli strumenti: sono visibili i segni verticali lasciati dalle martelline a doppia punta, rilevati in un fronte presso la cava della Castellina; le spaccature praticate dalle asce e infine, nella zona della Cava della Bianca, i fori d’incasso per i cunei che venivano poi colpiti con le mazze praticando profonde fenditure nella roccia (fig. 3) 2. Si deve al Mignanti un’accurata descrizione del metodo di lavoro con le mine: gli operai scendono con le corde fino a metà parete e si appoggiano all’impalcatura, poi con un palo di ferro appuntito praticano un foro nella roccia che viene riempito di polvere sulfurea; il tutto veniva poi chiuso con un tappo in cui era praticata una scanalatura per la miccia, alla cui accensione seguiva la veloce risalita degli operai sulle corde e l’attesa della detonazione. La descrizione dei lavori fatta da Scipione Breislak nel 1786, cioè circa due secoli dopo, non aggiunge dati innovativi rispetto alla precedente, testimoniando una sostanziale fossilizzazione delle tecniche di estrazione (Breislak 1786, p. 30, par. XVI). Per quanto riguarda i lavoratori del ciclo di produzione dell’allume, la percentuale maggiore era sicuramente rappresentata proprio da chi operava nelle cave, attestati a 250 unità in un registro del 1557; essi erano seguiti da 148 tagliatori di pietra che si occupavano di ridurre ulteriormente la pezzatura del materiale (Delumeau 1962a, p. 70 nota 1). Queste figure professionali erano altamente specializzate: con l’esperienza maturata nel tempo, riuscivano ad individuare le vene più fertili di pietra alluminosa e la estraevano in modo da salvaguardare la propria vita e allo stesso tempo mantenere florida Nel territorio tolfetano la produzione dell’allume deriva dalla lavorazione dell’allunite o pietra alluminosa, che veniva estratta nelle numerose cave distribuite nel territorio e tra le varie forme presenti è l’allume di potassio il più conosciuto, tanto da aver dato il nome ad una lunga serie di sali. I nomi con cui questi minerali sono conosciuti, cioè “Allume di rocca” e “Allume di Roma”, derivano dai siti di rinvenimento: i primi originari della Mesopotamia a Roccha od Orfa e i secondi dal distretto dei monti della Tolfa. L’allume presente nel territorio laziale si presenta sotto forma di roccia compatta e distribuita in grossi filoni inseriti all’interno della massa di trachite, la colorazione varia dal bianco, al giallo, al rosso e al violetto, a causa della presenza di alcuni minerali metallici, come il ferro 1. Per l’estrazione dell’allume il procedimento, ampiamente descritto dai documenti d’archivio, risulta molto caratteristico, tanto che lo stesso Papa Sisto V durante una visita alle cave datata 1588 viene invitato ad assistere a questa particolare fase, definita jucundum aliquod spectaculum: sotto il controllo degli appaltatori Altoviti, Ridolfi ed Olgiati, molti minatori si calarono da rupi alte e scoscese legati con funi per la loro sicurezza. Armati di sbarre e leve di ferro atte a scalzare il materiale, iniziarono a far cadere enormi sassi che sarebbero poi stati frantumati, bruciati e sciolti in acqua per ricavarne l’allume (Mignanti 1936, pp. 91-92). Il minerale non si dispone in strati ma giace in masse o filoni compatti, perpendicolari e non molto profondi rispetto al piano di campagna; per questo motivo lo scavo inizia con una trincea abbastanza profonda, che arriva fino al centro della vena e continua a seguirla. Il risultato di tale procedimento è un profondo taglio nella montagna, che deve essere adeguatamente sostenuto con puntelli e armature. Le pareti sono verticali e gli operai lavorano su impalcature mobili in legno sorrette da corde, fissate sulla cima del fronte e destinate anche alla risalita e discesa verso la propria postazione; questo taglio diventa sempre più profondo e più largo fino a creare una vera e propria strada utilizzata dai carri per il trasporto del minerale verso le aree di trasformazione (fig. 1). Tra gli strumenti tradizionali utilizzati per l’estrazione dell’allume dalla fine del XV al XVIII secolo sono attestati * Sapienza Università di Roma (chiara.carloni@alice.it; giulia.doronzo@ uniroma1.it). 1 Si rimanda ai testi di A. Zifferero (Zifferero 1992, 1996a, 1996b) e C. Giardino (Giardino 2006) per un quadro generale sulle caratteristiche geologiche e minerarie dei Monti della Tolfa. 2 Nella Cava Grande e nella Cava Vecchia o Gregoriana, sono riconoscibili dei fori perfettamente circolari praticati per l’inserimento della polvere pirica, il cui diametro misura circa 6 cm mentre la lunghezza varia dai 40 cm ai 60 cm. 75 C. Carloni, G. Doronzo fig. 1 – Metodo di estrazione dell’allume in una illustrazione di Fougeroux de Bondaroy. fig. 2 – Traccia di mina in sezione. lavoro nel vecchio fronte, evitando l’accavallarsi di percorsi di entrata e di uscita e risparmiando alcuni gradoni per la corretta inclinazione del pendio, in modo da evitare slamature. Dalla pianta della cava denominata “Cavetta”, posizionata lungo la via delle cave, in zona Cave Vecchie, è possibile risalire ad una dettagliata descrizione dei vari settori del cantiere (fig. 4). Un elemento che caratterizza ogni cava è la strada d’accesso (A), che doveva permettere il passaggio degli animali da soma e dei carri; essa era collegata da una parte con la cava stessa e dall’altra con le fornaci per la prima cottura del materiale, era spesso stretta e costeggiata da pareti rocciose instabili. L’interno della cava si presentava come un’enorme conca di forma ellissoidale o circolare, caratterizzata da molti fronti di scavo, denominati “lumiere” e aperti in epoche differenti, tanto da essere appellate “lumiera vecchia” (H) e “lumiera nuova” (M). I fronti di estrazione erano costituiti da alte pareti di roccia intervallate da piani su cui correva la strada principale, che serviva i diversi settori e si sviluppava con l’accrescersi della cava stessa; perciò essa spesso era costituita da diversi spezzoni più o meno antichi (I, C, B). Sul fondo della conca si trovava un canale, parzialmente sotterraneo, denominato Emissario (O) che permetteva lo scolo delle acque provenienti dalla montagna ma soprattutto lo smaltimento del materiale di scarto della cava. Il canale svolgeva un’opera fondamentale all’interno del cantiere, ma andava manutenuto costantemente, pertanto i diversi appaltatori evitarono lo spurgo. L’avere ostruito zone di cava vecchie ma ancora parzialmente produttive non ne permetteva più lo sfruttamento, neanche in caso di necessità, fig. 3 – Tracce di cunei. e praticabile la cava per gli appalti futuri, assicurandosi un salario garantito nel corso del tempo. A seguito dell’individuazione del materiale e dell’apertura dei fronti di estrazione sorgevano diverse necessità logistiche che comportavano la creazione di un vero e proprio cantiere, costituito da figure professionali diverse e da infrastrutture efficienti, quali la strada creata tramite l’apertura della prima trincea, che doveva permettere la fuoriuscita del materiale con i carri e doveva essere quindi sempre praticabile e libera da detriti e dall’acqua di risalita delle falde acquifere. Prima di aprire un nuovo fronte inoltre bisognava considerare l’andamento del 76 fig. 4 – Pianta della cava denominata “Cavetta”; ASR Cam. III b. 2352/3. assai deteriorato, tanto che è possibile riconoscere solo la forma ellissoidale della cava; le pareti più alte e maggiormente esposte alle intemperie sono in gran parte sgrottate o in fase di crollo, perciò non sono più visibili le tracce di lavorazione lasciate dagli strumenti. La via d’accesso alla cava si è conservata a partire dalle fornaci sino all’ingresso, ma non sono più apprezzabili i piani stradali a NE e SE; solo sul lato Ovest è ancora rilevabile una sorta di piano orizzontale, che potrebbe far pensare alla strada carrabile. Anche le quote interne originarie sono obliterate dall’enorme interro e dal fitto bosco (fig. 5). Per la Cava della Bianca, che risulta essere la più antica attestata, non è più possibile apprezzare l’area del cantiere nascosto ormai dalla vegetazione, ma si leggono ancora diversi gradoni che occupano tutto il versante della collina e conservano qualche sporadico fronte di estrazione. Spazi angusti e poco delineati erano le strutture in cui si viveva, poiché spesso al termine del contratto si tornava ai propri paesi di origine. I piccoli agglomerati di case s’impiantavano intorno alle cave e ai siti di trasformazione: non si trattava quindi di strutture abitative frutto di una progettazione ma di insediamenti nati dalla necessità. Caratteristiche precipue di questi agglomerati erano la mobilità e la temporaneità: le semplici strutture erano realizzate da ristretti gruppi di persone o dagli stessi gruppi familiari, senza ricorrere all’esperienza di manovali specializzati. Chi invece non era in grado di sostenere la spesa di una casa si adattava a vivere negli edifici destinati alla lavorazione dell’allume (Santacroce 2014, p. 52). A partire dal 1572 si contano ben nove agglomerati, tutti caratterizzati dalla presenza di strutture legate ai processi di produzione, quali il deposito del materiale estratto, l’edificio industriale specifico (fornace e caldara), la stalla, le stanze del fattore e quelle del guardiano 4. Solo intorno al 1600 viene finalmente costruito Allumiere, un vero e proprio paese operaio, carico di una dignità urbanistica come lo era stato sino ad allora solo il paese limitrofo di Tolfa. Sarà circa un secolo fig. 5 – Cava denominata “Cavetta”. essendo il costo dello smaltimento assai elevato. Era possibile che questi emissari fossero allargati in modo da diventare veri e propri corsi d’acqua, da attraversare tramite ponti di legno, attestati sia nelle piante (P), che nell’iconografia 3. Una ricognizione nella zona della Cavetta e al suo interno ha messo in luce uno stato di conservazione del complesso 3 Una celebre veduta di Pietro da Cortona illustra il ponte costruito nella cava Grande. Pietro Berrettini detto da Cortona (Cortona 1596-Roma 1669), Paesaggio dell’Allumiere di Tolfa. Olio su tela (61×75 cm). Roma. Pinacoteca Capitolina. 4 La Bianca, Monte Roncone, Cava Nuova, Cava del Pian delle Poste, Cava del Bosco, Cave Vecchie, Taglio di Lazzarino, Taglio di Tognino, le Mole a Santa Severella. 77 C. Carloni, G. Doronzo fig. 6 – Resti di abitazioni presso le “Cave Vecchie”. dopo, nel 1737, sotto l’appaltatore Gangalandi, che verrà previsto un vero e proprio piano urbanistico del paese, tale per cui alle vecchie abitazioni dovevano esserne aggiunte di nuove, strutturate su due piani e distinte per nuclei familiari. Nel 1750, cioè dopo quasi due secoli di attività estrattiva, i nuclei abitativi erano ridotti a cinque e poi a tre; una contrazione evidentemente legata all’andamento del mercato dell’allume che, a partire dal XVII secolo, lentamente ma inesorabilmente decresce (Santacroce 2014, p. 52 e segg.). Al 1738 risale un documento ecclesiastico chiarificatore della situazione del popolamento della zona tolfetano-allumierasca, ossia uno “stato delle anime” che riporta quattro specifiche località con rispettivo numero di abitanti: alle Allumiere vivevano quarantasette famiglie; al Palazzo Camerale ossia a La Bianca sono testimoniate diciassette persone non legate da vincoli di parentela; alla Cava Gangalandi vivevano tre famiglie mentre alle Cave Vecchie ventinove famiglie, che stavano ristrutturando le loro abitazione ottemperando all’ordine pervenuto nel 1737 che intimava loro di attuare una poderosa sistemazione dell’abitato. Proprio queste strutture sono state rinvenute e sono posizionate oggi lungo Via Mario Fontana, pochi km a NE rispetto all’abitato di Allumiere. Esse sono attestate dalle fonti sin dal 1572; in seguito, nel 1737, l’abitato venne fortemente ristrutturato ed è presente ancora in una pianta antica che descrive il piano generale delle miniere nel XIX secolo (Santacroce 2014, p. 53 fig. 11; p. 55, nota 118). In seguito il sito verrà abbandonato probabilmente a seguito della chiusura delle Fabbriche Camerali, avvenuta intorno alla fine del XIX secolo. Ad oggi rimangono visibili solo due strutture abitative adiacenti, composte ognuna da due piani sovrapposti con tetto a capriate lignee; di queste l’abitazione posta a Sud è la più antica (fig. 6). Completamente ricoperte dalla fitta vegetazione sono invece ulteriori strutture di cui si indovina solo l’ingombro e che dovevano svilupparsi lungo il pianoro delineato dalla strada carrabile e dal Fosso delle Cave. 2. PROCESSI DI LAVOR AZIONE Per quanto concerne i processi di lavorazione del minerale, una prima descrizione dettagliata delle fabbriche di allume a Tolfa e degli strumenti adottati è presente nel secondo capitolo del De Pirotechnia di Vannuccio Biringuccio: «l’Allume di Rocca e le sue miniere» del 1540 (Biringuccio, De Pirotechnia 1540, II, pp. 78-81). L’autore descrive le quattro differenti fasi di lavorazione del minerale: la calcinazione, la macerazione, la lisciviazione e la cristallizzazione. Tali processi vengono similmente riportati nel De Re Metallica” da Giorgio Agricola 5. L’opera compilata circa 20 anni dopo, è arricchita anche da alcune rappresentazioni che illustrano le fasi di lavorazione e la strumentazione adottata (fig. 7). In particole nelle incisioni sono rappresentate le fornaci per la calcinazione (A), i processi relativi al raffreddamento per innaffiamento con acqua del materiale semilavorato (B); la fase della lisciviazione, il cui materiale allo stato liquido (E), veniva condotto per dei canali di legno (F) nei cassoni dove avveniva la cristallizzazione (G). Oltre a queste opere si aggiungono una serie di testi compilati nello stesso secolo e in quelli successivi, che si arricchiscono di informazioni trattando anche dell’uso delle macchine idrauliche. Diverse sono le descrizioni redatte a partire dal XVI secolo e relative alle fasi di lavorazione e trasformazione dell’alunite 6. La prima competenza segnalata dall’autore del testo era quella della scelta degli operai addetti all’estrazione della pietra, i quali dovevano avere una vasta esperienza per cavare il minerale. Inoltre, il materiale estratto veniva selezionato 5 Agricola G., 1556, De Re Metallica, pp. 458-460. Una descrizione dell’evoluzione dei processi di lavorazione in Picon M., La préparation de l’alun à partir de l’alunite aux époques antiques et médiévale, in Actes des XX rencontres internationales d’archéologie et d’histoire d’Antibes (21-23 octobre 1999), Antibes 2000, pp. 519-531. 6 Una delle più interessanti è contenuta nella fonte catastale del territorio di Allumiere, nota come il Catasto Generale delle Tenute delle Allumiere, di Lorenzo Corsini, redatto nell’anno 1696. G.D. 78 MODALITÀ DI ESTRAZIONE E TRACCE DI LAVORAZIONE DELL’ALLUME SUI MONTI DELLA TOLFA fatta evaporare. Una volta terminato questo processo l’allume raccolto in casse di legno veniva posto in un ambiente contiguo a quello della “caldara”, dove si lasciava per circa quindici giorni. In questo periodo l’allume si cristallizza e la liscia, che non subisce questa trasformazione, viene recuperata e raccolta allo stato liquido dentro dei tini comunicanti tra loro e posti a diverse pendenze, per permettere lo spostamento del liquido verso il pozzo, detto “zanfone”. In quest’ultimo la liscia superflua veniva a mischiarsi con l’acqua, per essere poi raccolta dalla ruota a tazze e posta nuovamente nella caldara per un nuovo ciclo di cottura. Infine, l’allume veniva staccato dalla cassa con l’ausilio di mazze di legno e portato nei magazzini. Nel territorio di Allumiere sono state effettuate alcune ricognizioni mirate, volte principalmente all’individuazione e documentazione delle suddette strutture produttive. Nello specifico le indagini sul campo hanno interessato tre aree, poste nello stesso comune, nelle località di La Bianca, Le Cave Vecchie e nel sito del Castagneto dei Cinque Bottini, dove sono state localizzate anche alcune delle cave di allume. La prima documentata è la fornace di La Bianca, che risulta localizzata tra le colline di Poggio Elceto e Monte Urbano. Essa è raggiungibile da un sentiero con andamento NW/SE, che si distacca a Nord dal percorso che ancora oggi collega i centri abitati della Bianca con la Tolfa. Il sentiero dopo circa 250 m piega verso SW e corre lungo le pendici meridionali delle suddette colline, per poi perdersi nella fitta boscaglia. In questo ultimo tratto il sito si raggiunge mediante un percorso caratterizzato da una sensibile pendenza, ma è probabile che originariamente il tracciato fosse meno ripido o proseguisse lungo le pendici settentrionali del poggio Elceto. Il sito di La Bianca è considerato nella tradizione storica del territorio il primo dei centri sorti per ospitare in modo stabile gli operai che lavoravano nelle lumiere. Da una lettera indirizzata al pontefice Alessandro VII nel XVII secolo da un eremita, padre Zenobi Simoni da Pescia, della comunità di S. Maria della Cibona, possono essere estrapolati diversi dettagli descrittivi riferiti probabilmente alle cave e alle attività produttive presenti nel territorio di La Bianca, nonostante le evidenti incongruenze cronologiche, che inquadrano il periodo di attività di Agostino Chigi nella seconda metà del XV secolo, quando l’appaltatore non era ancora nato 8. Nel testo padre Zenobi ricorda che Agostino trasferì la fabbrica dell’allume presso la Fontana della Bianca, dove si mise alla ricerca di nuove cave per l’estrazione del minerale. Dopo aver individuato nella zona molti filoni di allunite, scelse comunque un’area collinare posta più a nord tra la Rocca della Tolfa e la Fontana di La Bianca, dove gli operai allestirono anche le fornaci per la prima cottura del minerale cavato, che una volta cotto veniva portato presso la fontana de La Bianca. Sempre secondo quanto riportato nel testo di padre Zenobi, a La Bianca venne successivamente aperto un nuovo fronte di cava migliore rispetto al precedente, perché collocato in uno spazio più ampio. Oltre alla nuova cava venne realizzata nei pressi della fontana di La Bianca una fornace per la cottura dell’allume; vennero inoltre allestiti fig. 7 – Le fasi di lavorazione dell’alunite riportate nel “De Re Metallica” di Giorgio Agricola. per eliminare eventuali scarti. Una volta cavato il materiale veniva condotto, attraverso dei carri, presso le fornaci dove la pietra, lasciata ad essiccare per separarla dagli scarti, veniva calcinata per circa otto ore nelle “caldare” 7. Una volta raffreddato il materiale veniva condotto, sempre con i mezzi da soma o carri, presso i piazzali delle allumiere, dove in seguito veniva accatastato per circa quaranta giorni e bagnato continuamente. Il semilavorato diveniva allume e assumeva una consistenza simile alla calce. Concluse queste fasi di lavorazione l’allume veniva portato, sempre con mezzi da soma e carri, presso degli ambienti chiusi dove erano in funzione delle “caldare”, poste su delle fornaci. Qui avveniva il processo della lisciviazione. Nelle “caldare” riempite d’acqua che era prima portata all’ebollizione e poi all’evaporazione per una intera giornata, la polvere di allume e l’acqua venivano mescolate dagli operai. In queste fasi l’allume si liberava completamente delle scorie residuali e l’acqua presente nelle “caldare” veniva 7 I tempi di questa prima cottura possono variare ed arrivare sino a 12-14 ore circa; le pietre sono pronte quando dalla fornace esce del fumo bianco ed esse risultano rosate. 8 Il documento è riprodotto in G. Cugnoni, Agostino Chigi il Magnifico, Archivio della Società Romana di Storia Patria, VI (1883), pp. 154-155. 79 C. Carloni, G. Doronzo fig. 8 – Catasto generale delle Tenute delle Allumiere del 1696. Le restanti zone produttive sono raggiungibili mediante un percorso asfaltato che, dall’incrocio con la località Sant’Antonio, di dirige verso NE. La prima delle due aree produttive è posta lungo il lato SW della suddetta strada, ed è collegata ad essa mediante un sentiero posto più a Sud. La località è denominata nelle fonti cartografiche odierne come Cava Vecchia, ma in origine doveva corrispondere all’area produttiva della Cavetta. In particolare, la località distinta dalla cava e dalle quattro fornaci risulta rappresentata in una delle vedute illustrate nel Catasto generale delle Tenute delle Allumiere del 1696 (fig. 8). La fornace (A) è posta lungo un percorso che, molto probabilmente, corrisponde al tracciato odierno. Nella stessa veduta sono rappresentate anche le cave dette Cava Grande e Cava Vecchia (B e C), l’abitato di Allumiere, gli stabilimenti produttivi (Caldare n. 18 e 23) ed il piazzale (n. 19). Inoltre, nello stesso Catasto è raffigurato il villaggio dei minatori, con le abitazioni dove al primo piano alloggiavano gli operai, mentre al piano terra si trovavano le stalle (A). L’impianto produttivo e la cava sono raffigurati anche in una planimetria realizzata nel 1707 da Carlo Piancastelli. Le tracce relative alle quattro fornaci, il percorso verso la cava e la strada che conduce alle abitazioni degli operai sono ancora riconoscibili, se pur quasi interamente ricoperte dal fogliame dei castagneti impiantati. Le strutture sono state realizzate contro terra, sfruttando la pendenza naturale del terreno da SW verso NE: le “caldare” erano collocate sul pianoro, dal quale venivano caricate di pietrame, ed erano alimentate da quattro aperture poste lungo le pendici del colle e a ridosso di un percorso parallelo a quello attuale. Le strutture sono purtroppo interamente obliterate dal fogliame. L’ultimo opificio per la calcinazione dell’allume è posizionato presso un diverticolo tortuoso della menzionata strada fig. 9 – Opificio per la calcinazione dell’allume. quattro forni per la lisciviazione del minerale, di maggiori dimensioni rispetto alla fornace per la cottura dell’alunite. Ad oggi non è facile stabilire se la fornace e la cava identificate nella zona possano corrispondere ad una di quelle ricordate nelle lettere di padre Zenobi. L’impianto che presenta uno sviluppo NE/SW, è visibile solo in superficie, e risulta quasi completamente riempito dallo stesso pezzame in crollo e da uno spesso strato di interro 9. La fornace è stata realizzata in pezzame calcareo di varie dimensioni, disposto irregolarmente e privo di legante, che presenta nella parte inferiore delle evidenti tracce di combustione. 9 Della struttura sono visibili solo parte della camera di cottura di forma circolare, dal diametro di 2 m; il prefurnio si conserva per un tratto di circa 3,80 m e misura in larghezza circa 0,80 m. 80 MODALITÀ DI ESTRAZIONE E TRACCE DI LAVORAZIONE DELL’ALLUME SUI MONTI DELLA TOLFA asfaltata, dalla quale si separa lungo il lato NW dirigendosi verso Allumiere e verso il cenobio della Santissima Trinità (fig. 9). Dopo circa 300 m, a NE della cosiddetta Cava Grande, lungo il lato NE del percorso, si individuano le due bocche della fornace a pianta circolare, rivestite internamente da blocchi squadrati di trachite. Queste ultime si trovavano su uno slargo creato appositamente per garantire il transito dei carri che trasportavano il pietrame già selezionato. Come le precedenti, anch’esse risultano realizzate contro le pendici NE della collina, lungo le quali venivano anche alimentate. Le due fornaci sono parte di un’unica struttura, il cui alzato, leggibile per circa 2,50 m, è realizzato in conci di pietra di varie dimensioni legati da malta di calce tenace e di colore biancastro. Lungo la facciata, ad una distanza di circa 4,50 m l’uno dall’altro, sono visibili i due prefurni, la cui volta a botte è realizzata impiegando conci di trachite e laterizi che compongono la ghiera dell’arco della volta. Nella parte inferiore, addossato al paramento, sembrerebbe essere stato allestito un bancale. I due prefurni presentano una forma ad imbuto, la cui larghezza varia dai 2,20 m ai 2,43 m e tende a ristringersi verso l’interno, mentre la profondità di questi è di circa 2,50 m. Purtroppo non è possibile stabilire l’originaria altezza delle strutture, dato che i piani di frequentazione risultano interamente obliterati dai crolli e dall’interro. Questo settore della fornace si affaccia su un pianoro molto ampio, che agevolava il lavoro degli operai addetti alla calcinazione. Per quanto riguarda lo stato di conservazione del paramento, questo presenta diversi punti di frattura dovuti principalmente all’azione distruttiva della vegetazione. Cingolani G.B., 1696, Modo da fabricare l’Allume, in Misura, pianta e descrizione delle tenute spettanti all’appalto delle Allumiere da parte della Camera Apostolica, 1696, ASR, Collezione di disegni e mappe, coll. I, cart. 122, f. 211, c. 55r. Mignanti F. M., 1936, Santuari della regione di Tolfa, Roma. Passigli S., Spada F., 2014, Il territorio delle cave. Trasformazioni del paesaggio vegetale e produzione dell’allume fra i secoli XV-XVI, «Mélanges de l’Ecole Française de Rome», 126, 1, pp. 201-230. Picon M., 2000, La préparation de l’alun à partir de l’alunite aux époques antiques et médiévales, in P. Pétrequin, P. Fluzin, J. Thiriot, P. 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Zifferero A., 1996b, Problemi di archeologia mineraria nel Lazio: il caso dei Monti della Tolfa, «Archeologia Medievale», XXIII, pp. 739-753.. English abstract Alum is a material to be extracted with peculiar procedures by getting a deep cut in the mountain, adequately supported with props and armor. The traditional working tools remain in use until the permanent closure of Camerali’s factories in the mid 19th century, with the only innovative contribution of powder-loaded mines. The start of the construction site, made up of different professionals and efficient infrastructure, was followed by the installation of small groups of houses around the quarries and processing sites. The manufacturing process have four steps: calcination, maceration, leaching and crystallization. In the territory of Allumiere targeted surveys were carried out, primarily aimed at the identification and documentation of production facilities in three areas located in the same district: “località La Bianca”, “Le Cave Vecchie” and the site of the “Castagneto de Cinque Bottini”, where also some of the alum quarries have been localized. C.C. BIBLIOGR AFIA Biringuccio V., 1540, l’Allume di Rocca e le sue miniere, in De Pirotechnia, cap. II, pp. 78-81. Breislak S., 1786, Saggio di osservazioni mineralogiche sulla Tolfa, Oriolo e Latera, Roma. Delumeau J., 1962a, L’alun de Rome, XVe-XIXe siècle, Paris. Delumeau J., 1962b, L’alun de Rome, moyen de domination économique du midi sur le nord jusque vers 1620, in Studi in onore di Amintore Fanfani, vol. V, Milano, pp. 569-606. Giardino C., 2006, Miniere e metallurgie sui monti della Tolfa, un’attività plurimillenaria, in M. Cavallini, G. Ettore (a cura di), De re metallica: dalla produzione antica alla copia moderna, Roma, pp. 29-41. 81 Beatrice Casocavallo* CIRCOLAZIONE DELLE CER AMICHE NEI TERRITORI DELL’ALLUME TOLFETANO Circulation of pottery in the territories of the Tolfa alum district Lo studio delle presenze ceramiche nei territori coinvolti dalla scoperta dell’allume permette di delineare un quadro abbastanza rappresentativo della circolazione e diffusione di tali manufatti, soprattutto per produzioni del tutto peculiari come le ceramiche smaltate di produzione umbra o le ceramiche ispano moresche, che possono essere un ulteriore indicatore di già noti rapporti economici. In questo contributo sono stati presi in considerazione i reperti rivenuti nei comuni di Allumiere e Tolfa. I materiali di Allumiere, in parte esposti nel museo Civico, provengono dallo scavo effettuato negli anni ’80 del secolo scorso alla Bianca (Brunori 1985, pp. 7-48), all’Eremo della Trinità (Allumiere 1991) e al Castrum Ferrarie 1. Per Tolfa si sono analizzati i materiali provenienti dal convento di Santa Maria della Sughera, da due pozzi individuati all’interno delle mura e da uno scarico extramurario sotto la collegiata di S. Egidio 2. La scoperta dell’allume fissata al 1462, secondo quanto riportato nei Commentari di Papa Pio II Piccolomini, e retrodata alla fine del 1460 inizi 1461 da Ivana Ait 3, coinvolge un territorio più ampio di quello dei monti della Tolfa, trasformando tutta l’area in quello che oggi definiremmo come un vero e proprio ‘polo minerario’. In questo quadro temporale l’area dei monti della Tolfa, con i castelli di Tolfa Vecchia e di Tolfa Nuova 4, passa sotto il controllo della curia papale, atto che portò ad una riorganizzazione del potere e a un forte contrasto con le signorie locali e i potenti comuni dell’alto Lazio, come Corneto (Tarquinia) e Viterbo, già da tempo ben inseriti nelle dinamiche di sfruttamento e possesso di quei territori 5. Il centro di Corneto, data la contiguità territoriale con i monti della Tolfa, è sicuramente quello più coinvolto anche per le dinamiche di controllo e gestione di una zona strategica quale quella della valle del Mignone. Quest’area, nella zona più prossima a Cencelle, viene sfruttata come riserva di legname, utilizzato come combustibile necessario all’impresa estrattiva e quindi di fondamentale importanza 6. Anche il porto di Corneto 7 in un primo tempo viene coinvolto nell’organizzazione dell’attività estrattiva, infatti nel 1460 è oggetto di interventi di restauro voluti da papa Pio II, proprio in vista di una sua utilizzazione per il commercio dell’allume, commercio che di lì a poco passerà attraverso il porto di Civitavecchia. Altro forte legame con il centro di Corneto è quello legato al monopolio della produzione della farina per panificare 8. A contendere a Corneto il controllo dell’area dei Monti della Tolfa è Viterbo, centro da sempre interessato a questa parte di territorio (Nardi Combescure 2002, pp. 116-119). La presenza sulla parte Nord del rilievo tolfetano di un collegamento con l’entroterra in un punto tra Monte Monastero e S. Arcangelo, che riporta il toponimo di passo di Viterbo, ci fa riflettere sull’organizzazione del tessuto stradale di questa parte di territorio 9. Il primo aspetto da analizzare è quello delle vie del commercio: marittimo e terrestre. Nel caso dell’allume la via marittima è quella principale, ma non dobbiamo dimenticare quella terrestre 10. Partendo dalla via terrestre, le direttrici più importanti sono quella costiera e quella che collegava la nostra area con l’interno, ovvero l’Umbria, la Toscana e l’alto Lazio. L’Umbria gioca un ruolo fondamentale, divenendo cerniera tra l’area tirrenica e adriatica, perché attraversata da quelle importantissime vie che sono i tratturi utilizzati nella 6 «Niccolò V ripristina Bartolomeo Vitelleschi, vescovo di Corneto e Montefiascone, nel possesso del castello di Centocelle e delle tenute di S. Maria in Mignone e S. Savino, col pieno godimento di frutti, redditi, pascolo e altri diritti, usurpati, per la malizia dei tempi, e già concessi alla mensa episcopale di Montefiascone da Urbano V sul castello di Centocelle e da Eugenio IV riconfermati ed estesi poi, dopo l’unione della chiesa di Corneto con quella di Montefiascone, a S. Maria in Mignone e S. Savino»; Supino 1969, doc. 570, pp. 421-422. 7 Sul porto di Corneto vd: Palermo 2007, pp. 118-126; Annoscia, Casocavallo, Trucco 2019. 8 La curia papale concede in regime di monopolio al Gaetani, mercante pisano che, insieme a Giovanni di Castro e Bartolomeo Framura, vengono ricordati come scopritori dell’allume tolfetano, i mulini del comune di Corneto per la produzione della farina per panificare. Ait 2010: p. 245, nota 61. Per una disamina dei mulini sul fiume Mignone vd: Carloni, Maggiore 2012, pp. 647-648; Vallelonga 2012b, p. 121. 9 Per l’analisi della viabilità tra la costa e l’interno nell’area dei monti della Tolfa vd Vallelonga 2018, pp. 157-171; per l’area tra Corneto e Tuscania vd: Casocavallo, Maggiore, Quaranta 2018, pp. 173-189. 10 Come ben evidenziato da Ivana Ait, nel contratto del 1465 si specifica che per l’allume venduto via terra i soci dovevano rispettare i vincoli applicati agli altri operatori, mentre per quello venduto via mare avrebbero goduto di maggiori libertà: «possano trarre e finire come li sarà di piacere» Ait 2014, p. 9. * MIBACT, Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per l’Area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale (beatrice. casocavallo@beniculturali.it). 1 Nel 1992 sono stati effettuati i primi interventi di scavo vd: Brunori 1984, pp. 13-42. Per il materiale ceramico vd: Mazza 1984, pp. 43-53. 2 Per un inquadramento generale dei ritrovamenti ceramici nell’area dei Monti della Tolfa vd: Nardi 1994, pp. 52-56. Per i ritrovamenti ceramici a Tolfa vd: Vallelonga 2012a, p. 198. 3 Sulla scoperta dell’allume vd: Ait 2014, con bibliografia. 4 Sulle vicende dei castelli di Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova vd: Vallelonga 2012a, pp. 195-199. Per un’analisi dei toponimi vd: Nardi Combescure 2002, p. 121, nota 41. 5 La massiccia produzione di allume spinse il papato ad una gestione diretta dei territori dei monti della Tolfa, con la distruzione di Tolfa Nuova e l’acquisto del castello di Tolfa Vecchia. Il papato con Paolo II annette anche i centri di Rota e Monterano, controllando così tutti gli accesi alla zona sia dalla costa sia dall’interno. Nardi Combescure 2002, pp. 111-131; Vallelonga 2012a, pp. 200-202. 83 B. Casocavallo fig. 1 – Allumiere, La Bianca, ceramica graffita, piatti con decori vegetali. fig. 3 – 1. Tolfa, ciotola emisferica con decoro a linee concentriche; 2. Allumiere, Eremo della Trinità, ciotola emisferica con decoro geometrico entro linee. fig. 2 – Allumiere, La Bianca, ciotole con decori geometrici, vegetali e a monticelli. fig. 4 – Allumiere, Eremo della Trinità, scodella in ceramica smaltata di produzione umbra con il tipico decoro a squame con cartiglio centrale e all’esterno il motivo a “petal back”. transumanza e che rappresentano, dall’antichità fino ai tempi moderni, il collegamento tra l’adriatico e la Tuscia 11. Altro elemento da analizzare è il sistema delle grandi fiere, che aveva portato ad aprire nuove piazze di commerci e quindi anche nuove vie di percorrenza per le merci. Questo sistema, ormai consolidato, ancora forte e presente anche nel nostro ambito cronologico, può essere un ulteriore elemento di comprensione del movimento di persone e cose. Sappiamo infatti della presenza nel 1458 di vascellari derutesi a Viterbo, come nel caso di Angelo di Menicuccio, che era alla fiera di Viterbo «… co li vase…» 12. Inoltre dai documenti presenti nella Margarita Cornetana sappiano come nel 1436 Giovanni Vitelleschi, patriarca di Alessandria, arcivescovo di Firenze legato della Sede Apostolica, conceda alla popolazione di Corneto di poter tenere mercato nei quattro giorni precedenti e nei quattro successivi alla festa di S. Maria di Castello, ricorrente il 20 maggio, dove espressamente viene scritto che «… i mercanti potranno accedere nel territorio cornetano con le proprie merci senza impedimento alcuno, esenti da dazi, pedaggi, passaggi, gabelle, rivendicazione di diritti di rappresaglia e di debiti pubblici o privati, e condanne; ovviamente si assicura protezione a tutti coloro che si recheranno a detta fiera, fatta eccezione per i nemici della Chiesa e gli omicidi» 13. Ancora più tardi, nel 1563, abbiamo notizia della presenza alla fiera di Castel Durante (Urbania) di compratori di somari provenienti dalle Lumiere 14. La ceramica che arriva attraverso questi percorsi terrestri è soprattutto quella prodotta in ambito sub-regionale, come la ceramica graffita, l’ingobbiata e la più pregiata ceramica smaltata. Analizzando la ceramica graffita, si nota che l’area 11 Contatti tra le due coste, tirrenica e adriatica, nell’Italia centrale sono attestati già per il periodo protostorico, le vie di percorrenza sono quelle della transumanza delle greggi che si spostavano dai pascoli estivi dell’Appennino marchigiano alle pianure del viterbese. Bonomi Ponzi 1997. 12 Viterbo è una delle città a cui Federico II, nel 1240 concesse il privilegio di una fiera della durata di 15 giorni. Tramontana 1983, p. 697; Nicolini 1980, p. 30. Supino 1969, doc. 538, p. 398. Santacroce 2014, p. 70. Notizia tratta dal documento conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, Camerale III, Tolfa busta 2382, libro giornale, anno 1564, p. 64. 13 14 84 in vista dello sfruttamento per l’estrazione dell’allume, che coinvolge anche le vie di comunicazione dell’area posta a NE, e quella degli attraversamenti sul fiume Mignone 17, avranno favorito anche il passaggio di uomini e merci ed agevolato quel commercio su scala ridotta che era rappresentato da un traffico interregionale, quale quello della ceramica ingobbiata. Questo si sarà giovato di due direttrici: la via più interna di collegamento con i centri di Ischia di Castro, Farnese e Acquapendente, e quella di valle, con i nuovi accessi sul fiume Mignone che permetteranno il passaggio di merci, forse mediato da Corneto, piazza di attrazione di queste ceramiche, come documentato dall’alta presenza delle stesse nei contesti di scavo Cornetani. Per le produzioni di ceramica smaltata di metà XV-fine XVI secolo, le importazioni giungono soprattutto dai maggiori centri produttori dell’Italia centrale: Montelupo, Faenza e Deruta; anche in questo caso le direttrici di commercio sono terrestri. L’approvvigionamento dell’Urbe, come evidenziato da Gull, avviene via terra; le ceramiche più pregiate provengono infatti da Perugia, Deruta e Todi (Gull 1995, pp. 79-86). Nella nostra area dobbiamo però registrare una discreta presenza di ceramiche derutine (fig. 4), di contro a una scarsa presenza, allo stato attuale dei dati disponibili, di ceramiche toscane, soprattutto quelle prodotte da Montelupo tra XV e XVI secolo. Questo dato, se confermato da ulteriori rinvenimenti, si pone in contrasto con quello registrato nei vicini centri di Corneto 18 e Tuscania (Whitehouse 1972, pp. 209-235), ma anche con il centro di Cerveteri 19, posto a Sud dei Monti della Tolfa. In questo caso non possiamo più pensare ad una mediazione da Corneto, dove alla fine del XV secolo il porto non era più fulcro degli arrivi e punto di attrazione delle merci come era stato precedentemente; molto probabilmente queste ceramiche arrivano direttamente dall’entroterra. Possiamo ipotizzare che la richiesta di ceramiche così pregiate sia stata possibile nell’area dei monti della Tolfa grazie alla presenza di importanti famiglie che potevano accedere ad un mercato sicuramente più costoso rispetto a quello dei prodotti che abbiamo descritto precedentemente, arricchendo e impreziosendo così il proprio corredo ceramico 20 (fig. 5). A questa rete viaria dobbiamo affiancare quella marittima. In questo periodo per l’area in questione dobbiamo far riferimento in un primo momento al porto di Corneto e successivamente a quello di Civitavecchia. Il porto di Corneto è strettamente legato al traffico del sale e del frumento, commercio gestito e governato dalla curia papale, che aveva un diretto controllo dello scalo. Di particolare interesse, per la nostra ricerca, è la lettura dello Statuto del 1545, che rileva la presenza al porto di prodotti di accompagno come fig. 5 – Allumiere, Eremo della Trinità, scodella in ceramica smaltata di produzione umbra con decoro a quarti sulla tesa e profilo di donna “Bella” nel cavetto. di produzione è soprattutto quella umbra, con materiale che trova puntuali riscontri con le produzioni dei noti centri di Todi e Orvieto. Sono presenti piatti e scodelle con decori vegetali che si inseriscono negli spazi definiti da linee creando dei quarti nei cavetti, e linee ondulate che separano foglie trilobate sviluppate in modo continuo sulle tese (fig. 1). La presenza sempre costante nella nostra area di queste produzioni, anche se con quantitativi diversi a seconda dei centri 15, sembra essere in linea con quella documentata anche in altre aree come quella veientana (pensiamo ai ritrovamenti di Isola Farnese e Formello Boanelli 1998, pp. 139-162), dove il canale è quello di approvvigionamento dell’Urbe, che permette a questi centri di beneficiarne come ha ben evidenziato Paolo Gull (Gull 1995, pp. 79-86). Nel nostro caso, questa particolare ceramica di produzione Umbra arriva attraverso i già consolidati rapporti commerciali che avevano visto l’ampia diffusione delle produzioni di maiolica arcaica di XIII-XIV secolo 16, confermando per questa regione il ruolo di cerniera tra la costa tirrenica e quella adriatica. Inoltre il ruolo di mediatrice commerciale nella distribuzione e redistribuzione di merci che avevano come punto ultimo del loro viaggio le piazze delle fiere e i porti della costa, come quello di Corneto, pone la presenza di questa produzione ceramica non direttamente ricollegabile all’indotto dell’allume. Altre produzioni sicuramente attestate in area Tolfetana sono quelle dell’ingobbiata e della smaltata (figg. 2, 3). La presenza della ceramica ingobbiata, proveniente dai centri produttori dell’alto Lazio come Ischia, Castro, Farnese, Bagnoregio, Valentano, Acquapendente e Viterbo, rientra bene in quelle dinamiche di commercio già viste e analizzate nel centro di Corneto, ma anche per quei centri posti sulla direttrice viaria interna, come ad esempio Blera, analizzata da Elisabetta Ferracci (Ferracci 1998, pp. 163-170) e nella vicina Cencelle studiata da Nadia Barone (Barone 2009, pp. 189206). In questo caso forse la riorganizzazione del territorio, 17 Sono attestati lavori di ripristino del ponte dell’Aurelia sul Mignone nel 1452-1453. Vallelonga 2018, pp. 162, 163. In generale sulla viabilità che attraversava il fiume Mignone vd: Carloni, Maggiore 2012, pp. 646-647. 18 Le ceramiche di Montelupo appaiono ben attestate, sono presenti sia le produzioni di XV secolo con decori tipici del genere floreale blu, foglie di prezzemolo, ma anche le produzioni con decori italo-moreschi, nastro spezzato, ed i più tardi (prima metà del XVI secolo) alla porcellana ed il genere a paesi o delle girandole della metà-fine XVI secolo. 19 Per i dati su Cerveteri vd: Quaranta, Casocavallo 2013. 20 Sulla presenza di importanti famiglie interessate al commercio dell’allume vd: Ait 2010, pp. 231-262. 15 Nel centro di Corneto i dati di scavo mostrano che la ceramica graffita è presente con una percentuale del 3,52%. Casocavallo, Catini 2005, pp. 163-175; per Blera vd: Ferracci 1998, pp. 163-170. 16 La maiolica arcaica è costantemente attestata nei centri del distretto Tolfetano: Nardi 1994, pp. 52-56; per Castrum Ferrarie vd: Mazza 1984, pp. 43-53; per i dati emersi dai recenti scavi alla Bianca si rimanda all’intervento di Fabrizio Vallelonga in questo volume. 85 B. Casocavallo fig. 6 – Tolfaccia, ciotola, ispano moresca, nella vasca decorazione a raggiera in lustro dorato. fig. 7 – Tolfa, ceramica ispano moresca, ciotola, sulla vasca decoro del fiore quadripetalo detto “rosas”. fig. 8 – Allumiere, Eremo della Trinità, ceramica da fuoco con rivestimento a vetrina con decori vegetali in giallo e verde. la ceramica, che le fonti non sempre registrano. Nel Libro V, capitolo XVIII (Ruspantini, p. 247), si cerca di regolare la vendita dei prodotti comprati direttamente al porto, «… si stabilisce che pomi frutti e vasi che siano giunti nel porto di Corneto e acquistati all’ingrosso debbano essere venduti al minuto entro due giorni dopo il bando, allo stesso prezzo d’acquisto, aumentando delle sole spese, sotto pena di un ducato d’oro se si sarà rifiutato di venderli…», restituendoci il quadro di una politica gestionale attuata dal Comune di controllo dei traffici e del mercato minuto. Le aree interessate dai traffici marittimi sono quelle della costa Toscana e dalla Liguria, alle quali dobbiamo aggiungere quelle delle coste Francesi e Spagnole 21. Quest’ultime divengono di particolare interesse, se messe in relazione alla presenza di una caratteristica produzione ceramica quale quella a lustro metallico, prodotta nella penisola Iberica. Questo peculiare tipo di ceramica, definita ispano moresca, che troviamo già attestata nelle produzioni di XIV secolo in vari siti del Lazio e della Toscana 22, nell’area Tolfetana è ancora presente anche nelle successive produzioni di pieno XV con discrete percentuali (fig. 6). Ma l’impulso del commercio dell’allume che proprio dalla metà del XV secolo vede legare l’area dei monti della Tolfa e lo scalo di Civitavecchia con le coste della Francia e della Spagna, può considerarsi forse come elemento di traino per il commercio delle ceramiche, che sono da considerare sempre come merci di accompagno (fig. 7). I documenti attestano che i mercanti genovesi, attivissimi nel commercio dell’allume, commerciavano anche olio da Maiorca e Siviglia, insieme al quale viaggiavano anche le ceramiche ispano moresche che erano trasportate all’interno di giare 23. Successivamente, tra il XVII e XVIII secolo, le ceramiche attestate sono esclusivamente quelle d’ambito locale. Sono presenti le produzioni di ceramica da fuoco con rivestimento a vetrina e dai caratteristici decori in giallo e verde (fig. 8). Queste ceramiche, che arrivano dai centri produttori posti all’interno come Vetralla, dimostrano come in questo momento ci sia una netta diminuzione dei traffici ceramici a lunga distanza. L’area dei monti della Tolfa, in questa fase cronologica, sembra isolarsi e non riesce più a trarre profitto delle più ampie rotte commerciali. Infatti se in altri centri come Corneto, arrivano ancora prodotti dall’area toscana, come, ad esempio, le tarde produzioni di graffita da Pisa, queste al momento non sembrano essere presenti nell’area dei monti della Tolfa. Quindi possiamo affermare, sulla base di questo preliminare riesame delle presenze ceramiche sui monti della Tolfa, che si spera possa essere ampliato con nuovi rinvenimenti, che lo svilupparsi del commercio legato all’allume, che portò ad un riassetto della viabilità, con l’apertura e potenziamento della direttrice che collegava la zona dei monti della Tolfa con Civitavecchia e il suo porto e alla nascita di Allumiere, possa aver trainato anche il commercio delle ceramiche. Questo è indubbio soprattutto per le produzioni regionali, come le ceramiche ingubbiate e smaltate prodotte dai vicini centri altolaziali, mentre non sembra, allo stato attuale delle ricerche, che lo stesso sia avvenuto per le più pregiate ceramiche smaltate, soprattutto per le produzioni toscane, come ad esempio quelle montelupine. Di contro l’intensificarsi dei traffici marittimi, dovuti proprio alla scoperta Sul commercio e navigazione nel Medioevo vd: Tangheroni 1996. Sulla presenza della ceramica ispano moresca in Toscana vd: Francovich, Gelichi 1984. 21 23 Per i documenti pisani vd: Berti 1999, pp. 250-251. A Palermo le fonti notarili parlano di giare piene di stoviglie di Valenza. Platamone, Fiorilla 1999, p. 344. 22 86 Circolazione delle ceramiche nei territori dell’allume tolfetano dell’allume, può forse essere stato un ulteriore vettore per lo straordinario commercio della ceramica ispano moresca, così massicciamente presente nei contesti cornetani 24 e attestata con discrete percentuali anche nei siti dei Monti della Tolfa. Palermo L., 2007, Il porto di Corneto tra Medioevo e Rinascimento, in A. Cortonesi, A. Esposito, L. Pani Ermini (a cura di ), Corneto medievale: territorio, società, economia e istituzioni religiose, (Tarquinia 24-25 novembre 2007), Atti del Convegno di Studio. Tarquinia, pp. 99-126. Platamone E. 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English abstract The study of the ceramics found at Allumiere and Tolfa allows us to picture the circulation and spread of these materials at the time of the discovery of alum. Trade routes, both inland and coastal, have to be taken into consideration in order to understand how these products arrived in this area. In the mid-15th century, the ceramics conveyed through the land routes, often linked to the web of large fairs, are above all the ones produced in a sub-regional context, such as Umbrian-made graffiti ceramic, the engobe ceramic stemming from the production centers of Lazio and the more important glazed ceramic produced by Montelupo, Faenza and Deruta. To this road network we must add the maritime one, which involves, at first, the port of Corneto (Tarquinia) linked to the salt and wheat traffic and subsequently that of Civitavecchia. The areas affected by maritime traffic are mainly the Tuscan and Liguria shorelines, to which we must add the French and Spanish coasts. The written sources attest that the Genoese merchants, very active in the alum trade, also traded oil from Mallorca and Seville, with which Hispano Moorish ceramics also traveled. Between 17th and 18th century, the ceramics are only locally produced. Therefore, the development of alum-related trade seems to have fostered the diffusion of slipware and glazed ceramics produced by the nearby upper Latium centers. Finally, the intensification of maritime traffic, due precisely to the discovery of alum, could have perhaps triggered the extraordinary proliferation of Hispano-Moorish ceramics. 24 Per un’analisi delle presenze a Corneto vd: Camardo, Casocavallo 2005, pp. 312-320. 87 Giuseppe Romagnoli* L’“ALLUME DI FERENTO” E IL “VETRIOLO DI VITERBO”: CONTINUITÀ DI UNA PRODUZIONE TR A MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA The “alum from Ferento” and the “vitriol from Viterbo”. Continuity of a production between the Middle Ages and the Modern Era 1. INTRODUZIONE soprattutto nella concia delle pelli, come mordente in tintoria e nella farmacopea. I suoi utilizzi sono quindi prossimi a quelli dell’allume di alunite, anche se, rispetto a quest’ultimo, si trattava certamente di un prodotto di minore qualità (Occhini, Picon 2005, p. 120). L’area di Ferento-Acquarossa si trova nella valle tiberina a Nord di Viterbo, al centro di un importante distretto minerario, il cui sfruttamento è attestato a partire dall’età arcaica in relazione al centro di Colle San Francesco-Acquarossa (Judson, Östenberg 1983; Zifferero 1991, pp. 219-220) (fig. 1). La città romana e medievale di Ferento, sorta a brevissima distanza dall’abitato etrusco, fu occupata continuativamente dall’età repubblicana fino all’ultimo quarto del XII secolo, ovvero fino alle radicali distruzioni compiute dal Comune di Viterbo tra il 1170 e il 1172, che ne causarono il definitivo (Romagnoli 2014). Gli scavi e le ricognizioni hanno potuto documentare le tracce di una continuità delle attività siderurgiche in questo lungo arco temporale (Panichi 2011, pp. 99-100; De Minicis 2011; Pavolini, Persia 2011) e forse ininterrotta, fino alla piena Età Moderna con la presenza di due ferriere, poste rispettivamente sul Fosso Fornicchio e sul Fosso Guzzarella e documentate dal XVI-XVII fino agli inizi del XX secolo. Nelle fasi più recenti il minerale proveniva dai forni fusori pontifici di Canino e Bracciano (Romagnoli 2014, pp. 176-178). Minerali ferrosi, sotto forma soprattutto di ocra rossa e di limonite, sono presenti in diverse località del territorio (Colle San Francesco-Acquarossa, Monte Piombone) (Panichi 2011, pp. 99-100), ma i due principali giacimenti erano collocati nelle località Solfatara-Edifizio e Macchia Grande, rispettivamente 2 km circa a Nord e 3 km circa a Sud della città romana e medievale (fig. 2). Gli strati mineralizzati presenti in entrambi i siti sono costituiti da impregnazioni di solfuri di ferro (marcasite, limonite, pirite) accompagnati da zolfo nativo e presentano analoghe condizioni di giacitura: gli strati ricchi di minerali ferrosi, di potenza variabile da alcuni centimetri a qualche decimetro, sono intercalati ai tufi basali e si trovano naturalmente esposti nelle vallate profondamente incise dall’erosione dei corsi d’acqua (il Fosso della Ferriera per Macchia Grande; il Fosso della Solfatara per l’Edifizio-Solfatara, affluenti del Torrente Vezza), alla profondità di qualche decina di metri dalla superficie delle piattaforme (Vighi 1956; Camponeschi, Nolasco 1986, pp. 282-283; Arnoldus-Huyzendveld 1996) 1. L’ossidazione della marcasite dà origine ad un solfato di ferro – noto con il nome di “vetriolo verde” o “vetriolo romano” – utilizzato 2. L’ATTIVITÀ DELLE FABBRICHE DEL VETRIOLO (XVII-XIX SEC.) Nel corso della seconda metà del XV secolo, dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca e l’interruzione dell’approvvigionamento di allume, lo Stato Pontificio incentivò la ricerca di nuovi giacimenti minerari, capaci di sopperire al fabbisogno interno. Le scoperte effettuate sui Monti della Tolfa in quegli anni (Delumeau 1962, pp. 13-21; Ait 2014; Passigli, Spada 2014) incoraggiarono ad estendere le ricerche all’intero territorio del Patrimonio di San Pietro. In questo contesto si collocano l’individuazione e il primo sfruttamento delle terre vitrioliche di alcuni siti della valle tiberina. Il principale di essi si trovava presso Bagnoregio, in loc. Fonte Capita, ove sorgerà più tardi il villaggio di Vetriolo. L’attività estrattiva in questo sito iniziò probabilmente nell’ultimo decennio del XV secolo e proseguì per buona parte del XVI secolo. Nel 1567 un’ulteriore manifattura fu avviata dai Monaldeschi a Montecalvello, un sito collocato circa 20 km a Nord-Est di Viterbo 2. Un terzo e più importante polo produttivo si sviluppò nel corso del XVII secolo nell’area di Ferento-Acquarossa. La fabbricazione del “vetriolo verde” o “vetriolo romano” nel sito della Solfatara presso Ferento è documentata con certezza dalla metà del XVII secolo. Le fonti parlano di una vera e propria ‘scoperta’ del fiorentino Francesco Attavanti. Nella sua esperienza maturata nelle miniere di vetriolo toscane di Gambassi nel territorio di Volterra e di Selvena nell’Amiata, l’Attavanti aveva perfezionato un nuovo metodo di lavorazione del minerale e di fabbricazione delle caldaie, che gli fruttò l’appalto delle fabbriche camerali dal 1644 al 1680 3. Già al momento della sua scoperta il giacimento presso Ferento era considerato il più importante dello Stato Pontificio (uberes fodinae vitrioli, ex quibus non solum potest quotannis fabricari quantitas ei necessaria, sed parari merces lucrosa, si exteris quoque venalis proponatur) (Barbieri 1940, * Università degli Studi della Tuscia – DISTU (romagnoli@unitus.it). 1 Per la geologia dell’area: Micheli 1962; Bertini et al. 1971; Brizi, D’Ambrosi, Di Sabatino 1988. 2 3 89 Occhini, Picon 2005; Baciarello 2006; Baciarello 2012, pp. 137-151. Per Selvena si veda Citter 2001. G. Romagnoli fig. 2 – L’area di Ferento-Acquarossa con la localizzazione dei giacimenti di Solfatara-Edifizio e Macchia Grande. fig. 1 – Carta di inquadramento del territorio con le principali località menzionate nel testo. Le stelle indicano le manifatture del vetriolo (XV-XVIII secolo). pp. 97-99, pp. 104-105), e ciò, probabilmente, anche a causa del progressivo esaurirsi, sul finire del XVI secolo, delle cave di Bagnoregio (Baciarello 2019, p. 140). La fase sei-settecentesca della coltivazione dei giacimenti di Ferento è ricostruibile da un inedito fondo camerale conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, comprendente documenti contabili ed amministrativi, inventari, mappe della tenuta e planimetrie delle fabbriche dalla fine del XVII alla metà circa del XIX secolo, quando le fabbriche cessarono l’attività 4. Un primo sondaggio su questa documentazione consente di precisare l’ubicazione delle aree estrattive e degli impianti e di ricostruire le diverse fasi del processo di produzione. I primi impianti furono realizzati dalla Camera Apostolica intorno al 1644 nelle immediate prossimità delle putizze della Solfatara e del Fosso omonimo, dove erano collocate anche le aree di estrazione. La posizione di questo primo Edifizio del vetriolo è indicata in una mappa camerale settecentesca (fig. 3) 5. Essendo divenuta in breve tempo inservibile e incommoda per le lavorazioni – probabilmente a causa delle esalazioni dalla solfatara – la fabbrica fu demolita nel 1738 e ricostruita sulla sommità del vicino Monte Liberto, in sito più eminente, e più commodo alla miniera, e cava suddette co’ suoi condotti, e stigli necessarij rifatti di nuovo. Il complesso settecentesco, rappresentato in diverse mappe della tenuta camerale (figg. 4-5), nelle principali corografie dello Stato Pontificio a partire dalla fine del XVI secolo (Frutaz 1972, II, tavv. 155, 178, 211, 220) e nei rilevamenti del Catasto Gregoriano 6 – compren- fig. 3 – Pianta dei terreni spettanti alla R.C.A. adiacenti all’Edificio del vetriolo, XVII sec., part. (Archivio di Stato di Roma, Camerale II – Vetriolo, b. 19, mappa allegata. Su concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali). La lettera H indica il sito delle fabbriche seicentesche dirute; in E-F-G il sito della fabbrica settecentesca. deva, oltre alla vera e propria fabbrica (vasche per il lavaggio del minerale, caldaie, fabreria e depositi per i materiali e gli attrezzi), uno stallone con fienile per commodo delle bestie da lavoro, e stanze per li garzoni, un fontanile parimenti nuovo, oltre il Casino che attualmente si stà fabricando per abitazione degli Appaltatori pro tempore con sua Chiesola per commodo de’ medesimi, e di tutti gli operari della Miniera, e Cava 7. Il complesso è tuttora visibile in loc. Edifizio, sebbene notevolmente alterato da un recente intervento di ristrutturazione condotto per la conversione in struttura ricettiva (fig. 6). Il processo produttivo descritto dai documenti camerali prevedeva la fermentazione delle terre vitrioliche in capannoni coperti e quindi il lavaggio con acqua in quattro distinti vasconi (paramenti) da cui si otteneva la lisciva depurata 4 Archivio di Stato di Roma, Camerale III – Comuni, Viterbo, b. 2489; Disegni e piante, Collezione 1ª, cart. 126, nr. 56 (Viterbo, officina del vetriolo, XVIII secolo), 68 e 79 (fabbrica e terreni del vetriolo, XIX secolo); Camerale II – Vetriolo, b. 1. Alcuni disegni del XIX secolo sono riprodotti in Bentivoglio 1983, pp. 28-31. 5 Archivio di Stato di Roma, Camerale II – Vetriolo, b. 19. 6 Archivio di Stato di Roma, Presidenza Generale del Censo, Catasto Gregoriano, Viterbo, F. 179. 7 90 Archivio di Stato di Roma, Camerale III – Comuni. b. 2489. L’“allume di Ferento” e il“vetriolo di Viterbo”: continuità di una produzione tra Medioevo ed Età Moderna fig. 4 – Lo stabilimento del vetriolo intorno al 1820, dopo la ristrutturazione progettata dall’architetto camerale F. Navone (rielaborazione da: Archivio di Stato di Roma, Catasto Gregoriano Viterbo, Fg. 179 Ferento). archivistica per le fabbriche di Bagnoregio (Grillo, Cipriani 2000; Baciarello 2006; Baciarello 2012). Le vicine selve camerali di Michignano (presso Grotte S. Stefano) e Fiojene (nel territorio di Celleno), poste rispettivamente a 2 e a 4 km circa di distanza, erano adibite esclusivamente al rifornimento di combustibile per la fabbrica. 3. GLI ANTECEDENTI DI ETÀ MEDIEVALE: L’ALLUME “FERENTANO” Se le fasi sei-settecentesche dello sfruttamento del sito della Solfatara possono essere delineate con maggiore dettaglio, la ricostruzione di quelle antecedenti si presenta più difficoltosa. Tuttavia, un prezioso – per quanto isolato – riferimento documentario nello Statuto comunale di Viterbo del 1251/1252 ad un pedaggio applicato sull’allume de Ferento suggerisce che già nel corso del XIII secolo i giacimenti dell’area fossero già in qualche modo sfruttati per ottenere un prodotto dalle caratteristiche similari a quelle dell’allume, ma, verosimilmente, di minore qualità: esso veniva tassato dal Comune per 1 denaro per salma, contro i 12 denari dovuti per salma per l’allume çuccarino (“zuccherino”) e i due solidi per libbra richiesti per l’allume di rocca (de Castello) 8. Se questa ipotesi coglie nel vero, la produzione a Ferento potrebbe aver solo subito un’interruzione in età tardomedievale o rinascimentale, riprendendo su scala industriale con il nome di “vetriolo di Viterbo” o “vetriolo romano” alla metà del XVII secolo. Il passo degli statuti viterbesi presenta anche un altro interesse: evidenzia infatti che lo sfruttamento dei giacimenti fig. 5 – Pianta delle fabbriche del vetriolo, 1767, part. (Archivio di Stato di Roma, Camerale III – Comuni, b. 2489, mappa allegata. Su concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali) (figg. 7-8). Il liquido ottenuto passava attraverso condotti di piombo alle caldaie e da qui nei piletti per il raffreddamento e la cristallizzazione del materiale, che infine veniva stoccato nel soprastante magazzeno per le fasi di asciugatura (fig. 9). Un procedimento analogo è illustrato dalla documentazione 8 Egidi 1930, p. 152; Occhini, Picon 2005, p. 120; Romagnoli 2006, pp. 54-55. 91 G. Romagnoli fig. 6 – Il complesso dell’Edifizio dopo i recenti lavori di ristrutturazione (2016). fig. 7 – Pianta delle fabbriche del vetriolo, seconda metà del XVIII sec., part. (Archivio di Stato di Roma, Disegni e piante, Coll. I, cart. 126, nr. 56, part. Su concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali): A. Capannone per le terre; B. Intercapedine, ò sia chiavicone scoperto; C. Vascone per la prima lavatura delle terre del vetriolo; D. Repiani superiori a detto vascone, per posare, e far scolare la terra bagnata; E. Sorgente dell’acqua allacciata con muri; F. Chiavicone che porta l’acqua alle vasche; G. Vasche da schiarire e spurgare l’acque del vetriolo; H. Vascone grande per riposare l’acque purgate dov’è il condotto per mandare à bullire l’acqua nelle Caldare; I. Repiano selciato e chiavicone per lo spurgo di tutte le vasche; L. Stanza delle Caldare, e sopra detta, stanza per gl’omini; M. Stanzoni delli Piletti da Congelare il vetriolo, e sopra detto tutto un gran magazzeno per riporre il vetriolo fatto; N. Al terreno, stanza per dispensa, e sopra detta vi passa il sopradetto magazzeno grande; O. Bottino grande per la deposizione dell’acqua del ricotto; P. Chiaviconi sotterranei uno sopra l’altro, e scoli per tenere asciutto lo stanzone delli Piletti; Q. Chiavicone sotterraneo; R. Chiavicone scoperto; S. Forni, e stanza per gettare le Caldare di piombo; T. Fontanile; V: Stalla; X. Fienile sopra detta stalla; Z. Stanza de li Garzoni. dagli ultimi anni del XII o dai primi del XIII secolo, il centro di Ferento e una vasta area circostante risultano confiscate e poste sotto la diretta gestione delle autorità comunali, con il divieto di qualsiasi forma di utilizzo da parte di privati, come veniva decretato dai durissimi provvedimenti decretati degli Statuti Comunali del 1237/8 e del 1251/2 (Egidi 1930, pp. 58, 199, 203, 245-246, Romagnoli 2006, pp. 52-55). Tali divieti erano ancora vigenti nella seconda metà del Cinquecento, e minerari del distretto di Ferento-Acquarossa non si arrestò dopo le distruzioni dell’abitato effettuate tra il 1170 e il 1172 e il suo definitivo abbandono, che si concretizzò tra gli ultimi anni del XII e i primi del XIII secolo 9; anzi, le attività estrattive potrebbero aver ricevuto un impulso con l’inizio del dominio viterbese. Vale la pena sottolineare che, già a partire 9 Sulla distruzione dell’abitato: Romagnoli 2019. 92 L’“allume di Ferento” e il“vetriolo di Viterbo”: continuità di una produzione tra Medioevo ed Età Moderna fig. 8 – Pianta delle fabbriche del vetriolo dettaglio dell’immagine precedente con l’area delle caldaie e i relativi forni di fusione (L) (Archivio di Stato di Roma, Disegni e piante, Coll. I, cart. 126, nr. 56. Su concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali). fig. 9 – Pianta dimostrativa della Manifattura del Vetriolo Romano nella Fabbrica Camerale di Viterbo, 1787-1792 (Archivio di Stato di Roma, Camerale II – Vetriolo, b. 19, pianta allegata. Su concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali). re della Solfatara, allo stato attuale interdetta per via delle esalazioni nocive delle putizze. Non si può escludere, che nel corso del XIII secolo alcune fasi della lavorazione del minerale potessero essere svolte proprio nel perimetro dell’abitato abbandonato. Le indagini archeologiche condotte nell’area prossimità del Teatro e alle Terme a partire dal 1994 hanno portato in luce le tracce relative ad una serie di fosse parallele di forma allungata, scavate negli strati di macerie e alternativamente utilizzate nel corso del XIII secolo, che sono state suggestivamente poste in connessione con le fasi di evaporazione e cristallizzazione del minerale 10 (fig. 10); ma anche questo aspetto sarà meritevole di un ulteriore approfondimento e rilettura con la prosecuzione delle campagne di scavo nell’area urbana di Ferento. BIBLIOGR AFIA fig. 10 – Area urbana di Ferento, Saggio I: evidenze relative alle fasi del XIII secolo (da Maetzke et al. 2001). Ait I., 2014, Dal governo signorile al governo del capitale mercantile: i Monti della Tolfa e le ‘lumere’ del papa, «Mélanges de l’École Francaise de Rome. Moyen Âge», 126.1, pp. 187-200. Arnoldus-Huyzendveld A., 1996, Alcune considerazioni sulle materie prime utilizzate nel sito di Ferento (Viterbo). 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Diversi indizi portano al giacimento dell’Edifizio-Solfatara, sede della fabbrica camerale sei-settecentesca: esso è vicinissimo a Ferento (poco più di un kilometro in linea d’aria) ed è collegato all’area dell’abitato da un agevole percorso carrabile, certamente in uso tra l’Antichità ed il Medioevo e ricalcato in Età Moderna dalla carrareccia per Grotte S. Stefano (Romagnoli 2014, pp. 170-172). Questa ipotesi andrà verificata alla luce di più ricognizioni analitiche e prospezioni nella zona delle minie- 10 Maetzke et al. 2001, p. 312; Occhini, Picon 2006, p. 122; De Minicis 2011, pp. 91-92; per il contesto: Romagnoli 2014, pp. 27-42. 93 G. Romagnoli Pavolini C., Persia V., Pelosi C., 2011, Le officine siderurgiche del Saggio III, in E. De Minicis, C. Pavolini (a cura di), Risorse naturali e attività produttive: Ferento a confronto con altre realtà. Atti del II Convegno di studi in memoria di Gabriella Maetzke (27-28 aprile 2010), Viterbo, pp. 65-79. Romagnoli G., 2006, Ferento e la Teverina viterbese. Insediamenti e dinamiche del popolamento tra X e XIV secolo, Viterbo. Romagnoli G., 2014, Ferento. La città e il suo suburbio tra antichità e medioevo, Roma. Romagnoli G., 2019, La presa e la distruzione di Ferento (1170-1172). Fonti scritte e documentazione materiale, in G.M. Annoscia (a cura di), Scenari bellici nel medioevo. Guerra e territorio tra XI e XV secolo, Atti della Giornata di studi (Roma, 17 novembre 2016), Roma, pp. 55-66. Vighi L., 1956, Sulla genesi dei solfuri di ferro e dello zolfo nativo solfaratici di alcune località del Lazio, «Bollettino della Società Geologica Italiana», 75, 1, pp. 94-105. Zifferero A., 1991, Miniere e metallurgia estrattiva in Etruria Meridionale: per una lettura critica di alcuni dati archeologici e minerari, «Studi Etruschi», 67, pp. 201-241. 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English abstract The roman and medieval town of Ferento is located in the Tiber valley about 10 km north of Viterbo, at the heart of an important mining area, whose exploitation, attested since the Etruscan period, continued in roman and medieval period, even after the destruction and abandonment of the settlement caused by the destruction carried out by the Viterbese between 1170 and 1172. The municipal statute of Viterbo of 1251/1252, which refers to a toll applied on a “Ferento alum”, suggests that during the 13th century the iron sulphate deposits of Solfatara and Macchia Grande, located at a very short distance from the medieval town, were exploited to obtain a product with characteristics similar to those of alum, but probably of lower quality. After a break, the production resumed with the name of “vetriolo di Viterbo” or “vetriolo romano” in the mid-17th century. The archival documentation allows us to follow the events of the manufacture, from the building of the factories of the Camera Apostolica in 1644 to their definitive disposal during the second half of the 19th century. 94 Andrea Zifferero* ARCHEOLOGIA DELLE MINIERE E DELL’INDUSTRIA SUI MONTI DELLA TOLFA (ROMA): CONOSCENZE STORICHE, CRITICITÀ E PROSPETTIVE DI VALORIZZAZIONE Archaeology of mines and production in the Tolfa mountains (Rome): historical knowledge, issues and opportunities of valorization 1. UNA STORIA NASCOSTA di diversi studiosi locali: questi hanno concentrato gli sforzi nel tentativo di restituire una giusta dignità al distretto, protagonista di vicende storiche di primo piano, dove i minerali non metallici (l’alunite) e quelli metallici (principalmente la galena argentifera e la limonite), avrebbero giocato un ruolo decisivo nello sviluppo del comparto, in un flusso ininterrotto dalla Protostoria agli anni del secondo dopoguerra. Tale approccio, difettoso sotto il profilo archeominerario e più in generale sotto quello estrattivo e tecnologico, è generato dall’equivoco di ritenere la storia il frutto di cicli continui che si ripetono, sullo sfondo di una “corsa all’oro” simile a quella che ha investito molti Stati del Nord-ovest americano nell’Ottocento 3. Con l’avvio di ricerche archeominerarie ed archeometallurgiche, sia pure non sistematiche, il quadro è oggi meno opaco sull’effettivo interesse delle comunità protostoriche, in particolare nell’età del Bronzo, per i giacimenti di solfuri misti e forse, ma sempre in modo indiretto, per quelli di alunite; tra l’età del Ferro e il periodo etrusco l’attenzione per il bacino minerario sarebbe contenuta, come suggeriscono i dati dal sito costiero alla Castellina del Marangone, limitati a scorie di forgia indicanti l’attività di fabbri ferrai, in un contesto che doveva fare i conti con l’incipiente ed invasiva distribuzione dell’ematite elbana lungo le rotte alto- e medio-tirreniche 4. Se la siderurgia del periodo romano sembra servirsi del minerale elbano almeno fino alla metà del I secolo a.C., qualche dato raccolto senza controllo archeologico ripropone il problema del rapporto tra signoria medievale e coltivazione dei giacimenti metalliferi: un tema che è stato affrontato con un robusto impianto di metodo nella Toscana meridionale e centro-occidentale, ma che offre ancora contorni evanescenti sui Monti della Tolfa 5. I Monti della Tolfa conservano una storia nascosta: non perché il distretto sia stato trascurato da ricerche archeologiche, storiche o ambientali e neppure per l’assenza di volontà nelle Amministrazioni locali, che vorrebbero rilanciare la propria immagine, oggi marginale nell’economia della Regione Lazio, anche attraverso il patrimonio minerario 1. Una storia nascosta, perchè la sua sostanza può emergere soltanto da un uso avvertito e consapevole di metodi di ricerca e fonti documentarie, a fronte della più grande impresa di età preindustriale dell’Italia centrale, di fatto inghiottita dalla spirale del tempo e dalla vegetazione, che ha ricoperto cave, compromesso gallerie, sgretolato muri e avvolto opifici (figg. 1-2). Il quadro dei Monti della Tolfa rappresenta infatti in modo esemplare quei bacini minerari dove i picchi di popolamento e produttività si sono alternati a periodi di stasi, dovuti alle contingenze dell’industria e dell’assetto geopolitico: lo sviluppo locale ha conosciuto forme di continuità, interruzioni e mutamenti improvvisi, fino alla ripresa coincidente con il periodo finale della rivoluzione industriale, sincronica, tuttavia, con la sintesi artificiale dell’allume; un fattore che ha indotto una progressiva perdita di interesse verso i giacimenti di alunite, protagonisti tra la metà del Quattrocento e il Settecento di un’eccezionale impresa tecnologica e finanziaria, governata in modo incerto dalla Reverenda Camera Apostolica 2. La cornice entro cui si collocano i dati tolfetani è in larga misura frutto del lavoro, appassionato ma talvolta fuorviante, * Università di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali (andrea.zifferero@unisi.it). 1 Per un quadro di sintesi sul bacino minerario, cfr. i contributi in Fedeli Bernardini 2000. 2 La bibliografia sulle imprese minerarie tolfetane è vastissima: un profilo generale dei giacimenti minerari in Camponeschi, Nolasco 1978; per gli aspetti storici dell’impresa dell’allume sono fondamentali Barbieri 1940; Delumeau 1990 (traduzione italiana dell’opera originale del 1962) e Nenci 1982; per una sintesi sul patrimonio di archeologia industriale si rimanda a Di Carlo et al. 1984; sulle cave di alunite cfr. Regione Lazio 2007, pp. 65-77 (Renato Sansa); un lavoro di grande pregio, che ha avuto il merito di suscitare l’attenzione degli studiosi sull’area, è quello di Rinaldi 1978, scritto con passione ma con un taglio storiografico eccessivamente condizionato dall’ambiente locale; sul comparto vedi anche Santacroce 2014. Per i documenti che anticipano almeno al 1371 l’attività delle cave intorno all’Eremo della Trinità e alla Farnesiana, cfr. Ait 2014, con bibliografia, ed ora Dallai, Ait, Ponta 2018, pp. 214-220. Il recentissimo scavo della prima cappella dei minatori alla Bianca, costruita dopo la metà del Quattrocento in prossimità della lumiera superiore, è descritto in Vallelonga 2012a. sui caratteri minerogenici e chimici dell’alunite e sull’impiego dell’allume dalla Protostoria al Medioevo vedi Borgard, Brun, Picon 2005. 3 Un esempio di tale tendenza è espressa in Berardozzi, Cola, Galimberti 2018, ultimo di vari contributi che, pur presentando una pregevole documentazione storica e/o di archeologia industriale, vanno considerati con cautela nell’interpretazione dei dati mineralogici e geologici. 4 Per l’identificazione di coltivazioni minerarie mirate ai solfuri misti nei periodi protostorico e tardo-etrusco (?) si rimanda da ultimo a Giardino et al. 2014, con bibliografia; sull’estrazione dei solfuri misti e dell’alunite in età etrusca mi sia consentito il rinvio a Zifferero 1991, 1996a, 2017, con bibliografia; sull’alunite cfr. anche Lo Schiavo 2005; Sulla lavorazione del ferro da lingotti di incerta provenienza (probabilmente elbana) alla Castellina del Marangone, vedi Zifferero 2008; von Hase 2011; Giardino 2011. 5 Sulla fine dell’impiego dell’ematite elbana in età romana, vedi Dallai 2016, pp. 100-105, con bibliografia; Corretti 2017. In generale sul periodo romano e medievale, cfr. Zifferero 1995 e Nardi Combescure 2002; per il fenomeno dell’incastellamento locale, è ancora valido Tron 1982; sul rapporto tra siti incastellati e miniere cfr. Brunori 1984, 1985, da consultare con cautela. Per il rapporto tra signoria medievale e coltivazione dei giacimenti in Toscana 95 A. Zifferero fig. 1 – Carta del popolamento nel bacino minerario tolfetano con la localizzazione delle principali cave e miniere coltivate nel Quattrocento. Simbologia: 1 = centro abitato; 2 = centro di dimensioni minori; 3 = tracce di insediamento; 4 = santuario; 5 = cappella; 6 = cava di alunite a cielo aperto; 7 = cappellacci ferriferi e giacimenti di solfuri misti; 8 = attività di metallurgia estrattiva. Topografia: 1 = Tolfa; 2 = Eremo della Trinità; 3 = Cava della Concia (lumiera inferiore?); 4 = tracce di insediamento presso la futura Cappella Grande di Agostino Chigi; 5 = Cava della Bianca (lumiera superiore?); 6 = Cappella della Selva di Cibona; 7 = Montelumbricum? (Poggio Ombricolo); 8 = giacimento di solfuri misti a SE di Poggio Ombricolo; 9 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti ai Pozzi; 10 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti a quota 202; 11 = cappellaccio ferrifero ad E della Roccaccia; 12 = Castrum Ferrarie; 13 Tulfa nova (fonte: Zifferero 1996c). 96 Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma) fig. 2 – Carta del popolamento nel bacino minerario tolfetano con la localizzazione delle principali cave e miniere coltivate tra l’Ottocento e il Novecento. Simbologia: 1 = centro abitato; 2 = centro di dimensioni minori; 3 = case di minatori abbandonate; 4 = santuario; 5 = cappella; 6 = santuario obliterato; 7 = opificio; 8 = opificio obliterato; 9 = cava di alunite a cielo aperto; 10 = cava di alunite a cielo aperto, nuovamente coltivata; 11 = miniera di alunite in galleria o perforazione; 12 = cava di caolinite (quadrato) e cava di caolinite ed alunite (quadrato nel cerchio) 13 = cappellacci ferriferi e giacimenti di solfuri misti. Topografia: 1 = Allumiere; 2 = Tolfa; 3 = La Bianca; 4 = Eremo della Trinità; 5 = Cava del Castagneto; 6 = Miniera dell’Orrore; 7 = Cava della Trinità; 8 = case dei minatori presso la Cava Grande; 9 = villaggio delle Cave Vecchie; 10 = Cava Gregoriana (o Cavarella?); 11 = Miniera Provvidenza; 12 = Cava Rotella; 13 = Miniera delle Trincere; 14 = Cava della Castellina; 15 = Cavetta; 16 = Cappella di Santa Maria delle Grazie; 17 = Cava di Mario in Val Perella; 18 = Edificio della Concia; 19 = Miniera di Santa Barbara; 20 = Cava Tosti; 21 = Cava di caolino alla Bianca; 22 = Cappella Grande di Agostino Chigi; 23 = Cappella della Selva di Cibona; 24 = Chiesa di Santa Maria di Cibona; 25 = Cava Gangalandi o Cavaccia; 26 = Chiesa di Santa Maria della Sughera; 27 = cappellaccio ferrifero sotto Cibona; 28 = Forno del ferro sotto Cibona; 29 = Edificio del Ferro; 30 = giacimento di solfuri misti a SE di Poggio Ombricolo; 31 = Edificio del Piombo; 32 = Cava del Piombo; 33 = Ribasso vecchio?; 34 = Edificio dei Pozzi; 35 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti ai Pozzi; 36 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti a quota 292; 37 = cappellaccio ferrifero ad E della Roccaccia; 38-39 = cappellacci ferriferi e solfuri misti di Pian Ceraso; 40 = Forno del ferro di Pian Ceraso (fonte: Zifferero 1996c). 97 A. Zifferero fig. 3 – Panoramica del grande fronte di estrazione a cielo aperto della cava di alunite del Moro (Allumiere) (XV secolo). fig. 5 – Dettaglio del fronte di estrazione della figura precedente: in evidenza, i segni di strumenti a mano (picca o piccone) e buco di palo. fig. 6 – Dettaglio del fronte di estrazione a cielo aperto nelle Cave Vecchie (Allumiere), con impronte di cannelli da mina (XVIII secolo). cazione del controllo sui giacimenti da parte della Reverenda Camera Apostolica, che governerà dal 1462 gli appalti per l’estrazione dell’alunite e dei solfuri misti, riscuotendo proventi sostanziosi dai contratti di affitto delle cave 6. La prima a risentire gli effetti di tale concentrazione (con le restrizioni sull’uso delle selve e sui pascoli nelle tenute camerali) è l’estrazione signorile, mirata ai solfuri misti piombo-argentiferi: nell’unico caso finora indagato, essa è incentrata sul controllo diretto dei filoni, attraverso il castrum Ferrarie, un borgo eretto in corrispondenza delle miniere di galena, all’interno del quale dovevano trovarsi i forni per la riduzione del minerale, secondo un modello produttivo ben ricostruito in Toscana 7. Il vero salto di qualità nella documentazione storica avviene, tuttavia, con l’avvio dell’estrazione dell’alunite, nella storia dell’impresa come in quella della tecnologia, nell’organizzazione delle comunità operaie come nelle forme del culto, nella produzione agricola come nel taglio delle selve: fig. 4 – Fronte di estrazione a cielo aperto nel versante occidentale della Cava del Moro (Allumiere), con tracce di lavorazione a mano e buco di palo per sorreggere un ponteggio (XV secolo). Di pari interesse è l’impatto prodotto dalla scoperta dei giacimenti di alunite sul tessuto dei castelli e dei borghi fortificati dell’area: la concentrazione dei lavori e delle attività economiche all’interno del bacino minerario conduce ad un sostanziale collasso dell’incastellamento basso-medievale: in altri termini il sistema signorile locale non resiste alla rivendi- 6 Nardi Combescure 2002, con bibliografia; Vallelonga 2006a, 2006b, 2012b. 7 Sul castrum Ferrarie cfr. Brunori 1984 ed ora Berardozzi, Cola, Galimberti 1998; per il sistema signorile di produzione metallurgica in Toscana, si rinvia a Francovich et al. 1989; Benvenuti et al. 1992; Cortese 2014, con bibliografia; sulle innovazioni delle tecniche estrattive e metallurgiche nel periodo mediceo, cfr. adesso Farinelli 2017. vedi Casini, Francovich 1993; Francovich, Farinelli 1994; Cambi, Cavari, Mascione 2009; Cortese 2014, con bibliografia; Dallai 2016, con bibliografia. 98 Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma) a partire dalla metà del Quattrocento si innesca un processo che stravolge il sistema di popolamento basso-medievale e crea le premesse per lo sviluppo successivo, fino a fissare la forma e l’assetto contemporaneo del comprensorio (figg. 3-6). L’attività estrattiva ha prodotto una mole impressionante di documentazione, raccolta nel fondo Camerale III presso l’Archivio di Stato di Roma, che attende di essere compulsata nel suo vastissimo potenziale di informazioni per la geografia storica, la storia economica e l’archeologia industriale, così come per l’archeologia della produzione, la storia della tecnologia, le scienze sociali. Nè, occorre aggiungere, ha giovato granchè al comparto l’unica e isolata attenzione che esso ha ricevuto sotto il profilo ambientale negli anni Ottanta del Novecento, con la redazione del piano di fattibilità per un Parco Regionale dei Monti della Tolfa, mai istituito (e accettato dalle comunità locali): è anche vero che mancava allora una sensibilità per la storia globale, essenziale per considerare l’ambiente come un contesto mutevole, vero teatro di attività delle comunità umane 8. Questa spinta antropica ha costruito il paesaggio, di volta in volta percepito come paesaggio agrario e/o minerario, a seconda dei periodi di recessione o di utilizzo più o meno intenso delle risorse minerarie; soltanto in tempi recenti si è fatta strada l’idea che l’ambiente possa avere una sua evoluzione storica, indotta e modificata dall’uomo: si veda al proposito la diffusione locale dell’areale di coltura del castagno, analizzata dallo scrivente in rapporto con l’incastellamento medievale; un fattore che dimostra il nesso tra il miglioramento colturale della specie e la distribuzione dei siti monastici e signorili 9. Gli effetti negativi provocati dall’assenza di un metodo corretto e integrato di ricerca multidisciplinare hanno condizionato ogni tentativo di valorizzare il comprensorio, in un contesto peraltro suggestionato dalla rimozione che le comunità hanno fatto del passato minerario, inquadrandolo nelle aule scolastiche alla stregua di un filone archeologico pari a quello delle necropoli protostoriche o delle tombe etrusche di cui è ricco il comparto 10. La ricerca antropologica recente ha fatto emergere il bisogno di “cannibalizzare” il proprio vissuto: la rimozione dell’esperienza della miniera è spesso inevitabile nel patrimonio collettivo, tanto forte è il carico di negatività che tale forma di produzione comporta nei minatori e nelle comunità di appartenenza 11. È però evidente come la concentrazione delle attività estrattive, in poco più di trecento anni di storia mineraria, abbia portato i Monti della Tolfa al centro di sperimentazioni e di processi di innovazione tecnologica di notevole interesse, da ritenersi pietre miliari nella tecnologia dell’età preindustriale: vale la pena ricordare, per l’abbondanza di fonti documentarie, lo sviluppo della tecnica di spurgo delle acque dalle platee delle cave a cielo aperto o l’introduzione della polvere da sparo per apprestare le mine da cava (a circa metà del Cinquecento), oppure ancora il passaggio dalla coltivazione del minerale con i ponteggi su parete verticale alla coltivazione in galleria, attraverso una fase intermedia (riferibile al Seicento), definita dalle fonti come lavoro a grottesco, consistente nell’asportazione in parete della polpa dei filoni alunitiferi, attraverso larghe aperture a cui spesso non corrispondeva un successivo lavoro di regolarizzazione del fronte di cava. I rapporti degli architetti camerali sono infatti ricchi di descrizioni di cave sgrottate in parete e sfondettate nella platea, ad opera di appaltatori desiderosi di ricavare il massimo profitto dal contratto di estrazione, con l’effetto di trascurare i lavori di regolarizzazione dei fronti e di ribasso delle platee, pure richiesti dai termini dell’accordo. L’insuccesso di un’attività che avrebbe potuto acquisire dimensioni più cospicue e durature nel tempo è dovuto all’incapacità della Reverenda Camera Apostolica di mantenere gli appaltatori entro i binari di un corretto impiego della tecnica estrattiva: allo scadere del contratto la cava era di solito in condizioni così critiche che i successivi appaltatori preferivano attivare nuovi lavori di ricerca, piuttosto che mettere in atto costosi scavi di ribasso delle platee e di regolarizzazione dei fronti di cava, resi oltretutto pericolosi dai crolli frequenti (slamature) 12. Una diversa perizia viene posta, al contrario, nel perfezionamento delle tecniche di raffinazione del minerale, suddivise nelle quattro fasi della calcinazione, della macerazione, della lisciviazione e della cristallizzazione, che attendono ancora di essere indagate sotto il profilo tecnologico: sappiamo infatti che il sistema delle piccole caldaie di rame per la lisciviazione del minerale di alunite, qui introdotto nel 1690 in sostituzione delle grandi caldaie in bronzo, era ricordato tra i contemporanei come esempio di tecnologia di avanguardia 13. Un altro potenziale canale di ricerca è legato al rapporto tra centri urbani, cave, miniere e opifici: non tanto a Tolfa, il cui sviluppo è incardinato nel Rinascimento sul tessuto di età medievale, che esprime la classica forma dell’incastellamento, quanto nel caso di Allumiere, dove l’impianto originario del centro è stato progettato agli inizi del Cinquecento in funzione dell’estrazione dell’alunite ed è poi cresciuto come centro di raffinazione del minerale e di supporto logistico all’attività mineraria, in una valle disposta tra i monti aluminosi: il Faggeto, il Monte Maggiore, il Poggio Elceto e il Monte Roncone (oggi Monte delle Grazie) 14. 12 Alcuni approfondimenti sulla storia della tecnologia e sulla possibilità di documentarne effetti e applicazioni attraverso l’archeologia mineraria in Morelli 1996; Zifferero 1996b; Candelori 2000; per le carte di periodo dell’attività mineraria sui Monti della Tolfa, cfr. Zifferero 1996c; cartografie commentate anche in Pompei 1933; Rinaldi 1978, 1985; sulle tecniche estrattive in Età Moderna vedi Farinelli 2017, pp. 111-137 e, con riferimento al comparto tolfetano, Carloni, Doronzo 2018. 13 Di Carlo et al. 1984, pp. 40-50. 14 Per lo sviluppo urbano di Tolfa è ancora attuale Morra 1979; le vicende storiche ed estrattive legate alla nascita di Allumiere sono in Rinaldi 1978; Brunori 1985; gli aspetti urbanistici sono trattati in Genovesi 2000 (scheda di Claudio Gentili). Per il piano di fattibilità del Parco Regionale dei Monti della Tolfa, cfr. Contoli, Lombardi, Spada 1980; un esempio di trattamento separato dei dati ambientali rispetto al paesaggio antropico dei Monti della Tolfa in Faraglia, Riga 1997. Sulla funzione dell’archeologia come indicatore per leggere il dissesto idro-geologico in un parco possibile sui Monti della Tolfa, vedi Zifferero 1999; per una lettura integrata delle risorse boschive locali nella storia dell’industria mineraria, cfr. ora Passigli, Spada 2014. 9 Zifferero 1999b. 10 Zifferero 1996b. 11 Sulla memoria storica nei distretti minerari cfr., p. es., Contini 1996 e Cannada Bartoli 2000, limitatamente all’area in esame. 8 99 A. Zifferero 2. L’ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE NELLE TESTIMONIANZE DEI NATUR ALISTI E NEI MANUFATTI (DAL CINQUECENTO ALL’OTTOCENTO) Un altro problema riproposto in letteratura, sia pure in modo cursorio ma in veste finalmente scientifica, è la presenza in zona dell’ematite, nelle varietà lamellare e macrocristallina (oligisto): questo minerale, di inequivocabile origine elbana, era impiegato in supporto alla limonite locale negli impianti siderurgici tolfetani, a partire almeno dal Duecento e Trecento, come hanno sottolineato recenti indagini archeometallurgiche, con un picco di intensità tra Cinquecento e Seicento 19. La necessità di incrementare il tenore metallico della vena di ferro tolfetana è un dato ricorrente nelle cronache e nei documenti d’archivio; un fenomeno emerso, del resto, in molti siti basso-medievali della Toscana, attraverso indagini archeometallurgiche a fianco dell’intervento archeologico: in questi casi si legge con chiarezza la necessità di migliorare la resa qualitativa del metallo, ottenuto con l’uso dei cappellacci limonitici di alterazione delle mineralizzazioni a solfuri misti 20. Nel bacino metallifero tolfetano, l’afflusso dell’ematite elbana sembra addensarsi intorno a due fasi principali: una prima basso-medievale, rivelata da un impianto siderurgico scavato di recente nel sito di Cencelle e probabilmente anche da ematite proveniente dal castrum Ferrarie; una seconda, di età rinascimentale e barocca, testimoniata da fonti d’archivio dell’Ospedale romano di Santo Spirito in Sassia, che acquisiva ematite elbana per alimentare una ferriera attiva nell’area di Manziana, della cui produzione resta traccia nei documenti dell’Archivio Segreto Vaticano e nei resti monumentali segnalati per la prima volta negli anni Sessanta del Novecento 21. L’ematite destinata alla ferriera di San Spirito alla Mantiana giungeva al porto di Santa Severa: qui è stata localizzata in abbondanza nello specchio d’acqua antistante lo scalo da recenti ricerche subacquee 22. La cospicua diffusione dell’ematite nella media valle del Mignone ci illumina sulla dinamica del trasporto del minerale grezzo all’interno, indiziando le presumibili stazioni di cambio del trasporto (o più verosimilmente di arrostimento, in considerazione dell’estesa copertura vegetale): vi si rinvengono infatti in superficie masselli anche nella varietà dell’oligisto, per i quali persiste l’equivoco, da parte degli studiosi locali, che siano frutto della minerogenesi del settore (che peraltro ha un substrato a flysch di chiara origine Per capire a fondo la consistenza del patrimonio industriale dei Monti della Tolfa occorre sottolineare come esso abbia prodotto una documentazione di rilievo nella storia della tecnologia: basti pensare all’interesse dei naturalisti seicenteschi e settecenteschi, che hanno lasciato corografie di dettaglio (in particolare quella di Pier Maria Cermelli, stampata a Napoli nel 1782, con rappresentazione ingrandita dell’area estrattiva dei solfuri misti, a Sud della Bianca), cioè vere e proprie carte di periodo dell’attività mineraria che suppliscono alla ancora limitata conoscenza del materiale d’archivio. La tendenza tutta illuminista di produrre descrizioni accurate da parte dei naturalisti e dei geografi ha di fatto moltiplicato le fonti documentarie sui progressi delle tecnologie nei settori della geologia e mineralogia e delle tecniche estrattive 15. Resta insuperata l’opera di Scipione Breislak (1786) sulla natura e i caratteri dei depositi minerari della Tolfa: una descrizione accurata degli aspetti minerogenici ed estrattivi dell’alunite, utile, tra l’altro, per collocare con relativa precisione le prime cave attivate nella zona circostante Tolfa e quelle alla Bianca (cosiddette “lumiera inferiore” e “lumiera superiore”): è comunque evidente come l’apporto maggiore del testo risieda nel valore epistemologico e nel metodo di indagine applicato alle scienze naturali 16. Argomenti che meritano adeguati approfondimenti derivano dalla ricerca sulle tecniche seicentesche e settecentesche di prospezione e coltivazione dei filoni metalliferi: si può infatti osservare come la strategia di ricerca e scavo a cielo aperto, di solito adoperata nell’estrazione dell’alunite, preceda quella in galleria nella coltivazione della galena argentifera: un metodo peculiare per i solfuri, che si riscontra nelle coeve attività estrattive delle Colline Metallifere (Monti di Campiglia), dove è stato praticato nella Cava del Piombo presso Monte Calvi 17. Un elemento di forte interesse è la presenza di minatori sassoni, richiamati nel Settecento per risolvere problemi di ingegneria mineraria che la tecnica di scavo a cielo aperto non riusciva a superare nella ricerca e coltivazione dei solfuri misti: sarebbe costruttivo tentare un’analisi condotta con i metodi dell’archeologia mineraria, per determinare l’effettiva portata di questi interventi nell’area più meridionale del bacino minerario tolfetano, con l’ausilio dei documenti d’archivio e dei testi di naturalistica, contenenti la nomenclatura dei pozzi e delle gallerie di raccordo scavate dai Sassoni 18. cunicoli, è efficacemente avanzata in Felicioni 2000; ulteriori informazioni su questa presenza in Fornander 1989. Per la documentazione archeomineraria superstite, cfr. ora Tamagnini 1999. 19 La distribuzione medievale e moderna dell’ematite elbana sulle coste del Lazio, in forma di minerale crudo, deve essere ancora inquadrata dalla ricerca storica, tecnologica ed archeomineraria: per una utile sintesi, anche se molto datata, cfr. Ilva 1938. Per alcuni aspetti della presenza del ferro elbano nel bacino minerario tolfetano, si rinvia a Zifferero 1991, 1992; i risultati delle indagini archeometallurgiche sul materiale semilavorato da Cencelle in La Salvia 2000, 2014 con bibliografia. Sui giacimenti ferriferi dei Monti della Tolfa è ancora fondamentale Ferrini 1975. 20 Per la tecnica di arricchire il tenore metallico della limonite dei giacimenti delle Colline Metallifere con l’ematite elbana, cfr. Francovich et al. 1989; Benvenuti et al. 1992; Cucini Tizzoni, Tizzoni 1992. 21 La Salvia 2000; per l’ematite dai dintorni del castrum Ferrarie, cfr. Berardozzi, Cola, Galimberti 1998, p. 11. 22 Sullo scalo dell’ematite elbana a Santa Severa e il rapporto con la ferriera di Manziana, un cenno in Zifferero 1991, nota 49; la ferriera di Manziana è segnalata in Vecchiarelli 1962-63 e Cavallini 2006. Per l’identificazione di un relitto carico di ematite elbana nello specchio d’acqua antistante Santa Severa, cfr. Enei 2008, pp. 57; 65; 87-88 n. 42, con bibliografia. 15 Cermelli 1782: questa cartografia è trascritta in Berardozzi, Cola, Galimberti 1998, pp. 137-142; tra gli studi del periodo vedi anche Morozzo 1791 e i documenti seicenteschi e settecenteschi trascritti in Morra 1979, provenienti da archivi locali. 16 Sull’identificazione della lumiera inferiore e della lumiera superiore si veda Brunori 1985. 17 Per la tecnica di estrazione a cielo aperto dei solfuri misti nei giacimenti del Campigliese, cfr. Casini 1993; Cascone, Casini 1997; Farinelli 2017, pp. 111-137. 18 Il contributo tecnologico portato dai Sassoni nel bacino tolfetano è impostato in Cavallini 2000, anche per gli aspetti della metallurgia estrattiva desumibili dagli opifici sopravvissuti; un’interpretazione negativa di questo apporto, ben visibile nella tecnica di coltivazione del filone attraverso pozzi e 100 Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma) fig. 7 – I resti dell’Edificio del Piombo, presso Poggio Ombricolo (Allumiere) (XVIII secolo). fig. 8 – Diagramma schematico delle relazioni tra archeologia del paesaggio ed archeologia del paesaggio minerario. marina); equivoco alla radice di errori passati nella letteratura specializzata, sempre difficili da sradicare 23. In tale contesto un ruolo di primo piano è comunque svolto dai forni fusori degli Orsini, che intorno alla metà del Cinquecento assorbivano una quota rilevante del flusso di ematite elbana: il minerale arrivava via mare a Palo, nel territorio del Ducato di Bracciano; nel Seicento l’attività siderurgica era stata elevata a vera e propria impresa, con un sostanzioso impegno economico riversato nelle ferriere di Cerveteri e Bracciano, grazie al matrimonio di Isabella Appiano con Paolo Giordano Orsini 24. L’ematite elbana è stata adoperata anche nella fase conclusiva della siderurgia tolfetana, alla metà dell’Ottocento, per incrementare il tenore metallico della limonite estratta a Pian Ceraso e trattata nell’altoforno di Cibona, sottostante l’abitato di Tolfa 25. In ogni caso, la sollecitazione indotta sul bacino tolfetano dalle numerose imprese estrattive e soprattutto metallurgiche del ferro e del piombo (a partire dalla seconda metà del Cinquecento, fino a circa la fine del Settecento) è stata fortissima: quasi tutte con esito negativo, tali imprese si sono indirizzate da una parte alla coltivazione della limonite locale, dall’altra alla coltivazione dei solfuri misti (in particolare la galena argentifera). Una discussione sul significato storico di questo fallimento si è aperta di recente: i resti monumentali delle attività metallurgiche (ferriere come quella alla caduta del fosso del Caldano, portata da poco all’attenzione degli studiosi, tramogge per la pesta del minerale alimentate ad acqua e forni per la fusione del piombo, come gli edifici collocati alla base del Monte Casalavio e presso il Poggio Ombricolo), costituiscono esempi di archeologia industriale di eccezionale interesse per lo studio della tecnologia di Età Moderna 26(fig. 7). 3. IL BACINO MINERARIO DEI MONTI DELLA TOLFA COME PARCO DELLE TECNICHE A fronte delle potenzialità del bacino minerario, i dati disponibili sotto il profilo dell’archeologia industriale, dell’archeologia mineraria e dell’archeometallurgia sono gravemente lacunosi: una recente analisi dell’archeologia industriale in area ha ancora una volta perso l’occasione per ricucire una materia eterogenea, ricca di chiavi di lettura diverse 27. Ciò che emerge è soprattutto l’incapacità di considerare i luoghi e i laboratori della produzione in relazione ai processi della storia: l’archeologia industriale diventa così un metodo d’indagine mirato più al rilievo e alla documentazione dei contenitori che al paesaggio minerario nella sua complessità tecnologica e ambientale. Il paesaggio delle cave e delle miniere conferisce tuttora una forte impronta alla parte più elevata dell’acrocoro tolfetano: questo settore, interessato dall’estrazione dei solfuri di ferro ancora nella seconda guerra mondiale, è stato oggetto di una precatalogazione da parte dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, mentre alcune ricerche mirate ne hanno indagato la topografia archeomineraria, in rapporto con l’impianto di nuove cave e miniere e il mantenimento o l’abbandono di quelle esistenti 28. Manca in ogni caso una lettura complessiva del paesaggio minerario, fatto di sopraterra e sottosuolo e di relazioni tra i luoghi di lavorazione in superficie e quelli sotterranei: nello schema di sintesi che si propone, emerge la necessità per la ricerca archeologica (ma anche storica), di restituire un’im- 23 Si veda al proposito Brunori, Mela 1990, seguito da Berardozzi, Cola, Galimberti 1998, pp. 18 s., dove l’ematite è confusa con la pirite. Per il rapporto, tutto da verificare, tra le scorie siderurgiche (anche di forgia) dall’area urbana di Cerveteri e i giacimenti tolfetani di ferro, cfr. ora Guidi, Troisi 2002. 24 Alcune osservazioni sul flusso dell’ematite elbana nel Ducato di Bracciano in Zifferero 1990. Per gli aspetti produttivi delle ferriere locali, cfr. Toscano, Prezioso 1996; manca tuttora una trattazione esaustiva di questi opifici, situati in particolare nell’area di Cerveteri: sul tema vedi Cavallini 2006, con bibliografia. 25 Sull’impiego di ematite elbana, accanto alla limonite locale, nell’altoforno di Cibona, cfr. Giordano 1864, p. 328; molti aspetti (anche storici) della siderurgia ottocentesca promossa dalla “Società Romana delle Miniere di Ferro e sue lavorazioni” sono raccolti in Klitsche de La Grange 1882; cfr. anche Zifferero 1991, nota 30. 26 I resti monumentali delle attività metallurgiche sono ancora mal conosciuti, ad eccezione forse della settecentesca fonderia (Edificio del Piombo), posta presso il Poggio Ombricolo: Di Carlo et al. 1984, pp. 95-101; Cavallini 2000; Felicioni 2000; sulla ferriera alla caduta del fosso Caldano, cfr. ora Berardozzi, Cola, Galimberti 1998, pp. 81-95; Cavallini 2006. 27 Per una visione complessiva su questi temi si rimanda a Francovich 1993; Preite, Francovich 2009; alcuni aspetti dell’archeologia industriale nel Lazio e in particolare nel bacino minerario tolfetano sono ora trattati parzialmente in Natoli 1999. 28 Cavagnaro, Foschi 1990; Zifferero 1996b, 1996c. 101 A. Zifferero fig. 9 – Elaborazione cartografica dell’itinerario “Archeologia in Miniera”, con le principali cave e miniere dell’area circostante Allumiere. Simbologia: 1 = estensione dei centri abitati; 2 = cava a cielo aperto; 3 = miniera in galleria o pozzo; 4 = centro visita; 5 = punto di partenza dell’itinerario; 6 = luogo di culto. Topografia: 1 = Allumiere; 2 = La Bianca; 3 = Miniera Provvidenza; 4 = Cava Rotella; 5 = Cava della Castellina; 6 = Cavetta; 7 = Cava Gregoriana; 8 = Cappella di Santa Maria delle Grazie; 9 = Cava della Paura; 10 = Parcheggio del Faggeto di Allumiere; 11 = Cava del Moro; 12 = Pozzo Gustavo; 13 = Miniera di Santa Barbara; 14 = Centro Visita di Poggio Elceto; 15 = Cappella Grande di Agostino Chigi; 16 = Cava della Bianca; 17 = Cappella nella Selva di Cibona; 18 = Chiesa di Santa Maria di Cibona (fonte: Zifferero 1996b). 102 Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma) fig. 10 – L’analisi di un paesaggio minerario: le fasi della ricerca. fig. 11 – La sintesi di un paesaggio minerario: le fasi della valorizzazione. magine del paesaggio in una prospettiva di lunga durata, che si ricostruisce per mezzo di una scomposizione e poi di una reinterpretazione del suo assetto odierno, fino a definire il “paesaggio minerario” come uno degli esiti dell’interazione tra comunità e risorse 29 (fig. 8). È evidente come le aree di lavorazione del minerale e gli impianti di metallurgia estrattiva debbano essere letti in connessione con le attività minerarie, in un’opposizione superficie/sottosuolo che è peculiare dei distretti italiani ricchi di giacimenti: una considerazione globale di tali fenomeni ha portato alla ricostruzione e alla valorizzazione di tali aspetti nel Parco Archeominerario di San Silvestro (Campiglia Marittima, LI), che ha tentato di “ricucire” il paesaggio minerario, ponendosi l’obiettivo di esaltarne il tessuto connettivo, 29 Uno studio di grande valore sulla ricostruzione del paesaggio antropico nel bacino minerario è Passigli 2000. 103 A. Zifferero con l’identificazione dei segni dell’attività estrattiva e dei luoghi di trasformazione del minerale estratto. Questi segni sono stati collegati da percorsi che ne hanno di volta in volta associato e sottolineato i caratteri di omogeneità o diversità, a seconda della tipologia e della cronologia di ciascuno 30. Nel caso dei Monti della Tolfa, si dispone di un censimento schedografico (parziale) circa il patrimonio di superficie architettonico e toponomastico, mentre il lavoro nel sottosuolo è da ritenersi appena avviato, attraverso l’indagine delle tecniche estrattive; un dato che emerge invece con chiarezza è l’eccezionale consistenza della documentazione d’archivio (la cui analisi è iniziata da poco), sulla storia delle tenute agricole e soprattutto sull’impiego del patrimonio boschivo: il rapporto tra tenute, boschi, cave e miniere e opifici di lavorazione metallurgica dovrebbe rappresentare il vero obiettivo della ricostruzione del paesaggio minerario 31. In virtù delle considerazioni esposte, è sempre più urgente censire in modo esaustivo i segni e la documentazione, prima di produrre una forma di valorizzazione estesa: le esperienze condotte fino ad oggi, infatti, hanno consentito di sperimentare le possibilità di un progetto di valorizzazione anche minimo e fortemente selettivo: il richiamo è all’esperienza di “Archeologia in Miniera” nell’ambito del Progetto “Archeodromo dell’Etruria Meridionale”, messo in atto negli anni Novanta, il cui scopo dichiarato era di restituire al visitatore un’immagine sintetica ma soddisfacente del paesaggio minerario, considerato sotto il profilo dell’evoluzione delle tecniche estrattive 32 (fig. 9). Il bacino minerario tolfetano è in effetti il distretto ideale per prevedere un intervento sul modello del museo diffuso (in parte realizzato dal Progetto Archeodromo) o del parco archeominerario, a patto di avviare un processo conoscitivo, al momento del tutto insufficiente. È comunque evidente il carattere selettivo di ogni azione di valorizzazione: proprio in ragione di ciò, è opportuno considerare in senso teorico il significato e la portata della conservazione dal punto di vista dell’archeologia industriale. Il problema infatti non si limita al recupero e al riuso dell’edificio industriale dismesso, in quanto “contenitore”: occorrerebbe, al contrario, riflettere sul ruolo attivo che esso può svolgere nell’ambito di un processo di rivitalizzazione di un’area industriale dismessa. Se infatti il ripristino di edifici industriali in ambito urbano consente di offrire alla città nuovi e suggestivi spazi espositivi (si veda, p. es., la vicenda dell’ex Centrale Montemartini a Roma), l’esperienza insegna come sia rischioso il recupero dei volumi industriali nei distretti a basso indice demografico, il caso appunto dei Monti della Tolfa. I progetti dovrebbero infatti essere ammessi al finanziamento soltanto se accompagnati da adeguati piani di gestione, vero tallone d’Achille dell’archeologia industriale: la stessa gestione dovrebbe essere pianificata nelle applicazioni della ricerca scientifica, della sperimentazione e della fruizione. In tal senso il distretto tolfetano potrebbe rappresentare in modo eccellente una forma di valorizzazione, consistente in un “parco delle tecniche”: la possibilità di disporre di resti di opifici di varie epoche potrebbe suggerire il fatto di restaurare o ricostruire parte di essi per riproporne caratteristiche e funzionamento al pubblico: in altre parole, una soluzione che permetterebbe di offrire in tempo reale una selezione di tecnologie del passato, evitando di snaturarne la funzione e i caratteri originali 33. La tipologia a disposizione è straordinaria: dalle mole ad alimentazione idraulica alle fornaci di arrostimento, dalle ferriere alle fonderie del piombo, dalle cave alle miniere con i pozzi estrattivi, per non parlare delle abitazioni e degli uffici amministrativi, che potrebbero ospitare i centri visita del parco. Una cornice da laboratorio della tecnologia, tale da allineare questi interventi alla fisionomia dell’ecomuseo: il fine è, tuttavia, riproporre forme e modi di produzione del passato, ricostruiti con funzioni di divulgazione e comunicazione della storia industriale, in un contesto naturale che si presta, tra l’altro, molto bene allo scopo, per accostare in modo più consapevole il visitatore anche agli aspetti dell’ambiente. Nella stessa prospettiva si potrebbero parimenti affrontare problemi più generali, legati alla storia della tecnologia e della scienza, attraverso il progredire dei processi di metallurgia estrattiva, senza tralasciare di sottolineare l’impatto negativo di molte attività, anche di età preindustriale, sull’ambiente, per mezzo delle modifiche antropiche tuttora visibili (fauna e flora sviluppatesi con il microclima umido nelle cave di alunite, flora cresciuta sulle discariche di minerali metallici ecc.). In un contesto entro il quale il patrimonio viene consegnato alla futura memoria attraverso la conservazione, importanti strumenti di divulgazione scientifica potrebbero scaturire dalle pratiche ormai correnti dell’archeologia della produzione e dell’archeometallurgia, i cui tratti sperimentali possono essere trasmessi con efficacia, sulla base di uno schema di valorizzazione attiva del paesaggio minerario 34 (figg. 10-11). Allo stesso modo, una lettura storica delle tenute agricole e dell’uso delle risorse boschive potrebbe invece aprire ad una conoscenza dell’ambiente integrata con le linee di tutela e valorizzazione dei “paesaggi rurali di interesse storico”, in termini di approfondimento delle origini e delle ragioni d’essere del paesaggio contemporaneo: in questo senso si potrebbe lavorare per la restituzione di alcune delle molte identità storiche del comprensorio, dall’età preromana al passato più recente 35. BIBLIOGR AFIA Agnoletti M. (a cura di), 2010, Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale. Historical Rural Landscapes. For a National Register, Roma-Bari. Ait I., 2014, Una nuova risorsa: l’allume, in L. Ermini Pani, M.C. Somma, F.R. Stasolla (a cura di), Forma e vita di una città medievale: Leopoli-Cencelle, Catalogo della mostra, pp. 144-145. Barbieri G., 1940, Industria e politica mineraria nello Stato pontificio dal ’400 al ’600. 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Enei, Genovesi, Zifferero 1995a, 1995b; Enei, Genovesi , Zifferero 2001. 34 Per gli aspetti relativi ai cicli produttivi e alla diffusione delle tecniche e del sapere empirico nel mondo antico è tuttora fondamentale Mannoni, Giannichedda 1996. 35 Passigli, Spada 2014; i paesaggi rurali di interesse storico sono discussi in Agnoletti 2010, con riferimento ai Monti della Tolfa alle pp. 377-379. 104 Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma) Benvenuti et al. 1992 = Benvenuti M., Francovich R., Guideri S., Mascaro I., Tanelli G., Le scorie metallurgiche medievali di Rocca San Silvestro, in L’Appennino settentrionale (76a Riunione della Società Geografica Italiana), Firenze, pp. 295-297. Berardozzi A., Cola G., Galimberti M., 1998, I Monti della Tolfa nella storia. Lo sfruttamento degli altri minerali e metalli, 3, Tolfa. Bianchi et al. 1997 = Bianchi G., Boldrini E., Casini A., Cicali C., Guideri S., Zifferero A., San Silvestro. 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Underground excavations for sulfides have been carried out surely in Medieval period, though the most significant open-air quarries to dig out alunite masses date back from Renaissance period up to 18th century: the exploitation of such ores has been developed under the direct administrative control of the Roman Church. Modern mining archaeology investigation has been promoted on a very small-scale, not enough to trace a precise chronology of extraction and a detailed map of mining activities; at the same time, a huge bulk of archival documents by the Reverenda Camera Apostolica still waits to be consistently analyzed and published. This work focuses on the actual “state of the art” of archaeological and historical research on the Monti della Tolfa district, trying to push the debate towards possible models of investigation and enhancement of the local mining landscapes. A future plan for detecting, maintaining and enhancing such an articulated heritage should take in consideration the planning of a park and a careful recording of archaeological traces and historical documents regarding ancient mining and metallurgical techniques. Zifferero A., 1996c, Problemi di archeologia mineraria nel Lazio: il caso dei Monti della Tolfa, «Archeologia Medievale» XXIII, pp. 739-753. Zifferero A., 1999a, Il contributo dell’archeologia alla pianificazione territoriale: il Parco dei Monti della Tolfa, in B. Amendolea (a cura di), Carta archeologica e pianificazione territoriale: un problema politico e metodologico, Roma, pp. 74-82. Zifferero A., 1999b, Archeologia e ambiente: note sulla situazione italiana, tra necessità di conservazione e prospettive di ricerca, in F. Lenzi (a cura di), Archeologia e Ambiente, Forlì, pp. 319-328. Zifferero A., 2008, Intervento in discussione, in N. Negroni Catacchio (a cura di), Etruria. Paesaggi reali e paesaggi mentali. 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Il termine, dall’etimologia incerta, deriva dal latino ălūmĕn, ĭnis e presenta dirette diramazioni già in età antica: per Isidoro di Siviglia questo sostantivo deriverebbe a lumine quod lumine coloribus praestat tingendis (Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XVI, 2, 2) e si ritrova sia in funzione aggettivante ălūmĭnātus, a, um e ălūmĭnōsus, a, um “contenente allume o che sa di allume” che sostantivante aluminosa, ōrum, “miniere di allume”. Indicazioni greche e latine di tipo storico-geografico attestano che l’allume era usato in vari ambiti (agricoli, architettonici, artigianali, medici) per le sue proprietà astringenti, antisettiche, conservative, lenitive allora note solo in parte (De Majo 2007, p. 71, nota n. 4). Dall’epoca alto-medievale in poi i ricettari tecnici lo presentano come minerale diventato indispensabile per il settore artigianale e artistico. Dalle fonti scritte pervenuteci emerge che la natura multiforme dell’allume ha comportato varianti linguistiche connesse ai diversi aspetti che esso assume nei numerosi luoghi di approvvigionamento. I sostantivi ălūmĕn, ĭnis, e il corrispettivo greco στυπτηρία, ίαϛ appaiono dalla tarda età repubblicana in diversi autori che ne hanno trattato riportando informazioni di tipo ambientale, formale, geografico e d’uso, seppur con incertezze interpretative e senza distinzioni tecnico-chimiche: Varrone associa l’allume allo zolfo come minerali spesso connessi a luoghi dal cattivo odore (Marco Terenzio Varrone, De Lingua Latina, V, 25) e Vitruvio a ciò aggiunge che alle pendici del Vesuvio vi sono terre e sorgenti calde a causa della presenza sotterranea di giacimenti di zolfo, allume e bitume che alimentano grandi fuochi (Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, II, VI, 1). Diodoro Siculo riferisce del monopolio di Lipari del commercio dell’allume (Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica V, 10, 2) e Strabone elogia l’isola per la ricchezza di στυπτηρίαϛ μέταλλον ’εμπρόσοδον (Strabone, Geografia, VI, 2, 10). Plinio il Vecchio definisce il minerale salsugo terrae (Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XXXV, LII, 183-185) e l’autore anonimo dell’Aetna lo riporta come spissus sucus da associare allo zolfo nel generare le fiamme del vulcano (Anonimo, Aetna, vv. 385-391). Infine Dioscoride Pedanio si rifà al contemporaneo Plinio nella distribuzione geografica dell’estrazione del minerale e nel suo uso in quanto ritenuto utile per curare numerosi problemi di salute (Dioscoride Pedanio, De materia medica, V, 106). In epoca decisamente più tarda, Cassio Felice ne loda le proprietà curative raccomandandone l’utilizzo contro i geloni (Cassio Felice, De medicina, X, 2-3). Dal periodo altomedievale l’allume è oggetto di brevi citazioni in pochi trattati e ricettari di varia natura, che riguardano per lo più il suo utilizzo in ambito domestico, artigianale e/o artistico. Nelle Compositiones variae ad tingenda musiva (810 ca.) 1 è suggerito l’uso dell’allume asiatico o alessandrino, considerati i più adatti per colorare le pelli, rendere il ferro dorato o colorare il vetro di verde (Singer 1948, p. 43). Una fonte simile a questa è la cosiddetta Mappae Clavicula 2: delle circa 300 ricette presentate, molte riguardano i metodi per la preparazione di colori e per la trasformazione dei metalli. Il termine ‘allume’ qui ricorre molto più frequentemente che nelle Compositiones con indicazioni di varianti del suo utilizzo: per ‘produrre’ oro è consigliato l’allume scisto 3, per ‘scrivere lettere dorate’ quello liquido 4, mentre l’asiatico è suggerito per colorare oggetti solidi quali ossi, corni e legno 5, per rendere il ferro dorato 6, ma soprattutto per tingere le pelli 7. Un’opera interessante per l’impiego del minerale è il trattato dal titolo De coloribus et artibus romanorum, attribuito a Eraclio, nome probabilmente fittizio, risalente ai secoli X-XIII: oltre a diverse ricette per la doratura del ferro, compaiono nello scritto alcuni preparati originali in cui l’allume viene indicato per stemperare i colori 8 e per 1 Lucca, Bibl. Capitolare, 490: manoscritto miscellaneo (con testi di storia, agiografia, trattatistica, etc.) realizzato tra il 787 e l’816 da vari copisti. Alle carte 217r-231r è la raccolta Compositiones ad tingenda musiva, pelles et alia, ad deaurandum ferrum, ad mineralia, ad chrysographiam, ad glutina quaedam conficienda, aliaque artium documenta, ante annos nongentos scripta, uno tra i più antichi ricettari di ambito tecnico-artistico in lingua latina pervenutoci. Quest’opera è costituita da procedimenti sistemati senza ordine nella quale confluiscono diverse fonti, con alcune ricette collegabili a quelle del Papiro di Leida (ricettario in lingua greca del III secolo d.C.) e di Stoccolma, e corrispondenze con il De Coloribus di Eraclio e il successivo Mappae Clavicula. 2 Con Mappae Clavicula si intende un codice del XII secolo conservato presso il Corning Museum of Glass (New York), che raccoglie la tradizione terminale di una serie di testi: il primo, De coloribus et mixtionibus, è in versi e ha una fortunata tradizione: lo si ritrova, infatti, allegato per intero o in parte, in molti manuali medievali di tecniche artistiche, fra cui il De arte illuminandi; il terzo coincide sostanzialmente con il testo noto come Compositiones ad tingenda musiva (vedi supra). 3 Mappae Clavicula, Aurum plurimum facere, I. 4 Ivi, Aureas litteras scribere, XL. 5 Ivi, Tinctio prassina ossuum, cornuum et legnorum, CCXL. 6 Ivi, De inauratione ferri, CCXLV. 7 Ivi, Qualiter pelles tingantur, CXXVIII. 8 Eraclio, De coloribus, III, 30, Alumen quomodo debet distemperari. * Università di Pisa e Milano (romano.ele@gmail.com). ** Università di Pisa e Firenze (fabiana.susini@gmail.com). 109 E. Romanò, F. Susini fig. 1 – Allume nelle sue forme naturali: capillare, rotondo e scisto. Da Singer 1948, p. 235. tingere il ‘cordovano’ 9. La ricetta successiva riguarda invece quomodo poteris de bresilio operari, ossia la procedura per la realizzazione del pigmento rosso dall’unione di legno di brasile, urina e allume 10. Per le sue proprietà fissative dei colori sui tessuti e di inaurare i metalli, l’allume risulta l’ingrediente basilare di molte opere di alchimia araba e latina, così come riportato da Vannoccio Biringuccio nella sua opera De la pirotechnia libri decem edito nel 1540: «gli alchemici e li parteliori molto se ne serveno, anzi senza esso le loro acque acutesar non posseno» (Biringuccio 1540, VI). Il ruolo importante rivestito dall’allume risulta continuare anche durante tutta l’età basso medievale, poiché essenziale nell’arte della miniatura e massicciamente estratto in vari territori del Mediterraneo. I libri miniati erano infatti detti anche ‘alluminati’ o ‘illuminati’ per la loro brillantezza, dovuta soprattutto all’uso di lacche alluminate 11 cosparse sui colori per fissarli e proteggerli. Anche la pergamena (presumibilmente ‘conciata’ all’allume), prima della pittura, poteva essere impregnata di una soluzione di questo minerale unito a piccole quantità di cinabro 12. Da una forte diffusione pratica si è originata la confusione etimologica sulla derivazione di ‘alluminare’ usata da Dante come verbo indicante l’arte che ‘alluminare è fig. 2 – Lavorazione dell’alunite per ottenere allume. Da Agricola 1556, p. 571 (ed. Hoover). chiamata in Parisi’ 13; tale imprecisione interpretativa deriva probabilmente dal noto uso francese di decorare le pagine miniate con punti d’oro e d’argento posti accanto ai colori. A seguito delle difficoltà di approvvigionamento del minerale per la presenza ottomana in diversi luoghi connessi con la sua estrazione (soprattutto greco-orientali), importante fu la scoperta di allume di buona qualità a Volterra intorno al 1458, anche se la sua produzione locale cominciò ad esaurirsi appena dopo un ventennio (Delumeau 1990, p. 18). La scoperta dei giacimenti della Tolfa tra il 1462 e il 1463 fu in tal senso provvidenziale: il Papa ebbe da allora un vero e proprio monopolio dell’allume su tutta l’Europa 14. 9 Ivi, III, 33. «Quomodo corduanum tingitur». Il cordovano è un cuoio piuttosto pregiato e prende il nome dal suo primo centro di produzione, Cordova, che era particolarmente fiorente sotto il dominio arabo. La sua particolarità è data dal tipo di pelle usata, quella di muflone, e dalla concia che doveva essere necessariamente quella all’allume, poiché doveva essere «corium […] nondum coloribus tinctum, sed purum et album». 10 Ivi, III, 34. Il brasile è una pianta di origine orientale e introdotta in Europa nel X secolo, usata per tingere tessuti e preparare lacche alluminate. Nel XVI secolo se ne trovò in abbondanza nelle regioni sudamericane, in particolare in Brasile che proprio da questa prese il nome. 11 Miscele di allume, zucchero e miele, incorporate in soluzioni di gomma arabica e chiara d’uovo. 12 Proprio nel ricettario di un autore anonimo composto nel XIV secolo intitolato De arte illuminandi (Manoscritto XII.E.27, Bibl. Naz. Napoli), l’allume è indicato come mordente per i colori nelle pagine da miniare. Cfr. De Majo 2007, p. 73. Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, XI, 81. Papa Pio II riferisce nei suoi Commentarii (VII, 12) le parole del commerciante Giovanni da Castro, fautore del felice rinvenimento: «Oggi ti reco la vittoria sui Turchi [… ]. E ciò perché l’allume non si trova presso i latini se non in piccola quantità nell’isola d’Ischia, un tempo chiamata Aenaria, vicino a Pozzuoli, e nella grotta Liparea di Vulcano, che però fu a tal punto sfruttata dai Romani da essere quasi esaurita. Ma io ho trovato sette montagne talmente ricche di quel minerale che basterebbero per fornire sette mondi. Se ordinerai di far venire i lavoratori, per preparare le fornaci, di fondere le pietre, potrai fornire allume a tutti i popoli dell’Europa e verrà meno ai Turchi ogni profitto da questo commercio; il che, aggiunto al profitto che tu ne trarrai, sarà per loro un doppio danno [… ]. Questa miniera darà a te la forza necessaria alla guerra, vale a dire il denaro e la toglierà al Turco». 13 14 110 Allume: attestazioni tecniche del termine e sue derivazioni linguistiche nelle fonti letterarie In tali circostanze storico-economiche e sociali vanno collocate le opere di due autori contenenti approfondite informazioni sulla lavorazione dell’allume: oltre al testo già citato di Biringuccio che definisce l’allume sustantia terrestre congelata (Biringuccio 1540, VI), per Giorgio Agricola nel 1556 l’allume è un “succo congelato” (Agricola 1554, XII) (fig. 2). In tale periodo si ebbe un ritorno in auge del termine che assunse anche valenza impropria poiché scelto da Giovanni Paolo Lomazzo per indicare, con l’espressione ‘maniera di allumare’, la tecnica usata da alcuni pittori per dare la luce, finendo ingenuamente per far coincidere semanticamente allumare con illuminare 15. Dal XVII secolo quasi nulli sono i riferimenti scritti all’allume in quanto il minerale iniziò a non essere più considerato come indispensabile per tutte quelle produzioni artigianali e attività artistiche che fino a quel momento lo avevano visto protagonista. Infatti dalla fine del XIX secolo i colori naturali non furono più utilizzati, fatta eccezione per quelli particolarmente forti (brasile, indaco, vermiglione) e anche l’allume non ebbe più un ruolo fondamentale nella tintoria: i nuovi coloranti, prodotti a base di carbone e catrame, non necessitavano di alcun mordente per fissarsi ai tessuti. Ciusa W., Lorusso S., 1978, L’allume come ignifugo nel periodo GrecoRomano, «Studi in memoria di Federigo Melis», I, pp. 115-125. De Majo S., 2006, Le anfore di Lipari e l’allume: le nuove ricerche sulle Richborough 527. Tesi di Laurea inedita. Università di Pisa. De Majo S., 2007, Il commercio dell’allume in età romana. Un monopolio dimenticato, «Salternum», II, pp. 71-75. Delumeau J., 1990, L’allume di Roma, XV-XIX secolo, Roma. Forbes R.J., 1993, Alum, «Studies in Ancient Technology», III, pp. 189-191. Heers J., 1954, Les gênois et le commerce de l’alun à la fin du Moyen Age, «Revue d’Histoire économique et sociale», XXXII, 1, pp. 31-53. Nenci G., 1982, L’allume di Focea, «Parola del Passato», CCIV-CCVII, pp. 183-188. Romano C.G. (a cura di), 1996, Eraclio, De coloribus et artibus romanorum e la composizione pseudo-eracliana. Introduzione, testo latino e traduzione, commentario, Bologna. Singer C., 1948, The Earliest Chemical Industry. An Essay in the Historical Relations of Economics & Technology Illustrated from the Alum Trade, London. Totano L. (a cura di), 1984, Enea Silvio Piccolomini Papa Pio II, I Commentarii, Milano. English abstract Alum is a term derived from latin alùmen, and has uncertain etimology. It is present in latin literary sources of Late Repubblican Age, in Middle-Age technical recipe books from the beginning of 8th century on, as well as in Renaissance literature, as an ingredient selected in hand crafted and artistic contexts. Alum was employed for preparing colours or used to enhance their brightness. Since the Middle Age, alum has been further used for other scopes and different lexical expressions have been developed for referring to it. In this hystorical and linguistical analysis we will present the lexical notations employed for dealing or referring to the term alum. BIBLIOGR AFIA Agricola G., 1556, De re metallica, edizione a cura di H.C. Hoover, New York 1950. Ait I., Boisseuil D. (a cura di), 2014, Le monopole de l’alun pontifical à la fin du Moyen Âge, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age» [online], 126, n. 1. https://mefrm.revues.org/1567. Biringuccio V., 1540, De la Protechnia, Venezia, ristampa anastatica a cura di A. Carugo, Milano, 1977. Borgard Ph., Brun J.P., Picon M. (a cura di), 2005, L’Alun de Méditerranée, Napoli-Aix en Provence. 15 L’autore utilizza impropriamente la locuzione nelle due opere: Trattato di pittura, scultura e architettura (1584), Idea del Tempio della Pittura (1590). 111 IL CONTESTO TOSCANO THE TUSCAN ALUM LANDSCAPE Luisa Dallai* LO SCAVO DELL’ALLUMIER A DI MONTELEO. NUOVI DATI PER LA PRODUZIONE DELL’ALLUME ALUNITICO NEL TARDO MEDIOEVO The excavation of the Allumiera di Monteleo. New archaeological data for the production of alum in the Late Middle Ages «È fatto degno di nota che, ad ogni periodo di rinascita della vita economica e culturale della regione, ritornano quelle attività legate alla natura del suolo, che il tempo sembrava avesse per sempre seppellite o deviate» (E. Fiumi 1943, L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale, Firenze, p. 65) 1. CONTESTO E OBIETTIVI delle priorità economiche. Lo studio archeologico del ciclo produttivo dell’allume alunitico può contare ad oggi su un numero relativamente modesto di dati provenienti da scavi o ricerche di superficie 2; per questa ragione le informazioni ottenute da progetti di scavo come quello condotto sul sito delle Allumiere di Monteleo, così come ogni altra indicazione desumibile da un approccio archeologico ed archeometrico al tema, risultano essenziali per comprenderne la complessità e valutarne l’evoluzione tecnologica e cronologica. La ricerca effettuata sul territorio di Monterotondo Marittimo ci ha offerto la possibilità di incrociare fonti diverse (storico documentarie; archeologiche; geologiche; cartografiche) per indagare una ampia diacronia dell’uso delle risorse. A partire dalla valutazione di tali sistemi di fonti proporremo in questa sede una rilettura diacronica della valorizzazione delle materie prime alla luce dei dati provenienti dalle più recenti campagne di indagine condotte sul complesso produttivo di Monteleo (fig. 1). Lo studio della produzione dell’allume e le indagini sul contesto dell’Allumiera di Monteleo (Comune di Monterotondo Marittimo, GR) hanno preso avvio nel 2008, all’interno del progetto “Colline Metallifere”, coordinato dall’Università di Siena 1. I caratteri complessi dell’indagine hanno consigliato di adottare sin dall’inizio una strategia fortemente integrata, basata sullo studio delle fonti materiali (Dallai 2014), dei documenti (Boisseuil 2005, Boisseuil 2009, Boisseuil 2014), del contesto ambientale e delle sue risorse (Dallai et al. 2009), con l’obiettivo di cogliere ed interpretare tanto i segni lasciati dal ciclo produttivo sul territorio, quanto i suoi possibili riflessi sulle dinamiche del popolamento, sull’assetto della viabilità, sui circuiti economici (si veda a questo proposito il contributo di Ponta, in questo stesso volume). Un approccio al tema il più possibile “globale” insomma (Mannoni 1997), in cui il territorio, vera e propria sintesi dei processi di trasformazione naturale ed antropica, costituiva esso stesso “la miniera” da cui ricavare le informazioni utili per definire la storia delle tecniche estrattive e produttive e comprenderne al meglio il portato economico e sociale. La ricerca archeologica ha preso avvio con una accurata campagna topografica che ha coperto significative porzioni del territorio comunale di Monterotondo Marittimo; da questa indagine, condotta fra il 2004 ed il 2007, sono emerse preziose indicazioni relative alle dinamiche del popolamento ed allo sfruttamento delle risorse presenti nell’area (Dallai, Fineschi 2006; Ponta 2015); lo scavo dell’Allumiera di Monteleo ha inoltre fornito l’eccezionale opportunità di approfondire i diversi steps legati alla lavorazione dell’alunite in un sito di produzione della prima Età Moderna, mettendo in luce la versatilità di simili centri produttivi, destinati a soddisfare differenti esigenze, a seconda delle fasi storiche e 2. ALLUME-ALLUMI: QUALCHE RIFLESSIONE SU UNA MATERIA PRIMA DI COMPLESSA DEFINIZIONE «L’allume è un minerale, o più precisamente parlando, un sale, o sugo rappreso, come dicono i chimici, che si trova prodotto dalla Natura nel seno della terra […] A due principali forme si possono ridurre le migliori, e più ricche vene d’allume, che si possano lavorare. La prima, che si trova molto sottoterra, ha forma di pietra notabilmente dura, agevolmente fendibile quasi come lavagna, inzuppata di bitume di zolfo, e facilmente incendibile. L’altra è di forma di terra bituminosa […] La prima, della quale sola è qui d’uopo di trattare, diversifica molto: 1 per la quantità dell’allume nativo imprigionatovi: 2 per la grandezza, per la figura e per il colore delle molecule formanti l’ammasso della pietra: 3 […] per la differente durezza e fissibilità di tutta la massa: 4 per la dose, * Dipartimento Scienze Storiche e dei Beni Culturali, Università di Siena (luisa.dallai@unisi.it). 1 Per un approfondimento sulle linee guida del progetto si veda in ultimo Banchi et al. 2013, in particolare alle pp. 81-82. 2 2005. 115 Per una sintesi sulla questione si rimanda alle considerazioni in Picon l. dallai fig. 1 – Monteleo. Posizionamento del sito e localizzazione dei toponimi citati nel testo. per la diversa purità, o impurità, per la differente attività o inerzia, per la diversa grassezza o magrezza dello zolfo o bitume che vi è mescolato: 5 per le varie sostanze eterogenee che comunemente vi sono mescolate […]» (Targioni Tozzetti 1751-1754, IV, pp. 312-315). Così Giovanni Targioni Tozzetti alla metà del ’700 tentava un approccio sistematico alle differenti qualità di materia prima dalle quali si poteva ottenere l’allume, dopo averle osservate nel corso dei suoi sopralluoghi sul territorio toscano. Con il termine allume, come noto, ci si è però nel tempo riferiti tanto ai diversi minerali di partenza quanto al prodotto finito, il che ha alimentato una notevole confusione terminologica che accomuna molte fonti scritte, a partire dalle più antiche. Chiarire, per quanto possibile, il significato attribuito al termine vuol dire affrontare con maggiore puntualità il tema delle materie prime che entrarono in gioco, nel corso del tempo, all’interno dei diversi processi produttivi e che vennero ritenute economicamente utili e furono tecnologicamente trattabili con procedimenti più o meno complessi. Se la storia delle tecniche produttive di periodo pre-industriale, anche di quelle più ricche di indicatori, è infatti sovente caratterizzata da ampi margini di incertezza che nè l’archeologia, nè l’archeometria e tanto meno le fonti scritte sono riuscite a fugare del tutto (si pensi alla complessità del ciclo produttivo multifase che caratterizza l’uso dei solfuri misti di rame e piombo/ argento proprio nel territorio di cui ci occupiamo in questa sede, le Colline Metallifere; Guideri 1996; Guideri in Bianchi, Dallai, Guideri 2009), nel caso dell’allume la stessa definizione tradizionale del soggetto sfugge alla stretta classificazione chimica. Gli allumi, come noto, sono così definiti soprattutto sulla base del loro utilizzo, e costituiscono una grande famiglia di sostanze mordenzanti che include diversi minerali ed alcuni vegetali o loro prodotti (Picon 2005, pp. 14-35) 3. Essendo queste materie prime raggruppate in funzione degli usi, è facilmente comprensibile che accanto agli allumi veri e propri (cioè ai diversi solfati doppi idrati di alluminio e potassio o di alluminio ed ammonio, o miscele dei due tipi – Al2(SO4)3K2SO424H2O; Al2(SO4)3(NH4)2O424H2O – Singer 1948, p. XVII), si trovino anche molti altri solfati idrati, quelli che Maurice Picon definisce “allumi naturali”, che sono il risultato dell’azione esercitata da fluidi acidi di natura idrotermale su rocce ricche in alluminio. Essi si incontrano prevalentemente all’interno di formazioni di natura vulcanica, ma possono essere rinvenuti anche in scisti argillosi che abbiano subito azioni idrotermali acide. Gli “allumi naturali” sono caratterizzati dalla mescolanza di diversi elementi che li rendono complessi da gestire dal punto di vista produttivo; è ad esempio un solfato idrato di ferro ed alluminio il ben noto “allume di piuma” (halotrichite), un prodotto largamente utilizzato sia in epoca antica che nel Medioevo ed importato principalmente dall’Egitto, caratterizzato da buone qualità mordenzanti ma che proprio la 3 A titolo di esempio ricordiamo il caso del cosiddetto “allume di feccia”, o dell’allume “catina” o “catino”, il primo ottenuto dalla combustione del cremor tartaro ricavato dalle botti dopo la fermentazione del vino, il secondo dalla combustione delle foglie della Salsola soda, Franceschi 2014, p. 160, con biblio. 116 Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo presenza del ferro rendeva non adatto al trattamento di colori chiari e brillanti (Evans 1936, p. 411; Picon 2005, pp. 19-20). Gli “allumi naturali” conobbero un utilizzo lunghissimo nel corso del tempo; le loro principali aree di approvvigionamento furono le isole egee (l’isola di Melos in particolare) e le Eolie, oltre all’area di Pozzuoli (Singer 1948, p. 38). La loro lavorazione, relativamente semplice, era per lo più limitata a cernita e lisciviazione, raramente accompagnata da una fase di arrostimento. Con la metà del XIII secolo agli “allumi naturali” si sostituì progressivamente lo sfruttamento intensivo di un altro tipo di materia prima, l’alunite KAl3(SO4)2(OH)6, un solfato idrato di potassio e alluminio che allo stato naturale risulta praticamente insolubile ma che, una volta trattato, assicura un prodotto di ottima qualità, utilizzabile dalle manifatture di stoffe e pellami senza il rischio di effetti cromatici indesiderati. Per trasformare l’alunite in allume è necessario un ciclo di lavorazione più complesso, che include come noto quattro tappe fondamentali: arrostimento, macerazione, lisciviazione e cristallizzazione. Questo processo è conosciuto certamente dal Medioevo, e fu ben descritto già alla metà del XIV secolo da Francesco Balducci Pegolotti nella sua Pratica della Mercatura 4. I dati contenuti nel testo si riferiscono al periodo 1310-1340, gli anni durante i quali Pegolotti svolse la sua carriera commerciale per la compagnia dei Bardi di Firenze; eccone alcuni passaggi salienti: «Quando allume si vuole fare di nuovo i maestri che ‘l fanno si pigliano la pietra la quale tagliano di rocche a piccone e a scarpello […] La quale pietra cuociono primieramente in cammini come si fa la calcina, per ispazio di 18 ore 5, e poi levano il fuoco del cammino e lascianlo raffreddare; e poi ch’è freddo il cammino si mettono queste pietre cotte in piazza ammassate e abbracciate […] e poi ogni giorno con condotti d’acqua le bagnano una volta, spezialmente la state, ma il verno perchè piove spesso non bisogna tanto bagnare, e così le tengono 4 mesi 6. In capo di 4 mesi la fanno cernire e tirare, cioè che la dura e che non è venuta tenera si gittano via, e la tenera la ripongono in magazzini, la quale è venuta a modo di calcina bene cotta; e poi pigliano di questa pietra cernita bene cotta […] e mettono […] in una caldaia […], sempre bollendo e sempre scurando il detto bagno con una cazza forata grande di ferro, traendone fuori ogni ordura 7. E quando è bene purgato, in capo delle 13 o 14 ore, si mettono questa acqua di questa caldaia e d’anche 2 altre caldaie che sono bollite a uno tempo per lo medesimo modo, e mettonlo in una pila fatta a modo d’uno avello di rovero grande, molto bene calafatato e bene stagnato, e poi foderato drento di piastre di piombo bene congiunte e saldate insieme, e lascionla posare 12 o 14 dì. E poi in capo di 14 dì truovano che questa acqua nella detta pila è rassodata ed è fatto allume, e truovano l’allume della rocca ch’è appiccato a modo di ghiaccio alla murrata della detta pila intorno intorno; allume di fossa truovano al fondo della detta pila 8; e l’acqua che non truovano tutta appresa si ne traggono e ripongonla e chiamonla acqua forte, chè migliore a lavorare poi con essa che non è l’acqua nuova del pozzo a far bollire poi dell’altra pietra, sicchè sempre hanno di questa acqua forte per fare nuovi bagni» 9 (Evans 1936, pp. 367-368). Dalla descrizione del ciclo di produzione appena riportata si comprende chiaramente che da una stessa località e da uno stesso minerale di partenza si ottenevano prodotti di prima scelta, il cosiddetto “allume di rocca” (o “grosso”), che si commerciava in forma di grandi cristalli, e prodotti di qualità inferiore, il cosiddetto “allume di fossa”, cioè un allume molto frammentato, ottenuto dalla raccolta dei piccoli cristalli sul fondo delle casse di cristallizzazione, di fatto una seconda scelta. Le due qualità di allume potevano inoltre essere mescolate per ottenere un ulteriore tipo di prodotto, il cosiddetto “allume di sorta della buona luminiera”; le eccellenti cave di Focea commerciavano le due qualità mescolate nelle proporzioni di 2/5 e 3/5 (Evans 1936, pp. 411-412). Pur essendo l’alunite presente anche sul nostro territorio, stando alla documentazione scritta essa non appare lavorata prima della metà del XV secolo, esattamente in linea con quanto sappiamo degli altri importanti depositi della Penisola (si vedano i contributi di Vallelonga, Stasolla, e Fineschi in questo volume). Ciò però non si deve certo alla complessità tecnologica del ciclo produttivo, verosimilmente già noto in occidente almeno dal XIV secolo, grazie alla circolazione delle informazioni che dai luoghi di produzione raggiungevano i centri di consumo, come prova la descrizione di Pegolotti. Le cause di questa apparente mancata valorizzazione devono dunque essere ricercate altrove, e l’imponente letteratura sull’argomento evidenzia come forti interessi economici e commerciali siano alla base del grandissimo sviluppo dell’industria dell’allume orientale (Lopez 1996; Fleet 1999; Jacoby 2005). Ricchissimi giacimenti di alunite erano infatti dislocati in varie regioni dell’Asia Minore e nelle isole dell’Egeo (Picon 2005, pp. 14-20), ed è proprio da qui che, fino alla metà del XV secolo, quando si sviluppò la grande industria estrattiva del bacino tolfetano e la solfatara napoletana conobbe una fase di più intenso sfruttamento, provenne la stragrande maggioranza di sali di allume 10. Commerciato in sacchi o botti (Fleet 1999, p. 158), l’allume raggiungeva le Fiandre, la Francia, l’Inghilterra e le principali piazze commerciali d’Europa (Dumolyn, Lambert 2018). Come noto, dalla metà del XIII e fino alla metà del XVI secolo il commercio e per un certo periodo anche la produzione di questa importante materia prima furono saldamente detenuti da importanti famiglie dell’aristocrazia genovese (Basso 2014, pp. 182-185). Dalle zone di produzione la merce giungeva in occidente seguendo rotte commerciali marittime che attraversavano il Mediterraneo, all’interno di navi per le quali essa costituiva anche una valida zavorra (Fleet 1999, p. 80). 4 Per la trascrizione si fa riferimento all’edizione della Pratica della Mercatura curata da Evans 1936. 5 Questa è la descrizione della prima delle quattro fasi del ciclo produttivo, cioè la calcinazione. 6 Questo è il riferimento alla seconda fase del ciclo produttivo, cioè la macerazione. 7 Il passaggio descrive la terza fase della lavorazione, cioè la lisciviazione. 8 La descrizione si riferisce all’ultima fase del ciclo produttivo, cioè la cristallizzazione. 9 Così è infine descritto il riutilizzo delle acque di scarto, assai ricche di allume, ossia gli spurghi che erano reinseriti nel ciclo produttivo per arricchire la liscia. 10 Delumeau 1962; Lopez 1996; Ait 2014, pp. 187-200; Feniello 2005, pp. 97-103. 117 l. dallai fig. 2 – Localizzazione dei fronti di cava, delle gallerie e degli impianti di produzione dell’allume individuati nel comprensorio delle Colline Metallifere. Ubicazione delle attestazioni di “allumi naturali” sulla base dei dati editi. sorgenti calde, lagoni e soffioni, che costituiscono un tratto peculiare dei paesaggi dell’allume toscani (Barazzuoli, Salleolini 1993, in particolare pp. 227-229). Al pari dell’alunite, la presenza di minerali riferibili alla grande famiglia degli “allumi naturali” è documentata in diversi punti del vasto comprensorio geotermico Monterotondo Marittimo-Castelnuovo Val di Cecina-Larderello-Montioni: l’epsomite (solfato eptaidrato di magnesio) è menzionata in prossimità di Monterotondo Marittimo; la melanterite, o vetriolo di ferro (solfato eptaidrato di ferro) a Sasso Pisano, Montioni e Niccioleta; entrambi i minerali compaiono a Monte Cerboli; la goslarite (solfato eptaidrato di zinco) accompagna l’alunite al giacimento del Cavone di Massa Marittima (Inventario 1995, schede 5, 14 17, 25, 32, 58), ma il panorama è senz’altro più articolato e ricco, come ben evidenziato dai dati raccolti a seguito della prospezione nell’area di Monteleo che vedremo più avanti. L’esistenza di “allumi naturali” in zone di stretta prossimità ai lagoni e soffioni è un fatto piuttosto comune, ed ha costituito da sempre una fonte di reddito significativa per l’area in questione, documentariamente attestata sin dal Medioevo, come risulta dall’inventario delle possessioni e rendite vescovili che nel 1301 confermava al vescovo di Volterra i diritti sull’allume dei lagoni del Sasso, Vecchienna, Leccia e Montecerboli (Fiumi 1943, p. 72). Nel 1326 il vescovo Ranuccio concesse al Comune di Monterotondo l’uso di acque e l’affitto di terra presso il lago di Vecchienna salvo et excepto omni sulphure et alumine quod appareret et reperiretur in dictis rebus locatis, quod remanere debeat ispsi domino episcopo (Fiumi 1943, p. 79). Dal primo venticinquennio del XIV secolo, con le specifiche rubriche aggiunte nel 1328 agli Ordinamenta super arte fossarum rameriae et argenteriae civitatis Massae (in par- 3. LE RISORSE ALLUMINIFERE DEL COMPRENSORIO DI MONTEROTONDO MARITTIMO La presenza di alunite e, vedremo tra un attimo, di “allumi naturali”, è documentata geologicamente su diverse aree del territorio toscano ed in particolare sul comprensorio delle Colline Metallifere dove, a cavallo fra le attuali province di Pisa, Livorno e Grosseto, se ne localizzano i principali depositi. È qui che la ricerca condotta dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena ha permesso di individuare vari punti di estrazione, sia a cielo aperto che in sotterraneo, oltre a localizzare i resti di alcune importanti allumiere databili al XV-XVI secolo (Paperini 2009, pp. 49-62; Dallai 2014) (fig. 2). Nel comprensorio l’alunite si rinviene entro rocce sedimentarie (scisti argillosi o argille ricche in alluminio e potassio); a Montioni invece l’alunite pura deriva dall’ossidazione delle originarie vene solfatiche in ganga silicea (quarzi) (Thirion-Mérle, Cantin 2009). I processi geologici che hanno determinato la formazione dei depositi alunitici sono all’origine della presenza di altre importanti risorse del sottosuolo, i celebri giacimenti di solfuri misti di rame, ferro, zinco e piombo/argento che danno il nome all’area (le Colline Metallifere appunto), e che conobbero un sistematico sfruttamento sin dall’Eneolitico. Le mineralizzazioni filoniane della zona, di origine idrotermale, sono il risultato dell’azione esercitata da fluidi mineralizzanti risaliti lungo le zone di faglia e frattura durante il Miocene ed il Pliocene, che determinarono la sostituzione dei carbonati originari con silice e solfuri (Costantini et al. 2002, p. 172). I giacimenti di alunite in particolare sono spesso associati a fenomeni di vulcanismo secondario, come ad esempio 118 Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo ticolare rub. 96), il Comune di Massa Marittima si riserverà l’esclusivo possesso pleno iure di alumen et sulfur, vitriolum et argenteria quod et que est in districtu Montisrotundi, ubicumque est aut antea apparebit (Panella, Casella, Rodolico 1938) e formalizzerà il controllo su una risorsa ritenuta strategica al pari di quelle metallifere, alla cui gestione gli Ordinamenta erano dedicati. Nel frattempo la produzione ed il commercio dell’allume in arrivo dall’oriente, e specificamente dalle ricchissime cave dell’Anatolia, erano finiti sotto il controllo ottomano, cosa che negli anni ’80 del ’300 avrebbe determinato anche un sensibile incremento di prezzo ed una restrizione della quantità di prodotto messo in commercio (Fleet 1999, pp. 92-93). L’allume menzionato dagli Statuti massetani include verosimilmente l’ampia gamma di solfati che abbiamo richiamato in precedenza, anche se non è il caso di escludere a priori la stessa alunite. La geologia dell’area di cui ci occupiamo ha dunque offerto i migliori presupposti perché la storia dello sfruttamento degli allumi (a questo punto senz’altro da declinare al plurale) conoscesse un avvio precoce, motivato dall’altrettanto precoce interesse economico per queste materie prime così ricercate, i cui molteplici impieghi erano conosciuti sin da epoca remota, come ci ricordano le numerose fonti letterarie antiche ed i ricettari altomedievali 11. Fra questi ultimi meritano una menzione specifica le Compositiones Lucenses, in considerazione dello stretto legame politico ed economico esistente fra Lucca ed il territorio di cui ci stiamo occupando, ed in special modo il micro-comprensorio monterotondino prossimo alla pianura del Frassine, legame ben documentato proprio per l’epoca a cui risalgono le ricette lucchesi (VIII-IX secolo) (Collavini 2007) (sul tema si rimanda a Bianchi, Tomei in questo volume). Pur con le cautele dovute per la natura della fonte, debitrice di una tradizione di saperi molto risalente (Singer pp. 43-44), l’ipotesi di un possibile utilizzo delle risorse locali legato ad alcuni degli usi, sia metallurgici che più genericamente manifatturieri, richiamati dal ricettario, è da ritenersi possibile. Ovviamente, per quanto sopra argomentato, è probabile che l’allume a cui si fa riferimento fosse da intendersi in un senso molto ampio, ed indicasse le diverse sostanze mordenzanti idonee per gli impieghi descritti e reperibili nell’area, i cosiddetti “allumi naturali”. Tuttavia la lavorazione ad alta temperatura dell’alunite locale ed il conseguente uso di alumina almeno dai secoli centrali del Medioevo (XIII secolo) sta emergendo grazie alle analisi archeometriche condotte sulle scorie metallurgiche provenienti dal comprensorio di Montieri (GR) (si veda in particolare il contributo di Chiarantini, Volpi in questo volume). È dunque evidente che nel territorio delle Colline Metallifere, forse già dai secoli di stesura delle Compositiones e certamente dal XIII secolo, vi fosse la capacità tecnica per valorizzare sia i cosiddetti “allumi naturali” che l’alunite, ed utilizzarne l’alumina, ottenuta dopo una fase di cottura e lisciviazione del minerale, come scorificante all’interno di processi metallurgici di produzione del piombo. 4. MONTELEO E LA VALLATA DEL FR ASSINE: IL GIACIMENTO, IL CONTESTO AMBIENTALE ED INSEDIATIVO ALLA LUCE DEI DATI ARCHEOLOGICI Alla metà del ’500 Vannoccio Biringuccio inseriva i giacimenti alunitici toscani, e più specificamente le aree di Massa Marittima e Monterotondo Marittimo, nell’elenco dei luoghi di maggiore interesse della Penisola per lo sfruttamento dell’alunite e dunque per la produzione di allume artificiale: «la miniera della sua pietra si trova nei monti come laltre miniere, ma in poche regioni […], et in Italia in più luochi, et più quantità et più bello, et migliore che alcuni degli altri […] Trovasene anchora nel dominio di Siena, a Massa, et a Monteritondo, pur del medesimo territorio, in più luochi. […] Et di questi detti, sol di tre sorte sonno quelli chio ho veduto, che luno è quel di Italia bianchissimo lucido et transparente simile a gran pezzi di cristallo. Congelasi grosso di forma squadrata con bellissimi anguli, qual altrimenti non dimostra essere che grandi diamanti. Anchora sene produce dunaltra sorte alquanto pendente in rosso, che si congela più minuto chel bianco, et non è così ben purgato, et di vigore è più potente, ma non è così vago alla vista» (Biringuccio 1540, II, c. 30-31). Anche Giovanni Targioni Tozzetti dedica un passaggio specifico al giacimento di Monteleo, sottolineandone la ricchezza «Vero è però che non da per tutto si trova l’allume in copia tale che si possa cavare con guadagno, e perciò gli uomini hanno prescelti alcuni luoghi, dove i filoni della pietra alluminosa erano più ricchi. Uno di questi è Monteleo, diramazione della montagna di Monterotondo» (Targioni Tozzetti 1751-1754, IV, pp. 316-317) 12. Posizionato al margine di un vasto campo geotermico, il giacimento di Monteleo ha origine idrotermale-epitermale e si inserisce all’interno del quadro geologico che è stato già descritto in precedenza per l’area delle Colline Metallifere. Anche in questo caso fluidi acidi, ricchi di zolfo, risaliti ad altissima temperatura grazie ad un fitto reticolato di fratture, hanno determinato la quasi totale silicizzazione della roccia madre, costituita da scisti argillosi molto ricchi in potassio ed alluminio, e la precipitazione e successiva concentrazione di solfuri polimetallici (come ad esempio Cu, Pb, Zn, Ag) (Dallai, Volpi 2015). Al pari degli altri circostanti, il giacimento di Monteleo è inoltre caratterizzato dalla presenza dei cosiddetti “allumi naturali”; nel caso specifico sono stati identificati esaidrite (solfato esaidrato di magnesio, MgSO4.6H2O), e tamarugite (solfato idrato di sodio ed alluminio, NaAl (SO4)2.6H2O) (Thirion-Merle 2009, p. 63). Lo sfruttamento delle risorse minerarie descritte poteva giovarsi di un contesto ambientale particolarmente favorevole, che rendeva disponibili in abbondanza legname ed acqua; il torrente Risecco, affluente del fiume Cornia ed emissario del Lago Sulfureo, responsabile della profonda incisione della valle omonima nella quale insiste il sito di Monteleo, garantiva un buon apporto idrico. All’intorno, vaste aree di bosco offrivano il combustibile necessario ai diversi cicli pirotecnici; la particolare ricchezza del territorio in termini di risorsa boschiva, 11 Per un approfondimento sui diversi impieghi dell’allume come mordente in tintoria si rimanda a Cardon 2003. Un quadro sull’uso dell’allume nell’Antichità non può prescindere dalla sintesi di Singer 1948, pp. 1-40. Riferimenti in Halleux 2005, p. 11. 12 119 Targioni Tozzetti, Relazioni, IV, p. 317. l. dallai fig. 3 – Uso del suolo nel Granducato di Toscana di terraferma, sintesi degli esiti delle operazioni catastali eseguite fra il 1817 ed il 1835. Risorsa consultabile all’indirizzo: http://www502.regione.toscana.it/geoscopio_qg/cgibin/qgis_mapserv?map=dbusosuolostorico_rt.qgs. e quindi anche di carbone, è anzi un tratto particolarmente significativo e duraturo del contesto. Daniele Manacorda ha collegato l’idronimo Milia, fiume che delimita il confine meridionale del territorio di Monterotondo Marittimo ed affluente del Cornia, al nome della potente gens Aemilia, ricordando come il padre di Aemilius Scaurus, finanziatore alla fine del II secolo a.C. della via Aemilia Scauri, si fosse arricchito con il commercio del carbone prodotto col legname delle colline populoniesi (Manacorda 2006, pp. 305-321). Nel Medioevo la presenza del bosco è fortemente indiziata dal toponimo Gualdo, termine con cui nel 748 si indicava un vasto comprensorio di proprietà fiscale, localizzato nell’alta Val di Cornia e più in particolare nell’area del Frassine (Collavini 2007, p. 233), che si estendeva sia ad Est che ad Ovest del fiume, «fra Monteverdi e la Sassetta» (Repetti 1833, II, pp. 556-557 s.v. Gualdo, Gualda e Gualdicciola). L’estesissima area di bosco, posta al confine fra gli antichi territori di Volterra e Populonia, era inoltre caratterizzata dalla presenza dei già ricordati fenomeni geotermici (ed in particolare di sorgenti calde), che anticamente ne costituivano un aspetto addirittura sacrale, legato alla sfera cultuale di Diana ed Apollo (Manacorda 2008, pp. 267-268). La presenza di un grande polmone verde composto in buona misura da querce e cerri, essenze dall’elevato potere calorifico, rimase per secoli il tratto caratteristico dell’area, come è ben testimoniato ancora agli inizi del XIX secolo dalla ripartizione degli usi del suolo e della rendita catastale nel Granducato di Toscana (1817-1835). Essa conferma la predominanza delle aree boschive di qualità alta sulle aree aperte in tutta la metà occidentale del territorio comunale di Monterotondo (coperture boschive attestate fra il 40 ed il 60%) 13 (fig. 3); l’Allumiera di Monteleo è posizionata proprio a ridosso di tale vasto comprensorio, esattamente allo sbocco dell’angusta valle del Risecco nella più ampia pianura del Frassine. Le indagini topografiche hanno evidenziato come quest’area di pianura, fino alla contigua vallata del Cornia ed alle alture alle spalle del sito di Monteleo, fosse densamente abitata sin dal periodo etrusco, e come anche nelle fasi di più marcata crisi demografica (ad esempio la media Età Imperiale), si registri proprio qui una sostanziale tenuta insediativa che preluderà ad una riorganizzazione basata su centri demici di dimensione medio-grande (villaggi), tipici del periodo tardoantico. Questi ultimi sono inoltre caratterizzati, sino alla prima metà del VII secolo d.C., da una significativa presenza di merci di importazione (Ponta 2015), veicolate attraverso una viabilità molto ramificata, la quale sfruttava tanto le pianure quanto i percorsi di crinale. Seguendo il corso del fiume Cornia, si metteva così in comunicazione la costa con il primo entroterra ed il territorio Volterrano, generando una dinamica economica virtuosa, che connetteva le aree interne, ricche di diverse risorse del sottosuolo, di boschi, di aree agricole, a quelle costiere ed alle produzioni specializzate 13 Il database consultato riguarda la ripartizione degli usi del suolo e della rendita catastale nel Granducato di Toscana di terraferma (escluse le isole) di inizio Ottocento. Esso deriva da un documento di sintesi degli esiti delle operazioni catastali eseguite fra il 1817 ed il 1835 conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze. Risorsa consultabile all’indirizzo: http://www502.regione. toscana.it/geoscopio_qg/cgibin/qgis_mapserv?map=dbusosuolostorico_rt.qgs 120 Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo delle pianure (agricoltura, allevamento, produzione del sale) (Dallai, Fineschi 2006, p. 267). La tenuta insediativa caratterizza l’area del Frassine e, più in generale, il contesto di pianura e prima collina circostante Monteleo, anche nei primi secoli del Medioevo. Il quadro ricostruttivo può contare sia su indicatori archeologici che attestano la frequentazione di alcuni dei siti già individuati per il periodo immediatamente precedente, sia su un importante corpus di documenti databili all’ VIII-IX secolo, a cui abbiamo già accennato in precedenza, che descrive la presenza di insediamenti e proprietà vescovili lucchesi localizzati esattamente nel comprensorio di cui ci stiamo occupando (Collavini 2007). A questa altezza cronologica e sin da epoca longobarda il territorio era parte di una grande curtis pubblica, quella del Cornino, che includeva sostanzialmente l’intera val di Cornia, dalla costa fino alle colline boscose dell’interno. In un’epoca imprecisata, ma comunque prima della metà del X secolo, è probabile che l’area più interna, cioè il Gualdo, venisse separata dalla grande curtis e concessa in uso al vescovo di Lucca, come suggeriscono gli stessi documenti; insieme ai boschi vennero naturalmente concesse anche le risorse che l’area metteva a disposizione (Collavini in Bianchi, Collavini 2018, pp. 225-226; Vignodelli 2012, pp. 281-282). I documenti non fanno esplicito riferimento a tali risorse, ma la particolare vitalità che caratterizza il tessuto insediativo di questa porzione di territorio, nel cuore del giacimento alluminifero monterotondino, ed il duraturo carattere pubblico della proprietà, tenacemente mantenuto dalla tarda Antichità fino al X secolo, ne provano tutto il peso economico ed il valore strategico. Dall’XI secolo sarà la grande famiglia comitale degli Aldobrandeschi ad esercitare il controllo sia sulla bassa val di Cornia (al tempo confinata entro la curtis di Franciana), sia sull’area interna (il Gualdo appunto), ricostituendo il contesto economico unitario che, sin dall’antichità, aveva caratterizzato il comprensorio e consentito la migliore valorizzazione delle sue peculiarità. fig. 4 – I resti dell’Allumiera di Monteleo: A) posizionamento del sito su Catasto Leopoldino, con indicazione dei toponimi rilevanti; cartografia di base Catasto Leopoldino, Quadri di unione (1821). Progetto Castore, Regione Toscana e Archivi di Stato Toscani; B) rilievo e posizionamento delle strutture e dei fronti di cava su CTR. 5. IL SITO DI MONTELEO ED I SUOI CICLI PRODUTTIVI In questo quadro di evidenze già così ricco, lo scavo del sito produttivo delle Allumiere di Monteleo ha offerto l’opportunità di un affondo su un contesto produttivo ben individuabile, grazie ai suoi resti monumentali. Il sito è stato interessato da regolari campagne di indagine stratigrafica condotte fra il 2008 ed il 2016, delle quali si è dato riscontro in precedenti contributi (Dallai et al. 2009; Dallai, Poggi 2012; Dallai 2014; Dallai, Ponta, Ait 2018), ai quali si rimanda per una descrizione puntuale delle emergenze. Le indagini hanno permesso di comprendere molti aspetti del ciclo produttivo dell’allume, offrendo solide basi per l’interpretazione di passaggi cruciali relativi all’organizzazione del lavoro su un’allumiera della prima Età Moderna. Al contempo, lo scavo ha evidenziato una diacronia altamente significativa sul sito, che ha di molto allungato la storia produttiva di Monteleo, articolandone anche le finalità 14. Le strutture produttive dell’allumiera occupano il versante SE del Poggio Sughericcio e l’area immediatamente a ridosso del torrente Risecco; quest’ultimo costituisce l’asse centrale del sito che si sviluppa lungo le sue due sponde. Ad Ovest del torrente, a breve distanza dal principale fronte di cava di Buca dei Falchi e ad una quota di poco superiore ai 130 m di altitudine, furono costruite le fornaci da calcinazione (Area 1000); ad Est, un po’ più in basso (quota di circa 120 m), vennero realizzate le caldaie di lisciviazione e trovarono posto le aree aperte per la macerazione, le vasche di cristallizzazione e le canalizzazioni di raccordo fra i diversi spazi funzionali dell’allumiera (Area 3000). L’insieme di questo articolato complesso di strutture supera in estensione i 2 ha (fig. 4). L’utilizzo diacronico del sito, probabilmente legato allo sfruttamento delle articolate risorse del sottosuolo presenti nel giacimento, è emerso a seguito dello scavo dell’Area 1000. Si datano al Bronzo Medio frammenti ceramici rinvenuti in giacitura secondaria, collegati ai resti di una poderosa 14 Per le diverse finalità produttive una prima analisi in Dallai, Volpi 2015; si veda anche il contributo di Volpi, Chiarantini in questo volume. 121 l. dallai fig. 5 – Monteleo, posizionamento delle strutture metallurgiche antecedenti la fase di costruzione delle fornaci da calcinazione. A) resti degli impianti produttivi legati all’affinamento/rifusione di minerali cupriferi localizzati all’estremità Sud dell’Area 1000, con indicazione dei valori rilevati mediante analisi pXRF. B) Il forno a chiave per la fusione di minerali cupriferi risalente al XV secolo durante la fase di analisi pXRF. fig. 6 – Monteleo, posizionamento delle strutture metallurgiche antecedenti la fase di costruzione delle fornaci da calcinazione. C) Prefurnio della struttura metallurgica legata all’affinamento dei minerali cupriferi localizzata all’estremità Nord dell’Area 1000. contributo di Volpi, Chiarantini in questo volume). Gli indicatori di produzione sono stati individuati in più punti, in particolare all’estremità Sud dell’Area 1000, in associazione a resti di possibili strutture produttive ormai distrutte (fig. 5A), ed all’estremità Nord dell’Area 1000, a ridosso di una struttura fusoria in buona parte sviluppata al di sotto delle successive fornaci da calcinazione di XVI secolo (fig. 6C). Gli indicatori raccolti testimoniano l’esistenza di una fase strutturata di attività metallurgiche condotte sul sito di Monteleo nei secoli centrali del Medioevo, i cui rapporti con la presenza del grande giacimento di alunite costituiscono uno dei temi di ricerca più promettenti ed al momento in fase di approfondimento. L’esistenza di attività metallurgiche connesse alla fusione o alligagione di minerali cupro-argentiferi e zinciferi caratterizza anche le cronologie immediatamente successive; lo scavo ha infatti individuato i resti di un “forno a chiave”, sufficientemente ben conservato per determinarne aspetto e dimensioni, realizzato in laterizi. La camera circolare, parzialmente interrata, ha un diametro interno di 1,5 m, ed è preceduta da un prefurnio strombato della lunghezza complessiva di 150 cm. La fornace fu in parte obliterata dalla costruzione delle fornaci di XVI secolo (in particolare dal forno 2); dagli strati di distruzione della stessa provengono frammenti di maiolica arcaica e di zaffera databili alla prima metà del XV secolo (fig. 5B). La somma di queste evidenze, parzialmente o del tutto distrutte dalla costruzione delle fornaci da calcinazione muraglia realizzata con l’impiego di grossi blocchi di pietra irregolari. L’individuazione di alcuni probabili percussori in quarzoarenite ha sostenuto l’ipotesi di una finalità produttiva anche per questa prima occupazione della collina (Dallai, Volpi 2015). Le tracce menzionate sono sopravvissute ad una consistente attività di regolarizzazione ed uso del versante che due diverse datazioni 14C hanno datato alla fine del XIII secolo 15. In questa fase l’area, sulla quale insistevano già alcune strutture delle quali rimane traccia nelle fosse di spoliazione, vide la realizzazione di una serie di impianti produttivi connessi a cicli distinti ma verosimilmente collegati fra loro funzionalmente: attività di forgia e tracce del ciclo di affinamento e rifusione di minerali cupro-argentiferi e di zinco. Quest’ultima attività è stata individuata sia attraverso le anomale concentrazioni elementali (in particolare Cu, Pb ed Ag) riscontrate attraverso l’analisi chimica pXRF condotta sui suoli in fase di scavo, sia per la presenza di colaticci e gocce di piccole e piccolissime dimensioni, in alcuni casi aderenti a frammenti laterizi e resti di crogioli successivamente sottoposti ad analisi archeometriche (si veda in dettaglio il 15 I campioni sono stati preparati chimicamente presso il laboratorio di preparazione misure isotopiche del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali della Seconda Università di Napoli, grafitizzati e misurati con metodologia AMS presso il laboratorio LABEC-CHNet dell’INFN presso l’Università di Firenze. 122 Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo fig. 7 – Monteleo, Area 3000. La caldaia da lisciviazione US 3032: A) vista dell’interno della vasca; B) rilievo fotogrammetrico della struttura. fig. 8 – Monteleo, Area 3000. La caldaia da lisciviazione US 3016: A) vista dell’interno della vasca; B) prospetto. dell’allumiera, prova che il sito produttivo di Monteleo, fra lo scorcio del XIII e la prima metà del XV secolo, conobbe più fasi d’uso di carattere metallurgico. Gli impianti furono collocati immediatamente a ridosso di un grande giacimento di minerali alluminiferi, in prossimità di quella che è attualmente l’area di cava più rappresentativa della fase di sfruttamento del minerale databile alla prima Età Moderna (fine XV-prima metà XVI secolo), cioè Buca dei Falchi. Nella seconda metà del XV secolo sul sito si registra un significativo investimento finalizzato alla realizzazione di impianti certamente destinati alla produzione di allume alunitico (allume artificiale). In questo stesso periodo tutti i giacimenti alluminiferi della Penisola, e fra essi anche quelli toscani, conobbero una stagione di capillare sfruttamento. Nel territorio delle Colline Metallifere a partire dagli anni ’70 del XV secolo, i documenti menzionano la nascita di sette allumiere (Boisseuil 2005, p. 107); a Monterotondo Marittimo in particolare, nel 1471 è attestata una prima società costituitasi per produrre allume e probabilmente per sfruttare proprio il giacimento di Monteleo. Due libri mastri e due registri di conti del biennio 1507-08, tenuti dal direttore dell’allumiera detta delle ‘Crocicchie’, struttura collocata entro la curtis di Castiglion Bernardi, cioè proprio nell’area di cui ci occupiamo, e probabilmente coincidente con gli impianti di Monteleo, restituiscono informazioni dettagliate su aspetti tecnici del ciclo di produzione, sui co- sti della gestione dell’impianto, sul ritmo della produzione, sull’impiego di manodopera, sulla necessità di restauri alle infrastrutture, evidenziando fra l’altro il riuso nel tempo di strutture già esistenti (Boisseuil, Chareille 2009). Lo scavo ha individuato e proposto l’interpretazione funzionale dei differenti impianti emersi nel corso delle indagini e riferibili a questa fase storica. A ridosso del fronte di cava di Buca dei Falchi, sfruttando il versante ben esposto della collina che venne regolarizzato e terrazzato per creare uno spazio operativo, fu edificata una batteria di quattro fornaci da calcinazione. Gli impianti, incassati lungo il fianco del poggio e molto simili a fornaci da calce, misurano circa 2,70 m di altezza (fig. 5). Una struttura muraria massiccia, squadrata, realizzata con l’impiego di rocce calcaree e sedimentarie legate da malta, ospita le quattro camere circolari del diametro di 2,50 m, interamente foderate in laterizi; questi ultimi mostrano evidenti tracce di vetrificazione dovute alle elevatissime temperature a cui le fornaci giungevano (in genere tra i 600° e i 700°); così si trasformava l’alunite in solfato anidro, solubile in acqua. Di fronte agli impianti si trovava un’area aperta, regolarizzata ed ampliata artificialmente, immediatamente prospiciente il corso del torrente Risecco (Area 1000). Sulla riva opposta del corso d’acqua, facilmente raggiungibile grazie ad un punto di guado che la cartografia settecentesca mostra attrezzato di un basso ponte, su un 123 l. dallai terrazzo fluviale pianeggiante regolarizzato e delimitato da una possente muratura furono realizzate le piazze per la macerazione; l’individuazione dei resti di piani rivestiti in malta e di canalizzazioni che convogliavano l’acqua dal torrente verso l’area produttiva, sistema di cui lo scavo ha indagato ad oggi una piccola porzione, avvalorano l’interpretazione funzionale dell’area. A ridosso delle piazze di macerazione furono posizionate le caldaie da lisciviazione. Le due strutture presenti sul sito si differenziano in parte, e ciò è dovuto al rimaneggiamento che una delle due subì nell’ultima fase di vita del complesso produttivo (XVIII secolo) (fig. 7). La seconda struttura (fig. 8), al contrario, risulta particolarmente interessante per la stretta aderenza al tipo di caldaia descritto dalla trattatistica rinascimentale. Essa è composta da una vasca troncoconica realizzata in laterizi, al di sotto della quale si apre una camera di combustione di forma cilindrica. La vasca, del diametro massimo di 3 m, doveva essere originariamente foderata in cocciopesto, così come indicato da Biringuccio nel De la Pirotechnia (Biringuccio 1540, cap. VI) e completata con l’inserimento di un fondo in rame ben sigillato, in cui la soluzione doveva bollire per circa 24 ore. Il rinvenimento di questa caldaia rappresenta la prima attestazione archeologica di una simile tipologia di struttura produttiva nella nostra Penisola. 6. L’ORIZZONTE FINALE DELLA PRODUZIONE Le indagini stratigrafiche hanno fatto emergere una serie di testimonianze ceramiche (frammenti di ingobbiate sotto vetrina ed invetriate verdi) provenienti principalmente, ma non esclusivamente, dalle stratigrafie dell’Area 3000 (fig. 9), la cui cronologia rimanda costantemente ad una cronologia di fine XVI-XVII secolo. I manufatti, rinvenuti in strati di rimaneggiamento o accumulo/incremento di quota relativi a fasi di ristrutturazione degli impianti produttivi, testimoniano che, dopo la fase di sfruttamento di fine XV-XVI secolo (si veda il contributo di Ponta in questo volume), il sito conobbe un nuovo uso, certamente a fini produttivi. A tale proposito appaiono particolarmente significative due fig. 9 – Monteleo, Area 3000, planimetria generale. 124 Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo fig. 10 – Monteleo, Area 3000. A) La canalizzazione US 3549 in fase di scavo; B) restituzione 3D della struttura. della reggenza lorenese conte di Richecourt ed incaricato di valutare la produttività dell’allumiera e le prospettive di sfruttamento del giacimento 17. Monteleo fu infatti oggetto di un cospicuo investimento da parte del Richecourt, che si concretizzò nella realizzazione di nuove fornaci, caldaie e canalizzazioni, oltre all’apertura di diversi fronti di cava lungo le due sponde del torrente Risecco (Dallai, Ait, Ponta 2018). L’esito dell’iniziativa, come noto, non fu però positivo, e la fabbrica dell’allume di Monteleo cessò definitivamente la produzione nella stagione 1752-53 18. Quando il Targioni visitò la fabbrica di Monteleo vide i resti di edifici più antichi, che menzionò nella sua relazione. E d’altra parte la presenza di precedenti attività di sfruttamento del deposito minerario fu una vera e propria linea guida per selezionare su quali delle risorse del Granducato valesse la pena di puntare per nuovi investimenti. menzioni della metà del XVII secolo (anno 1669) relative agli appaltatori della cava dell’allume di Monterotondo Marittimo, ai quali il Camarlengo ed i rappresentanti della comunità erano tenuti a consegnare un certo quantitativo di laterizi per poter provvedere all’edificazione di una cisterna 16. Un’allumiera dunque ancora esisteva, ed anzi si provvedeva alle necessarie opere di conserva delle acque, il che sembrerebbe indicare che essa fosse operativa. Null’altro sappiamo al momento di questa fase di sfruttamento del deposito, che comunque presenta volumi di estrazione tali da poter contemplare orizzonti cronologici ampi, compresi quelli a cavallo fra l’Età Moderna e il XVII secolo (si veda il contributo di Poggi e Buono in questo volume). La storia finale dell’Allumiera di Monteleo è nota, oltre che dalle evidenze ancora ben conservate e relative alle ultime strutture produttive risalenti alla metà del XVIII secolo, per una importante memoria redatta nel 1745 da Giovanni Targioni Tozzetti, inviato sul sito per conto del presidente 17 La descrizione è conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (manoscritto Palatino n. 1065). Il Targioni ritenne di darne alle stampe alcune parti nel tomo IV delle sue Relazioni, nella sezione che ha per titolo Relazione di un viaggio fatto dal dottor Giovanni Targioni Tozzetti nella primavera dell’anno 1745, pp. 312-351. 18 Una sintesi della relazione di Targioni e delle vicende storiche del sito in Riparbelli 1984, pp. 67-74. 16 ASS, Quattro Conservatori, 1669, ins. 219, fogli 196, 221 v.; «E dalli Rappresentanti e Camarlengo della Comunità di consegnare alli subappaltatori della cava dell’allume in quella corte, tutto il lavoro quadro e quadrucci che detta comunità si ritrova già provista per farne una citerna». Ringrazio il dottor Niccolò Malacarne per la segnalazione e la trascrizione. 125 l. dallai A Monteleo le realizzazioni legate all’ultimo periodo di attività sono imponenti: oltre a significativi rimaneggiamenti delle strutture produttive più antiche, che interessarono in particolare l’area delle caldaie da lisciviazione, si provvide alla nuova edificazione di una serie di forni da calcinazione (oggi in parte obliterati dalla sede stradale), due caldaie da lisciviazione coperte da un porticato, due piazze da macerazione, un edificio detto lo “Stanzone delle Casse”, che ospitava le vasche di cristallizzazione ed era direttamente collegato con le caldaie dalle quali, attraverso una serie di canalizzazioni in legno, la liscia veniva scaricata direttamente nei cassoni. Un articolato sistema di canalizzazioni raccordava le piazze di macerazione, le caldaie stesse e la stanza con le casse di cristallizzazione, posta ad Est di queste ultime, dove oggi insiste la viabilità. Targioni descrive le due piazze di macerazione come spazi rettangolari lastricati di circa 15×5 m, delimitati sui lati lunghi da fosse profonde circa 1,5 m e larghe poco più di un metro, sempre piene di acqua derivata da un canale e da una gora artificialmente distaccata dal torrente Risecco, e suddivise all’interno da cateratte e chiuse. L’acqua di risulta della macerazione veniva raccolta in queste stesse fosse, e, poiché carica di allume, diveniva sostanza utile al ciclo produttivo e come tale inviata alla caldaia. A Monteleo vi erano due caldaie che lavoravano a ciclo continuo, così che mentre una veniva riempita con la pasta di allume e l’acqua ed avviata alla produzione della liscia, l’altra veniva svuotata e ripulita. La liscia, come detto, era poi inviata, tramite una serie di condotte in legno, ad una prima grande cassa detta “zanfone”, dove veniva lasciata a decantare per liberarla dalle parti terrose. Successivamente il liquido passava alle singole casse. Una volta alla settimana lo “zanfone” veniva ripulito e lavato dal deposito terroso, e quest’ultimo era indirizzato verso una grande canalizzazione di raccordo fra l’allumiera e il torrente (posizionamento in fig. 10), che è stata in parte scavata nel corso delle indagini. La canalizzazione è realizzata in bozze di macigno locale non regolarizzate, legate da malta. La copertura a volta si è conservata solo parzialmente, ed era originariamente realizzata in laterizi. Una grande massa di inerti di varia natura ne ingombrava l’interno fino alla profondità di -2,84 m dal piano di campagna, quota a partire dalla quale è stata scavata e documentata una sequenza ininterrotta di strati ricchissimi di alluminio e potassio, cioè la ripulitura del cosiddetto “zanfone”. Il colore di questi strati di consistenza talcosa, spessi mediamente una decina di centimetri, varia dal rosa chiaro, al rosso, al bianco, al grigio. Le analisi effettuate con XRF portatile hanno rilevato gli alti tenori in Al (Alluminio) e K (Potassio), attestati fra il 5 e l’8%, ed in alcuni casi fino al 10% (fig. 11). Ai due elementi si aggiunge in alcuni casi una percentuale rilevante di Fe (Ferro) (fino al 2%), che determina una alterazione cromatica molto netta e virata al rosa o al rosso scuro. Da alcuni degli strati provengono piccoli frammenti di laterizi, carbone ed alcuni frammenti ceramici, riferibili con certezza al XVIII secolo. La rimozione della stratigrafia ha fatto riemergere la pavimentazione originaria della canalizzazione, realizzata in grossi ciottoli legati da malta ed impostata alla quota di -5,70 m dall’attuale piano di campagna; l’incli- fig. 11 – Monteleo, Area 3000, canalizzazione US 3549. Strato con elevata percentuale di Alluminio e Potassio (US 3595). nazione registrata nella porzione indagata è di soli 2 cm per 4 m di lunghezza, che equivale ad una pendenza di 0,5 cm ogni metro (la lunghezza totale della struttura è stimabile attorno ai 40 m). Questa inclinazione modesta, unita ad una certa densità del liquido in uscita, ha permesso il depositarsi degli strati che, con la loro composizione, hanno fornito elementi utili per ulteriori riflessioni. Gli strati, certamente riferibili alle attività dell’allumiera granducale della metà del XVIII secolo, risultano di estremo interesse perché documentano la qualità ed il tenore in elementi delle acque in uscita dal ciclo di lavorazione, in particolare al termine della cristallizzazione. La presenza di S (Zolfo) rilevata in più occasioni induce, però, qualche ulteriore considerazione; lo Zolfo infatti non dovrebbe essere presente nella fase di lisciviazione, mentre può comparire (a seguito di una calcinazione non ben riuscita) in quella di macerazione. È dunque possibile che almeno una parte dei residui rinvenuti siano il frutto di questo secondo step produttivo, e che la canalizzazione sia stata al servizio di una serie di necessità del complesso produttivo ed in particolare rechi traccia delle ultime attività avvenute sulle piazze di macerazione nel corso del XVIII secolo. Lo scavo di questa singolare struttura e l’utilizzo delle analisi pXRF ha offerto per la prima volta l’opportunità di documentare scientificamente e descrivere chimicamente le caratteristiche di un indicatore di produzione del ciclo dell’allume alunitico molto significativo, ma archeologicamente invisibile. 126 Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo 7. RIFLESSIONI FINALI duttivi complessi, come sono quelli metallurgici attestati nel comprensorio. E dunque all’interno di questa cornice l’alunite di Monterotondo Marittimo (e naturalmente delle altre aree di giacimento dislocate nel distretto) poteva essere trattata in loco (necessariamente in fornaci, prima di essere lisciviata) ed il suo prodotto inviato là dove la presenza di particolari attività manifatturiere o metallurgiche ne rendessero vantaggioso l’utilizzo (ad esempio a Montieri, o in altre zone di trattamento metallurgico). Si può naturalmente obiettare che gli elementi raccolti non provano automaticamente che nel Medioevo nel distretto delle Colline Metallifere si cuocesse e lisciviasse l’alunite ‘anche’ per ricavarne allume, ma i dati emersi dalle indagini archeometriche pongono con tutta evidenza una grossa ipoteca sul punto, tanto più se si considera che il metodo di lavorazione dell’alunite (cottura, macerazione, lisciviazione e cristallizzazione) era noto in occidente almeno dall’inizio del XIV secolo, se vogliamo limitarci a considerare le fonti scritte e la puntuale descrizione fornita da Pegolotti. La scelta compiuta alla fine del XIII secolo di installare le prime officine metallurgiche a Monteleo, proprio in prossimità della grande cava di alunite, costituisce una prova indiziaria ulteriore dell’interesse attribuito a questa materia prima. Lo scavo del sito di Monteleo, oltre ad evidenziare la presenza di attività produttive già di periodo medievale, ha chiaramente mostrato il netto cambio di scala dell’investimento che si registra nella seconda metà del XV secolo, con la realizzazione delle grandi fornaci dell’allumiera. Questa è la fase storica in cui anche le fonti documentarie evidenziano, in Toscana e nel resto della Penisola, un grande impulso nello sfruttamento dei depositi alunitici. Ma fu essa davvero la prima stagione di valorizzazione di tale importante risorsa? E su quale substrato di competenze tecniche si appoggiarono gli investitori che diedero il via alle sette allumiere (fra cui quella di Monteleo) fiorite in un trentennio, a partire dagli anni ’70 del XV secolo, nel territorio delle Colline Metallifere? Crediamo che gli elementi raccolti ed illustrati sin qui gettino luce su una storia ben più complessa, che si inserisce saldamente nella lunga tradizione estrattiva e metallurgica del Medioevo e fornisce una base solida per il dispiegarsi della grande stagione dell’allume di XV secolo. In questa storia produttiva l’alunite riveste un ruolo certamente meno visibile rispetto a quello del rame, del piombo e dell’argento, ma non necessariamente di minore rilevanza economica. Prendendo a prestito le parole di Tiziano Mannoni ed Enrico Giannichedda, ricordiamo che «Un esperimento da fare ogni volta che si constati nei reperti archeologici la presenza di una tecnica produttiva imprevista in una certa cultura, consiste nel controllare nei periodi precedenti se tale tecnica già esisteva nello stesso territorio, o se esisteva comunque una tecnica dalla quale quella studiata potrebbe facilmente derivare (…) È infatti assai raro che un’attività produttiva comparisse solo in un certo periodo» (Mannoni, Giannichedda 1996, pp. 17-18). Credo che questa valutazione si adatti perfettamente al caso dell’allume alunitico, risorsa chiave, dalla visibilità intermittente. A conclusione di questa esposizione di dati è utile qualche riflessione finale per portare a sintesi quanto illustrato. Nel territorio delle Colline Metallifere le evidenze archeologiche attestano la vocazione produttiva del distretto per un arco di tempo amplissimo, che inizia con l’Eneolitico; naturalmente gli obiettivi variarono nel corso dei secoli, in funzione delle diverse tecnologie disponibili, delle congiunture economiche, degli assetti politici. I giacimenti polimetallici, dal canto loro, hanno consentito l’approvvigionamento di una serie di minerali appetibili, i solfuri misti di rame, piombo e argento, nonché reso disponibili idrossidi ed allumi. L’uso del plurale per quest’ultimo insieme di materie prime si giustifica alla luce delle riflessioni svolte nei paragrafi precedenti, ed apre la strada ad un ventaglio di possibili interpretazioni delle prime menzioni che i documenti fanno del termine “allume”, in riferimento al territorio delle Colline Metallifere ed a quello di Monterotondo Marittimo in particolare. Sulla base di quanto sopra esposto, è più che ragionevole ritenere che, forse già a partire dai secoli di stesura delle Compositiones Lucenses (VIII-IX secolo) e certamente dal XIII secolo, quando se ne fa esplicita menzione nei documenti, nell’area fossero sfruttati i cosiddetti “allumi naturali”, ossia i diversi solfati idrati di sodio, magnesio, ferro e alluminio, di cui il territorio è ricco. Le indagini archeometriche condotte su campioni di scorie provenienti dal comprensorio di Montieri e legate al trattamento di minerali piombo-argentiferi, hanno inoltre evidenziato che, almeno dal XIII secolo, in presenza di mineralizzazioni dal trattamento complesso come quelle piombo/zinco, era maturata la competenza tecnica di impiegare l’alumina, ottenuta dalla lavorazione a caldo dell’alunite, con funzione di scorificante. Dal canto suo, lo scavo di Monteleo ha mostrato la lunga durata del sito produttivo; per limitarci al periodo medievale ed all’Età Moderna, oggetto di questo contributo, ricordiamo come, fra la fine del XIII e la prima metà del XV secolo, esso fosse un centro metallurgico dove si effettuavano attività di affinamento ed alligagione di minerali di rame e zinco (produzione di leghe bronzee), e poi, dalla seconda metà del XV e fino alla metà del XVIII, anche se con discontinuità, divenisse sede di una allumiera. La topografia ha infine messo in luce la particolare vitalità insediativa dell’area circostante il giacimento alunitifero di Monteleo per un arco cronologico lunghissimo; alla base di questo dinamismo si sono riconosciute la presenza di significative risorse (boschive e del sottosuolo in particolare) ed una importante viabilità di raccordo fra costa ed entroterra, di antica origine, sviluppata lungo le valli fluviali di Cornia e Milia. La conseguente circolazione di merci e competenze all’interno del distretto delle Colline Metallifere (Monterotondo Marittimo, Montieri, Massa Marittima ed oltre), facilitata dalla unitarietà politica ed economica del contesto che fino al X secolo rimase di fatto un grande spazio pubblico, rende più che realistico ipotizzare un altrettanto agile movimento delle materie prime essenziali per il buon esito dei cicli pro- 127 l. dallai BIBLIOGR AFIA l’organizzazione della produzione fra tardo Medioevo e prima Età Moderna, in P. Arthur, M.L. Imperiale (a cura di), VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Lecce 2015), Firenze, pp. 395-400. Dallai L., 2014, L’allumiera di Monteleo nel territorio di Monterotondo Marittimo, «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Âge», 126-1, pp. 245-258. Dallai L., Ait I., Ponta E., 2018, Sfruttamento e commercio dell’allume tra Lazio e Toscana, in C. Citter, S. Nardi Combescure, F.R. Stasolla (a cura di), Entre la terre et la mer. 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In this territory the research conducted by the University of Siena has identified various alum mines (open casts and galleries) and the remains of some relevant alum productive sites (the so colled “allumiere”) dating back to the 15th-16th centuries. The investigation of the Monterotondo Marittimo district in particular, started in 2004 with an accurate topographic campaign, has produced valuable indications regarding the settlement patterns and their relation to the exploitation of natural resources. From 2008 to 2016, the excavation of an Early Modern Age alum production site located in the heart of an alunite deposit, the Allumiera di Monteleo, provided an exceptional opportunity to explore the various steps involved in the processing of raw materials; in addition, the excavation has highlighted the versatility of such production centers. The research undertaken in the Monterotondo Marittimo district has offered the possibility to cross different sources (archival; archaeological; geological; cartographic) to investigate a wide diachrony of the use of raw materials. Starting from the evaluation of these systems of sources and pivoting on the new data coming from the last archaeological campaigns on the Allumiera di Monteleo, the paper offers a diachronic rereading of the exploitation of local resources with a special focus on the Medieval and Early Modern periods. 129 Vanessa Volpi*, Laura Chiarantini** ARCHEOMETRIA DELL’ALLUME: CICLI PRODUTTIVI A CONFRONTO FR A IL SITO DI MONTELEO E GLI ALTRI CONTESTI PRODUTTIVI DELLE COLLINE METALLIFERE Archaeometry of alum: a comparative analysis of the production cycles in the site of Monteleo and in other production contexts of the Colline Metallifere 1. INTRODUZIONE natura delle diverse produzioni fino ad ora attestate sul sito e la loro cronologia in un contesto plurifase e multiproduttivo. Il sito delle Allumiere di Monteleo è situato all’interno del distretto minerario delle Colline Metallifere (Toscana Meridionale) che si estende dalle località di Campiglia Marittima fino a Massa Marittima, comprendendo anche le aree pianeggianti e costiere di Scarlino e del golfo di Follonica. I depositi minerari di questa zona si sono formati a seguito del magmatismo Pliocenico, grazie alla circolazione di fluidi idrotermali che si sono insinuati lungo faglie normali Plioceniche-Pleistoceniche, come nell’area di BoccheggianoMontieri (Liotta et al. 2010; Brogi, Cordoneschi 2007) e di Massa Marittima (Marinelli 1983) dando origine ai giacimenti a solfuri misti di Fe, Cu, Pb e Zn (Tanelli 1977). La genesi di tali depositi ha fatto sì che questo territorio venisse sfruttato fin dall’antichità per l’estrazione di metalli e minerali come ferro, piombo, rame, argento, carbone, pirite e allume. La storia produttiva del sito delle Allumiere di Monteleo è legata principalmente al ciclo produttivo dell’allume alunitico, anche se le più recenti campagne archeologiche hanno messo in evidenza la presenza di lavorazioni legate al probabile trattamento di solfuri misti di rame e argento provenienti dal distretto topografico delle Colline Metallifere (Dallai, Volpi 2015). Il contributo vuole illustrare come l’integrazione delle più recenti tecniche di analisi chimica, come la fluorescenza a raggi X portatile, insieme alle più convenzionali analisi archeometriche condotte sugli indicatori di produzione, possano aiutare a comprendere in modo più puntuale i clicli produttivi che caratterizzano distretti minerari e siti archeologici a vocazione archeometallurgica. Verranno presentate le analisi in fluorescenza a raggi X portatile condotte on-site su specifiche aree del sito delle Allumiere di Monteleo, per individuare possibili zone collegate alle diverse lavorazioni metallurgiche. Questo tipo di analisi è stata successivamente integrata con le convenzionali analisi archeometallurgiche (microscopia ottica in luce riflessa e microscopia elettronica SEM-EDS) condotte sugli indicatori di produzione e sulle scorie. L’integrazione delle analisi chimiche e archeometriche, insieme con le ricerche archeologiche, stanno apportando molti dati utili a spiegare la 2. LE ANALISI pXRF INTRA-SITU In contemporanea alle attività di scavo, sul sito di Monteleo sono state realizzate campagne sistematiche di analisi in fluorescenza a raggi X portatile (pXRF) on-site. Le analisi sono state condotte usando un analizzatore portatile Oympus Delta-Premium, equipaggiato con un tubo a raggi X di 40kV, un detector SDD a grande area, un accelerometro e un barometro per la correzione della pressione atmosferica. Le analisi si sono concentrate in particolare sui resti di due strutture produttive (Area 1000, Saggio 1 e 2) che si localizzano al di sotto dei forni da calcinazione del XIV secolo e distano tra loro circa 13 m, e su una terza struttura fusoria distrutta, situata all’estremità sud dell’area di Scavo (Area 1000, Saggio 3, US 1756) (Dallai, Volpi 2015). Le analisi realizzate sulla prima struttura, in particolare all’interno del prefurnio e nell’area a ridosso dell’impianto per il trattamento dell’alunite (US 1670), hanno mostrato concentrazioni elevate di Cu (50-100 mg/Kg). Il valore più elevato è stato evidenziato immediatamente a ridosso del primo forno da calcinazione (forno 1), con una concentrazione di Cu pari a 400 mg/Kg. Nella seconda fornace le misure sono state invece condotte all’interno della camera (US 1368). Anche in questo caso si registrano valori elevati di Cu, attestati fra 50-100 mg/Kg. Le concentrazioni di Cu in assoluto più elevate sono state però registrate in corrispondenza della terza struttura fusoria, che lo scavo ha rinvenuto ormai del tutto distrutta all’estremità sud dell’area 1000 (US 1756); qui il Cu raggiunge il picco di 2000 mg/Kg (fig. 1). Gli indicatori di produzione che provengono dalle tre strutture consistono in colaticci e gocce di piccolissime dimensioni di colore verde. In alcuni casi questi ultimi sono aderenti a frammenti di laterizi, mentre in altri casi sono attaccate a frammenti di materiale refrattario. Le analisi in fluorescenza a raggi X portatile realizzate su alcuni di questi materiali sono riportate in tab. 1. Essi sono composti principalmente da Cu e Pb con tracce di Sn, Zn e Ag; elementi come Si, Al e Ca sono caratteristici del suolo sul quale sono stati rinvenuti. La presenza di Sb e S potrebbe inoltre essere indice della materia prima utilizzata; queste impurità sono infatti presenti nelle mineralizzazioni a solfuri misti delle Colline Metallifere. La presenza di Sn con percentuali superiori al 2% (campioni 1624-17; 1624-9 * Dipartimento di Biotecnologie, Chimica e Farmacia, Università di Siena (vanessa.volpi@unisi.it). ** Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Firenze (laura. chiarantini@unifi.it). 131 V. Volpi, L. Chiarantini fig. 1 – Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR). Analisi pXRF condotte sulle strutture produttive. Sample Mg 1009-2 3.99 1159-5 1624-17 6.50 1624-9 1664-2 Al 0.98 2.96 1.97 1.66 4.91 Si 4.91 13.91 8.72 9.01 15.84 P 0.49 0.53 0.70 0.61 0.55 S Cl 1.65 8.86 4.40 4.53 4.34 4.90 3.68 K 3.21 3.16 3.92 3.14 4.87 Ca 3.52 2.51 1.69 1.89 2.08 Ti Mn Fe Ni Cu Zn Ag 0.12 0.05 0.71 0.08 53.25 0.12 0.27 0.18 0.04 0.96 0.03 56.99 0.22 0.13 1.35 0.08 53.56 2.33 0.10 1.33 0.09 43.43 3.90 0.16 1.34 0.30 52.49 0.74 0.19 Sn 0.20 0.08 4.67 2.74 1.41 Sb 1.34 1.43 0.77 0.85 1.36 Pb 5.76 8.08 9.21 11.35 7.20 tab. 1 – Analisi pXRF sulla superficie di alcuni indicatori di produzione. I dati sono riportati in percentuale in peso (%) e 1664-2) potrebbe invece far presupporre un’attività metallurgica legata alla produzione di leghe in bronzo, come si evince anche dai dati forniti dalle analisi archeometallurgiche sui frammenti metallici (tab. 1). Le analisi pXRF si sono inoltre rivelate utili per delimitare la distribuzione spaziale di Cu all’interno ed all’esterno delle strutture fusorie, oltre che per confermare la presenza di un’attività metallurgica legata all’impiego di semilavorati di Cu, che era già stata ipotizzata sulla base dell’osservazione macroscopica degli indicatori di produzione. La rilevazione pXRF di Sn su questi ultimi è stata infine cruciale per capire che le lavorazioni condotte all’interno delle strutture fusorie non erano dirette solamente al Cu ma anche alla produzione di bronzo. 3. LE ANALISI ARCHEOMETALLURGICHE Per tentare di ricostruire in dettaglio l’attività metallurgica che veniva condotta nelle strutture fusorie descritte al precedente paragrafo sono stati analizzati alcuni indicatori di produzione. In particolare dalle ricerche archeologiche è emerso che esistono delle differenze cronologiche relative al periodo di funzionamento dei tre impianti. Le due strutture fusorie collocate, l’una all’estremità nord del sito all’interno del Saggio 1 (indicatori provenienti da US 1670) e l’altra, parzialmente distrutta, all’interno del Saggio 3 (US 1756) sono state datate alla fine del XIII secolo, mentre la struttura fusoria situata all’interno del Saggio 2 (US 1368), diversa sia nelle dimensioni che nelle modalità costruttive, è stata datata alla fine del XIV secolo (Dallai, Volpi 2015). Il solo esame macroscopico degli indicatori di produzione aveva evidenziato una destinazione produttiva sostanzialmente analoga per tutte e tre le strutture. Al contrario le analisi archeometriche condotte sulle scorie associate a queste fig. 2 – Gli indicatori di produzione (piccole scorie metalliche) rinvenuti sul sito di Monteleo. strutture produttive forniscono un quadro molto complesso dell’attività metallurgica relativa al trattamento del Cu, decisamente insolito in un sito principalmente legato alla lavorazione dell’alunite per la produzione di allume. Gli indicatori di produzione provenienti dalle tre tipologie di strutture fusorie sono stati suddivisi in due categorie: piccole scorie metalliche e piccoli panetti metallici senza alcuna scoria associata (fig. 2). Le analisi sono state condotte utilizzando i convenzionali metodi di caratterizzazione mineralogica e petrografica in microscopia ottica a luce riflessa e caratterizzazione chimica (se132 Archeometria dell’allume: cicli produttivi a confronto fig. 3 – Foto al microscopio elettronico di un campione di scoria metallica proveniente dalla struttura fusoria rinvenuta nell’Area 1000, Saggio 1. A) Tessitura a grani esagonali della lega di Cu-Pb-Sb; B) Relitto di un cristallo di cassiterite. La presenza di questi cristalli indica che lo stagno è stato volontariamente aggiunto per produrre una lega di bronzo, ma che il metallo non è stato opportunamente alligato (Northover, Rehren 1992). Altri campioni di scorie metalliche analizzate provengono invece dalla fornace situata nel Saggio 2 (US 1368). Questi materiali presentano delle differenze composizionali e tessiturali molto evidenti rispetto a quelli rinvenuti nel Saggio 1. La parte metallica è composta da una lega ternaria di Cu-Sn e Pb con tracce di Zn e risulta essere molto alterata. La microstruttura della lega, anche se solo parzialmente riconoscibile a causa di un’alterazione molto spinta del campione, è anche in questo caso a grani esagonali (fig. 4). La differenza più significativa tra questi materiali e quelli provenienti dal Saggio 1, apparentemente uguali a livello macroscopico, è che in questo caso lo Sn, intenzionalmente aggiunto, è entrato in lega e non sono mai stati ritrovati cristalli di cassiterite negli interstizi tra i grani. Le tracce di Sb, presenti in tutti i campioni, indicano che la materia prima fosse di provenienza locale. L’antimonio infatti è un elemento tipico dei solfuri misti (tipo tetraedrite) delle Colline Metallifere dai quali veniva estratto il Cu. Le analisi hanno confermato l’ipotesi che a Monteleo, alla fine del 1200 e nella prima metà del XV secolo, venissero svolte attività metallurgiche relative alla lavorazione del Cu; esse hanno inoltre evidenziato le differenze composizionali e tessiturali esistenti tra le piccole scorie metalliche appartenenti ai due orizzonti cronologici sopra indicati. La principale attività produttiva svolta era la produzione di leghe ternarie (Cu-Sb-Pb) e quaternarie (Cu-Sb-Pb-Sn). Tutti i frammenti metallici rinvenuti nelle tre strutture produttive sono simili e testimoniano un processo di alligazione di Cu e Sn per la produzione di bronzo. Un aspetto relativo alla tecnologia produttiva molto importante è quello dell’alligazione dello Sn. In particolare, in tutti i campioni ritrovati nelle strutture di fine 1200, lo Sn non è mai in lega con il Cu, probabilmente per la scarsa efficacia nel controllo delle condizioni (atmosfera troppo ossidante) del processo produttivo (Northover, Rehren 1992). La tecnologia di lavorazione risulta notevolmente migliorata dall’analisi dei fig. 4 – Foto al microscopio ottico in luce riflessa di un campione di scoria metallica proveniente dalla fornace del Saggio 2. Si osservano i relitti della microstruttura a grani esagonali di una lega composta principalmente da Cu-Sn. miquantitativa) tramite microscopia elettronica (SEM-EDS) eseguita presso il Centro M.E.M.A. dell’Università di Firenze. I panetti metallici provenienti dalla struttura fusoria del Saggio 3 (US 1756) sono composti da una lega quaternaria di Cu-Sn-Pb e Sb con tessitura dendritica non deformata. Questo tipo di tessitura è tipica di quei materiali che vengono solamente colati, forse in degli stampi, e non lavorati a freddo, altrimenti le strutture dendritiche dovrebbero essere deformate. Un altro campione, sempre appartenente alla tipologia dei panetti metallici, risulta composto da solo Cu con qualche impurezza di Sb e Pb con tessitura a grani esagonali. In questo caso la tessitura indica che il materiale potrebbe aver subito un processo di annealing; un trattamento di “ricottura” ad alta temperatura del metallo che permetteva di rendere il materiale più morbido per le lavorazioni successive (Scott 1991). Dall’area antistante la fornace obliterata dal forno 1 (Area 1000, Saggio 1, US 1670) provengono principalmente piccole scorie metalliche che sono invece composte da una parte metallica e da una parte di scoria. Il metallo è composto da una lega ternaria di Cu-Pb-Sb con tessitura a grani esagonali. Tra gli interstizi dei grani sono stati osservati dei cristalli di cassiterite (SnO2) (fig. 3). 133 V. Volpi, L. Chiarantini campioni rinvenuti nella fornace del Saggio 2, di età più recente (prima metà XV secolo). In questo caso, come già descritto precedentemente lo Sn è entrato in lega con il Cu. Tutti i campioni sono frammenti di rame e bronzo grezzi, senza una forma ben definita, ed in nessuno sono stati rilevati evidenti segni di lavorazione, né a caldo né a freddo, per la produzione di oggetti finiti. In conclusione tutti i materiali analizzati sono tipici dei processi di lavorazione metallurgica legata alla produzione di leghe e sono molto comuni in siti legati alla lavorazione del bronzo (Chiarantini et al. 2010). Sengil 2003). È pertanto possibile che queste sostanze, impiegate a Montieri per depurare il piombo argentifero dallo zinco, siano gli scarti dell’arrostimento e della lisciviazione dell’alunite dopo aver estratto il solfato di potassio. Se così fosse si tratterebbe di un altro impiego dell’alunite (in senso lato), connesso con le attività metallurgiche del territorio e che può dare giustificazione alla apparentemente insolita associazione fra produzione dell’allume e metallurgia. 5. CONCLUSIONI Le analisi pXRF on-site hanno consentito di identificare, all’interno di specifiche aree del sito di Monteleo, quale fosse la distribuzione spaziale del Cu all’interno ed all’esterno delle strutture fusorie oltre che confermare la presenza di un’attività metallurgica legata all’impiego di semilavorati complessi di Cu. Le indagini preliminari pXRF sulla composizione chimica degli indicatori di produzione hanno evidenziato inoltre la presenza di leghe bronzee; tale dato è stato confermato anche dalle indagini metallurgiche di dettaglio condotte sui reperti. L’integrazione dei dati storici, archeologici, chimici e metallurgici conferma l’ipotesi che a Monteleo, tra la fine del 1200 e la prima metà del XV secolo, venisse svolta un’attività metallurgica relativa alla lavorazione del Cu ed in particolare alla produzione di leghe bronzee. È auspicabile che il proseguo della ricerca archeologica in questo contesto possa aiutare a comprendere con maggior chiarezza la funzione di tale attività metallurgica e le sue relazioni con l’estrazione dell’alunite documentata nel sito. 4. L’ALLUME DI MONTELEO E LE ATTIVITÀ METALLURGICHE DELLE COLLINE METALLIFERE Sebbene tutti gli indicatori di produzione concordino con una attività metallurgica incentrata sulla produzione di leghe bronzee, l’assenza di frammenti di oggetti finiti (come possibili utensili) non consente di chiarire la funzionalità di tale attività in un sito che è relativamente distante dalle possibili aree di approvvigionamento del metallo (quali le mineralizzazioni dell’area di Montieri e Rocchette) e dove l’attività produttiva principale è stata quella dell’estrazione e lavorazione dell’alunite. L’uso dell’allume (in senso lato) e dei suoi derivati (soluzioni acide di vario tipo) è menzionato nella letteratura antica nel trattamento dei metalli, ma si tratta in genere di operazioni di finitura e pulitura di metalli preziosi, come l’imbiancatura (Arles, Téreygeol, Gratuze 2007; Cope 1972). Data la scarsa concentrazione di metalli preziosi rinvenuta in scorie e frammenti metallici di Monteleo, questo tipo di operazioni di raffinamento sulle leghe da noi rinvenute sembra poco plausibile, anche se non possiamo escludere che tali attività venissero condotte nel sito e in particolare su altri materiali di cui non è ancora stata ritrovata traccia nel record archeologico. In alternativa possiamo supporre che ci potesse essere uno scambio di materie prime e semilavorati fra l’area di Monteleo e le aree metallifere del territorio. Nello specifico l’allume e i sui derivati potevano essere esportati verso le zone di produzione e raffinamento dei metalli dove venivano raffinati argento, piombo e rame, mentre alcune leghe a basso tenore di metalli preziosi (sostanzialmente rame grezzo, ricco in Sb e Pb) venivano importati a Monteleo per una piccola produzione locale. In tal senso è interessante menzionare ciò che è emerso dalle analisi di alcune scorie del XIII secolo rinvenute nell’area di Montieri (Chiarantini et al. 2014). In molte scorie legate all’estrazione del piombo argentifero, ed in particolare in tutti gli scarti legati al raffinamento del “buglione di piombo grezzo” si ritrovano grossi cristalli relitti di fasi ad alluminio (α-Al2O3) che sembrano essere stati aggiunti con funzione di scorificante per fissare lo zinco nelle scorie e rimuoverne le impurità nel fuso metallico (buglione). Tale procedura doveva essere condotta soprattutto nell’area di Montieri, dove i minerali di piombo argentifero sono comunemente associati a minerali di zinco. Quello che ci riporta all’alunite (e forse a Monteleo) è che queste fasi ad alluminio (α-Al2O3) si formano per decomposizione termica dell’alunite che, se arrostita sopra i 750°C gradi, si decompone in α-Al2O3, K2SO4 e SO3) (Özacar, Ayhan BIBLIOGR AFIA Arles A., Téreygeol F., Gratuze B., 2007, Two silvering processes used in the french Medieval minting in Congress Proceedings of 2nd International Conference Archaeometallurgy in Europe (Grado, 17-21 Maggio 2007), Milano, CD-ROM file n. 136. Brogi A., Cordoneschi A., 2007, Upper crust “boudinage” during post-collisional Miocene extension in Tuscany: insights from the southern part of the Larderello geothermal area (Northern Apennines, Italy), «Geodinamica Acta», pp. 327-351. Chiarantini et al. 2010 = Chiarantini L., Giunti I., Benvenuti M., Costagliola P., Verdiani G., Indagine archeometrica di alcuni resti di lavorazione metallurgica, in E. Govi, G. Sassatelli (a cura di), Marzabotto, La casa 1 della Regio IV – Insula 2, Vol. 2: I materiali, Bologna, pp. 439-454. Chiarantini et al. 2014 = Chiarantini L., Calossi V., Domnori M., Silvestri G., Bianchi G., Benvenuti M., Medieval Cu-Pb-(Zn) Ag smelting at Montieri and Cugnano, Colline Metallifere district (southern Tuscany), «Rendiconti online della Società Geologica Italiana», 31 (suppl. 1), p. 245. Cope L.H., 1972, Surface-silvered ancient coins, in E.T. Hall, D. M. Metcalf (a cura di), Methods of chemical and metallurgical investigations of ancient coinage, Royal Numismatic Society, 8Special Publication, London, pp. 261-278. Dallai L., Volpi V., 2015, Risorse del sottosuolo e cicli produttivi: allume, rame e argento. 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The paper aims to illustrate how the integration of pXRF analysis conducted on-site and on the slags, together with the conventional archaeometrical analysis, can help for better understanding sites like Monteleo with productive and archaeo-metallurgical tradition. In particular, the on-site pXRF analysis allowed us to identify, within specific areas of the archaeological site, the pattern of copper concentration inside and outside the productive structures, confirming the presence of a metallurgical activity linked to the use of semi-refined copper products. The integrations of historical, archaeological, chemical and metallurgical data substain the hypothesis that in Monteleo site, between the end of 1200s and the first half of XV century, some metallurgical activities were carried out, relating to the production of bronze alloys. Marinelli G., 1983, Il magmatismo recente in Toscana e le sue implicazioni minerogenetiche, «Memorie della Società Geologica Italiana», 25, pp. 111-124. Northover J.P., Rehren Th., 1992, The oxidation of bronze, in P. Meyers, D.A. Scott, T.K. Earle (a cura di), Abstract of 28th International Symposium on Archeometry, Los Angeles, p. 75. Özacar M., Ayhan Sengil I., 2003, Adsorption of reactive dyes on calcined alunite from aqueous solutions, «Journal of Hazardous Materials», B98, pp. 211-224. Scott D.A., 1991, Metallography and microstructure of ancient and historical metals, Singapore. Tanelli G., 1977, I giacimenti a skarn della Toscana, «Rendiconti della società italiana di mineralogia e petrografia», 33 (2), pp. 875-903. English abstract The history of the Allumiera di Monteleo productive site is mainly linked to the extraction and processing of the 135 Giulio Poggi*, Mirko Buono** LO STUDIO DI UN CONTESTO PRODUTTIVO ATTR AVERSO LA QUANTIFICAZIONE DELLA PRODUZIONE: IL CASO DELL’ALLUMIERA DI MONTELEO (MONTEROTONDO MARITTIMO, GR) The study of a productive context through production quantification: the site of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR) 1. INTRODUZIONE determinazione del numero di strutture e di spazi che erano necessari alla trasformazione del minerale. Per raggiungere questo obiettivo, l’analisi si baserà sull’integrazione di dati desunti dallo scavo archeologico, dalla lettura delle fonti e dai calcoli volumetrici effettuati sulle strutture e sulle cave individuate. In particolare, il calcolo volumetrico è stato realizzato a partire dai rilievi tridimensionali ad alta risoluzione delle strutture, che hanno consentito di ottenere misure di precisione dei grandi ambienti, costituiti spesso da forme irregolari e complesse. Inoltre, tramite gli strumenti di modellazione tridimensionale è stato possibile ricostruire in ambiente virtuale l’originaria forma delle strutture alterate o distrutte dal corso del tempo. Pur partendo da dati volumetrici affidabili ed ottenuti in maniera scientificamente accurata, l’interpretazione deve però essere molto cauta e prendere in considerazione alcune variabili non facilmente quantificabili. Sfuggono dal calcolo, ad esempio, gli eventuali errori commessi nel processo produttivo o i guasti alle strutture (Boisseuil, Chareille 2012), fattori così impattanti sul ritmo produttivo dell’allumiera da trovare ampio spazio nei documenti 1. Lo scopo di questo articolo è dunque quello di trasformare i processi di produzione dell’allume in dati numerici attraverso una quantificazione più attendibile possibile, e di spiegare la relazione che esiste tra le varie fasi produttive in funzione della ricostruzione storica ed archeologica del sito di Monteleo. Lo studio del sito delle Allumiere di Monteleo ha preso avvio nel 2008, in concomitanza con la prima campagna di scavo condotta dal laboratorio LTTM (Laboratorio di Topografia dei Territori Minerari) del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena. Lo scavo archeologico per la prima volta ha permesso di indagare materialmente il ciclo produttivo dell’allume approfondendo la relazione tra materie prime, strutture, spazi e organizzazione del lavoro, aspetti che fino a quel momento erano noti quasi esclusivamente tramite la letteratura (Dallai et al. 2009). Se il tema dei metodi di sfruttamento e delle modalità di trasformazione dei minerali è archeologicamente già molto indagato in questo territorio per altre tipologie di mineralizzazioni, come ad esempio i solfuri misti (Bianchi, Bruttini, Dallai 2011), la mancanza di scavi archeologici di confronto per l’allume, persino nel panorama europeo, ha reso Monteleo un caso di studio unico (Dallai, Poggi 2012). I dati emersi durante le nove campagne di scavo hanno permesso di individuare cronologie di sfruttamento ben definite e di assegnare, per quanto possibile, una funzione a ciascun impianto all’interno del ciclo produttivo dell’allume (cfr. Dallai in questo volume). Utilizzando la mole di dati raccolta, lo scopo di questo contributo è quello di effettuare delle stime quantitative delle materie impiegate in ogni attività che caratterizza il processo di produzione dell’allume e di analizzare l’evoluzione di questa produzione nel tempo, attraverso il confronto tra i diversi periodi storici in cui l’allumiera è stata sfruttata. Se informazioni dettagliate circa i quantitativi di allume prodotto alla fine del ciclo produttivo trovano ampio spazio nelle fonti, non altrettanto accurate sono le descrizioni delle varie fasi del ciclo produttivo. Infatti, spesso non è ben esplicitato il legame tra la quantità di materia prima, la dimensione e il numero di impianti di trasformazione e la quantità di materiale che veniva messa in circolazione in ogni fase intermedia. Stimando la portata della produzione di un sito pluristratificato come quello di Monteleo, tenteremo di stabilire l’impatto che ciascun periodo di sfruttamento ha avuto sul contesto dell’allumiera, con un’attenzione particolare per le modificazioni del paesaggio circostante e per la 2. METODOLOGIA Per il calcolo dei dati volumetrici delle strutture produttive e della cava si è fatto ricorso al supporto di strumenti di rilievo e di modellazione tridimensionale. Durante le campagne di scavo archeologico, le numerose strutture produttive messe in luce sono state documentate usando la tecnica di rilievo Image-Based 3D Modeling, che consente di ottenere modelli tridimensionali a partire da un set di fotografie scattate secondo precise regole. Evoluzione della tradizionale fotogrammetria, tale tecnica è ormai da anni implementata con profitto in ambito archeologico (Dellepiane et al. 2013; De Reu et al. 2014) ed a partire dal 2012, ne è stato fatto un utilizzo sistematico sperimentale anche sul sito delle Allumiere di Monteleo (Poggi 2016). * Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente, Università di Siena (giulio.poggi@unisi.it). ** Dipartimento di Scienze Storiche e dei beni Culturali, Università di Siena (m.buono92@gmail.com). 1 137 Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, pp. 275-280. G. Poggi, M. Buono L’ottima adattabilità del metodo di acquisizione fotografica a contesti diversi, il relativo basso costo delle attrezzature necessarie e la rapida elaborazione dei modelli tridimensionali, hanno fatto sì che questa tecnica fosse impiegata con buoni risultati all’interno della stessa indagine archeologica, arricchendo la ricerca con il supporto derivante dai dati volumetrici e spaziali (Poggi, Buono 2018). Proprio sul sito di Monteleo uno studio specifico ha evidenziato l’importanza delle analisi volumetriche sui crolli delle murature al fine di ricostruire con precisione l’altezza originaria delle strutture. Questi dati, insieme ai risultati dello scavo e ai confronti, hanno permesso la ricostruzione delle dimensioni originarie e della funzione di una delle strutture individuate, che ha trovato un confronto perfetto in una fornace da mattoni cinquecentesca, descritta nell’opera di Cipriano Piccolpasso (Poggi, Buono 2018). Per quanto riguarda il presente studio, l’indagine si è concentrata solamente su quelle strutture che sono state riconosciute attinenti ai processi produttivi dell’allume. Tutte le strutture indagate sono ricavate all’interno di grandi corpi di fabbrica a forma di parallelepipedo, di dimensioni variabili a seconda della cronologia e della tipologia, che presentano una facciata di lunghezza compresa tra i 20 e i 40 m e un’altezza compresa tra 3 e 5 m. I corpi di fabbrica sono costruiti in pietra calcarea locale sommariamente sbozzata legata da malta, e talvolta sono incassati sul declivio di un rilievo (si tratta in particolare delle fornaci da calcinazione). Al loro interno erano ricavate le vere e proprie strutture produttive, cioè i forni e le caldaie. Un’apertura verso l’esterno, detta prefurnio, consentiva l’accesso alla camera di combustione per la gestione del fuoco e lo svuotamento del contenuto delle camere stesse. Per questo tipo di strutture si è scelto di utilizzare la tecnica di rilievo Image-based 3D Modeling per la buona adattabilità che essa presenta ad eseguire acquisizioni di forme solide complesse, dalle numerose sfaccettature e dagli spazi spesso molto stretti. Dal rilievo generale di tutto il corpo di fabbrica sono state estrapolate le strutture interne, che costituiscono l’oggetto di interesse vero e proprio per i calcoli volumetrici. I processi sono stati eseguiti dal software di modellazione 3D Blender, attraverso cui è stato inoltre possibile rimodellare le alterazioni della forma delle superfici, laddove piccoli crolli avevano compromesso la forma originaria delle strutture. Si è quindi proceduto al calcolo dei volumi delle camere di cottura dei forni e delle caldaie. Per quanto riguarda il calcolo del volume di roccia estratta nella grossa cava di Buca dei Falchi, considerata la dimensione del fronte roccioso lungo circa 70 m e alto più di 30 m, in parte nascosto dalla vegetazione del bosco, la tecnica Imagebased 3D modeling non è stata valutata adeguata. In mancanza di strumenti di rilievo finalizzati ad acquisire estensioni più consistenti, come ad esempio la fotogrammetria da velivoli UAV o il rilievo LiDAR avio-trasportato, si è scelto di utilizzare come riferimento geometrico il rilievo digitale del terreno (DTM) a 5 m di risoluzione, nel quale è ben riconoscibile lo scasso effettuato sul versante della collina dalle attività di cava. Le curve di livello estrapolate dal DTM sono state la base per la creazione di un modello tridimensionale che riproducesse con buona approssimazione la morfologia odierna del poggio. Il modello così ottenuto è stato poi manipolato e integrato in Blender allo scopo di ricostruire il volume della parte di roccia mancante. 3. IL SITO DI MONTELEO L’allumiera di Monteleo conobbe uno sfruttamento a fasi alterne compreso tra la fine del XIV e la metà del XVIII secolo; il lungo lasso temporale del suo sfruttamento ha fatto sì che le tracce materiali lasciate da ciascuna fase fossero in parte obliterate dalle fasi successive (Dallai, Poggi 2012). Sulla base dei dati fino ad oggi ottenuti, si è cercato di mettere in relazione le dimensioni degli spazi e l’entità della produzione nei vari step che compongono il ciclo produttivo dell’allume e nelle diverse epoche storiche. I dati emersi da questi calcoli possono essere utili per colmare alcune lacune nella ricostruzione storico/archeologica del sito e per sollecitare la riflessione sulle motivazioni che hanno portato a specifiche scelte di sfruttamento della risorsa. Per giungere a dati maggiormente significativi, i periodi di attività delle allumiere di Monteleo che andremo ad analizzare per la quantificazione della produzione sono quelli per i quali disponiamo delle informazioni più complete dal punto di vista storico e archeologico. 4. BIENNIO 1507-1508 Il primo periodo in analisi è quello relativo allo sfruttamento dell’allumiera durante il biennio 1507-1508 ad opera di una magona 2 senese guidata da Rinaldo Tolomei. Per questo periodo disponiamo di una documentazione di archivio molto ricca, costituita da due libri mastri e due registri contabili tenuti dal direttore dell’allumiera e conservati presso l’Archivio dell’Opera Metropolitana di Siena (Boisseuil, Chareille 2009). Dai registri si ricava che in 18 mesi di attività continua l’allumiera produsse circa 36 tonnellate di allume in 76 caldarate (assumiamo che il termine si riferisca all’ebollizione continuativa della soluzione di acqua e allume durante la fase di lisciviazione, fase svolta grazie all’ausilio di una caldaia). Si tratta quindi di una produzione media di 477 kg di allume per ogni cottura. La documentazione storica indica che la fase di lisciviazione del processo era effettuata in due tempi ravvicinati e con periodi di ferma di circa una settimana 3; ciò permette di ipotizzare che le caldaie in funzione fossero due. La lavorazione di due strutture a giorni alterni avrebbe evitato un arresto troppo prolungato della produzione e garantito maggiore flessibilità in caso di guasti agli impianti e nella generale pulizia degli stessi. Dall’analisi dei registri si evince anche che in un anno di lavorazione furono eseguite 204 fornaciate (questo termine si riferisce alla cottura delle pietre in fase di calcinazione in forni a camera cilindrica) in 12 mesi di lavoro. Considerando un ritmo costante per tutti i 18 mesi in cui l’allumiera fu attiva, 2 Nome utilizzato nei documenti per definire un impianto di lavorazione minerario. 3 Per il grafico che riassume la produzione in questo periodo si veda Boisseuil, Chareille 2009, p. 21, fig. 4. 138 Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo fig. 1 – Il sito dell’Allumiera di Monteleo. Localizzazione degli impianti produttivi e dei luoghi estrattivi citati nel testo. possiamo stimare un totale di 249 infornate, quasi una ogni due giorni. Anche per questa fase del ciclo di produzione si ipotizza la presenza di due fornaci che avrebbero lavorato alternativamente (Boisseuil, Chareille 2009). L’indagine archeologica ha permesso di datare le stratigrafie relative alle strutture presenti sul sito, andando a sopperire alla difficoltà nel datare le stesse su base costruttiva/tipologica, data la sostanziale invariabilità riscontrata (Dallai, Poggi 2012). Sono state attribuite a questo periodo le attività produttive relative all’uso di una batteria di quattro forni, localizzata nella prossimità della grossa cava a Nord del torrente Risecco, e due forni da lisciviazione a Sud del corso d’acqua, in direzione della piana del Frassine (Dallai, Poggi 2012) (fig. 1). La batteria menzionata è composta da quattro fornaci in pietra a camera circolare rivestita in mattoni e prefurnio voltato. La posizione dei forni, compatibile con le descrizioni delle fonti, e le cronologie desunte dallo scavo archeologico, hanno permesso di collocare l’utilizzo di queste strutture nella fase rinascimentale (fine XV-prima metà XVI secolo). I forni, seppur originariamente destinati alla calcinazione, nel tempo hanno subito delle modificazioni strutturali e dei restauri che ne hanno alterato la funzione. Di tutti questi, solamente il forno più a Nord (Forno 1) sembra aver lavorato intensamente per la calcinazione delle pietre, come testimoniato dal rinvenimento al suo interno di piani di carbone, materiale di cava cotto e una diffusa scorificazione del rivestimento in mattoni della camera di cottura. Un secondo forno (Forno 2) venne probabilmente trasformato per esigenze produttive in un forno da lisciviazione, come emerge dal rinvenimento di una fodera in mattoni alta circa 1,5 m che riduce il diametro interno del forno e crea una risega dello spessore di 25 cm (Dallai, Poggi 2012). Gli altri due forni (Forni 3, 4) non presentano segni consistenti di attività di fuoco al loro interno, e per questo risulta difficile ipotizzare per essi una funzione specifica nel processo di lavorazione, facendo pensare che non siano stati utilizzati a lungo (fig. 2). A Sud del torrente lo scavo archeologico ha portato alla luce altri due forni che all’avvio delle indagini erano quasi completamente obliterati da un consistente interro formato da scarti di cava, da riferire al rialzamento dei piani di lavorazione eseguiti nel ’700 per proteggere le strutture più recenti dalle piene del torrente Risecco 4. Questi livellamenti hanno 4 139 Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 273. G. Poggi, M. Buono 140 fig. 2 – La batteria di 4 forni cinquecentesca. Ortofotopiano e sezione trasversale delle camere di cottura. Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo fig. 3 – Le vasche da lisciviazione. Tipologie diverse a confronto. permesso di stabilire cronologie relative interne al sito, in supporto all’interpretazione archeologica. Il forno più a Sud (Forno C) è costituito da una camera circolare foderata in mattoni sulla quale si sviluppa una vasca troncoconica rivestita in malta idraulica, che da un diametro sul fondo di 2 m si allarga verso l’orlo fino a 3,5 m. Questa struttura corrisponde per forma, materiali e dimensioni ad una caldaia da lisciviazione, così come descritta dalle fonti coeve 5. Dello stesso complesso fa parte un altro forno in mattoni (Forno B), che presenta alcuni elementi di similitudine con la precedente caldaia da lisciviazione, ma ha una vasca dalla forma diversa e dalle dimensioni più ridotte. In questo caso la camera interna, a circa 70 cm dalla sommità, presenta una risega circolare in mattoni sopra alla quale si imposta una struttura cilindrica rivestita in malta e con orlo superiore leggermente svasato, del diametro di 2 m. Circa 10 cm sopra la risega, dalla parte opposta alla facciata della struttura, vi è un’apertura circolare che attraversa il corpo in mattoni ed esce all’esterno, con un cannello cilindrico aperto verso una canalizzazione parzialmente conservata. Nonostante la dimensione ridotta della struttura e la sua forma, unica tra quelle presenti sul sito, la presenza di una valvola di scolo sul fondo della vasca sembra essere l’elemento distintivo di una caldaia da lisciviazione 6 (fig. 3). Attraverso il rilievo tridimensionale di queste strutture è stato possibile calcolare i volumi interni dei forni per cercare di formulare ipotesi interpretative circa la loro funzione e poter confrontare strutture diverse dal punto di vista tipologico e funzionale. Per quanto riguarda il Forno 1, certamente una fornace da calcinazione, si è cercato di calcolare il volume di pietre che esso poteva contenere in ciascuna infornata, sulla base del metodo di impilamento delle pietre ben descritto dai documenti. È stato quindi modellato in ambiente virtuale un 5 6 solido specifico, calcolando anche che alla base della camera di cottura era necessario prevedere uno spazio utile all’alloggiamento del combustibile. Sulla base di queste premesse si è calcolato che il forno potesse cuocere circa 14 m³ di roccia in una sola infornata. Moltiplicando il volume di ogni infornata per il numero di infornate realizzate nel periodo in esame, cioè 249, si ottiene il volume di roccia minima che doveva essere estratta per sopperire al fabbisogno della calcinazione tra il 1507 e il 1508. Possiamo quindi ipotizzare che durante questo periodo si siano cavati almeno 3486 m³ di roccia, ai quali è necessario aggiungere gli scarti di cava che fisiologicamente dovevano essere stati prodotti durante l’estrazione. Per quanto riguarda la lisciviazione le due vasche individuate (Forni B e C) presentano, come detto, forme e dimensioni molto diverse tra loro. Per capire l’entità di questa differenza ai fini della produzione sono stati eseguiti i calcoli volumetrici immaginando di chiudere la vasca con un piano virtuale passante al livello della risega che la divide dalla camera di cottura, nel punto in cui doveva trovarsi la base della caldaia in rame all’interno della quale avveniva materialmente la bollitura della soluzione di acqua ed allume (Boisseuil, Chareille 2009). Le due vasche così calcolate hanno la capienza rispettivamente di 0,9 m³ e 4,3 m³. Il Forno 2 prima citato appartiene invece ad una tipologia diversa, anche questa ampiamente descritta dalle fonti per questo periodo (Picon 2005). La costruzione della risega interna in mattoni doveva servire per l’appoggio del fondo della caldaia in rame, realizzata in placche di metallo rivettate. Il calcolo effettuato sul volume della vasca così ricostruita ha restituito un valore attorno ai 6,3 m³ (fig. 4). Da questa analisi possiamo vedere come al medesimo orizzonte cronologico della prima età rinascimentale (fine XV-prima metà XVI secolo) siano da ascrivere tre tipologie di caldaie, ognuna con capacità diverse. Considerando che i quantitativi di produzione di allume per ogni caldaiata riportati sui registri contabili evidenziano una sostanziale uniformità di produzione tra le due cotture settimanali (e Vannoccio Biringuccio 1540, vol. X, p. 32. Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 254. 141 G. Poggi, M. Buono fig. 4 – Dettaglio delle strutture interpretate come forni da lisciviazione. L’area evidenziata corrisponde alla capienza della vasca da lisciviazione, posta al di sopra della camera di cottura. quindi anche tra le due strutture ipotizzate), rimane aperto il problema di quale siano effettivamente le caldaie in uso durante il biennio 1507-1508. Se la discrepanza delle misurazioni tra i due forni più capienti può essere dovuta ad una effettiva difficoltà di valutazione a posteriori del volume del Forno 2, in cui lo smantellamento del rivestimento interno ha alterato sicuramente le forme originarie, i dati archeologici raccolti e le valutazioni su base tipologica lasciano supporre che Forno 2 e Forno C siano le strutture citate dai documenti esaminati. Il Forno B infatti, per via delle dimensioni ridotte e per la mancata individuazione di livelli archeologici specifici connessi con certezza al suo utilizzo, risulta ancora al momento di difficile inquadramento funzionale. Possiamo quindi ipotizzare che le due caldaie più grandi abbiano lavorato in alternanza tra loro, evitando che le operazioni ordinarie di pulizia e manutenzione fermassero la produzione. Il secondo periodo preso in esame è quello relativo allo sfruttamento dell’allumiera sotto la spinta granducale, nel primo anno di attività a cavallo tra 1744 e 1745. Durante l’inverno del 1745, pochi mesi dopo l’avvio dell’impresa, l’allumiera vide la visita del naturalista Giovanni Targioni Tozzetti che vi si fermò per tre giorni e ne descrisse con dovizia di particolari il lavoro (Riparbelli 1984). Nella descrizione generale del sito, l’autore fa riferimento all’insalubrità della zona che impediva il lavoro da giugno a ottobre, costringendo a ridurre le attività lavorative a soli 8 mesi effettivi (Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, pp. 280-281). Per sopperire a questa interruzione, Targioni riferisce che l’obiettivo dell’impianto di una caldaia è di produrre, in questi otto mesi in cui è in funzione, tanto allume quanto ne viene prodotto in 12 mesi in una caldaia equivalente che lavora negli impianti della Tolfa 7. Questo risultato si poteva raggiungere mettendo in funzione due caldaie che avrebbero lavorato a ritmo alternato, cioè realizzando una caldaiata e mezzo al giorno. Nel periodo di attività di 240 giorni, questo dato porta il numero di caldaiate a 360 in un anno produttivo di 8 mesi. Considerato che la produzione totale annua è stimata dal Targioni attorno alle 50 tonnellate, si producevano quindi in questo periodo una media di circa 141 kg di allume per ogni caldaiata (Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, pp. 308-309). Si tratta chiaramente di calcoli basati sulle intenzioni di produzione dell’impianto; nonostante questo però, essi possono essere considerati attendibili per l’ordine di grandezza di quella che fu la reale mole di allume in uscita, che non doveva discostarsi troppo da questi dati. All’interno dell’allumiera settecentesca, nell’area ad Est del torrente Risecco, sono riconoscibili due caldaie, perfettamente compatibili con i confronti di strutture coeve (Picon 2005), con vasche troncoconiche rovesciate della capienza di 4,7 m³, cioè un valore perfettamente in linea per forma e capacità con la vasca del Forno C cinquecentesco (fig. 4). Nello stesso edificio, accanto alle due caldaie, un grosso crollo oblitera quello che doveva essere in origine un terzo forno. Non abbiamo la certezza se sotto questo crollo vi sia quella terza caldaia aggiuntiva di cui si auspica la costruzione nel 1745 (Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 311) o un altro genere di struttura produttiva, dunque la quantificazione dei processi produttivi per questo periodo proverà a prendere in considerazione entrambe le ipotesi. Secondo la prima ipotesi, il ritmo di 2 caldaiate al giorno per i 240 giorni di lavoro avrebbe portato alla fine dell’anno ad un totale di 480 lisciviazioni. Il dato che ci permette di legare calcinazione e lisciviazione è stato ricavato dalla descrizione del Targioni, il quale stima che la quantità di pietra che viene calcinata in una sola fornace sia sufficiente a produrre tanta pasta alluminosa da alimentare quattro caldaie 8. Possiamo così stimare che negli 8 mesi, a fronte di 360 caldaiate, l’impresa necessitasse di 90 infornate da calcinazione, mentre per gli anni a seguire, a fronte di 480 caldaiate (considerando la costruzione del nuovo impianto) si siano eseguite 120 infornate. Non è stato possibile misurare la capienza delle due fornaci da calcinazione di cui si fa menzione dei documenti poiché esse sono parzialmente obliterate dalla costruzione della viabilità di fine Ottocento, ma la misurazione delle 7 La Tolfa viene spesso utilizzata per confronto in quanto vi si trovava la più grande e la più stabile industria dell’allume in Italia. 8 Targioni Tozzetti G. 1745, Relazioni sulle allumiere della Toscana, Manoscritto Palatino, 1065, Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze (BCNF). 5. BIENNIO 1744-1745 142 Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo fig. 5 – Visualizzazione all’interno del programma Blender della superficie odierna del poggio da DTM a 5 m, con ben evidente la cava (sinistra); la superficie è stata integrata con un solido che andasse a ricreare l’aspetto originario della collina. Questo solido è stato usato per il calcolo del volume dell’escavazione (destra). fig. 6 – Pianta e veduta della miniera e dell’opificio dell’allume situato nel territorio di Monterotondo, opera di Eegat datata 1760-65; ASF, Miscellanea di Piante, n. 29b. Edita in D. Barsanti, L. Bonelli Conenna (a cura di), Le carte del Granduca. La Maremma dei Lorena attraverso la cartografia, Roccastrada 2001, p. 64. Sono stati dettagliati i filoni di allume visibili sul fronte di cava di Monteleo. superfici ancora accessibili risulta in linea con le dimensioni delle strutture da calcinazione cinquecentesche, per cui possiamo stimare con una relativa sicurezza che anche i volumi interni non dovessero discostarsi molto. Ipotizzando quindi che anche queste fornaci, così come quelle cinquecentesche, avessero una capienza di 14 m³, possiamo stimare che la roccia da calcinazione necessaria alla produzione settecentesca avesse avuto un volume minimo complessivo di 1260 m³ per il primo anno, mentre poteva essere aumentata a 1680 m³ er gli anni a seguire, al termine della costruzione della terza caldaia e al conseguente incremento produttivo che ne sarebbe derivato. Per quanto riguarda la quantificazione dell’estrazione, Targioni afferma che al momento della sua visita si stava cavando da una cava bassa poco sopra il livello del torrente Risecco, dalla quale si erano già estratti in pochi mesi 1340 m³ di roccia, secondo i calcoli effettuati a partire dalle sue misurazioni. Con questo volume di roccia si sarebbe quindi già quasi coperto il fabbisogno del lavoro di un anno. Questo fronte di cava oggigiorno non è praticamente visibile, essendo nascosto dagli scarichi dei lavori successivi e dai detriti e smottamenti del poggio. L’escavazione ancora ben visibile sul sito odierno, invece, deve essere quella che Targioni riferisce essere stata avviata nell’autunno del 1744 e che si impostava su un fronte di cava più antico 9. Questa grossa cava è stata misurata grazie al supporto del modello digitale del terreno, sul quale è ben riconoscibile lo scasso nel versante del poggio. La modellazione ha permesso di formulare due ipotesi ricostruttive. La prima si basa semplicemente sull’integrazione della lacuna allo stato odierno del versante, che risulta essere di 31525 m³ di roccia 9 Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 272. Data la vicinanza alle strutture, si tratta probabilmente di escavazioni cinquecentesche. 143 G. Poggi, M. Buono mancante (fig. 5). Una seconda ipotesi invece ha cercato di tenere conto di slittamenti e crolli che sono andati nel tempo a depositarsi sul piano adiacente alla cava e verso il corso d’acqua sottostante. Arbitrariamente abbiamo quindi cercato di compensare questi spostamenti di terra, abbassando di 3 m il livello del piano adiacente e rendendo maggiormente verticali la parte bassa delle pareti della cava, come l’analisi delle sezioni degli interri oggi visibili lascia intuire. L’integrazione della lacuna rimodellata sui nuovi dati ha restituito un valore di 56481 m³. Se sottraiamo dal totale di roccia cavata negli anni quei 3500 m³ circa estratti con ogni probabilità nel biennio 15071508, rimangono tra i 28325 e i 53281 m³ di roccia. Una mole di roccia così elevata rispetto a quella calcolata dalla misurazione delle strutture produttive si spiega con l’analisi dei metodi estrattivi e in parte anche per la presenza di fasi di lavorazione che non sono state prese in considerazione in questo contributo. Le stesse fonti parlano di strutture più antiche della nostra fase del ’500, e lo scavo archeologico ha riscontrato forme e impasti ceramici ascrivibili ad una frequentazione intermedia di XVII secolo (si veda in particolare il contributo di Dallai, in questo volume). In che misura tali fasi di sfruttamento del sito abbiano influito sui volumi di estrazione e lavorazione dell’allume non è stato ancora chiarito; l’estrema labilità di queste tracce, sia dal punto vista documentario che archeologico, non permette di fare una stima precisa. La labilità stessa, però, è forse la spia di imprese di sfruttamento di dimensioni modeste, che avrebbero prodotto un impatto minimo rispetto al volume calcolato. Data anche la grandezza della forbice individuata per il volume di roccia cavata, riteniamo comunque validi questi dati, se non nella puntualità della stima, per lo meno nel suo ordine di grandezza, che non deve essere stato intaccato significativamente da queste fasi minori. La stima è quindi, per il periodo 1745-1752, di un quantitativo di estrazione che oscilla tra i 4000 e i 7000 m³ circa di roccia all’anno. Questo dato sostanzioso è esplicativo da un lato di una mutata tecnica estrattiva rispetto al biennio 1507-1508, con l’introduzione dell’uso della polvere da sparo in sostituzione dello scavo manuale, ma anche di una certa difficoltà che l’impresa deve aver avuto nel raggiungere i filoni più ricchi di allume, così come più volte sottolineato dalle fonti 10. 1507-1508 1744-1745 2 Fornaci 2 Fornaci Calcinazione 204 infornate = 2856 135 infornate = 1890 m³ di pietra calcinata m³ di pietra calcinata Macerazione / / 2 Caldaie 2/3 Caldaie 40.000Kg in 50 Lisciviazione 75.000 kg in 540 caldaiate caldaiate 141 kg per caldaiata 477 kg per caldaiata 2 fornaci da 2 fornaci da calcinazione: calcinazione: 14.3 m³ 14.3 m³ Volumi strutture 2 caldaie da 2/3 caldaie da lisciviazione: lisciviazione: 6,4/4.3 m³ 4.7 m³ tab.1 – Schema riassuntivo dei volumi della produzione ricavati dalle fonti e dai calcoli volumetrici per 12 mesi di attività. tra i dati desunti per i due periodi storici. Così, nel ’700, si stimano 90 fornaciate da calcinazione per le 360 cotte da lisciviazione, con una produzione di 141 kg di allume a cotta e un totale di 50 tonnellate di allume annuo. Nel ’500 sono invece registrate 250 fornaciate per le 76 cotte, con una produzione media di 477 kg di allume a cotta e un totale di 36 tonnellate di allume in 18 mesi. Nel ’500 servono circa 3 fornaciate per produrre abbastanza pasta alluminosa da alimentare la caldaia, mentre nel ’700 con 1 fornaciata si produce sufficiente materiale per 4 caldaiate (tab. 1). Da cosa dipende la discrepanza nel ritmo produttivo se le dimensioni delle strutture risultano analoghe? La spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che veniva immessa nel ciclo produttivo pietra di differente qualità. Questo potrebbe essere la conseguenza dei diversi metodi estrattivi che non permettevano, nel ’500, il raggiungimento dei più ricchi filoni di allume, cosa che l’uso della polvere da sparo nella fase settecentesca consentiva di fare. Inoltre, questa interpretazione potrebbe spiegare la causa della discrepanza tra il volume di roccia cavata, risultante dall’analisi volumetrica della cava, ed il materiale che dovette effettivamente essere cotto nelle fornaci, così come evidenziato dai calcoli effettuati per il periodo settecentesco. In questa fase infatti, la metodologia di scavo, ben descritta in altri contributi (Dallai et al. 2009), non prevedeva che si seguisse puntualmente il filone in profondità, ma che venisse arretrato tutto il fronte di cava, creando quindi una grossa piazza di lavoro alla base dell’escavazione che facilitava lo smaltimento degli scarti. In seguito all’estrazione doveva avvenire un grosso lavoro di cernita dei materiali, dato che i filoni più redditizi si trovavano molto in profondità, come confermato anche da un rilievo storico (fig. 6). Possiamo quindi ipotizzare che nel ’500 la resa di allume della pietra fosse minore e che servissero molte infornate per produrre sufficiente pasta alluminosa da lisciviare nelle caldaie. Altri fattori che potrebbero spiegare questa differenza di ritmi produttivi per i due periodi possono essere legati ad una minore efficienza del ciclo produttivo più antico rispetto a quello settecentesco o a minori investimenti nelle strutture, ma ciò al momento non trova appoggio nei dati di scavo. In conclusione, l’utilizzo di tecniche di rilievo e di analisi tridimensionali si è dimostrato utile per migliorare l’attendibilità dei calcoli volumetrici delle strutture, corroborando i dati fino al momento raccolti dallo scavo archeologico e dallo studio delle fonti. Queste nuove informazioni sono state utili 6. CONCLUSIONI Se quella di Monteleo deve essere stata nel complesso un’impresa di modeste dimensioni al confronto con le attività di estrazione di Tolfa-Allumiere sia nel ’500 che nel ’700 (Boisseuil, Chareille 2009; Dallai, Poggi 2012), possiamo individuare una grossa differenza tra la produzione dei due periodi. Considerando affidabili i dati desumibili dalle fonti storiche, appare evidente come nel ’700 ci sia un rapporto molto favorevole tra la quantità di pietra destinata alla calcinazione e l’allume prodotto. Dall’analisi volumetrica delle strutture presenti sul sito è possibile vedere come le dimensioni delle fornaci non subiscano sostanziali modificazioni nel tempo, permettendoci di fare un confronto diretto 10 Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 273. 144 Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo M. Picon (eds.), L’Alun de Méditerranée, Napoli-Aix-en-Provence, pp. 13-28. Poggi G., 2016, Documentation and analysis workflow for the On-going archaeological excavation with Image-based 3D modeling technique: the case study of the medieval site of Monteleo Italy, in S. Campana, R. Scopigno, G. Carpentiero, M. Cirillo (eds.), Proceedings of the 43rd Annual Conference on Computer Applications and Quantitative Methods in Archaeology, Oxford, pp. 369-376. Poggi G., Buono M., 2018, Enhancing archaeological interpretation with volume calculations. An integrated method of 3D recording and modeling, in E. Uleberg, M. Matsumoto (eds.), CAA2016. Oceans of Data. Proceedings of the 44th Annual Conference on Computer Applications and Quantitative Methods in Archaeology, Archaeopress, pp. 457-469. Targioni Tozzetti G., 1774, Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, vol. VII, Firenze. Riparbelli A., 1984, Le miniere del massetano dal 1700 al 1860 fra storia e archeologia industriale. Strumenti, metodi di coltivazione e impianti, in I. Tognarini (a cura di), Siderurgia e miniere in Maremma tra ’500 e ’900, Firenze, pp. 19-37. per fornire delle stime sui quantitativi di materiale che veniva impiegato nelle varie fasi del ciclo produttivo dell’allume, fornendo un ulteriore elemento di valutazione per discutere le interpretazioni emerse dalle indagini sul sito archeologico delle Allumiere di Monteleo. BIBLIOGR AFIA Fonti inedite Giovanni Targioni Tozzetti, 1745, Relazioni sulle allumiere della Toscana, Manoscritto Palatino, 1065, Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze (BCNF). Bianchi G, Bruttini J., Dallai L., 2011, Sfruttamento e ciclo produttivo dell’allume e dell’argento nel territorio delle Colline Metallifere grossetane, in Risorse naturali e attività produttive: Ferento a confronto con altre realtà, «Daidalos», 12, pp. 249-282. Biringuccio V., 1540, De la Protechnia, Venezia (ristampa anastatica a cura di A. Carugo, Milano 1977). 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Brun, English abstract The results of the archaeological excavation and the study of the historical sources have shed light on the interpretation of the structures and spaces of the Allumiera di Monteleo, a Late Medieval and Early Modern period alum production site. However, the long exploitation of the site and the minor technical progress occurred in the alum production, have left some uncertainties about which structures were in use in each chronological period. The purpose of this study is to estimate the volumes of the quarries and the structures and to use them as a mean of comparison of the amount of raw material processed during each phase of the alum production. This is meant to identify which structures were reasonably employed in each period, in order to determine the function of those still uncertain and to enable the comparison of the productive capabilities of the alum factory over the time. For this purpose, the quarries and the structures were recorded in 3D, and the models were used to perform reliable volumetric measurements of irregular shapes. Besides, the models enable to perform virtual reconstruction of the hypothetical shape of collapsed surfaces, increasing accuracy and reliability of the calculations. 145 Elisabetta Ponta* CULTUR A MATERIALE E CONTESTI TOPOGR AFICI. L’ALLUMIER A DI MONTELEO (MONTEROTONDO MARITTIMO, GR): STUDIO DEI REPERTI CER AMICI E CONFRONTO CON IL TERRITORIO Material culture and topographical contexts in the territory of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR): analysis of pottery finds and comparison with the territory 1. PREMESSA dalle murature cinquecentesche (Dallai infra), riconducibile all’età rinascimentale, che trovano sul sito analogia con pochi frammenti attestati nell’area 3000. Dal saggio III provengono infine materiali che si discostano oltre che per cronologia anche per funzione da tutti gli altri: si tratta di ceramica di impasto estremamente frammentata, che è stato possibile inquadrare nel periodo del Bronzo medio 3, in associazione ad alcuni strumenti litici, probabili percussori, databili alla medesima cronologia. Questi materiali, evidentemente residuali, in associazione ai grossi pezzami di pietra impiegati nelle murature delle Allumiere cinquecentesche, rappresentano ad oggi le tracce della più antica fase di occupazione del sito (Dallai, Volpi 2015). Come già anticipato, il materiale ceramico presenta nella maggioranza dei casi un’alta percentuale di frammentarietà ed uno stato conservativo estremamente compromesso, salvo alcune fortunate eccezioni; dal Forno 3, e più di preciso lungo la risega interna della sua sommità, erano deposte tre forme pressoché integre, quasi del tutto ricostruibili, ed un numero ingente di frammenti di dimensioni medio-grandi proviene da uno strato di crollo localizzato sul fondo della medesima struttura. I dati che si presentano in questa sede sono il risultato del lavoro di studio sui reperti ceramici rinvenuti nelle campagne di scavo condotte sul sito delle Allumiere di Monteleo (Monterotondo M.mo, GR) 1, letti in rapporto al territorio monterotondino in cui il sito si inserisce (fig. 1). Le informazioni che di consueto si ottengono dall’analisi delle ceramiche da scavo riguardo alle caratteristiche tecniche, stilistiche e tipologiche oltre che alla provenienza delle singole produzioni attestate, non riguardano del tutto questo caso specifico; infatti il quantitativo di materiale, estremamente frammentario, rinvenuto dal 2008 al 2016 risulta piuttosto esiguo 2 e lo stato di conservazione alquanto compromesso. Sono poche le forme ceramiche ricostruibili nella loro interezza ed in molti casi, soprattutto per quanto riguarda le fasi più antiche, i frammenti rivestiti conservano solo tracce labili delle decorazioni originarie. Tuttavia, se si considera il contesto di rinvenimento di questo materiale, cioè le stratigrafie interne alle aree produttive, e non gli ambienti abitativi o di servizio delle Allumiere, il punto di vista cambia drasticamente: la presenza di questi reperti può considerarsi un aspetto molto fortunato della ricerca che, oltre a permettere una datazione delle stratigrafie indagate, ci consente di ricostruire almeno in parte la cultura materiale propria di un luogo di lavoro durante le sue diverse fasi di utilizzo. Per quanto riguarda la distribuzione dei rinvenimenti, questi provengono in maniera pressoché uniforme da tutti e tre i saggi interni all’Area 1000, mentre riguardo all’area 3000 la percentuale maggiore si riferisce ai settori di scavo B, E ed F. A livello cronologico una leggera discrepanza è stata osservata nell’Area 1000 dove, all’interno del più cospicuo ed uniforme gruppo di ceramiche riferibile all’Età Moderna, cioè in fase con l’utilizzo delle fornaci da allume, sono emersi materiali che si discostano da tale cronologia. In particolare, dal settore I provengono ceramiche estremamente frammentate attribuibili al basso Medioevo; dal saggio II sono invece emersi reperti in fase con il piccolo forno in laterizi, parzialmente obliterato 2. I MATERIALI CER AMICI TR A SCAVO E TERRITORIO Il basso Medioevo Fatta questa breve premessa, passiamo ora ad analizzare più nel dettaglio i materiali rinvenuti. Dal punto di vista funzionale si riconoscono manufatti finalizzati sia all’uso della tavola che preposti alla preparazione dei cibi; questi ultimi sono maggiormente attestati (66,25%) e si riferiscono a diverse classi ceramiche (figg. 2 e 3). Ad eccezione del materiale residuale di età preistorica a cui si è fatto prima un rapido accenno, tra le ceramiche più antiche spiccano i manufatti prodotti in maiolica arcaica. Questa classe è presente con una percentuale poco rilevante ma molto significativa di materiale frammentario, riferibile alla fase centrale della sua produzione. Si tratta perlopiù di forme chiuse, databili tra metà XIII e inizi XIV secolo. Le caratteristiche degli impasti suggeriscono nella maggioranza dei casi una provenienza senese, anche se non mancano prodotti di area pisana, analogamente a quanto riscontrato * Dipartimento di Scienze Stoiche e dei Beni Culturali, Università degli Studi di Sena (elisabettaponta@gmail.com). 1 Le indagini sono state condotte dal 2008 al 2016 dall’Insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Siena, sotto la direzione scientifica di Giovanna Bianchi e Luisa Dallai. Per una sintesi dei dati stratigrafici e del contesto storico in cui il sito si inserisce si vedano i contributi di Dallai e Poggi, Buono all’interno di questo stesso volume. 2 Il totale ammonta a 1899 frammenti. 3 Si ringraziano il prof. Andrea Zifferero e il dott. Matteo Milletti per aver visionato il materiale in questione. 147 E. Ponta bianco all’interno (Francovich 1982, pp. 73-76; Giorgio 2013, pp. 88-91) 5. Al medesimo orizzonte cronologico si riferiscono alcuni boccali frammentari in zaffera a rilievo, caratterizzati da un’ottima qualità realizzativa. Gli impasti, duri e depurati, tendenzialmente di colore rosato, alternano un tono beige, mentre le superfici sono ricoperte da smalto spesso e bianco su cui si riconosce la tipica decorazione a foglia di quercia associata a raffigurazioni di vario genere, tra cui un volto umano, visibile solo parzialmente di profilo 6. Gli aspetti tecnico-stilistici, tra i quali il tono prevalentemente rosso dell’impasto 7, permettono di riferire questi boccali alla prima fase produttiva della classe, generalmente datata tra l’ultimo trentennio del XIV ed il primo ventennio del secolo successivo (Cora 1973, tav. 55-60; Moore Valeri 1984, pp. 477-500; Berti 2008, Caroscio 2009, p. 15), stabilendo pertanto un rapporto di coesistenza tra questi manufatti e le ciotole di maiolica arcaica sopra descritte. Di contro, l’esiguità dei frammenti e lo stato conservativo non consentono di attribuire i reperti ad uno specifico centro produttivo, ma solo di ipotizzare che questi siano stati realizzati in una delle numerose officine dell’area valdarnese, specializzate nella manifattura di questi prodotti di pregio e attive tra seconda metà XIV e XV secolo (Cora 1973, pp. 5369; Vannini 2002, pp. 18-22; Caroscio 2009, pp. 39-112). Rinvenimento estremamente interessante è quello che riguarda alcuni frammenti di maiolica blu, che unitamente alla zaffera rappresentano i prodotti di maggior pregio del periodo. Si tratta di materiale estremamente frammentario, nelle totalità dei casi riconducibile a brocche; di buona qualità realizzativa, i prodotti sono attribuibili alle produzioni senesi di pieno XIV secolo (Caroscio 2007, pp. 427; Grassi 2010, pp. 47-48). fig. 1 – Localizzazione su scala regionale del comprensorio di Monterotondo Marittimo (GR) all’interno del quale si inserisce il sito oggetto del contributo. nel resto del territorio; un quantitativo piuttosto modesto presenta invece alcuni dettagli tecnici che differiscono dai due precedenti raggruppamenti, lasciando aperta la possibilità che si tratti di prodotti provenienti da officine locali, localizzate a Volterra e Massa Marittima (Briano 2015, pp. 21-30). Per quanto riguarda la diffusione nel territorio monterotondino, la maiolica arcaica è attestata in molti siti localizzati tanto nelle vicinanze dell’attuale centro abitato che in prossimità di Monteleo. In quest’ottica, un contesto particolarmente esemplificativo è rappresentato da Castiglion Bernardi, sito di lunga occupazione antropica 4, posto a circa 1 km di distanza dalle Allumiere (fig. 4); lo studio effettuato sui reperti rinvenuti ha permesso di individuare anche per questo insediamento le medesime tendenze appena descritte per le Allumiere circa l’attestazione della produzione. Secondo una tendenza nota da tempo (Francovich 1982, p. 73), nel corso del Medioevo si assiste al progressivo incremento delle forme aperte realizzate in maiolica arcaica; questo elemento distingue la seconda fase produttiva rispetto alla precedente, caratterizzata da forme principalmente chiuse. Tra la seconda metà del XIV e gli inizi del XV secolo sul sito di Monteleo sono attestate alcune piccole ciotole con orlo indistinto e corpo emisferico (tav. I), le cui superfici sono ricoperte da vetrina trasparente all’esterno e smalto Tra Rinascimento ed Età Moderna Si riconducono a questo periodo le ceramiche ingobbiate graffite, sia a stecca che a punta, attestate a Monteleo in percentuale significativa sebbene caratterizzate da un alto grado di frammentarietà. Nella maggioranza dei casi il materiale, di buona qualità realizzativa, può essere ricondotto a forme aperte, identificabili perlopiù in piatti e scodelle tipiche di questa produzione, dotati di orli ad ampia tesa piana e cavetto pronunciato; l’impasto, generalmente di colore rosato, si presenta molto depurato e duro. È interessante notare la presenza di un solo frammento di piccole dimensioni identificabile con parte di un versatoio, la cui superficie esterna presenta tracce di decorazione a punta eseguita su un fondo verde. Il frammento è riconducibile ad una forma chiusa, decisamente poco attestata per questa classe. 5 Una variante attestata sul sito è costituita dalla decorazione in linee brune realizzata sulla superficie interna, ricoperta da smalto bianco, mentre l’esterno è rivestito da vetrina incolore o giallo tenue. 6 La decorazione rientra nel repertorio iconografico proprio della produzione a zaffera databile, secondo Cora, entro la prima metà del XV secolo (Cora 1973, tavv. 55-60); a questo proposito si veda anche Francovich 1989, p. 49. 7 Il colore dell’impasto è stato più volte utilizzato dagli studiosi come criterio distintivo della cronologia dei manufatti; al colore rosso della prima produzione si assisterebbe infatti ad una progressiva sostituzione di un tono avorio proprio delle produzioni successive (Boldrini, Grassi 2000, p. 199; Alinari 2002, pp. 33-41, in particolare p. 34). 4 Il sito è stato oggetto di ripetute indagini di superficie condotte dall’insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Siena (Dallai et al. 2009, pp. 29-56); citato come castello a partire dall’XI secolo, le prime forme di occupazione del luogo risalgono all’età ellenistico-repubblicana e perdurano, senza forti segni di soluzione di continuità, fino a tutto il Medioevo (Ponta 2015, p. 502). Tra le forme di maiolica arcaica individuate sul sito sono ricorrenti i boccali dal corpo ovoide ed allungato tipici del repertorio duecentesco senese, affiancati da manufatti pisani ed una minore percentuale di frammenti di più incerta provenienza. 148 Cultura materiale e contesti topografici. L’ Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR) fig. 2 – Rappresentazione grafica del quantitativo di frammenti riferibili alle classi della ceramica da mensa attestate sul sito dell’Allumiera di Monteleo. fig. 3 – Rappresentazione grafica del quantitativo di frammenti riferibili alle classi della ceramica da cucina attestate sul sito dell’Allumiera di Monteleo. fig. 4 – Localizzazione dei siti del territorio di Monterotondo Marittimo citati nel testo. 149 E. Ponta tav. I – Ciotola in maiolica arcaica con orlo indistinto e corpo emisferico proveniente dal sito delle Allumiere (in alto); olla caratterizzata da orlo arrotondato ed estroflesso, corpo globulare, superficie interna rivestita da vetrina marrone e colature analoghe all’esterno (in basso). tav. II – Brocchetta monoansata dotata di versatoio a cannone realizzata in ingobbiata monocroma verde (in alto); brocchetta smaltata di forma globulare, dotate di piede ad anello e versatoio a cannone, decorate con il motivo a medaglione centrale (in basso). L’alta frammentarietà del materiale riconosciuta nel suo insieme rende impossibile risalire all’apparato decorativo che, come suggeriscono le tracce conservate, doveva essere eseguito in verde, bruno e ferraccia, come è proprio per questi prodotti di pregio. Le caratteristiche tecniche e cromatiche analizzate permettono di inquadrare questi manufatti nell’orizzonte delle produzioni regionali quattrocentesche, indicando nelle officine valdarnesi i possibili luoghi di produzione degli stessi 8. Rispetto a quest’ultime, le produzioni ingobbiate individuate nei siti del territorio, provenienti in particolare da alcuni insediamenti posti nelle immediate vicinanze del centro di Monterotondo, si distinguono per una minore qualità realizzativa, sulla base della quale è dunque ipotizzabile una datazione successiva (inizi XVI secolo). La forte incidenza delle ceramiche ingobbiate graffite osservata sul sito di Monteleo e nel suo territorio, sembra riflettere pienamente il trend noto per altri contesti regionali, tra i quali la città di Pisa; a partire dal terzo decennio del XV secolo le ceramiche ingobbiate si affiancano infatti con alte percentuali alle produzioni più tarde delle maioliche arcaiche alle quali progressivamente si andranno a sostituire (Berti, Renzi Rizzo 2001, pp. 127-148; Alberti 2010, pp. 25-26). Sebbene fortemente frammentarie sono inoltre attestate diverse maioliche policrome che, sulla base delle caratteristiche cromatiche dei rivestimenti, sono inquadrabili in una generica epoca rinascimentale, ma sulla cui provenienza non è possibile avanzare ipotesi. Di precisa provenienza valdarnese sono invece le ceramiche marmorizzate, tra le quali si segnala la scodella decorata in bicromia bianca a rossa (tav. IV), dotata di largo orlo a tesa, la cui tipologia trova stretti confronti con esemplari della prima Età Moderna prodotti nella medesima area (Milanese 1997, p. 373; Alberti 2013, pp. 198-200). Nonostante l’ampia diffusione conosciuta su scala regionale di questi prodotti, considerati di maggior pregio rispetto ad altre tipologie di ceramiche ingobbiate, l’attestazione a Monteleo è ad ora limitata a due esemplari, mentre risulta del tutto assente sui siti del territorio circostante. Si inseriscono nello stesso ambito cronologico alcune brocchette monoansate con versatoio a cannone di ingobbiata monocroma verde, diffuse nell’area pisana (tav. II), mentre di poco successive vanno considerate alcune forme chiuse ingobbiate inquadrabili nel pieno XVI secolo. Si tratta di due fiaschette da viaggio realizzate in ingobbiata schizzata nella bicromia del bianco e verde; in entrambi i casi la produzione è riconducibile ad un orizzonte regionale e più probabilmente all’area fiorentina (Baragatti, Marini, Moore Valeri 2003, pp. 256-257). 8 La frammentarietà del materiale in questione non permette di escludere, in alcuni casi, l’appartenenza alla produzione senese per la quale si rimanda a Francovich 1982, pp. 151-170. 150 Cultura materiale e contesti topografici. L’ Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR) tav. III – Olla invetriata con orlo estroflesso e bordo ingrossato, corpo ovoidale, fondo piano e ansa a nastro larga; la vetrina è stesa limitatamente sulla parte superiore del corpo ceramico. tav. IV – Scodella marmorizzata decorata in bicromia bianca a rossa dotata di largo orlo a tesa. Il quadro fin qui delineato rispecchierebbe dunque la sostanziale appartenenza alle produzioni di ambito regionale e sub regionale sia dei manufatti ceramici utilizzati nel territorio monterotondino, che di quelli presenti sul sito di Monteleo, attestati tra basso Medioevo e prima Età Moderna; tuttavia gli scavi condotti alle Allumiere hanno restituito alcuni manufatti che suggeriscono una lieve ma significativa diversificazione del sito, che consiste nell’attestazione anche di merci di importazione databili al XVI secolo. In particolare, si riconosce un piccolo gruppo di brocchette smaltate di forma globulare, dotate di piede ad anello e versatoio a cannone, decorate con il motivo a medaglione centrale realizzato nei colori del blu e del giallo (tav. II); queste forme che si contraddistinguono per una sostanziale omogeneità di tipo tecnico-stilistico, riflettono una raffinata capacità esecutiva e richiamano fortemente le produzioni di ambito alto laziale, ampiamente diffuse in area toscana e romana a partire dalla metà del XV secolo e per tutto il XVI (Manacorda 1985, p. 337, n. 578; Meneghini, Santangeli Valenzani 2006, p. 133, fig. 6; p. 181. fig. 16) 9. Ancora alla produzione laziale, romana nello specifico, possiamo ricondurre numerosi frammenti di piatti e scodelle realizzate in maiolica policroma, caratterizzati dalla presenza della decorazione a monticelli, realizzata in corrispondenza delle tese nella bicromia blu-arancio; tale elemento richiama una tendenza decorativa molto diffusa tra i vasai di Roma e alto laziali tra fine XV secolo e metà del XVI secolo 10 (Spera 1995, p. 73; Panuzzi 2002, pp. 170-171), maturata, secondo alcuni autori, nella valle del Medio Valdarno dove allo scorcio del XV secolo, si assiste alla creazione di nuovi motivi decorativi arricchiti da vivaci colori, quali il blu, verde ed arancio (De Lucia Brolli, Del Lungo, Carlini 2002, p. 228). Infine si segnala la presenza di alcuni manufatti realizzati nella classe delle ingobbiate e dipinte, caratterizzati da un alto indice di frammentarietà, di possibile produzione regionale, se non forse subregionale, ed inquadrabili nel corso del XVII-XVIII secolo; questi ultimi, associati ad una scodella in maiolica policroma con decorazione paesaggistica in stile orientale di chiara provenienza ligure 11, costituiscono i materiali da mensa più recenti attestati sul sito, mentre risultano assenti nel territorio. 9 Oltre ai contesti sopra citati, strettissima analogia si può notare con un esemplare proveniente da Farnese, di produzione alto laziale (Bagnoregio), datata alla seconda metà XVI-inizi XVII secolo (Frazzoni 2007, p. 29). Confronti puntuali si ritrovano anche con alcuni manufatti rinvenuti nelle stratigrafie post medievali del sito di S. Quirico di Populonia (Martinozzi, Salvadori 2016, pp. 265-267.). 10 Il motivo a monticelli ricorre diffusamente anche nella classe delle ceramiche ingobbiate come dimostra il caso della produzione di Acquapendente (Frazzoni 2007). 11 La provenienza è stata definita sulla base delle caratteristiche tecniche, in particolare dell’impasto e del rivestimento utilizzato. 151 E. Ponta fig. 5 – Aree di diffusione e possibile provenienza delle ceramiche rinvenute sul sito di Monteleo. Accanto ai prodotti da mensa fino ad ora descritti, si affiancano i manufatti da cucina, attestati in notevole quantità, che seguono le evoluzioni produttive e tipologiche intercorse tra la fine del Medioevo e la prima Età Moderna; a fianco delle maioliche arcaiche e delle zaffere a rilievo troviamo infatti l’olla globulare, monoansata, diffusa nelle Colline Metallifere tra il XIV e XV secolo, e le pentole ed i tegami realizzati in slipware, che costituiscono su scala regionale, e anche sul nostro sito, il corredo da cucina tipico dell’Età Moderna. Per quanto riguarda il vasellame inquadrabile nella fase più antica, lo scavo ha restituito materiale frammentario riferibile a manufatti invetriati, tra cui si distinguono diversi esemplari di pentole; queste sono caratterizzate da orlo arrotondato ed estroflesso, corpo globulare, superficie interna rivestita da vetrina marrone e colature analoghe all’esterno (tav. I). Questo tipo di vasellame a partire dal XV secolo, insieme ai tegami, costituisce il tipico corredo da cucina attestato su scala regionale 12; questa tipologia di olle, la cui produzione è da ritenersi locale, trova strette analogie con quelle circolanti, a partire dal Trecento, in area maremmana ed in particolare, nel comprensorio delle Colline Metallifere grossetane (fig. 5) 13. In entrambi i casi la produzione è riconducibile ad un orizzonte regionale, e più probabilmente all’area fiorentina, analogalmente a quanto già osservato per molti dei manufatti rinvenuti sul sito di Monteleo. Rientrano tra questi anche le pentole ed i tegami realizzati con la tecnica dell’ingobbio sotto vetrina (slip ware); la varietà tipologica riscontrata a livello di forma, rivestimenti impiegati ed elementi stilistici osservati, ha permesso di riconoscere per molti dei manufatti l’appartenenza alla fase più antica di questa nuova produzione ceramica che, a partire dalla seconda metà del XVI e per tutto il secolo successivo, in virtù dei bassi costi realizzativi, conoscerà una rapida affermazione sui mercati regionali (Degl’Innocenti 2007, pp. 525-527), come testimoniano i numerosi rinvenimenti effettuati nel territorio monterotondino. É interessante notare come nel caso di alcune suppellettili da cucina stratigraficamente associate alle ceramiche da mensa precedentemente descritte, si possa ipotizzare il medesimo orizzonte cronologico e produttivo; in particolare si fa riferimento ad alcune olle invetriate, caratterizzate da orlo estroflesso con bordo ingrossato, corpo ovoidale, fondo piano e ansa a nastro larga (tav. III); le superfici sono rivestite da un sottile strato di vetrina di colore marrone-rosso steso sia all’interno che all’esterno, limitatamente alla parte superiore del corpo ceramico. Sebbene queste forme non si discostino di molto dalle pentole invetriate di produzione regionale circolanti nel corso del XVI secolo, alcune caratteristiche tecniche, quali la tipologia dell’orlo, il tipo di impasto e rivestimento impiegato, avvicinano sensibilmente tali manufatti ad alcune forme rinvenute su contesti romani (Pannuzi 2002, pp. 173-174, e n. 1 fig. 14 p. 176; Pannuzzi, Sante Guido 2003, pp. 139-145; Palazzo 1989, pp. 165170) 14. Questo dato supporterebbe l’ipotesi precedentemente avanzata per le produzioni da mensa, ossia l’arrivo di merci extra regionali sul solo sito di Monteleo e non nel territorio di Monterotondo Marittimo (fig. 5). 12 L’estensione della tecnica dell’invetriatura a ceramiche specifiche da cucina, atte alla preparazione dei cibi, è un fenomeno che si compie, con ogni probabilità, tra la fine del XIII secolo ed i primi anni del successivo (Vannini 2002, p. 19). 13 I confronti più puntali provengono dalle stratigrafie del Castello di Montemassi (Boldrini, Grassi 2000, pp. 201-203) e dalla Rocca di Campiglia Marittima (Grassi 2003, p. 284; Ead. 2010, p. 206); esemplari simili privi di rivestimento provengono dagli scavi condotti a Prato e sono datati alla seconda metà del XIV secolo (Gelichi 1978, nn. 387-388, pp. 134-137, tav. XXXVIII). 14 In quest’ottica sarebbe molto interessante procedere con un confronto diretto, attraverso analisi archeometriche, tra gli impasti di queste specifiche ceramiche rinvenute a Monteleo e quelli di sicura produzione laziale. 152 Cultura materiale e contesti topografici. L’ Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR) 3. CONCLUSIONI (l’area tolfetana in particolare), riconducibili molto probabilmente all’industria dell’allume. L’attestazione sul sito delle Allumiere di ceramiche provenienti dall’alto Lazio potrebbe costituire un utile filo rosso che lega due delle principali aree di estrazione dell’allume dell’Età Moderna, suggerendo forse la presenza, o semplicemente il passaggio, di maestranze laziali sul nostro sito. Quanto infine all’attestazione del piatto policromo con decorazione paesaggistica, di chiaro gusto orientale e provenienza ligure, associabile ad alcuni frammenti di graffita parzialmente conservati 15, lascia aperta la possibilità di scambi e contatti, di seppure incerta entità, con questa regione, anch’essa fortemente legata all’industria dell’allume. Le indagini di superficie condotte tra il 2004 e i 2007 su di un ampio campione del comprensorio comunale (fig. 4), hanno permesso di ricostruire con un buon grado di attendibilità le principali dinamiche del popolamento per i periodi etrusco-romano, tardoantico-altomedievale e medievale, ed hanno fornito molte informazioni anche sulle fasi successive. Questi dati, incrociati con le fonti documentarie disponibili (Boisseuil 2005), consentono di contestualizzare in maniera diacronica il sito di Allumiere, identificando per il basso Medioevo due zone di maggiore concentrazione insediativa; si tratta di quella prossima al paese e di quella in cui si inserisce lo scavo, alle propaggini del rilievo su cui ancora sorgono le rovine del già citato castello di Castiglion Bernardi. Una leggera contrazione contraddistingue la prima metà del XV secolo, mentre con l’Età Moderna si assiste ad un lieve incremento insediativo, particolarmente evidente nell’area prossima allo scavo e nella vicina piana del Frassine, che potrebbe essere ricondotta, almeno in parte, alla fiorente stagione dell’allume. Il significativo input dato da questa nuova attività mineraria al territorio monterotondino dovette comportare riflessi piuttosto incisivi anche nel settore agrario, come testimonierebbe l’affermarsi di un nuovo assetto insediativo, costituito da poderi e case coloniche circondate da varie ed utili coltivazioni (Repetti 1833; Rotundo 2014, pp. 109-114). La scoperta dell’acido borico, avvenuta alla fine del XVIII secolo (Preite 2014, p. 146) ed il successivo sviluppo della produzione del borace, incideranno ulteriormente e positivamente sull’incremento demografico locale. In sintesi, il quadro delineato per la prima Età Moderna è costituito da un paesaggio agrario piuttosto spopolato, caratterizzato da pochi poderi, abitati da nuclei familiari dediti ad attività agricole e pastorali (Rotundo 2014, p. 109). I corredi ceramici associati, composti da manufatti invetriati ed ingobbiati di media qualità, di produzione regionale, che in taluni casi è restringibile all’ambito locale, contribuisce a rafforzare questo quadro; il territorio monterotondino che durante il Medioevo, come dimostra il panorama ceramico ampio e variegato appena descritto, era perfettamente inserito nei circuiti di scambio regionale attraverso un sistema di comunicazione terrestre e fluviale ben strutturato, nella prima Età Moderna sarebbe divenuto privo di un mercato di riferimento per i prodotti di qualità e le merci extraregionali; in quest’ottica la presenza di produzioni di alta qualità su un sito produttivo come Monteleo costituisce un’interessante anomalia. Da un confronto effettuato tra le classi ceramiche attestate sullo scavo e quelle circolanti nel territorio emerge come tutte le produzioni rinvenute nella campagna siano presenti sul sito e non viceversa; quelle attestate esclusivamente alle Allumiere sembrano connotarsi, a partire dall’Età Rinascimentale, per caratteristiche tecniche, o di funzione, come prodotti di pregio rispetto a quanto riscontrato nel resto del territorio. Una delle ipotesi plausibili è che questi prodotti siano la prova di un flusso di competenze e conoscenze verso questi luoghi costituito da maestranze in grado di accedere a simili corredi. A supporto di ciò le fonti documentarie riferiscono di intensi rapporti tra questa zona ed aree extra regionali BIBLIOGR AFIA Alberti A., 2010, Continuità ed innovazione. La produzione ceramica a Pisa tra Quattro e Cinquecento, in M. Baldassarri, S. Gelichi (a cura di), Pensare/classificare: studi e ricerche sulle ceramica medievale per Graziella Berti, Firenze, pp. 25-34. 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One of the main goals of this research is to investigate the relations between the archaeological site of Monteleo and the surrounding territory, and to identify the marketplaces of the area of Monterotondo and of the Allumiera di Monteleo. In order to achieve this result, the pottery findings coming from the survey and from the excavation were comparatively studied. The sample includes kitchenware and tableware ranging from the Late Medieval period to the Modern Age. For the Late Medieval period, the results show a significative homogeneity between the two sets of pottery, that highlights a substantial dynamism in trading. However, at the beginning of the Modern Age, we can trace a change of trend. The territory impoverishes, low-quality pottery grows rapidly, and the manufacturing is mostly local and sub-regional. Instead, at the Allumiera di Monteleo, the quality of the pottery remains unaffected, exhibiting some high-quality vessels associated with an extra-regional production. This exceptional presence could be related to a network of specialized craftsmen who were traveling across the main alum productions centres of central Italy at the beginning of the Modern Age. 154 Giovanna Bianchi*, Paolo Tomei** RISORSE E CONTESTI INSEDIATIVI NELLE COLLINE METALLIFERE ALTOMEDIEVALI: IL POSSIBILE RUOLO DELL’ALLUME Natural resources and settlement contexts in the Early Medieval Colline Metallifere: the possible role of alum 1. INTRODUZIONE Possiamo, quindi, tentare di circoscrivere un insieme di requisiti in base alla cui presenza sia possibile supporre l’esistenza di un circuito di produzione e consumo di una risorsa così ‘sensibile’ e di grande importanza, visto il suo largo impiego in processi produttivi di notevole rilievo economico. Proviamo a fare un sintetico elenco di questi requisiti essenziali: Il tema della produzione e dell’utilizzo dell’allume nella nostra penisola in età altomedievale non è argomento semplice. Nell’introduzione a questo volume sono state ricordate tutte le difficoltà che si possono incontrare nel percorrere un cammino sinora raramente battuto: l’invisibilità archeologica dell’allume e dei suoi processi di estrazione e trasformazione; il concreto rischio che le tracce più antiche connesse alla sua estrazione e lavorazione siano state cancellate da interventi invasivi di Età Moderna; la difficoltà a rinvenire nei documenti chiari riferimenti a questo tipo di produzione. L’insieme di queste circostanze ha fatto si che spesso tale esiguità di informazioni sia stata interpretata come un’assenza di simili sistemi produttivi nella nostra penisola, a fronte di una importazione della materia prima da altre aree del Mediterraneo. Questo vuoto comincia a colmarsi quasi improvvisamente solo a partire dall’Età Moderna, giustificando, di conseguenza, il più ampio numero di studi relativamente ai nuovi impianti di produzione pertinenti questa fase storica. Tutto questo però si scontra con due rilevanti considerazioni: l’importanza dell’allume in molte attività proprie anche dell’età medievale (il suo utilizzo in farmacia, nell’industria tessile come straordinario mordente, nella concia del pellame ma anche nella metallurgia per la purificazione dell’oro o per l’arricchimento superficiale delle leghe d’argento, Dallai 2014); la repentina nuova presenza di strutture produttive legate all’allume di Età Moderna che difficilmente si concilia, in base a più generali considerazioni sulle caratteristiche dei cicli produttivi e sulla trasmissione dei saperi empirici ad essi connessi (Mannoni, Giannichedda 2003, pp. 3-25), con una quasi totale assenza di conoscenze a riguardo nella precedente età medievale. Come allora trattare il tema del nostro contributo? A fronte di quanto si è appena scritto è evidente, quindi, che il problema della produzione e dell’impiego in età altomedievale dell’allume deve essere affrontato in maniera diversa incentrando l’attenzione non tanto sugli indicatori diretti materiali e documentari, quanto insistendo sulla presenza o meno di condizioni essenziali affinché questo ciclo produttivo fosse attuabile anche nella nostra penisola. 1. richiesta di questa materia prima all’interno di mercati più o meno privilegiati 2. presenza di un ambiente tecnico sviluppato in grado di mantenere e tramandare specifici saperi empirici necessari alla realizzazione di questi cicli produttivi 3. presenza di attori politici forti in grado di sviluppare e gestire una organizzazione produttiva complessa capace anche di attrarre maestranze specializzate 4. presenza di circuiti di scambio e di relative infrastrutture in grado di connettere luoghi di approvvigionamento, centri di trasformazione e mercati di consumo. Affronteremo la disamina di questi punti facendo riferimento ad uno specifico territorio, ovvero l’attuale comprensorio delle Colline Metallifere, dal momento che per trovare delle risposte ai requisiti sopra esposti è necessario esaminare un’area che presenti le seguenti caratteristiche: avere, ovviamente, al suo interno importanti giacimenti di allume; essere ben studiata dal punto di vista delle evidenze documentarie e materiali. Condizioni, queste, ben riscontrabili nelle Colline Metallifere, una delle aree meglio indagate archeologicamente di tutta l’Europa per quanto riguarda l’età medievale 1, peraltro oggetto di una nuova 1 Tra le indagini archeologiche ricordiamo lo scavo di otto castelli di cui quattro scavati in estensione: Rocca S. Silvestro, Francovich 1991; Donoratico, Bianchi 2004a; Cugnano, Bruttini, Fichera, Grassi 2009; Rocchette Pannocchieschi, Grassi 2013; quattro indagati nella loro area sommitale: Campiglia, Bianchi 2004b; Suvereto, Ceglie, Paris, Venturini 2006; Rocca degli Alberti, Bianchi et al. 2012, Bianchi, Grassi 2013; Scarlino, Francovich 1985. Di questi otto castelli tre (Rocca San Silvestro, Rocchette Pannocchieschi; Cugnano) sono legati allo sfruttamento dei filoni minerari a solfuri misti. Inoltre sono stati scavati due monasteri alto e basso medievali (S. Quirico di Populonia, Bianchi, Gelichi 2016; S. Pietro a Monteverdi, Francovich, Bianchi 2006) ed effettuati scavi urbani nel centro di Piombino (Berti, Bianchi 2007) e di Montieri (Aranguren, Bianchi, Bruttini 2007), sede dell’originario castello minerario ed oggetto di un’estesa indagine in tutto il suo territorio comprensiva anche dello scavo di un sito prossimo al castello denominato Canonica di S. Niccolò (Bianchi, Bruttini, Grassi 2012). A queste indagini si aggiungono quelle svolte nel sito produttivo di Monteleo, per le quali si rimanda agli interventi in questo volume. Gli scavi sono stati affiancati da ricognizioni di superficie che hanno riguardato sei comprensori comunali (Campiglia, Scarlino, Populonia, Massa Marittima, Montieri, Monterotondo M.mo (Dallai et al. 2009). * Università di Siena, Dip. Scienze Storiche e dei Beni Culturali (giobianchi@unisi.it). ** Università di Pisa, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere (paolotom@hotmail.it). 155 G. Bianchi, P. Tomei ricerca in corso legata ad un importante progetto europeo 2, i cui primi risultati possono in parte supportare alcune considerazioni su cui torneremo in seguito. Al tempo stesso sarà necessario volgere lo sguardo al centro urbano di riferimento politico ed economico, ovvero Lucca. Nell’ottica di una integrazione tra le fonti scritte e materiali i primi due requisiti saranno analizzati partendo da una disamina di differenti testimonianze documentarie, mentre per gli ultimi due si farà riferimento principalmente ai dati raccolti nelle più o meno recenti ricerche archeologiche. le stesse monete, come gli oggetti in oro e argento non monetato, potevano essere, è proprio il caso di dire, “regalate” (Tomei 2018). Per i secoli anteriori al XII il polo principale in cui confluivano e/o si producevano questi manufatti, e di conseguenza anche le materie prime e i prodotti necessari per la loro realizzazione (metalli e fibre tessili, coloranti e mordenti ecc.), fu la corte regia inframuranea, situata nel cuore della città fra le odierne Piazza Napoleone e Piazza S. Giovanni. Per inciso, qui si trovava anche l’unico mulino urbano conosciuto, che sfruttava la presenza di una via d’acqua canalizzata: elemento decisivo per l’impianto di attività 3. Nel corso del X secolo la corte perse ogni funzione di rappresentanza pubblica per conservare la sola vocazione produttiva. Re Ugo di Provenza fece, infatti, del grande palatium suburbano dei duchi/ marchesi, posto nell’area delle attuali Via del Crocifisso e Piazzale Verdi, la residenza unica delle autorità pubbliche (Belli Barsali 1973; Tirelli 1980). A corona dell’antico complesso regio, bipartito fra una corte del re e una della regina fra loro strutturalmente legate, si trovavano cappelle palatine con edificio sviluppato su due piani: la chiesa di S. Maria in Palatio (dedicata anche a S. Alò, funzionario di corte merovingio patrono di orafi, fabbri e numismatici) e il monastero femminile di S. Pietro in Cortina o Bellerifonsi 4. È con riferimento a quest’ultimo ente che compaiono nelle fonti, per i secoli che vanno dall’VIII all’XI, un mercato, banchi, botteghe (banchae, stactiones) e produzioni specializzate 5. Nei suoi pressi risiedeva un forbitore: artigiano impegnato nella lavorazione delle armi 6. Il cenobio ospitava poi un gineceo (pisele) per la tessitura, dove si realizzavano manufatti tanto eccezionali da essere conosciuti, in Baviera alla metà del secolo XI, come una tipicità lucchese: fasce di seta per le gambe (guindangassia) riccamente ornate, abbinate a vesti di seta e mohair 7. Su questa peculiare produzione, che faceva di Lucca l’unico luogo dell’Occidente germanico in cui con certezza si conservarono dall’età tardoantica i presupposti (richiesta e conoscenze) per la lavorazione della seta, abbiamo trattato in altra sede. Qui basti dire che si trattava di una produzione funzionale a colmare una “lacuna di mercato”, destinata agli aristocratici che si muovevano nella sfera pubblica: di qualità elevatissima e quantitativamente limitata (Tomei c.s.). Ai fini del nostro discorso è utile, piuttosto, tratteggiare alcuni passaggi fondamentali della storia del cenobio. S. Pietro fu fra i cespiti fiscali assegnati dai re longobardi Ariperto II G.B. 2. NATUR A E LOCALIZZAZIONE DELLA DOMANDA. IL CONTESTO URBANO LUCCHESE Le ricchissime fonti lucchesi forniscono uno spaccato eccezionale su una società altomedievale. Su di esse si è perciò puntato lo sguardo di molti storici: uno per tutti, Chris Wickham (Wickham 1988, 1995, 2000). La straordinaria abbondanza in quantità di questo bacino documentario fa il paio con l’assoluta rilevanza del caso di studio: si tratta di un contesto tutt’altro che marginale, poiché Lucca era una delle grandi capitali del regno italico, sede di un duca poi conte/marchese la cui influenza si estendeva su buona parte del territorio regionale toscano. Negli ultimi decenni, la buona messe di studi assommatasi ha mostrato che il principale motore dell’economia, la domanda aristocratica, fino a quasi tutto il secolo XI si concentrò a Lucca presso la corte regia e ducale. Prima dell’avvio del cosiddetto “mutamento signorile”, il corpo sociale fu modellato dal rapporto con il palatium, che metteva in opera un circuito di redistribuzione di ricchezze fondiarie e mobili, capace di attrarre i segmenti eminenti della società e costituire un legante su cui fondare il consenso politico. Era al servitium delle autorità pubbliche, attività ricompensata con beneficia, che si poteva accrescere il proprio prestigio politico, sociale ed economico: oltre alla terra, si acquisivano anche indicatori di status simbolici, le cariche (honores), e materiali con cui ostentare pubblicamente una condizione di distinzione (Fiore 2017; Tomei 2019). I luoghi di produzione e approvvigionamento degli oggetti di lusso che connotavano l’habitus aristocratico (vesti e armi preziose, gioielli e suppellettili da mensa) si situavano a Lucca presso i luoghi del potere pubblico: attività produttive specializzate nella tessitura e nella lavorazione dei metalli, mercati e banchi di cambiatori. E qui si trovava anche la zecca: Lucca ne ospitò la principale di tutta l’Italia centrale, seppure con volumi di attività nel corso dei secoli fortemente differenziati (Rovelli 2010). Il circuito mosso dai meccanismi di corte secondo la diade maussiana dono-controdono, s’intrecciava, dunque, a uno più propriamente commerciale: d’altra parte, 3 Archivio Storico Diocesano di Lucca, Archivio Arcivescovile di Lucca, Diplomatico (d’ora in poi ASDL, AAL, D), * G 22 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 81, n. 39), a. 862. Sull’ubicazione del mulino vd. Belli Barsali 1973, p. 504. 4 Belli Barsali 1973, pp. 506-509, 540; Seidel, Silva 2007, p. 212. La registrazione nel Breve de multis pensionibus, elenco dei livelli concessi dal vescovo Gherardo I (869-895), della carta riguardante S. Pietro Bellerifonsi, fa riferimento a un solario: ASDL, AAL, D, †† N 65 (ed. Tomei 2012, p. 601; Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 18). 5 Collectio canonum: III, 191; Registrum Petri Diaconi, n. 449. 6 ASDL, AAL, D, * F 16, †† S 24 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 86, nn. 8-9), a. 890; †† N 65 (ed. Tomei 2012, p. 590; Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 18). 7 ASDL, AAL, D, †† O 1 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 79, n. 50), a. 846; †† F 21 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 82, n. 40), a. 870; †† N 65 (ed. Tomei 2012, p. 601; Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 18); Collectio canonum: III, 191; Ruodlieb: X, 113-122. 2 Si tratta di un progetto ERC-Advanced Grant 2014 dal titolo Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region Grant agreement n° 670792. www.neu-med@ unisi.it, condotto in collaborazione tra chi scrive ed il PI del progetto, Richard Hodges, con ente ospitante Università degli Studi di Siena. Bianchi, Hodges 2018; Bianchi, Hodges 2020. 156 Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume e Liutprando al papato nel primo VIII secolo 8. Il monastero passò poi in mano del vescovato lucchese dopo la conquista carolingia: nella temperie in cui i fratelli Giovanni e Iacopo, che successero uno dopo l’altro sulla cattedra episcopale nei decenni di passaggio fra i secoli VIII e IX, provarono a Lucca a occupare la sfera pubblica a discapito delle autorità civili, muovendosi con abilità come figure di intermediazione nella delicata dialettica fra Carlo e il papato. Come hanno mostrato le ricerche di Simone Collavini, i due vescovi estesero notevolmente il patrimonio vescovile anche in aree in precedenza marginali e attrassero a sé la società urbana (Collavini 2007a). Iacopo fu responsabile della “pubblicizzazione” del monastero suburbano di SS. Iacopo e Filippo, poi detto di S. Ponziano, da lui fondato e affidato al papato prima di salire in cattedra, che ricevette dal fisco molti complessi patrimoniali (Collavini, Tomei 2017). Riuscì, inoltre, a esercitare un forte controllo su un’altra grande riserva di beni pubblici: la chiesa sedale suburbana di S. Frediano, di cui era stato nominato rettore dal fratello Giovanni (Stoffella 2013; Tomei 2014). In questa fase, con il beneplacito papale e imperiale, giunse al vescovato anche S. Pietro in Cortina/Bellerifonsi. Il passaggio deve essere posto senz’altro prima della redazione di un breve non datato, paleograficamente compatibile con l’ultimo terzo del secolo IX, conservato oggi nell’archivio vescovile, che elenca gli enti cittadini dipendenti da Roma: in testa, S. Pietro e le sue pertinenze. L’inventario fu verosimilmente prodotto al momento di una successione sulla cattedra episcopale lucchese 9. L’originale appellativo con cui per la prima volta proprio nel breve si fa riferimento al monastero, que dicitur Bellerifonsi, epiteto che fu utilizzato durante i secoli IX e X per essere poi soppiantato dall’indicazione toponomastica in Cortina, costituisce un’utile spia per ricostruire la cornice in cui avvenne il passaggio di consegne 10. Bellerifonso è un antroponimo particolarissimo: una versione solo un poco “germanizzata” di Bellerofonte, il cui mito giunse all’alto Medioevo tramite Isidoro 11. In ragione della sua inusualità, senza troppo timore di sbagliare è possibile collegare tracce fra loro distanti e delineare il seguente profilo. Attestato fra 769 e 807 12, Bellerifonso appartenne al segmento più alto della società lucchese che aveva accesso al circuito di redistribuzione della terra fiscale, da Collavini chiamato “élite regionale”: gruppo nel quale erano scelti i duchi in età longobarda (Collavini 2007b). Già strettamente legato a re Desiderio, che prima di essere incoronato era stato duca plenipotenziario in Tuscia (Bellerifonso nel 771 compare come antepor, membro del seguito della regina Ansa 13), con il duca Allone fu uno dei personaggi che favorirono una transizione “morbida” a Lucca fra Longobardi e Franchi, grazie all’interlocuzione con il papato (Collavini 2009): entrambi sono ricordati nelle lettere di papa Adriano I tramandate nel Codex Carolinus. Nello specifico, Bellerifonso portò delle lettere di Adriano I da Roma in Spagna al vescovo Egila, su sollecitazione di Carlo Magno 14. Giova ricordare che lo stesso duca Allone fondò a Lucca una diretta dipendenza del monastero regio di S. Salvatore di Brescia, istituzione promossa da Desiderio e Ansa 15. È, dunque, probabile che Bellerifonso, morto senza discendenza conosciuta, abbia tenuto S. Pietro in beneficio poco prima dell’attribuzione al vescovo Iacopo, anch’egli in buoni rapporti con la corte di Carlo e con quella papale (Stoffella 2013), lasciando così la sua chiara impronta onomastica. Con il tramonto a Lucca di questa stagione di protagonismo vescovile, l’emergere di una dinastia di conti/ marchesi e l’instaurarsi sotto Lotario I di un nuovo assetto di potere, al pari delle curtes fiscali di S. Frediano, anche S. Pietro Bellerifonsi non fu più gestito direttamente dai vescovi, ma prese a essere da loro concesso mediante carte di livello a esponenti della buona società lucchese (Tomei 2017; c.s.). Si può identificare con sicurezza solo un altro luogo entro le mura in cui sono note attività commerciali prima del secolo XII. Nel 1060 esse sono attestate in relazione con la chiesa di S. Matteo, situata nel quadrante nord-occidentale della città murata presso il canale detto fossa Natali, nelle mani di una delle famiglie di spicco alla corte canossana: i Rolandinghi, che possedevano allora anche S. Maria in Palatio, mercati e banchi presso l’antica corte regia 16. Tutto ciò, con il beneplacito marchionale, costituì parte della ricca dotazione del monastero urbano di S. Giorgio, affidato dalla famiglia a Montecassino (Tomei 2019, pp. 105-112). A conferma del fatto che queste produzioni e attività riguardavano nell’alto Latinae Antiquiores, v. 38, n. 1098): B. compare fra i lociservatores et arimanni che presero parte, nell’agosto 785, al primo placito conservato a Lucca, co-presieduto dal duca Allone e dal vescovo Giovanni. ASDL, AAL, D, † Q 13 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 73, n. 9): B. figura come precedente possessore di una casa a Quarrata di Capannoli, che il 14 aprile 807 giunse in permuta al chierico Alperto Aldobrandeschi. 13 Ed. Codice Diplomatico Longobardo, n. 257; vd. La Rocca 1998, pp. 274-275. 14 Codex Carolinus, nn. 95-97, a. 786ca. A portare con lui le lettere, trascritte dai registri pontifici, fu il chierico Giovanni. Sulla loro datazione vd. Bullough 1962. Allone compare in due missive: Adriano I si lamentò con Carlo delle resistenze che il duca opponeva alla repressione del commercio di schiavi sulle coste toscane, condotto da pirati bizantini con connivenze longobarde (Codex Carolinus, n. 59, a 776), vd. McCormick 2001, pp. 516, 630; e del suo tentativo di eliminare l’abate Gumfridi, altro grande personaggio toscano che agiva allora come figura d’intermediazione fra Carlo e il papato, membro della famiglia fondatrice dell’abbazia di S. Pietro di Monteverdi, posta sotto la protezione regia e “gemellata” con Reichenau (Codex Carolinus, nn. 50-51, a. 775ca.), vd. Collavini 2009, pp. 271-272. 15 MGH, DLI., n. 115, a. 851; DLII., n. 34, a. 861. Tale dipendenza lucchese fu nota prima come S. Salvatore Brisciano, poi prese il nome di S. Giustina. 16 Registrum Petri Diaconi, nn. 390-391, 449 (cfr. Chronica monasterii Casinensis, p. 442). Su S. Matteo e la fossa Natali vd. Belli Barsali 1973, pp. 502-505. 8 Collectio canonum: III, 191. Sulla datazione della fonte, rotoli di papiro conservati nel Chartularium pontificio che furono trascritti alla fine del secolo XI dal cardinale Deusdedit, vd. Tomei c.s. 9 ASDL, AAL, D, * O 26 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 19, riteniamo più probabile si tratti della successione episcopale da Geremia a Gherardo I, fra 867 e 869). Per la precedente proposta di datazione, vd. Barsocchini 1837, n. 293; Nanni 1948, pp. 32-33. 10 L’ultima menzione della denominazione Bellerifonsi è in Archivio di Stato di Lucca, Diplomatico, S. Ponziano, 995 maggio 23 (ed. Degli Azzi Vitelleschi 1903, n. 18). 11 Si prenda, ad esempio, Libri Carolini, p. 443. 12 Archivio di Stato di Pisa, Diplomatico, Roncioni, 770 dicembre 30 (ed. Codice Diplomatico Longobardo, n. 236): B. è ricordato quale possessore di terra nel padule di Bientina, sulle cui rive giaceva l’abbazia regia di S. Salvatore di Sesto, a latere di un appezzamento di pertinenza della chiesa di S. Frediano permutato dal vescovo Peredeo con Allone, poi duca di Lucca. A differenza dell’editore, non colmiamo con p(res)b(ite)r la lacuna dopo Bellerfuns: l’unico segno visibile è l’asta discendente della prima lettera che potrebbe rimandare anche a una q. Alla luce del testo seguente, dov’è espressa in moggi e scaffili l’estensione del terreno, e dei formulari lucchesi, il guasto di circa tre lettere potrebbe essere restituito con pl(us) m(inus), cfr. ASDL, AAL, D, * L 75 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 30, n. 895). ASDL, AAL, D, †† O 66 (ed. Chartae 157 G. Bianchi, P. Tomei Medioevo in prima battuta, sul versante sia della domanda che dell’offerta, l’aristocrazia laica ed ecclesiastica gravitante attorno alle corti, ricordiamo che S. Matteo, documentata dalla fine del secolo IX, era la cella con curtis cittadina posseduta da una delle maggiori abbazie regie della Toscana, situata nell’entroterra maremmano: S. Pietro di Monteverdi 17. Recenti ricerche hanno rivalutato il ruolo di questo corpus nella trasmissione delle conoscenze artistiche tardoantiche nell’Europa carolingia (Baroni 2016; Brun 2017). Esso non costituisce un “relitto fossile”, fissato con finalità didattiche ed erudite non senza sviste e incomprensioni nel manoscritto-biblioteca di Giovanni e Iacopo. Con la collezione di ricette metallurgiche nota come Mappae clavicula, esso fu uno dei prontuari di carattere tecnico-pratico che furono raccolti alla corte di Carlo e cominciarono a circolare nelle grandi abbazie imperiali saldamente inserite nella sfera pubblica, laddove si concentravano la domanda e l’offerta di manufatti preziosi: Lorsch, Reichenau, S. Gallo. Qui, nel corso del IX e del X secolo, gruppi di ricette si collegarono con il De architectura di Vitruvio, riscoperto grazie a un esemplare portato a palazzo da Alcuino 19. Solo in relazione al testo vitruviano un piccolo estratto delle Compositiones si fissò nell’alto Medioevo in un testo “canonizzato”: andò altrimenti a formare un duttile conglomerato di istruzioni, soggetto ad aggiunte, riordinamenti e selezioni che rispondevano, con tutta evidenza, a esigenze pratiche (Brun 2017). Alla luce della storia delle manifatture lucchesi è possibile precisare tempi e modi con cui il ricettario giunse nelle mani del vescovo Iacopo, per poi prendere velocemente la strada d’Oltralpe. La maggior parte delle prescrizioni riguarda il lavoro di orafi e tintori. Tali attività si radunavano a Lucca presso il complesso regio e il monastero di S. Pietro Bellerifonsi: cenobio che dovette passare al vescovato appunto negli anni di Iacopo. Il breve che inventaria il patrimonio monastico poi assegnato al vescovato, ricorda il possesso di tre libri 20. Il personaggio eminente che prestò il suo nome al monastero, Bellerifonso, si mosse sulla stessa rete di relazioni (Roma, Lucca, la corte imperiale, la Spagna) cui fa tacitamente riferimento il ms. 490 (Petrucci 1992): nel codice troviamo mani spagnole e romane; il ricettario fu trascritto a breve distanza dalla vita di Adriano I, appena giunta da Roma, e da Lucca prese la via della corte. È, dunque, altamente probabile che l’antigrafo da cui furono tratte le Compositiones fosse uno dei codici in dotazione al cenobio. Iacopo lo fece copiare nella fase in cui volle essere protagonista nella sfera pubblica e poté controllare, con S. Pietro, parte di queste produzioni: tale stagione passò però velocemente. Così come non abbiamo 3. TR ASMISSIONE E DIFFUSIONE DELLE CONOSCENZE Una fonte consente di farsi un’idea precisa circa i saperi tecnici che si coltivavano a Lucca nell’alto Medioevo. Si tratta di un ricettario ricopiato nel celebre ms. 490 della Biblioteca Capitolare lucchese: codice miscellaneo che è stato felicemente definito da Armando Petrucci un “vero e proprio antilibro”, poiché assume le vesti, per dirla con Luigi Schiaparelli, di una “biblioteca in un piccolo volume” (Schiaparelli 1924, p. 24; Petrucci 1992, p. 91). Esso costituisce, infatti, una raccolta di lunga gestazione, realizzata fra 787 e l’inizio del secolo IX (con qualche aggiunta che supera il primo quarto del secolo), che include opere di carattere variegato, vergate con tempi e ritmi di lavoro diversi in maniera non consecutiva da moltissime mani; in qualche caso anche da individui di passaggio che ricopiarono testi in loro possesso (Unfer Verre 2013). Il codice, prodotto del vivace ambiente che circondava i vescovi fratelli Giovanni e Iacopo, rappresenta una testimonianza privilegiata per studiare il progetto politico-culturale dei due presuli e, più latamente, i fermenti che animavano la prima età carolingia. Il ricettario, le cosiddette Compositiones Lucenses, fu copiato da scriventi lucchesi in due tempi ravvicinati, collocabili nel primo secolo IX, durante il pontificato di Iacopo. Due mani scrissero una ricetta ciascuna, De fabrica in aqua e De malta, su un foglio bianco dopo la vita di Adriano I (f. 211v), con cui nel codice si chiude il Liber Pontificalis. Il restante corpus di istruzioni tecniche, destinate soprattutto a orafi e tintori, fu vergato in continuo da altre due mani nella quarta e ultima sezione del manoscritto (ff. 217r-231r): la più variegata. Il secondo scrivente è stato identificato, ma non c’è unanime consenso sulla proposta, con il prete Daniele: personaggio di spicco della cerchia di Giovanni e Iacopo. Il quarto, ignoto, con certezza partecipò alla frettolosa copiatura della citata vita di Adriano I, giunta di gran carriera da Roma (Schiaparelli 1924, pp. 45-48; Unfer Verre 2013, pp. 54, 56-57). La raccolta, che doveva forse già avere un aspetto disomogeneo e disordinato, non fu trascritta integralmente. Gli scribi operarono una selezione delle rubriche, come suggeriscono la copiatura in due riprese distinte e la numerazione romana che si accompagna alle registrazioni apposte dalle prime tre mani 18. anteporre una numerazione. Per una trascrizione e traduzione, non sempre accurate, del testo delle Compositiones trasmesso dal ms. 490 con relative fotoriproduzioni, vd. Caffaro 2003. 19 Bischoff 1971; Pagliara 1986. Questi i testimoni più antichi: Klosterneuburg, Stiftsbibliothek, Fragm. s.n. (fine del secolo IX, area salisburghese, vd. Bischoff 1980, p. 48); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 1449 (prima metà del secolo IX, Lorsch; alla fine del X fu apposta sul f. IVr la ricetta Cementum maltę, copiandola dal f. IIIr dove era stata vergata da una mano più antica, parzialmente cancellata, vd. Bischoff 1989, p. 93); London, British Library, Harley 2767 (secoli VIII ex./IX in. ; più antico manoscritto del De architectura, prodotto nello scriptorium di palazzo al tempo di Alcuino da un antigrafo perduto copiato nelle isole britanniche, cfr. Bischoff 1971, pp. 272-274; una mano successiva in carolina aggiunse sul f. 162v la ricetta De fusuris); Oxford, Bodleian Library, Rawlinson D893 (i ff. 135r-136v, estratti dal ms. precedente, sono la continuazione della stessa selezione di ricette, cfr. Bischoff 1942, p. 504); Sélestat, Bibliothèque Humaniste, 17 (inizio del X secolo, S. Gallo; cfr. Bischoff 1971, p. 278); Leiden, Rijksuniversiteit Bibliotheek, VLF 88 (X secolo, Hildesheim); Madrid, Real Biblioteca de Escorial, f.III.19 (X secolo, Soissons). Il breve che elenca i libri posseduti dall’abbazia di Reichenau nell’822 ca. include De architectura e Mappae clavicula de efficiendo auro. 20 ASDL, AAL, D, * O 26 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 19). 17 MGH, DHII., n. 285, a. 1014; DHIII., n. 41, a. 1040. La prima menzione di S. Matteo è in ASDL, AAL, D, * A 85 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 87, n. 27), a. 899. La chiesa non compare nell’atto di fondazione del cenobio del luglio 754 (ed. Molitor 1991). Per un’indagine storico-archeologica sull’abbazia maremmana vd. Francovich, Bianchi 2006. 18 Sul foglio 211v il primo scrivente appose la ricetta contrassegnata dal numero I (De fabrica in aqua); il secondo, la numero III (De malta). Il testo riprende dal foglio 217r, anche se doveva cominciare dai due fogli mancanti del quaderno precedente: il terzo scrivente copiò le ricette XVIIII (De conpositio cathmiae), XX (De tinctio vitri prasini), XXI (De alia lactis coloris), poi cessò di 158 Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume notizia di tali lavorazioni in ambiente vescovile, le ricette del ms. 490 non mostrano evidenti segni (aggiunte, glosse, correzioni) di un loro impiego successivo. Caliamoci ora dentro il ricettario. Scorrendo le rubriche, un dato attira la nostra attenzione: la frequenza delle menzioni di allume e l’apparente dimestichezza con questo gruppo di agenti mordenzanti. Gli allumi (haluminationes) sono un ingrediente indispensabile per la preparazione di molti pigmenti e smalti e compaiono in numerose lavorazioni metallurgiche, in particolare per la doratura del rame e del ferro. Le ricette non ricordano solo le loro proprietà e modi di utilizzo, ma anche il loro aspetto in natura. Alla voce De alumen se ne dà una generica definizione come terra floriens: sta a dire, terra rilucente per la presenza di efflorescenze cristalline (f. 220r). Nelle Compositiones sono citati diversi mordenti: un allume Aegyptium; un allume Asianum; un allume “semplice”, privo cioè d’indicazione di provenienza 21. Ciò potrebbe schiudere la possibilità che non tutto l’allume usato a Lucca fosse importato dall’Oriente. Senza l’edizione critica di un corpus così complesso, che contiene traslitterazioni dal greco e influenze linguistiche molteplici, è, tuttavia, rischioso usare tali specificazioni come elementi su cui fondare dei solidi ragionamenti. Altri indizi, tuttavia, sembrano condurre nella stessa direzione. Quello che sarà uno dei principali luoghi di estrazione e lavorazione dell’allume toscano, il sito di Monteleo, si trovava al centro di due grandi comprensori controllati dal publicum al tempo di Bellerifonso e per tutto l’alto Medioevo: Bagno e Gualdo del re. Lì vicino era anche la citata abbazia regia di Monteverdi. Più in generale, tutto il territorio maremmano solcato dai fiumi Cornia e Pecora si caratterizza per l’essere stato fra VIII e XI secolo di stretta afferenza alla sfera pubblica e in forte collegamento con Lucca; e per aver ospitato risorse di primaria importanza sul cui sfruttamento in età medievale il progetto europeo in corso sta facendo chiarezza: su tutte, sale, mineralizzazioni a solfuri misti (Cu, Fe, Pb, Ag) e, appunto, alunite (KAl3(SO4)2(OH)6) 22. Non si può, dunque, escludere che, così come si conservarono specifiche conoscenze tecniche per lo sfruttamento di altri filoni minerari, per provvedere alla richiesta di un ambiente tecnico sviluppato dove si concentravano produzioni “di nicchia”, le manifatture di corte lucchesi, potessero essere già in corso nelle Colline Metallifere anche attività di estrazione e trasformazione dell’alunite in sali d’allume. 4. ATTORI POLITICI E AMBIENTE TECNICO NELLE COLLINE METALLIFERE Nei precedenti paragrafi analizzando il contesto lucchese si sono evidenziati in maniera chiara due aspetti: – la richiesta nell’alto Medioevo di prodotti di pregio per la cui realizzazione in molti casi era necessario l’allume, a fronte di una costante domanda generata da un contesto sociale variegato e di alto livello facente riferimento alla principale città della Tuscia. – L’esistenza di centri produttivi interni al centro urbano lucchese in cui circolavano saperi complessi riguardanti anche il possibile impiego di allume, forse proveniente da zone più vicine geograficamente rispetto a quelle note, presenti in area nord-africana e medio orientale. Spostando, quindi, la nostra attenzione dall’area urbana a quella rurale e delle Colline Metallifere, è necessario ora definire il generale quadro politico-economico che potrebbe aver reso possibile una strategia di precoce sfruttamento dell’allume. Così come già accennato nel precedente paragrafo l’area con presenza di giacimenti di allume, dove in seguito fu impiantato il complesso delle allumiere di Età Moderna di Monteleo, si localizza all’interno di importanti domini regi o di pertinenza di rilevanti attori politici. In un documento del 779 si riporta la menzione di un balneo regis (Farinelli 2007, p. 63). Così come evidenziato in occasione di recenti survey archeologici, il Bagno del Re citato dal documento altomedievale doveva far parte di un più ampio ed interconnesso sistema di proprietà regie. La loro localizzazione è ipotizzabile nella pianura solcata dal fiume Cornia e nei primi rilievi collinari adiacenti, oggi all’interno del territorio del comune di Monterotondo M.mo, in una delle cui propaggini è situato l’odierno abitato del Frassine (fig. 1). La laconicità delle fonti documentarie è supportata dall’attuale toponomastica che nomina Bagnaccio/Bagno del Re i ruderi di un grande edificio posto in pianura; Cantinacce o Cisterna del Re i resti di un antico luogo di raccolta delle acque sito a poca distanza; Casone o Casone del Re un’area posta sui primi rilievi a poca distanza dell’odierno Frassine, dove il Targioni Tozzetti in occasione del suo viaggio in Maremma descrive la presenza di edifici di rilievo (Dallai, Fineschi 2006; Dallai, Fineschi, Ponta 2009). I dati dei recenti survey hanno consentito di datare ad un periodo sicuramente non anteriore al XV secolo i ruderi del Bagnaccio, mentre la ricognizione in corrispondenza del toponimo Casone ha evidenziato alcuni allineamenti murari di non definibile cronologia (Ponta 2015). L’osservazione delle tecniche costruttive dell’antica cisterna ancora ben conservata, la riportano, invece, ad un orizzonte cronologico di età pre medievale, confermando così la sua antichità (Dallai, Fineschi 2006). L’individuazione di varie Unità Topografiche nell’area di pianura, caratterizzate da una lunga continuità di vita compresa tra l’età repubblica e il primo alto Medioevo, attestano il permanere di un’occupazione legata a due importanti risorse naturali: le acque termali e le selve presenti in tutta l’area (Ponta 2015). Il legame con le proprietà regie è anche ribadito dalla menzione documentarie di P.T. 21 Su 160 voci, sono 28 quelle nel cui testo si fa menzione di allume: Alia cathmia; Alia tinctio (a. Aegyptium); De pelle alithinae tinguere (a. Asianum); De tinctio pellis prasinis (a. Asianum); Tertia tinctio; Quarta tinctio; De prima pandii tinctio; De porfiro melino; Tertius pandius; Tictio ossuorum et omnium conuorum et omnium lignorum (a. Asianum); De II tinctio veniti; De tictio melina; De calcetis; De alumen; Herbarum autem, terrae et lignorum; De ferrum deaurare (a. Asianum); De coloratio petali argenti (a. Asianum); Alia crisografia; Quomodo eramen in colore auri transmutetur (a. Asianum); Licaomnia (a. Aegyptium); De lazuri (a. Aegyptium); Conpositio lulacin (a. Aegyptium); De alia crisocollon; De calcucecaumenum (a. Asianum); De cemcausis; De lulax (a. Aegyptium); De confectio ficarim; De terra que vocatur Limnia. 22 Sul sito di Monteleo vd. Dallai, Poggi 2012; Dallai 2014. Più in generale sullo sfruttamento delle risorse minerarie nelle Colline Metallifere vd. Bianchi, Dallai, Guideri 2012; Benvenuti et al. 2014; Bianchi 2015. Sull’afferenza al publicum di vasti e compatti ambiti di questo territorio e il loro nesso con Lucca vd. Vignodelli 2012, pp. 281-282; Collavini 2016; Tomei c.s. 159 G. Bianchi, P. Tomei fig. 1 – Il territorio indagato con evidenziati i siti citati nel testo. un Gualdo regio al cui interno si formò la curtis di S. Regolo (Collavini 2007a, p. 233). Questa curtis, localizzata tramite il survey in corrispondenza di uno dei primi rilievi collinari a ridosso della pianura sopra descritta (Dallai, Fineschi 2006; Ponta 2015), nell’inoltrato VIII secolo fu enucleata da un grande complesso del fisco per giungere nelle mani dei vescovi di Lucca. Il cuore del Gualdo dovette, comunque, rimanere fino all’XI secolo nella disponibilità del fisco regio. Sempre i vescovi lucchesi ed in parte il potente monastero di S. Pietro in Palazzuolo di Monteverdi (Francovich, Bianchi 2006) detennero nell’alto Medioevo il controllo a fasi alterne di un altro sito cruciale, Castiglion Bernardi, ancora legato con probabilità al fisco regio, sovrastante e collegato alla cava di alunite di Buca dei Falchi. La ceramica rinvenuta nel sito posto su di un rilievo collinare durante i recenti survey conferma la sua lunga frequentazione dall’età ellenistica ai secoli centrali del Medioevo quando, a partire dall’XI secolo, fu definitivamente rilevato dal vescovo di Lucca e divenne un castello con relativo abitato (Ponta 2015). Avvicinandosi verso le aree costiere, le menzioni di Monte del Re presso Massa Marittima o di Mulini del Re presso l’acqua del Re (Teupascio) oggi identificabile con il fiume Pecora che solcava l’omonima vallata sfociando nella originaria palude costiera prima della sua bonifica in Età Moderna, attestano una diffusa presenza di altre proprietà regie. Presenza ulteriormente testimoniata dalla menzione delle curtes del Cornino e di Valli citate nel noto dotario del 937 assegnato dai re Ugo e Lotario alle rispettive mogli Berta e Adelaide (Vignodelli 2012). La locazione di questi due possessi è da tempo stata individuata rispettivamente nel comprensorio in prossimità dell’originario stagno di Piombino, dove sfociava il fiume Cornia e nella parte terminale della valle del fiume Pecora sopra citato. È in quest’ultimi due territori che dal 2015 si sono concentrate le indagini archeologiche interne al progetto europeo nEU-Med, che, nella prima fase di questa ricerca, hanno comportato lo studio interdisciplinare di questo territorio costiero tra alto e basso Medioevo e del suo immediato entroterra a partire dallo scavo di un sito chiave, la Vetricella, posto in origine ai margini della palude dove sfociava il fiume Pecora, l’originario Teupascio citato dalle fonti altomedievali. Riassumendo in maniera sintetica i risultati di queste ricerche (per una trattazione più esaustiva si rimanda ai contributi raccolti in Bianchi, Hodges 2018; Bianchi, Hodges 2020) è possibile circoscrivere i seguenti punti salienti (fig. 2): 1. Vetricella potrebbe essere interpretata con un buon margine di certezza, come il possibile centro direzionale della curtis regia di Valli, citata nel dotario di Ugo di Arles (Bianchi, Collavini 2018). Il suo scavo in estensione costituisce, quindi, la prima occasione nella nostra penisola di analizzare in dettaglio le caratteristiche materiali di un possesso regio o marchionale rurale osservando, al contempo, le modalità con cui le autorità pubbliche intervenivano sul comprensorio circostante. 160 Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume fig. 2 – Il sito della Vetricella (Scarlino, GR): a. prima dello scavo; b e c alla fine della campagna 2018; c. pianta di fase del Periodo IV.1 corrispondente alla seconda metà del X secolo. un alto numero di piccoli insediamenti nucleati, evidenziati dai più o meno recenti survey così come dalle nuove indagini diagnostiche (Marasco 2013; Marasco et al. 2018; Dallai, Carli, Volpi 2020). È possibile che da questi abitati provenisse la forza lavoro impiegata nella Vetricella. 5. Il sito conobbe una intensa attività nella seconda metà del X secolo per poi essere definitivamente abbandonato intorno alla metà di quello successivo. 6. Contemporanea al momento di maggiore attività della Vetricella, è un’importante trasformazione del paesaggio non lontano dal sito, presente nella pianura sottostante l’attuale Massa Marittima. Nel corso del IX-X secolo, infatti, furono provocati numerosi incendi probabilmente per creare nuovi spazi aperti e/o coltivabili, mentre lo stesso corso del fiume Pecora fu sottoposto a pesanti modifiche che comportarono una nuova regimentazione di parte del suo paleoalveo (Pieruccini et al. 2018). 2. Il sito a partire dalla sua fase di massima espansione, coincidente con la seconda metà del IX ed in particolare con la seconda metà del secolo successivo ed i primi decenni dell’XI secolo, si caratterizzava per la presenza di un unico edificio centrale turriforme inizialmente circondato e difeso da tre fossati concentrici, di cui il più interno fu colmato proprio nel corso della seconda metà del X secolo (Marasco, Briano 2020). 3. I dati sinora raccolti orientano ad interpretare il sito come un luogo dove erano in contemporanea stoccate merci (sulla cui natura ci riserviamo di attendere le nuove analisi) e lavorati e stoccati oggetti in ferro come coltelli, punteruoli, speroni, ferri da cavallo, fibbie, chiodi da ferratura (Agostini 2020). L’altissimo numero di reperti ritrovati, fa della Vetricella un centro specializzato destinato alla produzione di oggetti probabilmente destinati ad un mercato extra territoriale, ancora da definire geograficamente. Il minerale proveniva sia dai giacimenti delle Colline Metallifere, sia da quelli della prospiciente Isola d’Elba (Bianchi, Collavini 2018) grazie ad un ampio e ben strutturato sistema di sfruttamento di queste risorse che per l’interno delle Colline Metallifere faceva riferimento, sin dall’VIII secolo, a piccoli villaggi come, quelli indagati in passato, di Cugnano e Rocchette Pannocchieschi (Grassi 2013). 4. Il sito di Vetricella non era isolato ma era circondato da L’insieme di questi dati dimostra come perlomeno nel corso del X secolo, fosse in atto un programma di trasformazione dei paesaggi e di controllo e sfruttamento delle risorse minerarie (con particolare riferimento al ferro) la cui altissima scala di attuazione fuga ogni dubbio sulla committenza di tali operazioni, identificabile con i poteri pubblici, regi o marchionali. Con probabilità gli stessi poteri agirono con pervasività anche per lo sfruttamento delle saline interne 161 G. Bianchi, P. Tomei alla curtis del Cornino, presenti nello stagno di Piombino, attestate già in età altomedievale e di cui, con lo scavo in località Carlappiano, sono state trovate tracce riferibili ai secoli centrali del Medioevo (Dallai et al. 2018). Questi stessi dati consentono, inoltre, di riconoscere con maggiore chiarezza ed evidenza rispetto al passato, il peso che in questo territorio ebbero le strategie economiche attuate da questa committenza. Esse riguardarono evidentemente non solo l’area costiera ma anche le vallate retrostanti: dei veri e propri corridoi verso l’entroterra caratterizzato, come abbiamo scritto, da numerose attestazioni di possessi regi. Simili azioni collegate a numerosi e diversi processi produttivi richiamarono in questo ampio territorio un probabile elevato numero di maestranze specializzate, creando sicuramente le condizioni per un arricchimento esponenziale dell’ambiente tecnico. All’interno di quest’ultimo parrebbe davvero singolare, pertanto, che non trovassero spazio le attività connesse all’estrazione e prima trasformazione dell’allume (vista anche la richiesta dall’ambito urbano lucchese) le cui cave si trovavano, come abbiamo scritto, in un’area fortemente collegata geograficamente e istituzionalmente ai domini regi. Tale considerazione potrebbe estendersi anche ad altri giacimenti di questa materia prima (sempre sfruttati in maniera sistematica a partire dalla seconda metà del XV secolo) ugualmente presenti in prossimità di aree soggette al fisco regio poco sopra rammentate (fig. 1): quelle in località Pietra prossima a Massa Marittima; le cave di Montioni poste a relativa distanza sia dall’areale di pertinenza della curtis regia del Cornino, sia di quella di Valli, il cui possibile centro oggi potrebbe essere identificato con il sito della Vetricella. Una simile precocità di sfruttamento dell’allume in età altomedievale, in forme e modalità che purtroppo non hanno lasciato evidenze materiali e documentarie, era già stata supposta in passato (Dallai, Fineschi 2006). I risultati delle recentissime ricerche legate al progetto nEU-Med forniscono validi elementi per supportare ulteriormente queste ipotesi. A queste caratteristiche, nel comprensorio delle Colline Metallifere al momento corrispondono due siti: quello in località Torre di Donoratico, dove si registra una produzione in loco o limitrofa di ingenti quantità di ceramica a vetrina sparsa databile alla metà del IX secolo (Briano, Sibilia 2018); Rocca degli Alberti a Monterotondo M.mo la cui area sommitale in questa fase divenne un importante centro di raccolta dei cereali ed in particolare del grano (Bianchi, Collavini 2018). Nel caso del primo sito, sinora si è supposto un suo legame con il monastero di S. Pietro in Palazzuolo di Monteverdi, nell’ottica però che quest’ultimo potesse far parte di beni pubblici confluiti nel patrimonio monastico ma comunque, così come per altri casi rimasti a disposizione del fisco regio (Lazzari 2012). Per Rocca degli Alberti la menzione saltuaria e solo tarda di un suo legame con lo stesso cenobio fa ipotizzare, comunque, una dinamica simile a quella di Donoratico, considerando che Monterotondo M.mo si trova ai margini della grande area comprensiva del Frassine, caratterizzata dai possessi regi che abbiamo descritto nel precedente paragrafo. Al momento, quindi, possibili corti pubbliche o con la medesima fisionomia si collegherebbero alla gestione di queste produzioni: agricole/cerealicole; sale; ceramica; oggetti in ferro. Considerando la varietà delle risorse presenti in questo territorio è questa una visione ancora parziale, ma sufficiente per rimarcare ancora una volta la notevole circolazione, in questo periodo (considerando anche l’attivazione di importanti cantieri da costruzione) di saperi specializzati. In recenti contributi questo panorama è stato confrontato con quanto è possibile desumere dalle fonti documentarie ed archeologiche per le corti pubbliche della Tuscia del Nord, in particolare per l’area pistoiese, del Valdarno e dei Monti Pisani (Bianchi, Collavini 2018) ma anche per quelle dell’Italia settentrionale (Bianchi 2020; Fiore 2020). Il quadro che emerge consente di ipotizzare che anche in questi luoghi fossero presenti produzioni specializzate: agricole; ceramiche; relative all’estrazione di pietra da costruzione e produzione di manufatti lapidei; oggetti in steatite. Non disponendo di informazioni dettagliate al pari di quelle desumibili per l’area delle Colline Metallifere, tale ipotesi hanno un minore supporto soprattutto del dato materiale e per alcune di queste produzioni risulta più difficile determinarne l’entità della scala. L’insieme però dei dati, collegato a recenti ipotesi sulla trasmissione e la gestione degli stessi beni fiscali (Collavini c.s.; Collavini, Tomei 2017) consente di cominciare a tratteggiare, perlomeno nella Tuscia di IX e X secolo, un possibile scenario di sistemi economici pubblici integrati, facenti capo a specifici siti, gestiti direttamente o indirettamente dalle autorità regie o marchionali, destinati a sfruttare specifiche risorse e produrre beni di diversa natura (Bianchi 2018a; Bianchi, Collavini 2018; Bianchi 2020). Proprio lo studio di Vetricella e del territorio delle Colline Metallifere, supportato dalla notevole massa di dati archeologici raccolti in più di un trentennio di indagini, dimostrano come, perlomeno in quest’area, simili produzioni non fossero indirizzate nella loro maggioranza verso i territori limitrofi a questi centri. Ciò è confermato, ad 5. POSSIBILI CIRCUITI DI SCAMBI NELLE COLLINE METALLIFERE L’insieme delle informazioni sopra esposte, nella fase più avanzata della ricerca interna al progetto nEU-Med hanno spinto ad allargare lo sguardo dalle aree oggetto di indagine a territori limitrofi e finanche esterni alla Tuscia, per rileggere dati pregressi o di nuova acquisizione. Questo nell’ottica di individuare un possibile sistema di siti legati a produzioni e relativi scambi tra grandi corti rurali pubbliche, perlomeno nella fase corrispondente al massimo ampliamento e funzionamento di Vetricella, ovvero seconda metà IX, inizi XI secolo. A tale proposito, partendo dal caso della Vetricella, sono stati definiti dei parametri di confronto così individuabili: presenza di consistenti cambi di assetto dei siti nel periodo considerato (costruzioni di mura, di recinti, di torri, di strutture produttive o di raccolta); vocazioni che comportarono un forte legame con produzioni specializzate a grande scala. 162 Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume esempio, dalla quasi totale assenza di reperti in ferro nelle sequenze dei villaggi di altura anteriori all’XI secolo, oppure dalla scarsa presenza di frammenti di ceramica a vetrina sparsa nei livelli di vita dei medesimi contesti abitativi. Dove, quindi, fosse indirizzata questa produzione è uno dei temi di ricerca del progetto nEU-Med. Preliminarmente si può supporre che la sua circolazione riguardasse spostamenti da corte a corte, oppure dalle corti verso il centro urbano lucchese. Nel caso del territorio qui esaminato, supponendo che le corti regie costiere del Cornino e di Valli/Vetricella fossero i punti di arrivo e di smistamento di produzioni locate anche nelle aree interne, il collegamento con il nord della Tuscia e con Lucca poteva essere garantito sia da vie terrestri, come l’Aurelia, ancora attiva in questo periodo pur con modifiche del suo tracciato, sia marittime. Se, infatti, solo le fonti documentarie altomedievali, attestano la vitalità di un porto, Falesia, ormai non più individuabile materialmente e originariamente locato nella laguna di Piombino, recenti studi sui materiali ceramici rinvenuti in prossimità dello scalo di portus Scabris, locato poco distante da Vetricella, confermano la sua funzione ancora per tutto l’alto Medioevo (Vaccaro 2018). Tornando, quindi, al tema del precoce sfruttamento dell’allume nelle Colline Metallifere, anche il quarto requisito indicato all’inizio di questo contributo come necessario a creare le condizioni ideali per lo sfruttamento di una risorsa così importante, ovvero presenza di circuiti di scambio, di infrastrutture in grado di connettere luoghi di produzione con i centri di trasformazione e consumo, sembrerebbe essere presente. forze politiche, alcune delle quali già partecipanti al sistema politico ed economico di carattere pubblico (Collavini 1998; Ceccarelli Lemut 2004; Farinelli 2007; Bianchi 2015). Da tempo è stato, infatti, sottolineato come il processo di affermazione di diritti signorili nella Tuscia si accelerò proprio a partire da questo momento (Wickham 1996). Il venir meno della struttura di coordinamento marchionale comportò la frantumazione del territorio da noi esaminato in un mosaico di distretti signorili. Le indagini archeologiche e l’esame delle fonti documentarie hanno dimostrato che questa nuova condizione non comportò, tuttavia, l’interruzione dei processi produttivi inerenti lo sfruttamento delle diverse risorse di questo comprensorio (in particolare quelle minerarie), ma solo una loro localizzazione. Tale localizzazione si legò al mutato raggio di azione degli attori politici operanti sul territorio: non più gravitanti attorno ai poli di redistribuzione pubblica di terra e honores, ma più decisamente imperniati sui castelli rurali e dediti all’intensificazione dello sfruttamento delle risorse locali (Bianchi 2018b). Le signorie laiche ed ecclesiastiche attive in questa regione dovettero altresì fare i conti con una competizione più accesa, confrontandosi ed entrando in relazione con le forze di caratura maggiore (su tutte, le città di Siena e Pisa) che, a partire dal XII secolo, condussero progetti di ricomposizione territoriale (Bianchi, Collavini 2017). A livello di conoscenze si registra, poi, una continuità di ambiente tecnico dimostrata, in campo metallurgico, dalle attività svolte all’interno dei castelli minerari per tutto il basso Medioevo le cui evidenze sono state registrate archeologicamente per i casi di Rocca San Silvestro, Rocchette Pannocchieschi, Cugnano, Montieri, al cui interno tra XII e XIII secolo fu attiva anche una zecca (per una sintesi dei casi citati Bianchi, Dallai, Guideri 2009; Benvenuti et al. 2014; Bianchi, Cicali 2019). A questi contesti è poi da aggiungere lo sviluppo del distretto dipendente da Massa Marittima, a cui si legò, in particolare tra XIII e XIV secolo, un intenso programma di sfruttamento delle risorse del sottosuolo, in relazione al quale conoscenze ed organizzazione del lavoro furono codificate nel noto e cosiddetto Codice Minerario Massetano (Panella, Casella, Rodolico 1938). Alla fine, quindi, di questa sintetica panoramica risulta davvero difficile non ipotizzare un precoce sfruttamento dell’allume, seppur originariamente confinato in un ambito di produzione specifico e in quantità che dovettero restare a lungo limitate, entro questo comprensorio. L’alto Medioevo può aver costituito una importante e fondamentale premessa in cui prese avvio un processo di sfruttamento che probabilmente continuò nei secoli successivi, sino alle consistenti attività di Età Moderna. Proprio l’invasività di quest’ultime potrebbe avere cancellato le più deboli tracce di quelle precedenti, impedendoci di supportare con chiare evidenze materiali le ipotesi formulate. Si spera, però, che il quadro costruito mediante il confronto e l’integrazione di dati storici e archeologici possa fornire validi spunti di riflessione e di metodo per il futuro studio di questa risorsa e del suo contesto. G.B. 6. CONCLUSIONI L’insieme delle considerazioni formulate nei precedenti paragrafi, basate su dati materiali e documentari riguardanti sia l’ambito urbano lucchese, sia l’area rurale delle Colline Metallifere, evidenziano come l’idea di un precoce sfruttamento dei giacimenti di allume in quest’ultimo comprensorio abbia acquisito una maggiore solidità rispetto alle ipotesi formulate in passato, precedenti allo svolgimento del progetto nEU-Med. La presenza di un sistema economico di gestione delle locali ed importanti risorse di questo territorio, ben organizzato dai poteri centrali e collegato alle loro sedi, che si attuava all’interno di rilevanti ed estesi beni pubblici era in grado di soddisfare i requisiti alla base dell’attivazione di un processo produttivo riguardante l’allume. Ciò anche a fronte sia di una domanda di tale materia prima da parte di Lucca, sia della presenza di specifici saperi circolanti in ambito urbano e rurale in maniera continuativa per tutto l’alto Medioevo. Il tessuto connettivo costituito dalle corti poste nella sfera pubblica (urbane e rurali; gestite direttamente mediante actores o affidate a monasteri sotto la protezione regia) sembra perdere buona parte della sua efficacia dalla metà dell’XI secolo, nel momento in cui la marca di Tuscia si disgregò lasciando campo libero all’azione di tante e diverse G.B., P.T. 163 G. Bianchi, P. Tomei BIBLIOGRAFIA Bianchi G., Grassi F., 2013, Sistemi di stoccaggio nelle campagne italiane (secc. VII-XIII): l’evidenza archeologica dal caso di Rocca degli Alberti in Toscana, in G. Bianchi, J.A. Quirós Castillo, A. Vigil Escalera (a cura di), Horrea, barns and silos. Storage and incomes in Early Medieval Europe, Vitoria, pp. 77-102. Bianchi G., Hodges R. (a cura di), 2018, Origins of a new economic union (7th-12th centuries). Preliminary results of the nEU-Med project: October 2015-March 2017, Firenze. Bianchi G., Hodges R. 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In the first and second paragraph, different kinds of documentary sources are analysed in order to circumscribe in Lucca the possible commission related to the demand for this raw material and the technical environment able to transmit specific knowledge related to the use of alum. The Colline Metallifere and their alum deposits are at the centre of the third paragraph in which an attempt is made to reconstruct the political-economic framework and the technical environment that may have made possible the implementation of the alum production cycle, thanks to the most recent data acquired from archaeological research. In the conclusions of the contribution, the set of data exposed leads to the hypothesis of an early exploitation of alum, although originally confined to a specific production area with limited quantities for a long time. The Early Middle Ages, at least for the geographical areas analysed, may, therefore, have constituted an important and fundamental premise in which a process of exploitation began and probably continued in the following centuries, up to the substantial activities of the Early Modern period. Tomei P., 2017, «Censum et iustitia». Le carte di livello come specchio delle trasformazioni della società lucchese (secoli IX-XI), «Reti Medievali. Rivista», 18/2, pp. 251-274. Tomei P. 2018, The Power of the Gift. Early Medieval Lucca and its Court, in G. Bianchi, R. Hodges (a cura di), Origins of a new economic union (7th-12th centuries). Preliminary results of the nEU-Med project: October 2015-March 2017, Firenze, pp. 123-134. Tomei P., 2019, Milites elegantes. Le strutture aristocratiche nel territorio lucchese (800-1100 c.), Firenze. Tomei P., c.s., Il sale e la seta. Sulle risorse “pubbliche” nel Tirreno settentrionale (secc. V-XI). Unfer Verre G.E., 2013, Ancora sul manoscritto 490. 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Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma. English abstract Dealing with alum as a resource in the Early Middle Ages is not easy because of both the archaeological invisibility of 166 Lorna Anguilano*, Vittorio Fronza**, Vasco La Salvia***, Alessandra Nardini** PAESAGGI MINERARI ALTOMEDIEVALI DELL’ALTA VAL DI MERSE. IL CASO DI MIR ANDUOLO (CHIUSDINO, SI) Early Medieval mining landscapes of Alta Val di Merse. The case of Miranduolo (Chiusdino, SI) 1. MIR ANDUOLO: IL SITO E LO SFRUTTAMENTO MINER ARIO Con la trasformazione in centro curtense, nel IX secolo, non si hanno più evidenze di attività di lavorazione del minerale: nell’area sommitale, all’interno della palizzata che cinge il dominico, è però attiva una bottega, articolata e ben organizzata, nella quale si forgiano prodotti finiti utilizzando barre di ferro ormai importate. La collina sulla quale nei primi anni del Mille sorgerà il castello di Miranduolo (Chiusdino-SI), dal 2001 al 2016 oggetto di scavo da parte dell’Università di Siena (dir. scientifica: M. Valenti; fig. 1), ha mostrato una continuità insediativa dal VII secolo fino alla metà del XIV secolo: costituisce pertanto un modello che possiamo definire paradigmatico per lo sviluppo dell’insediamento rurale toscano, soprattutto rispetto ai suoi processi di formazione e trasformazione nel corso dell’alto Medioevo (Valenti 2008). Nel VII secolo, si afferma sul sito un primo nucleo abitativo e produttivo che recenti dati di scavo hanno permesso di definire sia dal punto di vista topografico che socio-economico: le attività di estrazione e lavorazione del ferro sembrano essere il motore economico primario per l’occupazione di questi spazi che, per il contesto economico e cronologico in cui si verifica, è da collegarsi ad un’iniziativa pubblica. In questa fase, il villaggio non appare ancora del tutto strutturato ma sembra seguire le dinamiche legate allo sfruttamento intensivo del potenziale estrattivo, a partire dalla cavatura del minerale fino alle prime fasi di produzione. Verso la fine del secolo, l’esaurimento dei filoni o la scelta di aree di maggior potenziale determina l’allentamento del controllo esterno e un radicale cambio di strategia produttiva verso una vocazione prettamente agricola che si lega alla costituzione di un potere locale (Nardini 2015). Nell’VIII secolo quindi si definisce un centro rurale nel quale emergono elementi di stratificazione sociale che si esprimono attraverso il controllo di ampie aree di insilaggio: uno di questi nuclei è rappresentato da un vero e proprio quartiere abitativo-produttivo, facente capo ad un “contadino-fabbro”, che attraverso il suo lavoro progressivamente arriva a detenere un forte potere economico. La presenza di questa figura e la complessità della sua bottega, ricostruibile in maniera dettagliata grazie alle restituzioni materiali, permette di cogliere il ruolo strategico che l’attività metallurgica continua a mantenere nell’economia del sito: peraltro, altri indicatori di fusione e forgiatura sono presenti anche nell’altro nucleo di stoccaggio, testimoniando attività di lavorazione, seppure meno strutturate (Fronza 2015). A.N. 2. UN VILLAGGIO DI MINATORI E FONDITORI DI ETÀ LONGOBARDA (VII SECOLO D.C.) Tutte le fasi di frequentazione altomedievale hanno evidenziato tracce evidenti di produzione e lavorazione del ferro. Seguendo una strada tracciata ormai molti anni fa dalla scuola senese di archeologia medievale (cfr. Farinelli, Francovich 1994), sono stati prodotti dati rilevanti per la comprensione delle dinamiche economiche e di potere legate alle attività minerarie e metallurgiche di questo periodo. In particolare, come accennato, la fase più antica del sito, collocabile cronologicamente nel corso del VII secolo d.C., si distingue per una specializzazione economica esclusiva, interamente incentrata sullo sfruttamento delle mineralizzazioni ferrose e sulla conseguente produzione metallurgica. Sul versante Nord del poggio, è stato individuato un vero e proprio sistema minerario connotato da metodi di coltivazione in galleria, pesantemente intercettato e sezionato in orizzontale dalle successive opere di terrazzamento della collina effettuate a scopo insediativo (Fronza et al. 2012; fig. 2). Una galleria “scoperchiata” si estende in senso Est-Ovest lungo il dirupo settentrionale della collina (fig. 2.1, 2.5, 2.6), dove è stata riconosciuta per una lunghezza di ca. 35 m (fig. 3). Per la sua collocazione è possibile che si tratti di un passaggio di servizio, come sembra confermare anche la presenza lungo il suo percorso di un pozzo (figg. 2.2, 2.3; fig. 4) dotato di un sistema di risalita del minerale (fig. 2.4). Immediatamente accanto a queste evidenze si colloca uno slargo semiellittico a formare una camera mineraria (dimensioni: ca. 3,5-4×1,5-2 m) (fig. 2.7; fig, 5), parzialmente riempita dal crollo della sua stessa volta (fig. 2.8; fig. 5). Da questa camera si accedeva ad almeno un diverticolo della galleria principale che si sviluppava in direzione SW (fig. 2.9). Diverse buche di palo (figg. 2.9, 2.10) lungo i suoi limiti sono riferibili a strutture lignee di sostegno della volta della galleria. Anche questo cunicolo secondario è stato intercettato dai terrazzamenti; tuttavia, in corrispondenza della parete verticale che forma il limite a monte del terrazzo, il taglio della miniera e il suo * ETC Brunel University, London (lorna.anguilano@brunel.ac.uk). ** Università degli Studi di Siena (scarpazi@gmail.com; anardini05@ gmail.com). *** Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara (vascolasalvia@ gmail.com). 167 L. Anguilano, V. Fronza, V. La Salvia, A. Nardini fig. 1 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Foto aerea del sito (ottobre 2014). fig. 3 – Miranduolo (Chiusdino, SI). La galleria di servizio principale e il pozzo di risalita del sistema minerario di VII secolo d.C., con il riempimento in posto. fig. 2 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Parte centrale del sistema minerario di VII secolo d.C. rinvenuto sul versante nord del poggio: 1, 5, 6. la galleria di servizio principale; 2. il pozzo minerario; 3. l’entrata del pozzo dal dirupo; 4. il terrazzo e il sistema di risalita del minerale; 7. la camera mineraria; 8. tracce di crollo della volta della miniera; 9, 10. diverticolo minerario 11, 12, 13. proseguimento del diverticolo minerario in galleria. 168 fig. 6 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Sezione sud del diverticolo minerario che si diparte dalla camera riferibile al sistema estrattivo di VII secolo d.C.; si coglie chiaramente come, pur non avendo raggiunto il fondo, una persona doveva poter percorrere la galleria in posizione eretta. fig. 4 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Particolare del pozzo minerario di risalita riferibile al sistema estrattivo di VII secolo d.C. Almeno altri due diverticoli, solo individuati ma non scavati, si collocano più ad Ovest, mentre un’ulteriore camera mineraria in pessimo stato di conservazione doveva trovarsi sul lato opposto dell’area indagata, verso Est. Considerando anche la presenza di numerose altre tracce riferibili ad attività estrattive sparse su tutto il poggio e, soprattutto, di un’estesa area produttiva sul versante Sud (fig. 7), dalla quale provengono numerosi e significativi indicatori di produzione, l’insediamento si configura come un vero e proprio villaggio-fabbrica di minatori e fonditori, posizionato esplicitamente al centro di un territorio ad alto potenziale minerario. L’impresa, certamente complessa da un punto di vista organizzativo e gestionale, fa pensare ad una collocazione in zone a carattere fiscale, gestite dal potere pubblico e da esso conformate nella loro urbanistica e specializzazione economica. fig. 5 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Particolare della camera mineraria riferibile al sistema estrattivo di VII secolo d.C., con parte del crollo della volta ancora in posto. V.F. 3. IL CONTRIBUTO DELLE ANALISI ARCHEOMETRICHE E DELLA GEOLOGIA riempimento, anziché interrompersi, si inoltrano all’interno del banco roccioso, prefigurando la presenza di un tratto di galleria perfettamente conservata (fig. 2.13). La sua altezza massima, non inferiore ad 1,60 m all’imposta della volta (fig. 2.12), doveva consentire alle persone che vi lavoravano di percorrerla a piedi in posizione eretta (fig. 6). All’interno del sito sono stati già messi in evidenza i principali indicatori della produzione siderurgica di VII-inizi VIII secolo d.C., individuando diverse classi di materiali, quali frammenti di fornace frammisti a scorie, provenienti dall’Area 169 fig. 8 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Bottega di contadino-fabbro in uso nel corso dell’VIII secolo d.C.: a) forno da riduzione a pozzetto (freccia verde: canale di insufflazione dell’aria attraverso mantice; freccia gialla: rivestimento di argilla concotta sul fondo del forno; freccia rossa: residui di lavorazione, terra magnetizzata e scorie); b) scoria a calotta proveniente da un fornetto di riduzione. Metallifere, ricco di diversi minerali quali ferro, rame, pirite e galena argentifera. Inoltre, numerosi documenti del basso Medioevo riportano di cessioni di parti di Miranduolo, nelle quali si fa esplicita menzione di argento e di altri metalli in generale. Più in particolare, in prossimità del sito, sono presenti mineralizzazioni a solfuri misti associati ad idrossidi di ferro, nella zona di ossidazione superficiale o cappellaccio, mentre la roccia incassante è calcare cavernoso (Valenti 2008, pp. 41 e sgg.). Una preliminare valutazione della carta geologica dell’area e alcune ricognizioni geologiche di campagna mirate (dirette dal Dr. G. Rosatelli dell’Università di Chieti) hanno messo in luce la presenza di letti di sabbia e brecce, formazioni non inconsuete per la Val di Merse, e un andamento delle escavazioni minerarie sovrapponibile a quello delle faglie naturali, per cui le operazioni artigianali ‘approfittano’ delle predisposizioni del sostrato geologico. Per ottenere informazioni su qualità e tipo di minerale utilizzato a Miranduolo nell’alto Medioevo, si è iniziata una campagna di analisi archeometriche sulle scorie che rappresentano uno dei più importanti reperti per la storia della tecnologia siderurgica. L’analisi della loro morfologia, microstruttura e composizione chimica fornisce dati essenziali per la ricostruzione dei cicli produttivi antichi ed è potenzialmente utile per il riconoscimento delle zone di estrazione del ferro prodotto con il metodo diretto (Charlton et al. 2013, pp. 421-422; Roberts, Thornton 2014, pp. 95; Antonelli et al. 2013). In questa sede si presenteranno solo alcuni dati preliminari, relativi a 6 campioni da scorie e altri scarti di lavorazione, sottoposti ad analisi chimiche e mineralogiche, nel laboratorio dell’ETC Brunel University di Londra in collaborazione con la Dr.ssa L. Anguilano (si veda anche La Salvia, Anguilano 2015). Le analisi sono state effettuate con un Zeiss Supra V35 in vacuum a 20kV. I campioni, montati in resina epossidica, sono stati lucidati a specchio attraverso una sequenza di fasi con carta al carburo di silicio e pasta diamantata, fino ad una granulometria di 1/4 di micron; infine, sono stati ricoperti con carbonio per problemi di conduttività. I suddetti campioni, in ultimo, fig. 7 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Area di produzione del ferro di VII secolo d.C.: a) rivestimento in argilla concotta individuato sul fondo di un piccolo forno da riduzione a pozzetto; b) area di forgia; c) scorie da forgiatura di piccole dimensioni. 11 (localizzata sul versante occidentale del poggio) e i residui dei forni tagliati all’interno dei piani relativi alle Aree 1 e 3 (la sommità collinare nella parte orientale della collina; fig. 7). La fase più antica della produzione altomedievale si presenta come un sistema organizzato e diversificato i cui resti materiali hanno permesso di ben comprendere i differenti momenti del ciclo di lavorazione del ferro, che vanno dalle operazioni di arrostimento, pestaggio e riduzione del minerale alla forgiatura. L’insieme delle evidenze archeometallurgiche sembra perimetrare un’area artigianale di grandi dimensioni, con più fasi di utilizzo e una complessa articolazione degli spazi la cui funzione pare, in alcuni casi, variare nel corso del tempo, pur mantenendo ferma la sequenza operativa (La Salvia 2012). Per la fase immediatamente successiva, le ultime campagne di scavo hanno definito un ampio spazio sul versante NE (Area 14) dall’aspetto notevolmente unitario, pertinente ad un contadino-fabbro. Al suo interno si trova una zona adibita alla produzione siderurgica (fig. 8), con almeno due fasi stratigraficamente distinte che, sulla base della sequenza stratigrafica e della ceramica, possono essere datate al secolo VIII. La prima fase, piuttosto estesa, ma in cattivo stato di conservazione, ha restituito importanti indicatori metallurgici principalmente legati alla attività di forgiatura. La riduzione di minerale è, invece, attestata in quella immediatamente successiva, con almeno 10 forni a pozzetto, riutilizzati e destrutturati più volte (Fronza 2015). Dal punto di vista geologico, il sito di Miranduolo si trova all’interno di un bacino minerario, al limite delle Colline 170 hanno ricevuto ciascuno un identificativo di laboratorio, ETC, seguito da un nr. seriale corrispondente, mantenendo anche il loro originario riconoscimento di scavo per settore/ area, anno e US. I pezzi selezionati sono i seguenti: ETC S1 (MD07, A8/A2, US 402), ETC S2 (MD08, A3/C1, US 368, polvere di ferro), ETC S3 (MD08, A3/C1, US 360, polvere di ferro), ETC S4 (MD, MD08, A3/C1, US 368), ETC S5 (MD11, A14, US 193), ETC S6 (MD11, A14, US 188). La concentrazione degli elementi maggiori è stata misurata attraverso la media su tre aree di circa 1 mm² con SEM-EDS. I campioni si dividono in 2 differenti categorie: 1) ETC 1, 5 e 6 che sono ricchi di ossidi di ferro (fra il 67 e il 78% con il diossido di Silicio fra il 14 e il 20%); ETC 2, 3 e 4, invece, molto ricchi in diossido di silicio (circa 50%) e alluminio (intorno al 20%). Per quanto riguarda ETC 1, esso si presenta fratturato e mostra cristalli larghi ed una matrice massiva (tav. 1a). In dettaglio (tav. 1b), si notano fayalite, potassio, feldspato di calcio e ossidi di ferro. Questi ultimi presentano una certa percentuale di cobalto (CoO circa 2%) mentre il feldspato di calcio contiene una piccola percentuale di ossido di titanio (approssimativamente 0,5%). ETC 2, mostra una tessitura a grani sottili (tav. 1c) e, nel dettaglio (tav. 1d), aggregati di ossidi di ferro, particelle di carbonato di calcio, calcio, magnesio e una matrice allumino-silicatica. ETC 3, presenta una matrice completamente cristallina con diffusione di metallo che contiene aggregati (tav. 1e). In particolare (tav. 2a), il campione mostra grandi particelle di diossido di silicio associate con ossidi di ferro. Questa associazione sembra derivare direttamente dalla mineralizzazione originaria; l’ossido di ferro è l’alterazione parziale creatasi durante il processo. Titanio e manganese sono presenti nella matrice fina che è anche ricca in ferro, ma non mostra alcuna traccia di cobalto. ETC 4 possiede una tessitura ancora più fina e, al suo interno, aree arricchite in metallo visibili come strutture di scorrimento (bianche nella tav. 2b). La composizione mineralogica nel dettaglio risulta essere ossido di ferro, diossido di silicio, feldspato di potassio e silicato di ferro. Titanio e manganese sono presenti nella fase dell’ossido di ferro (tav. 2c). ETC 5, ha una tessitura dendritica e questi dendriti rappresentano ossidi di ferro (tav. 2d); le aree bianco brillanti sono ferro metallico, mentre la matrice è formata da potassio, calcio e silicato di alluminio. ETC 6 presenta una tessitura dendritica, ovvero ossidi di ferro, con rare particelle visibili di ferro metallico (in bianco, tav. 2e). I dati desunti dalle analisi, per quanto ancora preliminari, consentono di abbozzare alcune conclusioni generali in merito alle possibili fonti di approvvigionamento minerarie. Per prima cosa, emerge che la mineralizzazione doveva contenere cobalto; inoltre, i feldspati presenti nel fondente contengono titanio. Tuttavia, parte del fondente è costituito da quarzo all’interno del quale non sono state rinvenute tracce di titanio; almeno una mineralizzazione utilizzata potrebbe, dunque, essere stata una vena per cui la stessa ganga funge da fondente. In sintesi: due diversi minerali dovettero essere utilizzati, uno ricco in cobalto e l’altro in titanio; tuttavia, dal momento che quest’ultimo è stato rinvenuto anche nella ganga degli altri campioni dove anche il cobalto era stato individuato, è probabile che siano stati usati minerali estratti da vene differenti ma originatisi all’interno di uno stesso bacino. tav. 1 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Analisi chimiche e mineralogiche su campioni di scorie metallurgiche ed altri scarti di lavorazione: a, b) campione ETC 1; c, d) campione ETC 2; e) campione ETC 3. tav. 2 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Analisi chimiche e mineralogiche su campioni di scorie metallurgiche ed altri scarti di lavorazione: a) campione ETC 3; b, c) campione ETC 4; d) campione ETC 5; e) campione ETC 6. L.A., V.L.S. 171 L. Anguilano, V. Fronza, V. La Salvia, A. Nardini BIBLIOGR AFIA Roberts B.W., Thornton C., 2014, Archaeometallurgy in global Perspective: Methods and Syntheses, New York. Valenti M. (a cura di), 2008, Miranduolo in alta Val di Merse (Chiusdino-SI). Archeologia su un sito di potere del medioevo toscano, Biblioteca del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti – Sezione Archeologica – Università di Siena, 17, Firenze. Antonelli et al. 2013 = Antonelli S., Iacone A., Prosperi S., Tornese M., L’impianto metallurgico dell’Athenaeum: processi empirici tra “teoria e metodi” ed esperienza archeologica, in M. Serlorenzi, R. Egidi (a cura di), L’Athenaeum di Adriano. Storia di un edificio dalla sua fondazione al XVII secolo, Atti del Convegno (Roma 2011), «Bollettino di Archeologia on line. 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English abstract The castle of Miranduolo (Municipality of Chiusdino, Province of Siena, Italy) is a long-term medieval settlement, starting in the 7th century and definitively abandoned around the mid 14th century. Excavations led by the University of Siena between 2001 and 2016, yielded important information for a better understanding of the postclassical settlement network formation processes in rural Tuscany. Metallurgy represents a constant economic factor for the whole lifespan of the site. In fact, Miranduolo was founded during the 7th century with an exclusive economic specialization, entirely centred on the exploitation of the local iron ores. A complex mining system has been identified on the northern part of the hill, while a large and composite metallurgic area, with several structures involving the whole production cycle, was uncovered on the southern slopes. Evidence of iron reduction continues also in the 8th century, when the settlement’s economic focus changes drastically towards an agricultural enterprise led by emerging local elites. A first set of archaeometric analyses, using SEM-EDS techniques on a sample of slags, has been carried out in order to explore quality and composition of the exploited iron ores. The preliminary results are presented in this paper, showing that at least two different types of mineral, both pertaining to a local basin, were used in the site’s Early Medieval production areas. 172 L’ ALLUME MEDITERRANEO THE MEDITERRANEAN ALUM CONTEXTS Çiğdem Özkan Aygün* THE FLESH EATING STONE: ALUM MINING AND TR ADE IN ASIA MINOR La pietra che divora la carne: estrazione e commercio di allume in Asia Minore 1. INTRODUCTION Alum mines in Asia Minor have always been operated via “open-cast mining” throughout history. The mine in Kütahya (Cotiaeion) Gedos-Şaphane or Şap Madeni was in operation when the well-known Turkish traveler Evliya Çelebi visited the region in 1680’s. The most striking part of the works described by Çelebi were the pits or tunnels (lagım) that had been dug in the ground to extract alum-bearing rocks. This record in Çelebi’s book Seyahatname, may be considered a proof for the open cast mining techniques applied at that time. On the other hand, we know that mining in Asia Minor date to a remote past. There are more than 1000 recorded underground mining sites only in Northern Turkey. The oldest underground mining site is located at Tokat (Comana Pontica) and dates to the 5th millennium BC. Those mining galleries reach up to 50 m below the surface. The second oldest finding related to underground mining is at Kütahya (Cotiaeion), Gümüşköy (Silver Village) Aktepe (white Hill). It is a complex of galleries which had been illuminated with kindling instead of oil lamps; 14C applied to the burnt kindling traces dates to 2500 BC. The first known and dated tool for ore enrichment in Asia Minor was also found in the same area. This tool was used for medium-fine crushing and grinding (medium-fine degree is around 1-2 cm of diameter in modern metallurgy), and it is dated to the 2nd century (Kaptan 1990, p. 181). Aktepe is the well known area for silver and lead mining, but it is not far away from the alum mines in Gedos which is a village of Cotiaeion-Kütahya, as mentioned before. Today, the alum production is still going on in the same place with the yearly capacity of 20.000 tones. The operation technique is still based on surface open cast mining, with addition of a more modern use of explosives. In Asia Minor, mining and metallurgical activities had continued from ancient times up to the modern era; the mining had only been interrupted by wars and natural disasters, like earthquakes. Although we haven’t got the remnants of the tools and techniques that had been used in the oldest alum mines, we can judge that the techniques were up to their date. In modern Turkey there are more than 40 villages bearing the word “Şap-Alum” in their names. Şap is also referred as “White-Bead”, “Beyaz Boncuk”, in Turkish. However salt which today receives the name of alum was not the same material used by the ancients. From its description, we can infer that the Alumen of the Romans was a sulphate of iron, or at least contained a considerable amount of that metal. Alum is a double salt of potassium and aluminium (Pakucs 2007, p. 97) which can appear in its native state in warm areas like the Middle East. Where alum was not readily available, it had to be manufactured from alunite (alum rock or alum stone) and alum shale (alum ore or alum schist). Alum occurs naturally in more than one form; it was utilized in various fields such as medicine, cosmetics, metal and glass finishing, tanning and thawing of leather, fixing of the dye or even for ballasting the ships. Alum stone (alunite) was the preferred material for the production of the millstones; according to Al-Razi (9th century Persian physician), alchemists, mixing alum with mastic, would create a kind of cement to fill dental cavities. The use of alum for medical purposes was mentioned in the Hacı Paşa’s Medical book, Edviye-i Müfrede, which was written in 14th century (Larrañaga et al. 2016, p. 59). Although above mentioned purposes do not require great quantities of alum, the demand of alum dramatically increased after it began to be used in the textile industry, to cleanse fibers and to allow a better adherence of the dyes 1. In dyeing and printing cloth, the gelatinous precipitate helps the dye to adhere to the clothing fibers by rendering the pigment insoluble. The European textile industry begun to require it in large quantities since the beginning of 12th century. 2. ARCHAEOLOGICAL FACTS ABOUT MINING AND ALUM MINES IN ASIA MINOR Although the consistent historical background related to alum production and use, it’s surprising to find out that there are no archaeological researches about the alum mines in Turkey. The historical data concerning the production techniques and practical uses of this ore was scarce, despite the abundancy of the sources about the financial and legal arrangements. All of the archaeological researches related to the history of mining in Turkey concern the underground mining sites. The vulnerability of surface open cast mining areas determined the lack of related research; therefore even the tools used in this kind of works could not have been traced. * Istanbul Technical University, Department of Humanities and Social Sciences/Department of Fine Arts (ozkanci@itu.edu.tr). 1 When dissolved in a large amount of neutral or slightly-alkaline water, aluminum sulfate produces a gelatinous precipitate of aluminum hydroxide, Al(OH)3; http://www.artistsupplysource.com/product/53717/aluminumsulfate-500g/ retrived on 28.09.2016. 175 Ç. Özkan Aygün The art of extracting and preparing alum was brought into Europe from the Levant. The most ancient of the alum-works known which exploited a particular variety of this salt, is that of Rocca in Syria. Today it is called Edessa; hence the name of Rock alum (Brewster 1830, p. 590). The technology for the production of textiles as well as the raw material seems to be exported from the Eastern World through Asia Minor; for example, the so colled “fulling” which is also known as tucking or walking, is a step in wool clothmaking which involves the cleansing of cloth (particularly wool) to eliminate the oils, dirt, and other impurities, and making it thicker. The fulling of the cloth was often undertaken in a water mill, known as a fulling mill, a walk mill, or a tuck mill since the medieval period. The first references to the fulling mills in Persia were reported from the 10th century. By the time of the Crusades, in the late 11th century, fulling mills were active throughout the medieval Islamic world, from Islamic Spain and North Africa in the west to the Central Asia in the east. They seem to have originated in the 9th or 10th century in the Islamic world, either in the Middle East or North Africa. Mechanical fulling was subsequently disseminated into Western Europe through Islamic Spain and Italy in the 11th and 12th centuries (Lucas 2006, p. 278). Unfortunately, we are not sure whether those techniques were effectively applied in Asia Minor because of the lack of archaeological surveys. Egypt has been the major source of alum in the 12th century, before the Italians gained a guaranteed access to the Anatolian territory. However, the conditions to import alum from Egypt became tougher; the increasing taxes over alum imposed by the Egyptian authorities (the scale was two-thirds in alum compared to one-third in gold) (Miller et al. 1987, p. 150) caused a shift of trade from Egypt to Anatolia via the Italian merchants, and Asia Minor became the main source of alum for the European consumption from the 13th to the second half of the 15th centuries. Italian city states have the major role in the history of the trade of alum in Asia Minor. No matter the sovereignty of the Byzantines, Turks or Ottomans, the trade was in the hands of Genoese, Venetians, Florentines and so forth. Alum in Asia Minor was exported mostly through the ports in Aegean Sea, Black Sea and Mediterranean. It is known that the Black Sea and the Aegean Sea in particular had formed a closely knit economic entity from the antiquity and that the Byzantine political and economic control of the Black Sea – Aegean entity had collapsed by 1204. While Venice imposed her supremacy in the west of the Aegean Sea and Istanbul in the 13th century, its rival Genoa conquered the eastern AegeanMytilene, Chios, the two Phocaeas and built a colonial empire in the Black Sea. Genoa made Pera (Galata) its hub, facing the imperial city across the Golden Horn (İnalcık 1994, p. 272). The Byzantine Empire lost all of its overseas territories to the Italian city-states and became economically dependent on them. The Empire had to give full exemption from tariffs and the free run in the region in return for grain supplies for Constantinople (not only the trans-continental trade was monopolized by the Latins in the 13th century, but also the foodstuffs and raw materials taken from Black Sea were under their control). Despite being political rivals, the merchants from different city states endeavored to reduce or to eliminate competition in the ‘inner’ area by forming monopolistic compacts and cartels. In 1255, a Genoese and a Venetian jointly controlled the production of alum in Seljuk Anatolia and were even able to provoke an artificial rise of price (Miller et al. 1987, p. 375). By the second quarter of the 13th century, the Seljuks had become an export nation, although they still imported more than they exported; they also had developed many local industries and traded their own goods among the cities of the Empire; these industries included the alum production as well. Parallel to this inland mercantile activity, there was an extensive shipping trade based in the ports of Antalya (Attaleia) and Alanya (Alaiyye) on the Mediterranean and in Sinop (Sinope) on the Black Sea. The capture of Antalya in 1207 had signaled a major triumph for the Seljuks, as it opened trade with Europe. The conquest of Alanya in 1221 by Alaeddin Keykubad was an even greater asset, as the natural harbor provided the opportunity to set up a naval base in addition to the establishment of commercial activities, notably with Venice, Florence and France. 3. A BRIEF OVERVIEW THROUGH HISTORICAL SOURCES Alum was one of the most important commodities that was subject to trade agreements. Pegolotti mentions agreements about export and trade of alum between Turcoman emirs and Italian mercantile states. In 15th century Western Anatolia was widely settled by Turcomans and, thanks to integration with Europe through export of wheat, raisin and alum, the area became prosperous. According to Genoese capitulations renewed on June 8 1387, Murad I exempted the Genoese from custom dues. By the time of the conquest of Istanbul and the important ports on the Black Sea, Aegean and Mediterranean along the coasts of Asia Minor, the policy of the Ottomans got tougher, in particular toward the Genoese colonies, with the decision to abolish sovereignty rights over the territories which originally belonged to the pre-Ottoman states and to pull down fortifications. Ottomans were careful not to repeat the mistake of the earlier weaker governments, and did not allow Italian maritime states to gain territorial sovereignty or erect fortifications in the areas where they were permitted to settle trade colonies. Despite the regulations, the conditions seem to have not been changed from the aspect of trade making (the capitulations granted to christian states were the principal instruments regulating trade with European countries). Ottomans had complete political control of the place and integrated it into their imperial economy; alum was one of the commodities under strict control. An edict of Sultan Bayezid on 1488 was declared against smuggling of alum in Gedos-Şaphane-Kütahya (it will be mentioned later). The 2.5 or 2 percent customs duty had been established as the basic regular tax in the Mediterranean lands since Roman times. The 2 percent rate was the norm in commercial treaties of 1220 between the Anatolian Seljukid Sultanate and Venice; of 1403 between the Menteşe Principality and Venice; of 176 1429 between Byzantium and Florence, and of 1454 between Venice and the Ottoman State. The Byzantine government imposed the rates of 3 percent for the Catalans and 4 percent for the Provencals, while it maintained 2 percent for the Venetians and Genoese; eventually, the latter two obtained full exemption. Until the reign of Mehmed II the Ottomans adhered to the 2 percent rate, although they never granted any nation full exemption. After the 15th century, Ottoman tax system became more complicated because the customs rates varied according to the type of the commodity, the legal status of the importer or exporter and the customs zone. Customs dues were computed ad valorem, that is on the basis of the value of the commodity estimated by the government agent or tax farmer. No merchant could load, unload or leave a port, caravanserai or public station (kapan) without receiving a permit from the tax farmer and the simsar – that is an agent in charge of the place – which meant that they had to pay taxes in every stopover. Various forms of fraud took place, such as taking the goods through routes other than the usual ones, using city gates and places of unloading other than the officially assigned ones or unloading wares at landings on the seashore, outside the ports where customs houses were established (İnalcık 1996, pp. 95-97). Regarding the above-mentioned circumstances, although the trade links continued for a time between Islamic Asia Minor and the West, eventually the trade volume decreased devastatingly and brought about the migration of especially non-Muslim skilled dyers and alum workers from east to west. Ottomans also restricted and regulated the consumption of alum in their territory. For example the alum from ŞebinKarahisar (Colonea) would be consumed at the territories at the east of Tokat and Aleppo, alum from Gedos would be consumed at Central and Western Anatolia including Aegean islands and Mora, and alum from Maruniye would be consumed at Istanbul, Macedonia and Mediterranean parts of Asia Minor (Altunbay 2002, p. 798). Alum mining was one of the main sources of prosperity in Western Anatolia where Turcoman nomads lived. They have generated prosperity not only mining the alum, but also using it for the well-known carpets of Asia Minor. Along with wheat and cotton, the export of carpets became the subject of an international trade and made a tremendous impact on the Turcoman economy and society in Western Anatolia. In the 1330s, Ibn Battuta, speaking of Aksaray near Konya, says: «The rugs of sheep wool called after the place were manufactured, which have no equal in any country and are exported from there». Later on, particularly the Uşak-Gördes-Kula basin in the upper Gediz (Gedos) river became an internationally known center of carpet manufacturing. This unique development was associated with various factors; geography of the region with the high pasture lands on the surrounding mountains densely settled by the Turcoman pastoralists supplied wool in abundance, and cheap as well as skilled labor. Best quality madder and alum for dyeing, the fast running streams for washing the raw wool and finishing the carpets and the Gediz river for transport to the sea offered the ideal conditions (İnalcık 1994, p. 38). In the 16th century, the Turcoman nomads were replaced with the peasant population who needed larger arable lands (ibid. p. 40), after the Ottoman invasion of the area in the mid-15th-century. A theory may be generated depending on the parallelism between the evacuation of Turcoman nomads from Western Anatolia and decrease of alum mining in Western Anatolia; in fact, we must remember that also in Egypt the alum was being manufactured by Bedouin nomads. In 1460, an Italian trader and lawyer by the name of Giovanni da Castro, who also happened to be a godson of the pope Pius II, recognized large quantities of alunite in the vicinity of Tolfa, a small town about 25 miles north of Rome and within the Papal States (see Stasolla in this volume). He had experience of the dyeing and alum industries in and around Constantinople (Bruscoli 2007, p. 167). His first detection of alum in Tolfa was depending on his observation of «similar herbs grew on the mountains of Asia». This discovery also coincides with the Ottoman control over much of Anatolia, including Phocaea and the surrounding islands, such as Chios, which were vital for alum trade. Findings at Tolfa cannot be a simple coincidence but a pro-action for the changing political circumstances. 4. THE PROCESS OF ALUM PRODUCTION (fig. 1, fig. 2) Francesco Balducci Pegolotti, in his La pratica della mercatura written in 14th century, describes the production of alum from alum rock (Evans 1936, pp. 368-369): «When there was the need to prepare new alum the “masters” took the rocks and they worked with pick and chisel. The rock was spongy and had holes in which it was possible to find a resin similar to flour for color and substance. In the beginning these rocks were cooked for 18 hours in specific fireplaces, taken off, and amassed on a square to let them cool down. They were wetted once per day with water pipes. Because the rains were more frequent during the winter, they didn’t wet the rocks and stored them for 4 months. After this process the rocks were selected and the ones that were still solid rather than soft were discarded. Then the rocks were placed in 24 sacks. One by one they were inserted in a boiler with a capacity of 3 “cogna” (1 cogno = 10 barrels/450 lt). After 12 hours the water was sifted with a big iron pierced box to remove impurities. The remaining water was poured into a well-encased box which stand there for 12 to 14 days. After this period, the mixture firmed and the alum was ready. After being stored in different trunks, 3 buckets of water were poured over the alum and then it was left to dry. At sunset, the alum was weighed and stored as a finished good. One of the piles weighed from 35 to 40 “cantara” (following the Genovese system of measure – late middle ages 47,6 kg. Ottoman kantar-around 57 kg). Alum was a merchandise that was never spoiled provided it was stored in a non-humid climate». Another description is given by 14th century Byzantine historian Doukas about how the Genoese processed it. According to this description, the alum is produced from the rocks of the mountain ridge which dissolve into sand when brought into contact with fire and then with water. This 177 Ç. Özkan Aygün fig. 1 – Ore enrichment, crushing and grinding for alum production – Adapted from The Edinburgh Encyclopædia of Sir David Brewster and De Re Metallica of Georgius Agricola (graphic design by Cansın Caner Keskin). fig. 2 – Phases of alum production – Adapted from The Edinburgh Encyclopædia of Sir David Brewster and De Re Metallica of Georgius Agricola (graphic design by Cansın Caner Keskin). sand, derived from rock, is poured into cauldron of water, and the solution brought to a light boil. The sand is further broken down and its dense mass remains in the solution like cheesy milk, while the hard and earthy elements are thrown out as worthless. The solution is emptied into vats to settle for four days; it solidifies around the edges of the receptacle and sparkles like crystal. The bottom of the receptacle is also covered with crystalline particles. After four days, the excess solution is drawn off and poured into the cauldron, adding more water. More sand is thrown in; the compound 178 fig. 3 – Alum production points, transport routes and exporting ports over Asia Minor (drawn by Cansın Caner Keskin). is brought to a boil, and once again poured into the vats. The alum is then removed and stored in the warehouses (Ducas 1958, p. 205). Even though ore enrichment processes which were used to produce alum can change according to the composition of the rocks, general processes can be summarized as follows. The ore is separated from the pieces of the rock; simple ore enrichment processes, such as crushing and grinding, are applied to the alum rocks in order to reduce their size. Then medium-sized alum is heated in specific fireplaces, that is brick kilns, until the white smug appears. This process is also called calcination and it approximately takes seven to eight hours; heating time can be longer or shorter according to the chemical composition of the alum. When the ore is sufficiently calcined and friable, it is taken out and laid on long shaped pavements, which are surrounded with walled trenches. These ore masses are irrigated with water regularly almost forty days. After the irrigation, decomposed ore which becomes softer is taken to the boiler and boiled at high temperature for long hours. When the water is saturated to the right point, it is poured into the crystallizing pans. After it is cold, clear alum crystals are obtained from the solution. Georgius Agricola in his book De Re Metallica published in 1556, gives three detailed descriptions of the alum manufacturing process, explaining the production from alum shales and alum rock (alunite) (Hoover 1912, pp. 568-569). Sir David Brewster, who was a Scottish physicist and historian of science, in his Edinburgh Encyclopedia which was published between 1808-1830, explains different manufacturing processes according to the different chemical compositions of alunite and gives detailed explanations about the chemical reactions occurring during those processes (David Brewster 1830, p. 590). Heating and watering are the main factors to create the reactions. The title of this article “Flesh eating Stone” can be explained through this chemical reaction. Pliny says that a peculiar stone, found in the territory of Assos 2 a very close town to Phocaea, has the property of wasting the bodies entombed in it; hence the term sarcophagus, meaning ‘flesh-eating’ sarksarc (flesh) + phagein to eat: «It is established that the corpses buried in it with exception of the teeth, are consumed within a period of 40 days» The special stone rock of the Assos area is called andesite; this kind of rock can produce alunite under special hydro thermal alterations. Alunite formations which are found in andesite deposits can show acidic characteristic which can explain the consumption of the buried bodies in the sarcophagi made of andesite. Being famous with their property to decompose corpses quickly, the sarcophagi which were produced from the andesite in Assos were highly demanded in the ancient world. The sarcophagi produced in this area were being exported to Lebanon, Syria, Greece and Rome at that time. An underwater relict has been found at South of Greece full of sarcophagi cargo from Assos destined to arrive in Rome. According to the unpublished information given by the ex-director of the Assos excavations, pieces of alum were found in some of the sarcophagi. A village in the vicinity of Assos which had alum mines is named Şapköy (the Alum Village). This information indicates the existence of alum in the rock formation of the area. 5. EXTR ACTION AREAS There are plenty of major and minor mine sources that are mentioned in the trade of alum in Asia Minor (fig. 3). The main ones of those are: 2 179 Pliny, pp. 357, 358. Ç. Özkan Aygün 5.1 Colonna – Koloneıa – Şebinkarahisar Pegolotti explains the difference between various qualities of alum. Rock alum (“allume di rocca”) was the best quality, “allume di sorta della buona luminiera” was second-quality alum and “allume corda” or “allume di fossa” was poor quality product. The most ancient and cited manufacturing area of alum in Asia Minor is Koloneia (Κολώνεια) (Bryer 1982, p. 133; Matschke 2002), in Northern Asia Minor, which was famous for “allume di rocca”. Koloneia is 11th century Mavrokastron (Black Fortress); a Turkish toponym of Karahisar appeared in 14th century. The town was later called Şapkarahisar (“Black Fortress of Alum”), which was transformed into modern name of Şebinkarahisar. Although alum mining around Koloneia probably existed from Pliny’s time, large-scale trade was set by Turks and Italians. Niketas Magistros wrote about the Koloneian alum in the 10th century (Magistros 1973, p. 65). It is also mentioned that alum arrived in Cappadocia from the area of Koloneia in Late Antiquity (Decker, Cooper 2012, p. 69). In 1289 there is the first mention of a Genoese shipment of “allume di rocca di Colonna”: Koloneia was an inland town and the alum from these mines was transported from the port of Kerasount (modern Giresun) which was a region of Pontos, 40 km away, to the Constantinopolitan workshops of textiles in the 11th century (fig. 4). Flax grown in the western Peloponnese and along the Asiatic coasts of the Aegean was made up into finished cloth in Constantinople with the help of Peloponnesian dyes and alum from Koloneia as a mordant (Postan 1966, p. 143). The road from Koloneia to Kerasount crossed a hilly and uncomfortable land. There are even evidences that some of the Koloneian alum had being transported to Tokat (Komano) or Sivas (Sebasteia), which were important hubs for caravans, and finally to Phocaea to be exported. Another itinerary for exporting alum of Koloneia was the way to Trabizond port through Sebasteia; Koloneian alum even arrived to the port of Aleppo through the inland road passing from Sebateia. In the 13th century Vincent of Beauvais mentions high quality alum found near Sivas (Sebasteia) (Bryer 1988, p. 41), but since there are no alum reserves in Sebasteia, this product was probably coming from Kuğuniya and Kütahya (Kotiaeion) (Cahen 2014, p. 90). Koloneia was in relation with the Kervan (caravan) road of Konya (Ikonion) – Kayseri (Caesarea) – Sivas (Sebasteia) – Erzincan (Eriza) – Erzurum (Karin). Genoese Zaccaria family managed by political intrigue to keep all exports from Koloneia off the market, while they were developing Phocaea’s mines, and then exported Koloneia’s alum as well as their own (Miller et al. 1987, p. 375). According to Faroqi, still in the 16th century the alum works were operated by local Christians. The mine workers were remunerated by a very generous tax exemption, which even excused them from payment of the head-tax imposed to all non-Muslims (Faroqi 1979, p. 5). The quality of alum rock in Koloneia was the highest in Asia Minor. Percentage of alum ore in the alum rock was 80% in Koloneia, 75% in Phocaea on the western coast of Anatolia and 60% in Kütahya (Kotiaeion, Cotyaeum) in the fig. 4 – Ancient road for transporting alum from Koloneia (Şebinkarahisar) to Kerasount (Giresun) port. central western Anatolia, which were the other important alum mine areas in Asia Minor (Evans 1936, p. 43). High quality of alum rock in Koloneia must have been influential for the lower cost of manufacturing. 5.2 Phocaea-Phokeia (modern Foça) and Foglia Nuova (modern Yeni Foça) Another important centre for alum production in Anatolia was Phocaea. Phocaea alum was used particularly for dye making and was exported to the Syrian, Egyptian, Arab, Italian, English, German and French dye makers. The Genoese established themselves as operators after the alum mines were granted by Michael VIII to Benedetto Zaccaria and his brother Manuel around 1275. Benedetto Zaccaria, the Genoan commander and ambassador to Byzantium, received the town as a hereditary lordship; Zaccaria family was also controlling the port of Smyrna. «Zaccaria used his own ships to distribute the alum in different countries, and employed all his diplomatic and military skill to enlarge his markets. In one recorded instance, Zaccaria sold 33 tons of processed alum in Bruges. In Genoa, his home town, he owned a dyeing house and financed a Florentine cloth maker» (Postan 1966, p. 378; see also Lopez 1933 and Sinclair 2020). Cahen argues that Zaccaria is the one who discovers the alum in Phocea, depending on the lack of anterior evidence of exportation before that period (Cahen 2014, p. 239). Genoese controlled the alum trade from Phocaea; untill the 15th century they had the monopoly on Anatolian alum and Ottomans also granted them the monopoly of trade from Manisa. Venetian trade with Ottoman state grew later than Genoese one, in late 14th and 15th centuries, after Ottoman conquest of Aydın and Menteşe, the Turkish emirates, where Venetians have already traded through the ports of Ephesos and Miletos (Friedman, Figg 2013, pp. 464-465; also see Jacoby 2005). After the Zaccaria family, the control of the alum mines in Phocaea passed to the Cattaneo della Volta family. In 1307 Ramon Muntaner, the author of the chronicle of the Catalan expedition in the East, mentioned that there was a Byzantine town with its castle where alum was produced by its 3000 180 fig. 5 – The traces of the mine which is still visible on the hill called Şap Tepesi (Alum Hill) at Foglia Nuova (Yeni Foça) and the port. inhabitants. It is known that three alum mines were operative in those years and according to Pegolotti they produced an amount of 14000 Genoese kantars per annum. After 1346, the Maona (the “association of investors”) of Chios was controlling Phocaea and nearby islands; at that time, Phocaea and Chios mines were auctioned approximately every ten years (Pistarino 1996). In 1356 the Gatillusio family established in Lesbos; from Lesbos they controlled the alum production in the area of northern Aegean. Foglia Nuova (Yeni Foça), which is at the periphery of Phocaea, was set around an harbour; it is predicted that the area was established by Andreolo Cattaneo. The alum deposits of Foglia Nuova are low grade alunite ores and several alum mines were located on the hills around. Phocaea alum (“allume di sorte della buona luminiera”) was a mixture of two-fifths of alum rock, which was coming from Şebinkarahisar, and three fifths of allume corda, produced in Phocaea; this last was very similar to second-quality alum. As well as being traded locally, this alum was sent to Constantinople, Pera and Chios. Phocaea remained a Genoese colony until it was conquered by the Turks, in 1455 (Pistarino 1996). Although there have not been any archaeological surveys about the alum mines, it is still possible to observe the traces of the ancient open cast mines on the hill which is still called Şap Tepesi (Alum Hill) at Yeni Foça (fig. 5). Phocaea used the advantage of its geographical location, being on the coast, versus Koloneia and was a preferred export point by the Italian merchants. Alum production and export were sometimes carried out with the partnership of western merchants and Ottoman Empire, as it was in 1437 in Phocaea, during the period of Murad II. By this time, there was apparently a problem of over production and falling prices (Faroqi 1979, p. 171). These partnerships can be considered as an attempt to control the situation. fig. 6 – “Ferman”-edict of Sultan Bayezid II which is declared in 1488 against the smuggling of alum. system was used. The workers were exempted from some of the customary taxes;. this exemption was abolished in the second half of the 19th century, causing to some extent a decrease on the wages of the workers, who were paid according to the amount they produced from the mine. Smuggling of alum was noted in the Ottoman archival documents. Most probably smuggling was the outcome of both low wages and the Ottoman regulation of monopoly on alum. Sultan Bayezid II has declared a “Ferman” edict in 1488, against the smuggling of alum (fig. 6). Through this edict Sultan gives directions for the depositing all of the production of the area in a guarded safe place and recording and reporting every piece of alum which would be found in the city, no matter if it was alum of Gediz or if it was alum which was brought from Şebin Karahisar to be sold. Administration of Şaphane is bounded directly to the Ottoman court with the name of Şaphaneyi-İdare Amire Müdürlüğü (Administrative Management of Şaphane). The prosperity of the village was so famous that it became a target for the bandits. It is recorded that the Ottoman court supported the establishment of a bigger settlement declaring an edict for invitation of the people to settle there, granting the exemption from taxes and military duties. The settlement became an attraction for the people from different nationalities. Ethnologists mention the existence of the local families with the nicknames of Çinizliler referring to the Cenevizliler and Tönüsler (Tunusians), who had settled in the area in 15th century. 5.3 Kütahya (Kotiaeion – Coltai) – Gediz (Gedos) – Şaphane (place of alum) As was mentioned before, Kütahya region was known for the silver and lead mining activities dating back to the 2500 BC. Pegolotti describes Kütahya alum close to Phokea alum in quality. The production of alum was continued after the conquest of the area by the Ottomans and the iltizam (tax farming) 181 Ç. Özkan Aygün During the Ottoman Imperial era the alum of Gedos was transported with the camels or through the Gedos river to the port of Smyrna to be sold to the Europeans. Sugar and textile was bought in return; in Smyrna the Boulevard of Şaphane (Şaphane Caddesi) still exists. Gedos alum was also exported from the ports of Theologos (Altoluogo), Balat and Antalya (Fleet 1999, p. 87). It is the only mine which nowadays continues the production of alum in Turkey. Canpolat M., 1973, XIV. Yüzyılda Yazılmış Değerli Bir Tıp Eseri: Edviye-i Müfrede, «Türkoloji Dergisi», 5 (1), pp. 21-32. Decker M., Cooper J.E., 2012, Life and society in Byzantine Cappadocia, New York. Ducas, ed. Grecu B.V., 1958, Historia Turcobyzantina (1341-1462), Bucarest. Evans A. (a cura di), 1936, Francesco Balducci Pegolotti. La Pratica della Mercatura, Cambridge Massachusetts. Faroqi S., 1979, Alum Production and Alum Trade in the Ottoman Empire (About 1560-1830), «Wiener Zeitschrift für die Kunde des Morgenlandes», 71, pp. 153-175. Fleet K., 1999, European and Islamic trade in the early Ottoman state: the merchants of Genoa and Turkey, Cambridge. Friedman J.B., Figg K.M., 2013, Trade, Travel, and Exploration in the Middle Ages: An Encyclopedia, London. Gabel L.C., trans. Gragg F.A. (dir.), 1962, Memoirs of a Renaissance Pope; the commentaries of Pius II, an abridgment, New York. 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OTHER MINOR LOCAL PRODUCTIONS 6.1 Cappadocia Kaolin deposits in Cappadocia region contain significant amounts of alunit formations, which are commonly seen in the form of yellow, vitreous crystals. The archaeometrical analysis of the dye, especially the red colour of the Cappadocian frescos, show the presence of aluminum, potassium and sulphur. This findings indicates the use of alum for the production of the dyes for the frescos (Ousterhout 2005, p. 194). It must be remembered that kaolin has been also used for the production of the terra-cotta works manufactured in the Cappadocia zone, which are still being produced. It is probable that alum had been used in the dyes to paint those ceramics. 6.2 Cumali (Camalı) and Scorpiata Cumali, located at the south of Gelibolu, where Genoese merchants actively carried out their trade, was known for its high-quality rock alums (Balard 1978, vol. 2, p. 774). Camalı and Scorpiata were free ports, as it is indicated by a Genoese document dated to 1408, in which sale of alum is described as being free from all expenses and anaris, that is taxes. 6.3 Uluabat (Lopadion) and Kapıdağ (Cyzicus) Pegolotti describes the alum from Kapıdağ as «poco e molto laida» (small and foul), one of the three worst sorts of the product (Fleet 1999, p. 88). The alum produced in Kapıdağ was used for tanning leather. Uluabat alum “allume lupai” was sold in Constantinople and Pera (ibid., p. 89). It was “allume grossetto” and larger than “allume Coltai” and it was exported through Triglia (modern Zeytinbağı or Tirilye). Annual production was 10.000 cantara (Evans 1936, p. 369). BIBLIOGR APHY English abstract Agricola G., 1556, De re metallica, Hoover H.C., Hoover L.H. (eds.), New York 1950. Altunbay M., 2002, Klasik Dönemde Osmanlı’da Madencilik, «Türkler», 10, pp. 792-801. Balard M., 1978, Romanie Genoise, 2, Rome. 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Italian cities have played an important role in the history of alum trade in Asia Minor. Koloneia (today’s Şebinkarahisar) in Northern Anatolia, Gedos (today’s Gediz) in Western Anatolia and Phokaea-Nea Phokaea on the west coast of Anatolia were the main centres of production and trade in Asia Minor. 182 María Martínez Alcalde* EL PATRIMONIO CULTUR AL DEL ALUMBRE EN ESPAÑA. LAS REFERENCIAS DE MAZARRÓN The cultural heritage of alum in Spain. The testimonies of Mazarrón 1. INTRODUCCIÓN arqueológicamente de la explotación del alumbre que sean anteriores al siglo XV, tampoco se puede negar la existencia de alguna actividad relacionada con la piedra alunita, teniendo en cuenta la gran localización de estos depósitos de piedra en el sureste de la península ibérica y el conocimiento confirmado de la alunita en época romana como mineral relacionado con la producción de alumbre, según revelan las investigaciones en el taller de preparación de alunita localizado en Lesbos (Archontidou 2005). Según Picon (Picon 2000, p. 527), también las grandes producciones de Focea de la antigüedad indican quizás una probabilidad de su fabricación y no solo de su hallazgo en estado natural. Herodoto (Historia, II, 180) hace referencia a la gran cantidad de este elemento ofrecida por el faraón Amasis para la reconstrucción del templo de Delfos, volumen demasiado grande como para que fuera factible la probabilidad de ser encontrado en estado natural. Por otro lado, en España la literatura árabe realiza ciertas alusiones al alumbre por parte de Al-Údri, Ibn Galib, Him-yari y Al-Qazwini (Terés Sadaba 1986), como en el caso del alumbre de Niebla (Huelva) como lugar probable donde se extrajese, además del alumbre en Calahonda (Granada) (Igual Luis 2014) y de cierta posible producción en el Cabo de Gata (Almeria) (Puche Riart 2005, p. 91) aunque por lo general parece que en el periodo de la ocupación árabe las minas de alumbre (Jebe) eran numerosas en España. En mitad del siglo XII se hacen ya las primeras menciones al «alumbre de Castilla» que mantiene ciertas referencias hasta el Trescientos 3. Aunque no se conocen sus localizaciones, Alfonso X el Sabio, Rey de Castilla, menciona el alumbre «… de la piedra a que dicen axep y en latín alumbre [… ]» en su Lapidario. Libro de las piedras según los grados de los signos del zodíaco 4. En diferentes lugares de España ha habido producciones del alumbre en ciertos periodos de la historia, pero según la zona geográfica las minas de alumbre son de diferentes características geológicas. Como ha quedado dicho, en la zona de Aragón tienen relación con la minería del carbón (Lignitos Piritosos), mientras que aquel alumbre procedente de los criaderos de alumbre del sureste de España es de origen volcánico y tiene como protagonista a la piedra alunita, una roca magmática, denominada Traquita Alunífera, que es el resultado de alteraciones de rocas ricas en feldespato potásico como la Traquita, que se suelen producir por medio de circulación de aguas ricas en sulfatos. El alumbre era un elemento imprescindible en las antiguas industrias textiles que actuaba como sustancia intermedia entre el colorante y el tejido debido a sus propiedades fijadoras y estabilizadoras. Su empleo como mordiente en el proceso de tintado de los paños propiciaba el desgrase de las fibras del tejido, al mismo tiempo que la fijación de los colorantes para conseguir un teñido estable de las telas. En el proceso del teñido, al introducir las fibras limpias y sin grasa en un baño de colorante disuelto y sometidas a cocción, se producen en los textiles una serie de cambios físicos, como el aumento del tamaño de los poros de los tejidos, al mismo tiempo que se produce un intercambio por osmosis entre el agua de los espacios libres de las cadenas moleculares de las fibras y el tinte, con aumento de las vibraciones moleculares que conlleva el debilitamiento de ciertos enlaces de su estructura. El mordiente se aplica en las teñidos de tejidos porque el último paso podría revertir y el tinte perderse al lavar la prenda o al exponerse al sol, a la luz, a lo largo del tiempo, si no se ha utilizado un producto mediador en el proceso, es decir, un “fijador”, como es el caso del alumbre, elemento que produce esa reacción química rompiendo los enlaces hidrogenados para que las moléculas de tinte puedan unirse a ellas formando nuevos enlaces de manera irreversible 1. El alumbre era ese elemento que favorecía esta reacción química, por lo que era muy cotizado y ya conocido desde época antigua. Además, tenía otras utilidades como curtido de pieles, iluminación de códices, elaboración de vidrieras, tratamiento de pergaminos, incluso en medicina, aplicándolo como antihemostático. 2. EL ALUMBRE EN ESPAÑA Y SUS REFERENCIAS HISTÓRICAS Plinio, en su Historia Natural, hacía referencia al término “alumen” englobando en él varios elementos distintos y con diferentes funciones utilizados en la industria de los tintes. Además, menciona a “Hispania” 2 como uno de los lugares donde conseguir alumbre. Si bien y hasta el momento en España todavía no hay testimonios materiales documentados * Arqueóloga Municipal del Ayuntamiento de Mazarrón (Murcia), Museo de Mazarrón. Factoría Romana de Salazones (martinezalcaldemaria@gmail.com). 1 Descripción completa del tema de la tintorería en la antigüedad en Roquero 2002. 2 Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 52, 183-184 «Los lugares que lo producen son España, Egipto, Armenia, Macedonia, el Ponto, África, las islas de Cerdeña, Melos, Lipari y Strongyle». 3 4 183 Igual Luis 2014, citas bibliográficas en nota 11. Disponible en http://habilis.udg.edu/media/astro/files/lapidario.pdf. m. Martínez Alcalde 3. EL ALUMBRE ESPAÑOL DE LA CORONA DE AR AGÓN: UN ALUMBRE PRODUCIDO A TR AVÉS DE LIGNITOS PIRITOSOS En territorios de la Corona de Aragón, se constatan inicios y arranque de incipiente actividad en torno a los años 146162 en un área de la ribera baja del río Jiloca, Paracuellos de Jiloca, en las cercanías de la ciudad de Calatayud (Zaragoza), con unas técnicas casi desconocidas en la región a fines de la Edad Media y que posteriormente fueron más desarrolladas en el Bajo Aragón, si bien las minas del bajo Jiloca, debían ser en realidad explotaciones de carácter modesto (Morales Gómez 2016: pp. 543, 561). Las experiencias posteriores del alumbre español de la Corona de Aragón se centraron geográficamente en el área de Teruel, siendo obtenido mediante la transformación de los lignitos piritosos y no de la piedra alunita, lo que le hacía diferente del italiano y del murciano por su distinta materia prima. Estas capas de lignitos se formaron en el periodo mesozoico a través de la estratificación de restos vegetales que fueron sepultados por aportes fluviales y donde posteriores plegamientos y relieves sucedieron factores erosivos del terciario que acabaron configurando, modelando y conformando un territorio donde afloraron de manera intermitente los plegamientos de las capas de lignito localizados en diferentes e importantes puntos y que se convirtieron en posteriores recursos mineros. Estos alumbres estaban localizados fundamentalmente en la Comarca de Andorra-Sierra de Arcos y del Bajo Aragón, en las poblaciones de Alcañiz, Alloza, Ariño, Estercuel, Cañizar y Crivillén, además de en algunas otras, vinculando esta actividad a las necesidades de alumbre en la producción de la industria textil aragonesa durante el siglo XVI. Este alumbre de Aragón, fabricado a partir de esas capas de lignitos denominados “tierra alumbrosa o de alumbre”, está formado por lignitos arcillosos que contienen pirita de hierro y azufre. En origen, el compuesto carecía de sulfato potásico creándose éste través de diferentes operaciones y añadiéndose como parte de las operaciones necesarias hasta completar la formula del alumbre (doble sulfato de alúmina y potasio). Este proceso de obtención del alumbre aragonés podría resumirse de la siguiente manera; los lignitos, que tienen la textura de la tierra y el color negro del carbón, se extraían mediante la técnica de galerías. Una vez extraída la tierra de la mina, se depositaba en superficies exteriores denominadas “plazas” que es el lugar donde se producía una fase, de una duración entre 6 meses a 1 año, de autocombustión espontanea en contacto con el oxígeno exterior. La tierra ya calcinada estaba constituida por una mezcla de sulfato alumínico soluble, sulfato ferroso soluble y sulfato férrico básico insoluble. Posteriormente, la tierra quemada era trasladada a unos pozos o balsas donde se le añadía agua. El líquido de esa disolución se conducía a través de un canal hasta una caldera y en este proceso de lixiviación se obtenía la separación de los dos elementos solubles y se eliminaba el sulfato ferroso por repetidas evaporaciones y cristalizaciones, hasta aislar el sulfato alumínico. A este último elemento era necesario añadirle luego una “lejía” (sulfato potásico) que era fabricada a partir de las cenizas de la tierra; y con este último fig. 1 – Restos de una fábrica de alumbres en Val de Ariño (foto: Josefina Lerma). aditivo se obtenía el producto deseado: doble sulfato de aluminio y potasio. El producto resultante era posteriormente sometido a varios procesos de cristalizaciones sucesivas hasta completar su calidad. Apenas quedan restos de las industrias de alumbre en la provincia de Teruel (fig. 1) ya que, como hemos dicho, las explotaciones de carbón del siglo XX destruyeron aquellas antiguas instalaciones. La zona más activa fue una cuenca denominada Val de Ariño, situada entre los pueblos de Ariño, Andorra y Alloza. A esta última localidad es a la que se refiere Pascual Madoz, en 1845, mencionando que en Alloza (Teruel) «[… ] se benefician muchas minas de alumbre cuya clarificación deja a los vecinos crecidas utilidades[… ]» También la elaboración artificial del alumbre a través de lignitos piritosos hacía factible la obtención de un segundo producto denominado “caparros” o “caparrosa”, compuesto de sulfato de hierro, que también tenía ciertas propiedades fijadoras en los tejidos, aunque de mucha menor calidad que el alumbre (Lerma Loscos 2005). En el siglo XVIII se continúa la fabricación del alumbre en la Comarca de Sierra de Arcos, de Teruel, con ciertas mejoras en las técnicas de fabricación; y en el archivo de la Real Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País se conservan documentos al respecto y un plano de una fábrica de alumbre (fig. 2), diseño de Joaquín Garay 5. Dentro de la denominación de alumbre de Aragón también se encuentra el caso del alumbre de Casa Carrillo, próxima a los municipios de Igea y Cornago (La Rioja), que, según E. Cooper, su momento de mayor auge estuvo en los años sesenta del siglo XV y fue anterior al descubrimiento de los alumbres murcianos, ya que indica que en 1465 se tienen noticias de que se extraía alumbre en Casa Carrillo (Cooper 2008). También, según Cooper, su producción está relacionada con un mineral denominado jarosita (Cooper 2008, p. 316). Aunque a nivel mineralógico puede existir cierta confusión con ese mineral (que en ocasiones se denomina piedra 5 Forma parte del expediente “Garay de Oca, de Alloza, sobre minas de alumbre y caparroso”, con Nº de registro 1782-17/* del archivo de la Real y Excma. Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País. 184 El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón fig. 2 – Plano fabrica diseño Joaquín Garay. Expediente “Garay de Oca, de Alloza, sobre minas de alumbre y caparroso”, con N. de registro 178217/* del archivo de la Real y Excma. Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País. y la calinita, que es otra forma de sulfato doble de aluminio y potasio pero con otra cristalización y menos hidratado. En Cornago, donde estaban los edificios construidos para la explotación de alumbre, parece que en la actualidad solo quedan los restos de cimentación de una antigua torre, propiedad del arzobispo Carrillo, titular de la alumbrera de Cornago 7. Este yacimiento de Casa Carrillo y la mayoría de estos yacimientos no fueron muy duraderos en el tiempo y parece que su rendimiento económico fue escaso, aunque sí fueron más duraderos los de las producciones del siglo XVI (Lerma Loscos 2005) de la zona de Andorra y Sierra de Arcos, en la actual provincia de Teruel (Pizarro Losilla 2007). De la actividad del alumbre de la Corona de Aragón quedan muy pocos restos de fábricas, pero sí algún ejemplo de torre relacionada con el control de las instalaciones del alumbre, como en el caso de la población de Ademuz, que actualmente pertenece administrativamente a la comunidad autónoma de Valencia, donde se conserva una torre denominada “Torrealta de Ademuz” (fig. 3), perteneciente a la antigua propiedad de la familia Garcés de Marcilla. fig. 3 – Torre Alta de Ademuz (Valencia). Vista del torreón de los Garcés de Marcilla desde la calle del Remedio (foto: Alfredo Sánchez Garzón, disponible en https://www.desdeelrincondeademuz.com/2011/10/ el-torreon-de-torrealta-torrebaja.html. alumbre) y la alunita, lo cierto es que la jarosita es un sulfato doble de hierro y potasio (KFe33+(SO4)2(OH)6), y la alunita es sulfato doble de aluminio y potasio. Esto quiere decir que son minerales análogos, aunque se diferencian por la presencia de aluminio o hierro, siendo la jarosita de características insolubles en agua. Por otro lado, la jarosita es un mineral muy escaso en la naturaleza y debido a esa escasez y a sus características mineralógicas no se considera que, en realidad, haya sido utilizado para ningún uso industrial. En relación a esto, consultas realizadas a ingenieros de minas 6 sugieren que tal vez pudiera haber casos de confusión con la jarosita El Alumbre de Castilla, tiene como materia prima para su producción la piedra alunita (traquitas aluníferas) y sus criaderos se han localizado históricamente en el sureste de la península ibérica. Los centros españoles de producción Agradecemos el asesoramiento e información al ingeniero de Minas Ignacio Urcelay Verdugo 7 Ovejas M. (s.f.), La casa carrillo en casa de Cornago. Disponible en http://www.google.es/search?hl=&q=donde+se+construyo+la+casa+carrillo&sourceid=navclient-ff&rlz=1B3GPCK_esES429ES430&ie=UTF-8. 4. EL ALUMBRE ESPAÑOL DE CASTILLA: ALUMBRE DE PIEDR A ALUNITA. REFERENCIAS GENER ALES DEL ALUMBRE EN ESPAÑA Y ALGUNOS DATOS ANTERIORES AL SIGLO XV EN MAZARRÓN 6 185 m. Martínez Alcalde 5. MAZARRÓN (MURCIA) Y LA MINERÍA. RESEÑA HISTÓRICA Históricamente, la población de Mazarrón se ha visto favorecida, por su proximidad a la costa, con una bahía muy protegida y buenas condiciones geográficas naturales siendo, junto a La Unión y Cartagena, el foco minero más importante de la Región de Murcia desde la antigüedad (Martínez Alcalde 2005), aportando documentación sobre importantes yacimientos metalíferos (cobre, hierro, plata, plomo) que fueron motivo de actividades extractivas de una larga tradición, con precedentes que se remontan ya a la Edad del Bronce (Ayala Juan 1980). En época ibérica, se hipotetizó con el posible abandono de los núcleos costeros de los ss. IV-III a.C., debido a una presión de los cartagineses sobre las poblaciones del litoral para emplearlos como mano de obra en las minas (Lillo Carpio 1980). Aunque no hay datos arqueológicos exactos que aporten información sobre esa posible explotación minera del área en época bárquida, es posible imaginar el gran interés de Cartago en Mazarrón, al tratarse de una zona muy rica en minerales y cercana a Cartagena, gran centro neurálgico de la época, como atestiguan algunos aportes de la historiografía arqueológica, como es la publicación del tesorillo hispano-cartaginés del Saladillo, a mediados del s. XIX (Zobel De Zangroniz 1863), y también las afirmaciones de Boeck, en 1889, que menciona en sus trabajos el hallazgo en el Coto Fortuna (Boeck 1889, pp. 17-19) de monedas hispano-cartaginesas. Así mismo, Diodoro, en su Biblioteca Historica (V-36, 37) menciona la zona de Cartagena con minas que fueron abiertas por los cartagineses, pudiendo ser extensivo a su hinterlang en el que se integraría Mazarrón. La actividad minera ya llega a su gran expresión en época romana cuando desde la primera mitad del siglo II a.C. diversas fuentes escritas y arqueológicas aportan datos sobre el laboreo minero en la zona de Mazarrón, vinculado a su riqueza mineral, y añadido a sus excelentes características geológicas, fácil acceso por el mar y a su gran proximidad a Carthago Nova, centro de distribución de las materias primas manufacturadas. Así mismo, se considera al subsuelo mazarronero como foco de atracción de gentes itálicas, a través de referencias y determinadas inscripciones, alguna hallada en el Coto Fortuna de Mazarrón 8. Mazarrón cuenta, además, con la presencia de bastantes yacimientos arqueológicos vinculados con la minería o la metalurgia que están reflejados actualmente en la Carta Arqueológica regional. Existe incluso una mina a cielo abierto denominada “Corta Romana”, una mina de difícil análisis cronológico, porque por un lado está considerada tradicionalmente asociada a la cultura romana pero, al mismo tiempo, se la relaciona con procesos productivos del alumbre del siglo XVI y posteriores. Teniendo en cuenta que la minera es una fig. 4 – Torre de los alumbres de Rodalquilar (Almería) Disponible en: https://www.ideal.es/almeria/provincia-almeria/fortificacion-llego-poner-20180325002620-ntvo.html). de este alumbre han tenido como máximo representante a la zona de Mazarrón (Murcia), aunque en el sureste español también existieron otros menores focos de obtención de alumbre mediante la extracción de alunita que también están históricamente documentados. En Xiquena, dentro del término de Lorca (Murcia), el marqués de Villena ya desarrolló una pequeña explotación de alumbre entre 1459 a 1460 y desde 1469 a 1471 (Cooper, Mirete Mayo 2001, p. 104), pero, aunque luego también allí se intentaron reactivar las labores del alumbre en los años noventa del XV, no se obtuvo demasiado éxito. Otra mina del sureste español estaba localizada en Rodalquilar (Almería) y fue descubierta en 1509, aunque parece que su existencia fue más efímera que Mazarrón porque ya en 1537 la explotación cerró tras el arriendo del marques de los Vélez a Gaspar Rotulo para evitar competencias internas y con el interés de controlar el monopolio de la exportación del alumbre murciano en Mazarrón. De estas minas, en Rodalquilar queda como vestigio una imponente torre fuerte de control de las instalaciones del alumbre almeriense (fig. 4). Respecto a las minas de Lorca y Cartagena, en esta última se descubrió un yacimiento de alumbre en el Cabezo Roche, en las cercanías de la actual población de Alumbres, topónimo que se mantiene a día de hoy y que evidencia su pasado como foco minero. También existen noticias de minas en Lorca en documentos desde el siglo XIV, aunque formalmente son descubiertas en 1525 teniendo como propietario a Francisco de los Cobos, secretario de Carlos V. Esta presencia de Francisco de los Cobos en el negocio del alumbre produce incomodidad ya que pone en peligro la exclusividad y el monopolio de Mazarrón por lo que en 1528 los propietarios de Mazarrón llegan a un acuerdo para mantener su exclusividad comprando la propiedad de Lorca y Cartagena a Francisco de los Cobos, con el compromiso de éste a la renuncia a la explotación. La fábrica de Cartagena es de nuevo clausurada en 1551 por idénticos motivos (evitar competencias con Mazarrón) tras los acuerdos de los herederos de la compañía Grimaldi que en ese momento eran gestores de la exportación del alumbre murciano (Franco Silva 1980). 8 Ramallo Asensio 1980, p. 296; Rostovtzeff 1937; Menéndez Pidal 1960, ELH 1, pp. LIX-LXVIII); Gabba 1954, han indicado esta cuestión siguiendo a Diodoro sobre las migraciones itálicas y su incidencia en las zonas mineras peninsulares. También relacionada con concesiones mineras el caso C.VTI.C.F.MENEN que aparece en dos lingotes de plomo hallados en una finca del municipio de Mazarrón según Ramallo Asensio, Arana Castillo 1985. 186 El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón Mazarrón, que más tarde sería el centro y foco más importante de producción del alumbre de Castilla, existen alusiones en la documentación aragonesa como la donación de las minas de axeb o alumbre de Mazarrón (Calentín) 9 y, también de la zona de Cartagena, por Enrique II a don Juan Sánchez Manuel, en 1373 (Pascual Martínez 1983, pp. 192-193). 6. INICIOS DE LA EXPLOTACIÓN DEL ALUMBRE DE CASTILLA DE LOS SIGLOS XV Y XVI. LOS ALUMBRES DE ALMAZARRÓN (MAZARRÓN, MURCIA) En la segunda mitad del siglo XV se produce oficialmente el descubrimiento de las canteras de alunita en Mazarrón y el rey Enrique IV concede la explotación de todo el alumbre murciano, en 1462, a Juan Pacheco, Marqués de Villena, que comparte la mitad con Pedro Fajardo, familia de los futuros marqueses de los Vélez, siendo ambas familias las dueñas de las explotaciones del alumbre murciano durante los siglos XV y XVI. A final del siglo XV, en una zona localizada a unos 7 kilómetros de la costa de Mazarrón, en un territorio inhóspito, deshabitado, vulnerable y expuesto continuamente a la piratería de la frontera marítima con el norte de África se instalan las primeras fábricas de alumbre. Junto a ellas comienza a crecer una pequeña población a la sombra y en función de las instalaciones productoras de alumbre castellano. Al principio, eran pequeños núcleos diseminados y se llamaron “Casas de los Alumbres de Almazarrón” y dependían administrativamente del Concejo de Lorca, hasta que en el año 1572 el rey Felipe II les concedió la independencia y se produjo la segregación de Lorca. No se sabe exactamente en qué año se realizó la primera producción de alumbre en estas fábricas, pero sí consta que en 1486-1487 un navío español desembarcó alumbre de Mazarrón en el puerto de la Esclusa (Amberes) (Ruiz Martín 2005, p. 52) lo que sugiere que las fábricas en 1485 ya debían estar en funcionamiento y produciendo cantidades importantes; y además, a comienzos del siglo XVI parecen llegar cantidades importantes de alumbre de Mazarrón a los Países Bajos, mercado natural del alumbre español, así como a Inglaterra y Francia, como clientes importantes. Hasta 1568 el alumbre de Castilla fue un excelente negocio y de gran rentabilidad, pero a partir de esa fecha Felipe II prohibió su exportación a Inglaterra y también la venta a Flandes y Francia debido las guerras de religión, circunstancias que abocaron al inicio de la ruina del alumbre murciano, cuestión que finalmente se produjo más acusadamente a partir de 1572, cuando ya existía en Mazarrón una población establecida de 479 personas y un núcleo urbano consolidado. Con la caída de las producciones por la falta de ventas y los elevados impuestos de Felipe II, se desencadena el abandono de las fábricas y el almacenamiento de grandes cantidades de producto sin posibilidad de venta, y a finales de 1592 las arruinadas fábricas de Mazarrón cierran definitivamente. fig. 5 – Galería en la corta romana (foto: María Martínez Alcalde) actividad de carácter extractivo y que todos los trabajos mineros trasforman y destruyen los restos de las labores mineras anteriores, es difícil cualquier análisis y reconocimiento de sus diferentes etapas cronológicas ya que muy frecuentemente se pierden las huellas de las actividades anteriores por la incidencia en los mismos frentes y depósitos de minerales hasta su agotamiento, rutinas que suelen conllevar los métodos de laboreo minero y es por ello que quizás sea factible que sí se hubiesen utilizado estas canteras de alunita en diversos momentos de la historia. La “Corta romana”, también denominada “cantera del Charco de la Aguja” (o “cantera del Charco de las Pedreras Nuevas”) tiene grandes dimensiones y conserva un frente extractivo de una longitud aproximada de unos 400 metros y una gran profundidad, hoy en día parcialmente oculta por escombreras y sedimentos de minería contemporánea. Descripciones de algunos autores del siglo XIX, como Botella y Hornos y Gonzáles Simancas, hablan de haber comprobado allí obras mineras que son modelos perfectos de minas de época romana, y así Gonzáles Simancas, en su obra Catálogo Monumental de la Provincia de Murcia, aporta datos en relación a esta cantera cuando escribe: «… abiertas, sin duda para el ataque de los de los afloramientos y aprovechamiento del alumbre, las más notables son las de la mina Jabalina, y la del Charco de las Pedreras, corte este último que tiene una profundidad de 60 metros por unos 400 metros de longitud y 100 metros de anchura con galería de desagüe en la parte SO, constituyendo modelo perfecto de minas de época romana …» (González Simancas, I, p. 382.). De esta cantera, investigadores contemporáneos también indican que aunque la actividad más intensa en época romana (fig. 5) era la extracción del plomo y la plata, una parte también se podría dedicar a la producción del alumbre (Manteca Martinez, Guillen 2005, pp. 99-102), pero esto último hasta la fecha no está probado arqueológicamente. En época árabe, las primeras menciones del lugar de Mazarrón datan de los ss. XII y XIII, ya que las fuentes árabes hablan de la zona con el nombre de “Susaña” (Mazarrón = Susaña). A esto se añade, además, que la antigua denominación de Mazarrón, “Almazarrón”, parece proceder de la voz árabe al-mezer (ocre o rojo) vinculada a las coloraciones del subproducto de la tierra roja de la producción de alumbre de alunita (almagra o almagre). En el siglo XIV con respecto a la zona de 9 Se constata en el XIV la posible existencia de minas de alumbre bajo control cristiano en las zonas de Mazarrón y Cartagena en: Ferrer I Mallol 2005, pp. 173-174; Munuera Navarro 2011, p 149 nota 13. 187 m. Martínez Alcalde 7. PATRIMONIO HISTÓRICO DE LA EMPRESA DEL ALUMBRE DE LOS SIGLOS XV Y XVI EN MAZARRÓN. LA FÁBRICA VIEJA DE ALUMBRES de sus componentes. Estos líquidos resultantes de la decantación se recogían mediante un sistema de canales, también conectados con unos vasos, dirigidos a un receptáculo en el interior del edificio de la fábrica. El líquido se canalizaba hacia un depósito general de aguas madre, donde se decantaba otra vez y se separaban del resto de impurezas existentes. El siguiente paso era la evaporación del agua para obtener un producto que cristalizase, fase ésta que se realizaba sometiendo el agua madre al calor de unos hornos, dotados de chimeneas individuales para la extracción de humos, que calentaban las calderas donde se cocía y evaporaba el líquido. Tras estas fases de cocción y evaporación, con incorporaciones de aguas limpias que purificasen el producto, se dejaba reposar en la batería de pequeños y numerosos contenedores interconectados por un sistema de canales de conducción, donde finalmente se solidificaba cristalizándose. Una vez desmoldado el producto se trasladaba al secadero donde ya seco concluía el proceso y se preparaba para su trasporte y posterior venta. Las fábricas de alumbres respondían a un esquema de características comunes para realizar trabajos en dos zonas bien diferenciadas, una al aire libre y otra interior. En la primera se realizaba la cocción de la piedra alunita, con dos tipos de estanques o balsas, unos de mayor tamaño donde realizar las fases iniciales de decantación de componentes, y otros más pequeños para recoger el líquido en un posterior paso del proceso. Este ámbito exterior donde estaban los hornos de calcinación y las balsas, se solía ubicar próximo a las canteras de extracción denominadas “pedreras”. Las canteras de la extracción de la alunita forman parte del paisaje de la zona de Mazarrón, donde se conservan varias y de las que de alguna de ellas existen documentos de su explotación en el siglo XVI, como la pedrera del Portichuelo y la cantera de Pedreras Viejas (fig. 9). En la Fábrica Vieja de Alumbres, los hornos de calcinación de piedra alunita conservados mantienen en alzado un conjunto de dos hornos de unas medidas de diámetro interior en torno a 2,25 m y 3 m de profundidad 12. Junto a estos hornos, se localiza una serie de piletas de diferentes tamaños y capacidades para la lixiviación del producto, decantaciones sucesivas y recogida de aguas madre. Unas de ellas forman un conjunto compartimentado en cuatro elementos de unas dimensiones de unos 2,50 m de ancho por 4 m de longitud, aproximadamente, y en torno a 1,50 m de profundidad. La instalación, obviamente, necesitaba estar próxima a recursos acuíferos (riachuelo o rambla) por la necesidad de un sistema de suministro de aguas, mediante una aceña o noria, un pozo y una red de canales. Esa red de canales disponía de un sistema de conducciones mayores y otro que conducía las lejías a otro depósito general, donde éstas se reunían antes de ser guiadas al interior del edificio de la fábrica, donde se realizaban las mencionadas restantes y últimas partes del proceso. El sistema de los hornos se configuraba en una línea o batería de estos elementos en número diferente. Hoy en día en Mazarrón se conservan algunas ruinas de fábricas de alumbres aunque la más significativa se la conoce como la “Fábrica Vieja de Alumbres” 10(fig. 6). Esta fábrica, aunque de cronología indeterminada y en espera de alguna investigación arqueológica que aclare sus diferentes momentos de uso, tiene posiblemente distintas fases, reformas y remodelaciones realizadas en diferentes momentos de su historia, pero globalmente parece ajustarse al esquema básico de los tipos de las instalaciones de alumbres antiguas, tanto en su estructura y organización como en su probable sistema de funcionamiento. La fábrica conserva (figg. 7 y 8) los hornos de calcinación de piedra alunita, las piletas de diferentes tamaños y capacidades, además de la base de una antigua noria que abastecía de agua al conjunto y restos de un edificio donde de realizaba la última parte del proceso de la fabricación del alumbre. El edificio mantiene todavía algo de su alzado, aunque en muy malas condiciones, siendo una obra de cal, piedra y ladrillo, en la que se distingue una nave central, posiblemente relacionada con la antigua sala de calderas, sobre la que se conservan restos de una cubierta construida por bóveda de aristas confeccionada en ladrillo. Esta fábrica está situada junto al coto minero de “San Cristóbal y los Perules”, que es la zona donde estaban, en los siglos XV y XVI, las primeras fábricas situadas en la falda noroeste del cabezo de San Cristóbal (Alonso Navarro 1974, p. 131). Resumiendo brevemente, la elaboración del alumbre 11 de alunita se inicia a partir de la piedra ya extraída y cocida en hornos de calcinación. Una piedra que debe humedecerse hasta su descomposición en un polvo fino que más tarde se lixivia con agua y se decanta, entre otros procesos, terminando por cristalizar el alumbre. Más detenidamente, podríamos empezar describiendo estas labores con la calcinación de la alunita en hornos, tras lo cual era necesario regarla con agua dos veces al día, mañana y tarde, facilitando su disgregación para posteriores fases de separación de componentes y decantación. El riego de la piedra se realizaba introduciéndola en unas estructuras de forma rectangular denominadas balsas o piletas, aunque también es posible que previamente se triturara para agilizar el proceso de segregación de sus componentes. Este paso posterior tras la cocción de la piedra y trituración opcional del producto era una lixiviación obligada, en la que se sometía al contacto con agua abundante para obtener entonces la primera disolución 10 Fabrica integrada en la Declaración de Bien de Interés Cultural con categoría de “Sitio Histórico de la zona minera de San Cristóbal-Los Perules” en Mazarrón (Murcia). Decreto nº 297/2008 de 26 de septiembre del Consejo de Gobierno de la Comunidad Autónoma de la Región de Murcia,. BORM nº 240, fecha 15 de octubre de 2008. 11 Una descripción del las fases de fabricación del alumbre a partir de piedra alunita donde se describe el funcionamiento y componentes de una fábrica de alumbres renacentista según un documento del siglo XVI de autor anónimo denominado Los veintiún libros de los ingenios y las máquinas, atribuido a Juanelo Turriano, se puede encontrar en Martinez Alcalde 2006. 12 Existe una diferencia de tamaño entre los hornos de Mazarrón y los horno de la alumbrera de Monteleo en Monterrotondo Marittimo (en Dallai, en este volumen), siendo parece ser de mayores dimensiones los españoles 188 El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón fig. 6 – Fabrica Vieja de Alumbres. Detalle del edificio (foto: María Martínez Alcalde). fig. 7 – Vista aérea de los restos de estructuras conservados de la Fabrica Vieja de Alumbres. En la parte superior derecha de la imagen hornos y conjunto de cuatro grandes piletas. En el centro de la imagen planta del interior del edificio de la fabrica y junto a ella, a la izquierda de la imagen, conjunto de decantadores (foto: Fundación Integra-Digital. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia). fig. 8 – Vista frontal de los hornos de la Fabrica Vieja de Alumbres (foto: María Martínez Alcalde). fig. 9 – Canteras y hornos del conjunto en el Coto Minero de las Pedreras Viejas (foto: María Martínez Alcalde). 189 m. Martínez Alcalde En el área de la Fábrica Vieja de Alumbres se ha realizado una única intervención arqueológica con motivo del programa de corrección y valoración de impacto medio-ambiental del proyecto de obras de la autopista de peaje Cartagena-Vera 13, ejecutado en la parte afectada donde las estructuras resultaron dañadas a consecuencia de las obras de construcción de la rotonda “salida de Mazarrón” y, básicamente, se centró en el conjunto de balsas de decantación de la zona noreste de la Fábrica Vieja de Alumbres. La intervención arqueológica, realizada en 2007, documentó la existencia de siete balsas de poca profundidad, cuyo suelo está realizado en argamasa y cal, y en algunos casos mezclados también con pequeñas piedras. Tomando como ejemplo el caso de la denominada “Balsa 1”, sus dimensiones eran de 7,40 m de largo y 6,06 m de ancho, con unos muros cuyo grosor era de entre 0,36 m y 0,39 m, y un alzado medio de 0,22 m, lo que indica que la escasa profundidad de este conjunto de balsas (documentadas en la intervención de 2007) podría estar asociada a la fase final de los procesos de decantacion. La estratigrafía aportó escaso material arqueológico, limitado a cerámica moderna correspondiente a fragmentos de contenedores, lo que indica que la amortizacion del conjunto se vincula con procesos productivos de finales del siglo XIX. están confeccionados mediante la disposición concéntrica de tres o cuatro hiladas de ladrillo macizo, siendo este acceso superior, posiblemente, el lugar de carga del mineral. Abajo, en el nivel inferior del monte, están los accesos frontales, las bocas de fuego para suministro de la madera como combustible; aquí se accede al interior de los pozos por unos vanos rematados en arco de medio punto muy rebajado; esta sería también la probable zona de descarga y salida del material una vez calcinado. Las dimensiones oscilan en torno a diámetros inferiores de 2,15 m y 2,55 m para el brocal superior; la altura del conjunto de la estructura es de 4,55 m. y los mencionados vanos frontales para el suministro de combustible y posterior descarga miden 1,70×1,67 m. Uno de esos vanos sufrió una remodelación y su altura se encuentra rebajada, pues originalmente era igual que las otras tres. El interior de los hornos está revestido de ladrillo refractario en sus tres terceras partes; la parte más alta, cercana al brocal de la terraza superior, es de piedra. Los hornos se encuentran hoy en día visiblemente detenidos en diferentes partes del proceso: uno de ellos muestra el material sin calcinar; en el siguiente se encuentra detenido a mitad del proceso de calcinación y el material ha adquirido un tono amarillento; en el tercero, con la coloración roja, ya se ha completado el proceso de combustión, y por último, el cuarto pozo ha sido vaciado. Otro ejemplo de hornos son los del conjunto concesión “Mina San Francisco”, del coto minero de las “Pedreras Viejas”, que también son de gran capacidad, aunque en la zona baja de este mismo coto existen otros de menores dimensiones. Están localizados al pie de la cantera de alunita y se conservan cinco, realizados sobre el recorte del monte en una terraza, a la que se le adosa la obra, en tres frentes angulados, de unas dimensiones de 6 m, 12,60 m y 8,90 m. A la parte elevada de la estructura se accede por la terraza superior, cuyo diámetro interior, de forma elíptica, es de una medida en torno a 3,32 m en sentido este-oeste, y 3,72 m en sentido norte-sur, con una profundidad de 2,08 m. A la boca del horno se accede por la zona baja del terreno. La boca del horno mide 2,40 m de alto×1,70 m de ancho, con forma de arco de medio punto un tanto irregular. En el interior del horno, en la zona inferior, se dispone una parrilla realizada con hiladas de ladrillo macizo. El resto de la obra está construido con piedra de alunita, con unos muros en talud, más marcados en la zona inferior y que adquieren una anchura de 0,90 m. Algunos de estos hornos están cargados de piedra alunita que fue sometida a calor y con la coloración roja característica. Otros de los hornos del coto de las “Pedreras Viejas” se encuentran en la parte suroeste, en la falda del coto, y conservan además algunos otros restos de estructuras de la alumbrera, como balsas o piletas y restos de un edificio. 8. RESTOS DE OTR AS FÁBRICAS DE ALUMBRES Otro conjunto es el de la fábrica Vista Alegre, ubicada en la parte noroeste del coto minero de “San Cristóbal y los Perules”, que conserva una serie de hornos. En las fábricas de Mazarrón, los hornos suelen ser, la mayoría, de gran capacidad pero de variables formas y dimensiones, aunque estos hornos de calcinación de alunita de Vista Alegre son de los mejores conservados y los que registran mayor tamaño. Se localizan junto a un grupo de estructuras semiderruidas para el servicio de una cantera de alunita (cantera de “El Portichuelo”) que se conserva en buen estado. Estos hornos se hallan unidos y distribuidos mediante una disposición en forma de “L”, con dos frentes de 13 m y 11,50 m, y que se encuentra adosada al monte que se ha recortado y aterrazado para tal fin. Los hornos del conjunto de Vista Alegre 14 son cuatro y están situados, por parejas, en cada uno de los lados de la estructura; están hechos de piedra y cal, y son de tendencia troncocónica invertida, donde la parte inferior es más estrecha que la superior. El acceso a su interior se realiza de dos modos: por la parte superior, a través de una terraza en la que se disponen unas perforaciones a modo de pozos que conservan alguna de ellas el anillo de delimitación o brocal. Los anillos 13 Informe excavación de urgencia disponible en “Servicio de Patrimonio Histórico de la Dirección General de Bienes Culturales de la Comunidad Autónoma de la Región de Murcia”, numero de Expdiente del Servicio de Patrimonio Histrorico 186/2007, redactado por Alejandro Paredero Pérez (Arqueotec Arqueología Técnica Y De Gestión), Memoria arqueológica fábrica vieja de alumbres (Mazarrón) autopista Cartagena-Vera tramo III Ploder S.A.-FCC Construccion S.A UTE. 14 Datos extraídos de las fichas de catalogación de estos conjuntos mineros en Martinez Alcalde 2004, Catálogo del Coto minero de las Pedreras Viejas. Documento disponible en el Servicio de Patrimonio Histórico. Dirección General de Bienes Culturales de la Comunidad Autónoma de la Región de Murcia. 9. LOS YACIMIENTOS ARQUEOLÓGICOS DEL ENTORNO DE LA FÁBRICA VIEJA DE ALUMBRES Próximo al conjunto conocido como Fábrica Vieja de Alumbres y al noroeste del pueblo de Mazarrón, al pie del coto minero de “San Cristóbal y Los Perules” y en la delimitación del yacimiento arqueológico “Cantarranas”, existen 190 El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón restos de otro posible conjunto donde todo su entorno también muestra restos de la tierra roja (almagra) como sedimento o subproducto de las producciones de alumbre. Las instalaciones se localizan al pie de un pequeño cerro denominado “Cantarranas”, cerca de las inmediaciones de la rambla de las Yeseras en el que existe la cimentación de una torre adscrita culturalmente en la Carta Arqueológica Regional al mundo medieval cristiano. En su entorno arqueológico existe un extenso almagral que se extiende hasta la rambla y ocupa una superficie de terreno de aproximadamente 1.500 m². Se hace difícil precisar, hasta el momento, la cronología de esa instalación 15, en la que se localiza la planta del conjunto 16 definida por espacios cuadrangulares de muros de mampostería mediana trabada con yeso. Estos son cinco espacios de unas dimensiones aproximadas de 3,50 m de lado, que conservan algunos tramos de un pequeño canal que discurre por encima de los muros. También en la zona noroeste del conjunto existen restos de una balsa de agua de planta semicircular. El conjunto parece corresponder a una instalación de tipo industrial con espacios cuadrangulares cerrados por todos sus lados, con trazado planificado y homogéneo de las estructuras, muros con restos internos de almagra, canalizaciones e, incluso, pequeñas piletas interiores en algunos de los habitáculos que definen un carácter industrial con balsas o estructuras hidráulicas de decantación relacionadas con procesos de obtención de alumbre y almagra. También en ese mismo entorno, existe otro yacimiento arqueológico denominado “El explosivo” 17, localizado en el paraje de “El Roble”, a 900 m al suroeste del núcleo urbano de Mazarrón (sobre un llano aluvial en la margen izquierda de la rambla de “Las Moreras”) que, según los datos recogidos en prospecciones superficiales de la década de los años setenta del s. XX, el yacimiento presentaría un origen medieval islámico para el establecimiento de una necrópolis (ss. XII-XIII), con posterioridad asociado a materiales cerámicos de producciones y tipos datados en los alfares de Murcia, que se encuadran entre los ss. XVI-XVII. Actualmente, el yacimiento está oculto por la implantación de un basurero en los años setenta del siglo XX. Marqués de los Vélez data del siglo XV-XVI, y fue construida con un evidente objetivo defensivo, pero también como símbolo que representaba a uno de los dos grandes propietarios del alumbre (el Marqués de los Velez). La Torre del Molinete, es una torre de vigilancia intermedia entre el castillo y la costa, y se la asocia a la antigua y desaparecida Casa-Fuerte del Marqués de Villena. Las dos iglesias son la de San Andrés y la de San Antonio de Padua, ambas del s. XVI. La primera de ellas posiblemente cumplía una doble función, como edificio para el culto y además para refugio de la población en caso de piratería. La segunda de las iglesias, la de San Antonio, actualmente ofrece una imagen desvirtuada, resultado de unas inadecuadas reformas en el siglo XX, aunque todavía mantiene el escudo de su constructor, el Marqués de los Vélez. De ambos templos también se conservan las campanas originales que son de extraordinario valor histórico, y en las que destacan inscripciones relativas a patronazgo y año de fundición (Maximo Garcia 2006, pp. 74-87) 18. En la costa de Mazarrón se conservan varias torres de vigilancia del mar, como son La torre de los Caballos de Bolnuevo, La torre de Santa Isabel (o Torre de la Cumbre) y La Torre de la Azohía. 11. LA GRAN PRESENCIA ITALIANA EN LA PRODUCCIÓN DE ALUMBRE MURCIANO Unido al negocio del alumbre español, hubo una importante presencia italiana favorecida por su gran experiencia en los mercados y con importantes intereses económicos en la península ibérica. Relevantes personajes italianos eran dueños de negocios en el sur peninsular como en Sevilla, y también en la Región de Murcia donde, desde el siglo XIII, los mercaderes italianos se habían establecido en la ciudad de Murcia y en Cartagena, cuyo puerto se convirtió en centro de desembarco y tránsito, mercado, etapa de viajes y depósito general de las mercancías para su distribución hacia el interior de Castilla (Molina Molina 2014, p. 101). Los primeros genoveses fueron los hermanos Rey (Baltasar, Domingo y Juan Rey) que, entre 1483 y 1486, tuvieron contratos de arriendo en las minas de Mazarrón con las familias de los marqueses de Villena y Los Vélez (Franco Silva). En 1537 aparecen otros personajes italianos responsables de las producciones: Gaspar Rotulo (que se encargó de la operación del cierre de las minas de Rodalquilar, en Almería); Esteban Doria, Pantaleón de Negro o Jerónimo Italiano (Franco Silva, Martinez Alcalde 2006, pp. 43-44) que durante el s. XVI dinamizaron y optimizaron el mercado consiguiendo el apogeo del comercio del alumbre murciano. Existe igualmente constancia de contratos fechados en 1542 con la rica compañía de Ansaldo de Grimaldi (Ansaldo, Lucca y Giovanni Batista Grimaldi), un convenio que supuso luego el cierre de la fábrica de Cartagena a partir de 1551, por los herederos de la compañía para así obtener el monopolio de la exportación del alumbre murciano. 10. EDIFICIOS CIVILES, MILITARES Y RELIGIOSOS RELACIONADOS CON LAS INSTALACIONES DEL ALUMBRE EN MAZARRÓN En lo que respecta al núcleo urbano de Mazarrón y a los edificios construidos en el siglo XVI por los dueños de las empresas productoras de alumbre, sobreviven dos iglesias, un castillo y algunas torres de vigilancia del mar. La fortaleza del 15 Se ha propuesto también su posible vinculación con el despoblado correspondiente a una alquería musulmana, tal vez la “Susaña” de los textos medievales. 16 Datos del Yacimiento de Cantarranas de la Carta Arqueológica Región de Murcia. Servicio de Patrimonio Histórico. Dirección General de Bienes Culturales. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia (Mazarrón); http:// arqueomurcia.carm.es/carta. 17 Datos del Yacimiento del Explosivo de la Carta Arqueológica Región de Murcia. Servicio de Patrimonio Histórico. Dirección General de Bienes Culturales. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia (Mazarrón). http:// arqueomurcia.carm.es/carta 18 «..esta canpana la mando hazer el noble senor governador destos alvmbres del senor marques de villena ano dxxx+»; y la inscripción «… don lvis fajardo marqves de los velez conde de lvna adelantado i capitan general del reino de mvrcia mando hazer esta campana *ano * 1609***[… ]». 191 m. Martínez Alcalde fig. 10 – Vista aérea general de la Fábrica Vieja de Alumbres de Mazarrón rodeada de sedimentos de color rojo de “almagra” o “almagre” (foto: Fundación Integra-Digital. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia). colorado”, aunque también era utilizada en la fabricación de pinturas y otras pequeñas utilidades como teñido de redes de pesca para dar flexibilidad, etc. Del abundante uso de la almagra derivó su escasez, de tal modo que se llegó a prohibir su exportación al extranjero, legislando su estancación en 1774, mediante Real Orden de 22 de marzo, para que no faltase en las elaboraciones de la Real Fábrica de Tabacos de Sevilla. En 1815, ante su inminente agotamiento y escasez, se propuso fabricar nuevas cantidades de almagra pero, tras varios siglos utilizando el sobrante que existía abandonado en los campos, se olvidó su origen y el método de fabricación hasta tal punto que existía la duda de si era un elemento natural o artificial. Investigaciones de Agustín Juan de Poveda, Catedrático de Botánica en el Real Jardín de Cartagena e Inspector de Medicinas de la Real Armada, llegaron a la conclusión de que la almagra era un residuo del alumbre, y por ello se volvieron a edificar en Mazarrón nuevas fábricas para producir en este caso almagra (Madoz 1850, p. 322), y no alumbre como el en los siglos XV-XVI. En 1840, con esta información de que era posible la fabricación artificial de la almagra, se redactó otra ley 19 para el desestancamiento de la almagra y se volvieron a abrir algu- En 1565 se realizaron contratos con otra compañía de genoveses formada por Negron de Negro, Agustín Sauri y Alberto Penello y su agente en Amberes, Giovanni Batista Spinola (Franco Silva, Martinez Alcalde 2006, p. 45). Las intervenciones arqueológicas realizadas en el año 2005 y 2006 en el castillo de los Vélez de Mazarrón detectan cerámica de importación, de los siglos XV y XVI, relacionada con esa presencia italiana en Mazarrón, que también se observa en varias excavaciones arqueológicas realizadas en la ciudad de Murcia. 12. LA ACTIVIDAD RESIDUAL DE LA PRODUCCIÓN DEL ALUMBRE EN EL SURESTE DE ESPAÑA: LA COMERCIALIZACIÓN DE LAS ALMAGR AS Algunas zonas del paisaje de Mazarrón todavía están coloreadas de rojo por las almagras (o “almagres”) (fig. 10), que son el desecho de la producción del alumbre a través de la calcinación de la piedra alunita. Esta piedra al ser quemada en los hornos adquiere una fuerte coloración roja, con la que es posteriormente llevada a las balsas de decantación. Allí, al añadir el agua se produce una separación de componentes. En la parte líquida queda en disolución el producto del que más tarde se extraerá el alumbre, pasando por otras distintas y sucesivas fases. Y finalmente, en el fondo de las balsas queda depositada, debido a su mayor peso, la tierra roja sobrante. Esta tierra roja subproducto y deshecho de la fabricación del alumbre quedó amontonada y abandonada en los campos tras el cierre de las fábricas de alumbre, en 1592. Más tarde, en los siglos XVII y XVIII, se descubrió su utilidad y se comercializó como producto independiente, siendo empleada en la Real Fábrica de Tabacos de Sevilla, como aditivo porque, según Madoz, aportaba “frescura y suavidad al tabaco 19 Diario de las sesiones del Congreso de diputados en la legislatura de 1840, 4-5, Congreso de los Diputados, Impr. Nacional, 1840. «… Numero 6.Proyecto de ley para el desestanco de la almagra». Art. 1. «Se suprime el estanco de la almagra». Art. 2. «Será libre la circulación interior y exterior de la tierra aluminosa, y los productos químicos que procedan de ella, observándose las formulas, y pagándose los impuestos y derechos á que deban estar sujetas por las disposiciones de rentas generales y provinciales … Se había creído que la almagra la portaba la naturaleza tal la cual se aplica á la fabricación del tabaco colorado en Sevilla y carenar y dar color á los buque; pero ya se ha conocido que es el resultado de una operación química …». 192 El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón nas nuevas fábricas de alumbre, en este caso para producir y comercializar los dos productos: el alumbre y la almagra (Villar Ramírez, Egea Bruno 1985). El tema de la fabricación vinculada al alumbre y la almagra, retomada en el ámbito murciano ochocentista, favoreció que en este último marco cronológico acudieran algunos inversionistas que pusieron en explotación diez pequeños yacimientos situados en los parajes de las “Pedreras Viejas” y en las “Pedreras Nuevas”, con sus correspondientes hornos, pero dado el caso de que ninguno de los criaderos ofrecía un volumen de mineral para que cada una de las empresas fuese autosuficiente, se decidió establecer una fábrica única. En 1847, ya existía un establecimiento unificado que funcionaba con siete calderas grandes, cuya finalidad, según Pascual Madoz era la de ir «surtiendo de alumbre a las fábricas de tintes finos de la península» (Madoz 1850). En estas condiciones el negocio se reveló productivo y se estableció una segunda fábrica por una compañía de Cataluña (la conocida como “Fábrica de los Catalanes”). En ese momento funcionaban hasta seis instalaciones simultáneamente, pero el agotamiento de los veneros y la baja de los precios a partir de 1840, causaron la decadencia de los alumbres en Mazarrón. Tras esta fase, los trabajos se referían a rebuscas y a que la actividad, en términos generales, se concentrara entonces en el aprovechamiento de los escombros de anteriores excavaciones convertidos en materias beneficiables. Esta experiencia del siglo XIX fue muy intermitente y realizada con pocos medios y tecnología poco adecuada, por lo que la última clausura fue en 1930. En 1939 también volvió de nuevo la industria y se crearon algunas nuevas fábricas en Mazarrón, cuyas producciones se prolongaron hasta 1953, produciéndose el cese de la actividad en 1954. Esta tercera experiencia solo tuvo carácter reducido. De estas últimas experiencias también quedan algunos pequeños restos de fábricas en no muy buenas condiciones y todavía importantes depósitos de esta tierra roja subproducto de la fabricación del alumbre murciano que inundan algunas zonas del entorno local. Esas últimas producciones de alumbre en España, que constan en el “Anuario Minero” en 1953, no ofrecen ya nuevos datos posteriormente. miento y cronología, y que a su vez se impulsen y consideren iniciativas relacionadas con intervenciones de restauración y consolidación de los frágiles restos que todavía se mantienen de las alumbreras y que son los pocos y únicos testimonios de la importante empresa del alumbre español. BIBLIOGR AFÍA Alonso Navarro S., 1974, Notas para la historia de Mazarrón, Murcia. Ayala Juan M., 1980, La cultura argárica en el valle del Guadalentín, Lorca, pp. 69-89. 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El tema del alumbre en España ha sido años atrás estudiado desde el punto de vista documental de lo que hay una importante información, como demuestran las importantes investigaciones de Alfonso Franco Silva y Felipe Ruiz, fundamentalmente, que son los grandes estudiosos españoles de la documentación del alumbre español del periodo moderno de la historia española. A nivel investigación arqueológica, no se han acometido todavía significativas intervenciones que impulsen y muestren resultados clarificadores. En el sureste de España aún quedan algunos restos de instalaciones de alumbres que convendría fueran objeto de estudios arqueológicos sobre su funciona193 m. Martínez Alcalde Villar Ramírez J.B., Egea Bruno P.M., 1985, La minería Murciana contemporánea (1840-1930), Murcia. Zobel De Zangroniz J., 1863, Ueber einem bei Cartagena gemachten Fun Spanisch-Phoenikischer Silbermuenzen, Real Academia de Ciencias de Berlín, Berlín. 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Due to this diversity of sources, the production processes were consequently unlike. Little remains of the production and extraction alum sites around Aragon, as they were destroyed during the XX century to build coal mines. On the other hand, the south east of Spain does preserve some old factories and buildings related to alum production. 194 Ioanna P. Arvanitidou* ALUM MINES IN MEDIEVAL GREECE Le miniere di allume nella Grecia medievale 1. ALUM THROUGH PRIMARY SOURCES famous from classical antiquity to post-medieval times as an antidote to snake bites or any poison taken internally 6. Also, according to Galen, Dioscorides and Pliny, it cures ulcers, dysentery and protects against the plague (Hall, PhotoJones 2008, p. 1034). Unfortunately, there is little evidence about the mining and the trade of alum in ancient Greece. Scarce as well are the available data about the mining and the trade in the medieval era, but even the little existing information is enough to lead us to reliable conclusions about the usefulness of the material and the importance of alum trade at that time 7. The first to mention the styptēria is Dioscorides 1, who reports a natural material found in Egypt, the island Melos, Macedonia, Liparais, Sardinia, Hierapolis in Phrygia, Armenia and other places. In the 3rd c. B.C., Dioscorides distinguishes three types of styptēria: the schiston (σχιστόν), which is white and astringent, the stroggylē (στρογγυλή), which is chalky and astringent, and the liquid, which is transparent and milky. Styptēria is used for the treatment of diseases, such as sarcomas, rashes, leprosy and also as a deodorant of the human body. In the 1st c. AD, Pliny the Elder names the material alumen and gives a detailed description about it 2. Pliny provides exactly the same distinction as Dioscorides and talks about the schiston, the stroggylē and the liquid alumen. Furthermore, he expands the list of the production sites by adding Spain, Pontus, Africa and Cyprus. Additionally, apart from the medical use of alum, Pliny the Elder also adds the styptic use of the material for dyeing wool. Alum was used as a mordant, a chemical that fastens the dye on wool or linen fiber (Photo-Jones et al. 1999, p. 378), since its use was the safest, the easiest, and lower-cost solution 3. Clearly, Dioscorides and Pliny the Elder describe the same material with a different name. However, it seems that there is confusion with respect to the modern terminology. In the ancient times, the terms “styptēria” and “alumen” had a wider meaning and were used to describe insoluble astringent substances, including mineral alunite. Nowadays, the mineral alunite or styptērian stone is distinguished from the alum or styptēria which can be produced by it. Modern science calls styptēries/alums the mixed sulphates, most of which are easily crystallized providing sizable and often clear crystals 4. In modern terminology, alum is a sulphate salt, which can be found in all volcanic islands, such as Mēlos, Lēmnos, Lesvos and Nisyros (Μελφος 2013, p. 53). The use of alum in the Greek area starts in antiquity; in the island of Melos, the extraction of alum started in the 5th c. B.C. They used to convert styptērian stone to styptēria, which was used to dye fabrics 5. Lemnian Earth was a medicine 2. THE MELIAN EARTH According to Theophrastus, the Melian earth, namely alum, was prized as the best white pigment of antiquity, one of the four main ingredients of the classical painters (PhotoJones et al. 1999, p. 397). Moreover, in the Roman Empire the alum from the island of Mēlos was considered as the best and Rome was absorbing the largest quantities (Πασσα 2007, pp. 24-25). There were two big mines in the southeast part of the island 8. The mine close to Kastriane region is an open type mine covering an area of 200 acres; ancient tunnels of extracting sulfur and alum are still visible inside. A little bit southern, close to Demenagaki region, there are more ancient and Roman sulfur and alum mines 9. The main point here is that in close distance, approximately 10 km SW of the mines, in the Hagia Kyriakē region, industrial waste deriving from the conversion of alunite to alum was discovered and this could be a chemical fingerprint of alum production (Photo-Jones et al. 1999, p. 395). This hypothesis is supported by the fact that the Hagia Kyriakē region is a natural harbor; therefore, it could be assumed that the alunite was extracted in the two nearby mines, transport6 Plinius, Naturalis Historia, 29.33 and 35.14. According to the project of the company “Χρυσωρυχεία Θράκης ΑΜΒΕ” (Thrace Goldmines AMVE), alum is discovered also in Thrace, in the region of Perama. However, there is no information about the quantity and the quality of the alum and if ever alum was extracted in the region, see Αρικας 2012. There is some information about alum deposits in Nisyros Island. Also, Galen records a visit to a locality in Cyprus which was engaged in the production of what seems most probably to have been copper sulphate, see Pittinger 1975, p. 192. Additionally, according to a document, in 1488, Dorinos II Gattilusio assigned his rights about the mines in Mytilēnē, in Nea Phōkaia and in Thasos to Marco Doria, but he kept those in Palaia Phōkaia, in Aino and in Samothrace. 8 J. Pittinger has another theory about the identification, according to which the alumen of Pliny should be identified as the mined today bentonite, and thus it is not pure alum, see Pittinger 1975, p. 193. 9 https://www.miloterranean.gr/geowalks/route-3-sulfur-mines/ (last visit: 10/02/2020). 7 * Università La Sapienza, Roma (io.arvanitidou@gmail.com). 1 Dioscorides, De materia medica, 5, 123. 2 Plinius, Naturalis Historia, 35, 52. 3 Stypteria is the safest of the mordants, the easier to use and at the lowest cost, see Ζαρκογιαννη 2008, p. 35. 4 http://www.chem.uoa.gr/chemicals/chem_Al2O3.htm (last visit: 10/02/2020). 5 https://www.milosminingmuseum.com/en/milos/history-of-milos/ (last visit: 10/02/2020). 195 Ioanna P. Arvanitidou fig. 1 – Melos Island (modified from Pittinger 1975, p. 191). fig. 2 – Lemnos Island (modified from Hall 2008, p. 1035). ed to the Hagia Kyriakē region, where the conversion to alum took place, and was immediately loaded onto ships, which arrived at this port for this very purpose (fig. 1). The trade of alum was an important part of the island’s economy and it continued after the fist fall of Constantinople in 1204 AD, during the Venetian period and beyond. In the 16th c. AD, after the raids of Barbarossa in the Aegean Sea, Melos, along with agricultural products, sulfur and salt, used to export also styptēria, supporting substantially its economic development through the exploitation of its mineral wealth (Πασσα 2007, pp. 24-25). 3. THE LEMNIAN EARTH The Lemnian Earth gained widespread reputation for its medical properties. The spring waters of the island gush from underground alunite rocks 10 and were absorbed by the clay, enriching it in alum; this was the “secret” of the lemnian clay (Hall, Photo-Jones 2008, p. 1038). According to Galen (XIII. 252), the Lemnian Earth was the most powerful thanks 10 According to modern mineralogical data, the land of Lemnos consists of 40% montmorillonite, 30% kaolinite, 20% alunite and 10% quartz and iron oxides-hydroxides, see Photos-Jones 2008, p. 623. 196 Alum Mines in Medieval Greece fig. 3 – Lesvos Island (modified from Κουμαρελας 1998, p. 124). and the 15th c. AD ships used to carry large quantities 12 of alum from Kallonē bay, the final destination being Flanders 13. More information can be found in the notarial documents from the State Archive of Genoa, which provide valuable historical data for the alum mines and the trade of the island. These contracts, which were written and signed by notaries, used to describe the basic purchase, sell and transport terms. There were individual contracts in which a one-trip transfer of a specified amount of alum was described 14 or contracts that describe transactions that lasted years 15. In some cases, ships made more than one loadings from different ports in order to travel to the West with the maximum cargo they could carry. A typical example is a contract signed on August 21st, 1413 AD, according to which Battista Pessagno rented the ship of Theramo Centurione, which departed from Chios to arrive in Lesvos, in the harbor Marasiorum, where approximately 285,5 tones (6000 kantars) of alum were loaded. Immediately, the ship departed to Phokaia, where the cargo reached its maximum capacity, and returned to Chios, stayed there for ten days and finally left for Messina in Sicily to alum («… τούτων δ’ ἀπασών ἡ Λημνία δύναμιν ἰσχυροτέραν έχει, προσέστι γαρ αὐτή τί καί στύψεως…»). The most wellknown alum source in the island is the Agiochōma region, between the villages Repanidio and Kotsinas, with rocks rich in alunite (ibid., p. 630). The mine is located very close to the natural harbor of Kotsinas, but there is no information about the depth of the waters and the winds that blow in the region (fig. 2). 4. LESVOS ISLAND Nevertheless, it seems that the largest quantity of alum was extracted from the mines of Lesvos Island, which was a huge production centre. The beginning of the history of the lesbian alum is not known, but it seems that the extraction of alum did not start before the mid-14th c. AD. The systematic exploitation of the rich alum deposits began in the years of the Genoese domination (1355-1462 AD) and continued in the first century of the Turkish domination (Κουμαρελας 1998, p. 126). In fact, there were two types of alum on the island: «di Rocca» and «minuto» (ibid., p. 127). Since the 16th c. AD, there are no references about alum trade on the island, while there is evidence about alum commerce from Turkey. However, the mining on the island may have continued, but channeled to the West via Turkey keeping its original name alum from Mytilēnē 11. The main source of information are the commercial contracts of that time, which state that in the late 14th c. AD 12 The weight measured in kantars. 1 Genovese kantar = 47,6 kg, see Giagnacovo 2014, p. 143. 13 Παπουτσανης 1996, pp. 41-42; Balard 1978, I, p. 172; ibid., II, p. 774. 14 In March 24th, 1404 AD, Paolo Lercanio, a Genoese captain and ship owner, and Michele Lomellini signed a contract in front of the notary, Gregorio Panissaro. The ship was chartered by M. Lomellini in order to travel from Chios to Lesvos Island and loaded approximately 143 tones (3.000 kantars) of alum from the Kallonē bay with final destination Flanders. The payment of Lercanio was approximately 47,5 tones (1000 kantars) of alum or its value in money, approximately 1875 Genoese pounds. See Balleto 1996, p. 309. 15 In December 22nd, 1412 AD, in front of the notary, Giovani Balbi, Theodēgēs Kolyvas sold to Michele Lomellini approximately 1000 tones (21.000 kantars) of alum, de rocca quality. The duration of the contract was 3 years. The merchandise would be delivered every 6 months at the Parachile port. See Wright 2014, p. 176. 11 According to Belon (1553 AD), in the city Ipsala the processing of the mineral was made in the alum mine and as a result the cost was very low. The mineral was exported to Italy, where it was known as styptēria from Mytilēnē, see Φιλοπουλου-Δεσυλλα 1987, p. 183. 197 Ioanna P. Arvanitidou and after that for Naples, with final destination Genova and Ecluse (Κουμαρελας 1998, p. 113; Wright 2014, p. 176). In the island of Lesvos, three important alum mines were discovered (Parachile mine, Condicie mine, Marassi mine), confirming the extraction of alum, and probably in two of them the processing of the mineral took place there (Parachile mine, Condicie mine) (Miller 1966, p. 84). The Parachile mine is located in the NW coast of the Kallonē Gulf, close to the modern villages of Parakoila (Κουμαρελας 1998, p. 118). The byzantine settlement Parakella and the medieval castle Kastrelli were discovered a little bit southern of the modern village (Μουτζουρης 1962, p. 64). The processed alum was loaded on the ships, which used to dock at the nearby ports, Parachile and Apothika. The Parachile port was 3 km away, however the water in Parachile bay was shallow and the ships could not drop anchor, so probably the ships anchored off the bay. The Apothika bay, which was the best harbor of the island, is located 8 km southwest of the Parachile mine. Therefore, they had to choose the shallow water or the longer distance, which meant increase of the transportation cost (Κουμαρελας 1998, pp. 118-119). We could assume that both of them were used for the alum trade from the Parachile mines (fig. 3). The Condicie mine is located in the modern region Kontisia, SW of the Kallonēs bay, close to the villages Agra and Mesotopos and 500 m south of the byzantine settlement and the medieval castle (Μουτζουρης 1962, p. 68). The area is surrounded by the hills of Siderias, Gidarēs, Pachys, Megalos Kaikos, Aetos and Chalikas. At the side of the hills there are significant deposits of styptērian rocks 16. The most important mine with the largest deposits is located in the NE slope of the Sideria, which means Iron. From the hill there was direct contact with the Apothika port and Kallonēs bay and port in order to ensure the safety of the ships. The Apothika port was 5 km away from the mine (Κουμαρελας 1998, pp. 119-120), however, also the Podaras port was close by and the route was shorter and above all easier, because it was only downhill (ibid., p. 122). The Marassi mine is known from two notarial contracts, showing that the loading of the alum was performed at the Marassi port, thus it can be assumed that the mines should not be too far away from that port. Vasilis Koumarelas, after his field research in the area and some discussions with the locals, identified the Marassi area with Asōmatos mountain (and the neighboring hills Gidaris and Pachys), where extensive remains of an old alum mine was discovered and also a byzantine settlement close to the mine. The Marassi port was 2 km away from the sea, but it seems that there was another option. Vasilis Koumarelas found an old path, made of stone, coming from Condicie mine and ending at the Podara harbor. Therefore, it is easy to assume that the cargo from the Condicie Mine was enriched with material from Marassi and all of them ended up to Podaras beach in order to be loaded to a ship (ibid., pp. 124-125). The Marassi bay had deep waters and it was protected from the north winds. From March until October in Lesvos there are north winds and the ships can safely go to the Kallonēs gulf and on the southwest coast. Probably that’s why the contract of Th. Kolyva specifies that the deliveries had to be done every April and October. In addition, another contract was made between A. Aurigo de Portu, burgher of Mytilēnē, on behalf of Jacobo Gattilusio, lord of Mytilēnē, and G. Lomellini defines that the loading from Marassi port would be done in March and September (ibid., pp. 112-113). There is information about three more mines in the island with large amount of alum but there is no documented evidence to affirm that extraction of alum took place there. Remarkable alum deposits exist also in the side Aspra Chōmata (village Chydēra) and in the neighboring Myroudies and Gavras-Phterountas, but it is not known if the deposits were ever extracted there. However, the fact that they are far from the sea, rather eliminates this hypothesis. Additionally, significant mineral deposits were discovered in the site Trapeza (close to Stypsē village; the name of the village refers to styptēria), but there is no relevant historical evidence, although the port of Petra is nearby. Also, small deposits of alum were found in the site Magaras (Vafeios village; the name of the village refers to dyeing fabrics) (ibid., p. 129). While there is enough information about the location of the alum mines on Lesvos and the paths followed to load the cargo on the ships, there is almost no data about the mineral processing sites. W. Miller assumed that in the Parachile and Condicie mines alum was also processed (Miller 1966, p. 84), but this is only a hypothesis. The only archaeological remains from the mineral processing were found in Apothika region. There are four frustoconical structures (two tanks with 5,80 m diameter and two tanks with 4,65 m diameter), which fit in a space surrounded by walls. Only one of the four tanks has been fully excavated; its height reaches 2,14 m, the big base has 6,20 m diameter, the small base has 2,3 m diameter and its capacitance reaches 32,5 m³. The tank is built with small tracheal rocks, ceramics and binder mortar (Κουμαρελας 1998, pp. 130-131, footnote 39). In the bottom of the structure alum was found 17 and the excavators assumed that the four tanks were used for washing the mineral with water. This assumption is further corroborated by the fact that a conduit starting from the tanks and ended to the sea was unearthed (1,20 m width; 14 m length). According to the excavators, the tanks are connected with the Roman remains found in the same area, along with a furnace close to the coast (Αχειλαρα 1998, pp. 778-779) 18. The dating of the excavated constructions raises many questions. According to the available data it seems that the systematic alum mining on Lesvos Island began after the island’s occupation by the Gattilusi, 1355 AD, and reached the peak in the first decades of the 15th c. AD. Indeed, at that time large amounts of alum arrived in Apothika port from the two large mines of the islands, Parachile and Condicie. 16 When V. Koumarelas visited the area, he found pouring waters gathered in natural borings and in two old stone-made cisterns. The inhabitants of Mesotopos village used to bath there to heal various skin diseases. 17 According to the chemical analysis, the sample contained: 29,0% SiO2; 23,1% Al2O3; 2,2% Fe2O3; 1,75% CaO; 0,23% MgO; 0,03% MnO; 6,2% K2O; 0,41% Na2O; 8,2% S; 0,32% P. 18 https://www.efales.gr/sight/apothika-ergastirio-styptirias (last visit: 10/02/2020). 198 Alum Mines in Medieval Greece in modern Italy. The high demand and the large quantities of alum traded to the West led to the need of a more organized trade system. So, on April 1st, 1449 AD, the Alum Company was established by the most important alum merchants. Main shareholder, with 50%, was Francesco Draperio (who had a contract with the Sultan Murad II) and the second largest shareholder was Marco Doria (representative of Dorino Gattilusio). According to the contract, the lifetime of the Company was 6 years and it was planning to transport more than 23.500 tones (500.000 kantars) of alum coming from the mines of Greece and Turkey. The base was the Island Chios, where all the loadings would be made, thus highlights its significant role in the alum commerce. On January 24th, 1450 AD, the Court in Chios decided to interrupt the work of Condicie and Parachile mines, which were under Dorino Gattilusio control and awarded the payment of 5000 gold ducats per year. However, the Company continued to operate, even with problems because of the conflicts between the shareholders, but also because of the historical facts related to the Turkish threat (Olgiati 1996, pp. 373-398). The fall of Constantinople was the beginning of the end of the interests of the Latins in the East. The Gattilusi were forced to pay money to the Turks in order to keep their dominions. In the end, the discovery of the rich deposits of alum in Tolfa-Civitavecchia, 35 km NW of Rome, transferred the alum monopoly in the West. Despite the importance of the issue and the number of the available written sources about the alum trade in the Aegean region, there are not comprehensive studies on this topic. It seems that in the late 14th c. AD, under the rule of Gattilusi, a trading empire developed in the eastern Aegean, which dominated for nearly half a century. The minimum interest in the subject did not encourage archaeologists to initiate investigations in this direction and the unique findings – two tanks – in Apothika region (fig. 4) were not sufficiently studied, they were dated to the roman era and still remain unpublished. The tanks are very look alike with a tank found in Monteleo, Grosseto (fig. 5), which is dated in the late 14th or early 15th c. AD. The alum mining and trade is a very interesting subject. A surface survey of the abovementioned sites is certain to yield significant results, as it is impossible that all the remains of such a large industrial production have been lost. Furthermore, the study of the tanks in Apothika region combined with a comparative study on the processing sites in various regions in Italy could shed light on the way of alum processing. fig. 4 – Lesvos. Apothika region. Alum processing tank (Κουμαρελας 1998, p. 123). fig. 5 – Allumiere di Monteleo (Grosseto, Italy). Alum processing tank (personal archive). Hence, in the late 14th c. AD, it was perfectly reasonable to build furnaces for the final process of alum in the nearby area of the port in order to load the cargo directly to the ships anchored in the Apothika port 19. 5. STOR AGE, DISTRIBUTION AND TR ADE Based on the data, a possible hypothesis could be that the alum amounts were extracted from Parachile and Conticie mines, they were initially processed in the mining area and then they would transfer the cargo to the furnaces in Apothika region. After the end of the final process, the cargo was loaded quickly and easily on the ships docked at the nearby harbor. Combining the abovementioned information with the knowledge that Chios was one of the major centers of storage and distribution of the mineral in the late 14th and early 15th c. AD, along with the major port in Phokaia on the coast of Asia Minor, one can support the hypothesis that the Apothika port held a key position in the triangle LesvosChios-Phokaia in the trade of alum. Clearly alum mining and trade was the heavy industry of the era. Thousands of tons of alum were loaded annually from the East to arrive at various urban centers of the West, especially 19 BIBLIOGR APHY Αργυρη Σ., Θεοτοκησ Θ., 2012, Επιφανειακή αρχαιολογική έρευνα στον Κόλπο της Καλλονής Λέσβου (2005), «Ενάλια», ΧΙ, pp. 100-109. Αρικας Κ., 2012, Κριτική της «Μελέτης περιβαλλοντικών επιπτώσεων» της εταιρείας “Χρυσωρυχεία Θράκης ΑΜΒΕ” σχετικά µε την προτεινόµενη εκµετάλλευση χρυσού στο Πέραµα του Νοµού Έβρου. Αχειλαρα Λ., 1998, Αποθήκα. Θέση Μνημόρια (αγροτεμάχιο Χ. 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English abstract The use of alum in the Greek area has very ancient origins, but to date only a few alum mines are known and most of them are located on islands in the Aegean Sea. The case of Lesvos is the best known, thanks to the notarial contracts preserved. Three large alum mines have been identified in Lesvos, connected with four ports where the product was loaded onto ships. In the Apothika port region, four alum production tanks have been partially excavated. The extraction and trade of alum constituted a real “heavy industry”: every year thousands of tons of alum were traded from the East to the various consumption centres of the West. The fall of Constantinople marked for the most part the end of Latin interests in the East, and at the same time the rich alum deposits in the area of Tolfa-Civitavecchia were started to an intense exploitation. 200 Stefania Fineschi* LA PRODUZIONE DI ALLUME NELL’ITALIA MERIDIONALE. I CASI DI AGNANO – ISCHIA (NA) E LIPARI-ROCCALUMER A (ME) The production of alum in southern Italy. The examples of Agnano – Ischia (Naples) and Lipari-Roccalumera (Messina) 1. PREMESSA riguardanti le zone italiane interessate dalla produzione di allume, con voci che spaziano dall’inquadramento geografico e geologico alla materia prima lavorata, alla collocazione cronologica. Solo in taluni casi è stato possibile arricchire la raccolta con le descrizioni delle evidenze archeologiche relative a tali produzioni (è questo il caso di Tolfa-Allumiere). Un terzo database, infine, è specificatamente riservato alle aree di produzione dell’allume identificate all’interno del comprensorio delle Colline Metallifere della Toscana (Dallai et al. 2009, pp. 29-56). In quest’ultimo database figurano voci relative al contesto ambientale, geologico e archeologico; in seguito a puntuali ricognizioni sul territorio, è stato possibile descrivere alcuni luoghi d’estrazione del minerale e resti archeologici (seppur, talvolta, di difficile lettura). L’ultimo step della ricerca ha previsto la realizzazione di una piattaforma GIS in grado di raccogliere i dati così recepiti; la possibilità di incrociare vari livelli di informazione ha permesso di ipotizzare la localizzazione di quei contesti estrattivi/produttivi di difficile individuazione, ed ottenere conseguentemente un quadro di distribuzione delle allumiere più completo ed un corposo primo nucleo di dati utili (in particolare indicatori di carattere tecnologico, sia per quanto riguarda l’estrazione che la lavorazione della materia prima) (fig. 1). Come accennato in premessa, da questa rassegna discuteremo in particolare dati relativi ad alcune importanti aree di produzione dell’Italia meridionale. Con questo contributo si intende esporre lo stato dell’arte di un progetto di rassegna storico-bibliografica e di censimento del dato archeologico relativo alle esperienze di produzione dell’allume nella penisola italiana, attestate in un arco cronologico che va dall’Antichità sino all’Età Moderna. Il progetto nasce parallelamente all’indagine archeologica condotta sul sito delle Allumiere di Monteleo (Monterotondo Marittimo, Grosseto), uno degli impianti di produzione dell’allume meglio conservati e studiati nel panorama europeo, oltre che unico sito produttivo legato all’allume ad oggi archeologicamente indagato per l’epoca basso-medievale e moderna (Dallai 2014). L’indagine condotta a Monteleo ha evidenziato come la comprensione delle diverse funzioni assolte dalle strutture indagate non fosse semplice e, con il proseguo delle indagini, è apparsa sempre più chiara l’esigenza di inserire il sito in una prospettiva di analisi più ampia, sia regionale che nazionale, anche allo scopo di capire se questo sito potesse essere utilizzato come esempio di confronto nello studio dei modelli di ciclo produttivo dell’allume alunitico, o se, al contrario, non rappresentasse che un caso eccezionale. È con questi presupposti che si è scelto di ampliare l’area di interesse ed estendere il censimento all’intera Penisola, partendo dai siti di produzione dell’allume più significativi presenti nell’Italia meridionale (Agnano ed Ischia per la Campania e Lipari e Roccalumera per la Sicilia). Seppur in parte ignorate dalle ricerche storico-archeologiche, queste esperienze produttive non sono senz’altro da considerarsi episodi d’importanza secondaria al fine di ricostruire un quadro generale il più dettagliato possibile. Infatti, oltre a essere siti localizzati in regioni caratterizzate da una ricca stagione mineraria antica, la documentazione disponibile ci offre una discreta quantità di indizi in merito ad uno sfruttamento dell’alunite riferibile ad un’epoca precedente a quella indicata tradizionalmente dalle fonti, ovvero all’Età Moderna. 3. LE ALLUMIERE DELLA CAMPANIA 3.1 Agnano (NA) La conca di Agnano è situata nella parte orientale del sistema dei Campi Flegrei (Napoli), i quali sono costituiti da un complesso insieme di strutture geologiche generate da eruzioni relative a più cicli vulcanici e dove sono ancora ben visibili manifestazioni di origine vulcanica secondaria, come l’idrotermalismo ed il bradisismo (Cole, Perrotta, Scarpati 1994, pp. 755-799). La conca è delimitata da una serie di emergenze vulcaniche; a causa di questa genesi le trasformazioni del paesaggio sono state davvero profonde e le eruzioni che si sono succedute nella storia hanno cancellato la maggior parte delle evidenze relative alle fasi di sfruttamento più antiche. Conseguentemente, è difficile stabilire con certezza se l’utilizzo dei locali prodotti vulcanici possa essere iniziato prima dell’Età Classica, epoca durante la quale l’uso dei prodotti 2. METODOLOGIA DELLA RICERCA Il lavoro di ricerca si è articolato in archivi tematici; un primo database permette la consultazione bibliografica mediante ricerche tematiche mirate; un secondo database raccoglie dati * Università di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali (s.fineschi@gmail.com). 201 S. Fineschi fig. 1 – Censimento dei siti e delle aree a potenziale archeologico: A. Cartografia GIS e database; B. Esempio di schedatura collegata; C-D. Archivio fotografico. fig. 2 – Veduta della Solfatara; tratto da Sieur de Rogissart, Les délices de l’Italie, Vol. III, Leida, Pierre Vander, 1706. A. L’industria dello zolfo; B. L’allumiera; Cl. Le stufe. fig. 3 – Acquerello raffigurante le “Stufe” e la “Grotta del Cane”; tratto da Sieur de Rogissart, Les délices de l’Italie, Vol. III, Leida, Pierre Vander, 1706. legati all’idrotermalismo rese l’area flegrea uno dei principali centri terapeutici del mondo antico, fortunata condizione che si confermerà sino al pieno Medioevo. Tutt’oggi, lungo il versante della conca delimitato dal monte Spina, alcuni ruderi segnalano la presenza di un antico impianto termale romano (II secolo d.C.), che sfruttava le sorgenti calde scaturite dal sottosuolo. Sappiamo dalle fonti che l’impianto doveva essere ancora in funzione nel VI secolo d.C., mentre tra il IX e il X secolo la zona fu interessata da un fenomeno naturale che provocò l’abbassamento del suolo e la formazione di un lago al centro dell’antico cratere, danneggiando fortemente le strutture termali (Amalfitano et al. 1990). Altre memorie di un antico sfruttamento dei vapori termali si riferiscono al versante della conca di Agnano denominato “La Solfatara”, nel quale sono localizzate due grotte, collegate internamente in modo da formare un ferro di cavallo, chiamate “Le stufe” (fig. 2). A partire dall’epoca romana qui si recavano coloro che erano afflitti da malattie respiratorie o della pelle per rigenerarsi con le esalazioni sulfuree provenienti dall’interno dei due profondi antri. L’utilizzo di questi vapori è proseguito senza soluzione di continuità sino al XIX secolo, ed è ancora oggi possibile ammirare l’ingresso in muratura al complesso, di origine ottocentesca (De Caro 2001) (fig. 3). A partire dall’epoca greca, e sistematicamente in quella romana, i Campi Flegrei sono stati inoltre oggetto di un’intensa attività di cava di tufo giallo e di produzione della pulvis puteolanus, ovvero la pozzolana, materiale impiegato nella preparazione di malta idraulica, specie nelle costruzioni portuali (De Felice et al. 1990). Tra i prodotti vulcanici presenti ad Agnano, lo sfruttamento maggiormente redditizio fu tuttavia quello dello zolfo e dell’allume, tanto che quest’ultimo prodotto rappresentò una delle principali attività economiche gestite dalla monarchia aragonese. Le prime attestazioni concernenti la miniera di allume di Agnano sono conservate in alcuni atti notarili redatti nel 1248 dal Real Fisco Napolitano, raccolti nell’opera Anecdoti istorici sulle Allumiere dei Monti Leucogei, dell’abate Cestari. I documenti sono tuttavia controversi; alcuni autori sostengono, infatti, che la data di inizio dell’attività produttiva sia 202 da posticiparsi addirittura di alcuni secoli rispetto a quella desunta dalla lettura degli stessi; la teoria più accreditata porta in particolare ad attribuire l’apertura del primo impianto di produzione di allume all’iniziativa del genovese Bartolomeo Pernice, in data 1452 d.C. (Feniello 2005). Questo diverso approccio alla comprensione delle documentazioni deriva probabilmente dal fatto che con il termine “allume” si indicava un insieme di materiali accumunati da caratteristiche chimiche simili, fra cui ad esempio i sali vetriolici (cioè solfuri di ferro e rame), e non necessariamente l’allume “alunitico”. Da qui nasce una cautela interpretativa che s’innesta anche sull’assunto secondo il quale è impossibile che in Italia, prima della scoperta delle cave di Tolfa, si possedessero le conoscenze tecnologiche per lavorare l’alunite. In ogni caso, tra le testimonianze in questione ve ne sono alcune degne di nota. In un atto datato 1248 si trova scritto: «… regnando il Gran Federigo II nel 1248, Benvenuto Portanova, marito di Giuliana, honesta femina, dichiara di aver ricevuto ad pensionem l’intero Monte qui nominatur de illa Bulla per ego [… ] da Giovanni Brancaccio e da D. Sicelegaita dischreta femmina…» (Testi 1931, p. 442). Dall’analisi del suddetto testo possiamo desumere che la famiglia napoletana dei Brancaccio, allora proprietaria delle miniere, ne abbia concesso lo sfruttamento a Benvenuto Portanova mediante il pagamento, per i primi due anni, di mezza oncia di oro siciliano e, nel mese di agosto degli anni successivi, di sette tarì d’oro. Nell’anno 1415, epoca in cui le fonti diventano più dettagliate e abbondanti, l’attività giunse in dote al signor Jacopo Sannazzaro: «..li territori dove se dice la bolla overo munti de Agnano, consistenteno in de li dicti munti, rivi et paludi aquosi, sulfe et de alume, vitrioli et altri territori de ipsi terre…» dalla moglie Ciccella de Anna (Feniello 2003, p. 157). In merito a questo documento è interessante notare come vi compaiano sia l’allume che il vetriolo; questo ci porta ragionevolmente a escludere che si tratti di uno di quei casi in cui con il termine “allume” ci si riferisca più genericamente ai sali vetriolici, ed evidenzia come all’epoca fossero evidentemente chiare le diverse origini e caratteristiche dei prodotti; di conseguenza dovettero esistere anche diverse tipologie di strutture produttive. La prima descrizione dettagliata dell’allumiera di Agnano risale al 1452 e fu redatta in occasione della visita sul sito di Ladislao d’Ungheria e di Federico III d’Asburgo. All’epoca l’industria appariva ampia e organizzata in due settori ben distinti. Il primo, La Solfatara, che occupava il cratere dall’omonimo nome situato nel lato Ovest della conca di Agnano, era adibita principalmente alla produzione dello zolfo: «… furono stupiti di veder lo gran circuito di montagne sulfuree e per ogni banda stare molte pagliare in mezzo delle quali una grande pagliara. Nella grande pianura erano le fornaci ove stavano molti huomini lavoranti, delle quali alcuni affinavano et altri raffinavano li zolfi notte e dì lavorando. Et erano pieni di passo in passo li monti di barili et carratelli di zulfi in cannoletti e raffinati…». Il secondo settore era invece collocato all’interno del cratere di Agnano, al quale si giungeva mediante una lunga strada fatta costruire dallo stesso sovrano aragonese. Qui era localizzata la vera e propria allumiera, così descritta: «… Da mezzo quella montagna nasce una pietra la quale biancheggia ed è tutta venata di rossa. E quella si taglia con artiglio di picconi di ferro, zappe, magli qual è dura e quella si coce. (…) Da mano a mano stanno molte carcare dove quelle pietre s’abbruciano come calce e bagnate prima diventano polvere. Quella polvere si pone dentro certi stagnati anzi conche, overo caccavi di rame grandissimi, e tuti stanno locati dentro certri magazeni a filara. Sono circa dieci per magazeni molto larghi, tutti coverti d’embrici. Poi intorno detti magazeni vi sono molte stanze e casamenti e molte poteche di ogni arte, ferrari, carpentarii, pizzicaroli, taverne, molti forni di panettieri. Perchè in tale officio sono di bisogno come dissimo haverno trovati da 600, che a vedere pareva che si fusse una piccola città…» (De Blasiis 1908, n. 3, p. XXXIII). Dalla lettura della descrizione si deduce come la lavorazione fosse condotta a mano, mediante la creazione di trincee armate con ponteggi di legno per impedire eventuali frane sul fronte di cava. Il minerale veniva poi trasportato ai magazzini, verosimilmente realizzati in muratura e con il tetto sorretto da travi lignee; questi locali dovevano essere grandi sufficientemente per contenere al loro interno caldaie in rame e dovevano essere circondati da pozzi per l’acqua, necessaria per la fase di cristallizzazione dell’alunite (Picon 2005). In prossimità dei depositi funzionali allo stoccaggio delle casse contenenti il prodotto finito sorgevano gli alloggi degli operai, le botteghe di fabbri e falegnami, i locali per la conservazione degli alimenti ed alcune taverne, essenziali ad allietare le gravose giornate di lavoro degli operai (fig. 3). Dalla lettura del testo si ricava un ulteriore elemento di particolare importanza, cioè la conferma dell’uso dell’alunite come materia prima nella produzione dell’allume di Agnano: la descrizione della fase di calcinazione delle pietre esclude infatti l’ipotesi dell’uso delle concrezioni vulcaniche che, al contrario, non richiedono questo passaggio tecnologico. La rilevanza di questa informazione è data dal fatto che anticiperebbe, seppur di pochi anni, l’introduzione delle conoscenze tecnologiche per la produzione dell’allume alunitico nella penisola italiana, tradizionalmente datata all’anno 1462 (data di apertura dell’allumiera papale di Tolfa). Tale elemento va a consolidare l’ipotesi che queste nozioni circolassero già in epoche precedenti, e che la metà del XV secolo costituisca piuttosto un momento di particolare fioritura dell’iniziativa di sfruttamento della materia prima, legato a vicende storiche contingenti, che, a seguito della caduta di Costantinopoli, impedirono l’arrivo del prezioso sale dalle aree del Mediterraneo orientale e dell’Asia minore (Ait 2010; Delumeau 1962; Heyd 1913; Heers 1954, pp. 31-53). Quest’allumiera fu probabilmente abbandonata in seguito al forte terremoto del 1456, che danneggiò pesantemente le strutture produttive, e fu ripristinata soltanto intorno alla metà degli anni sessanta del Quattrocento (Scherillo 1976, pp. 9-102). Nel 1465 la gestione dell’attività mineraria fu concessa dal re Ferdinando I d’Aragona al suo collaboratore Guglielmo Lo Monaco, cui fu affidato il titolo di gubernator regie artigliare, il quale fece costruire una nuova industria dell’allume (Feniello 1998, p. 78 n. 38). Nell’accordo si prevedeva la costruzione di due nuovi edifici: il primo, lungo venti canne e contenente sette caldaie 203 S. Fineschi per la fase di lisciviazione; il secondo, delle medesime dimensioni, adibito invece allo stoccaggio del prodotto finito, che a sua volta era contenuto in casse della capacità di circa 90 chilogrammi. Era inoltre previsto tutto il necessario per la produzione, a partire dai “ferramenti”, alla legna, ai buoi e bufali per il traino e per l’alimentazione dei lavoratori, sino alla manodopera (130 operai circa). La quantità di prodotto stabilita per anno avrebbe dovuto essere di circa 2400 cantare (equivalenti a circa 2160 tonnellate). Il contratto prevedeva alcune clausole di vendita importanti: il socio Lo Monaco infatti non poteva vendere l’allume nel Regno, ma solo al di fuori dei suoi confini, tranne nel caso in cui l’allumiera non ne avesse prodotto una quantità sufficiente e, in ogni caso, al prezzo vantaggioso di 300 ducati al mese. D’altra parte, il re si riservava, in caso di necessità, la possibilità di comprare da Guglielmo l’allume al prezzo di favore di un ducato in meno per ogni cantaro. La partecipazione del sovrano all’attività appare comunque di rilievo minore rispetto a quella di Lo Monaco, e questo probabilmente si deve ad una sua limitata capacità economica (Feniello 2003, pp. 160-162). Nel 1501 Giacomo Sannazzaro, la cui famiglia risulta proprietaria delle miniere sin dal 1415, si accordò con Agostino Chigi, appaltatore per la Camera Apostolica dell’allumiera di Tolfa, per l’utilizzazione del giacimento di Agnano: inizialmente il banchiere senese pose un tetto di 5000 cantare di produzione annuale di allume, salvo poi preferire versare un compenso annuo per mantenere chiusa l’attività (Barbieri 1940, pp. 56-58). Ecco un esempio di come motivazioni di carattere politico-economico, in questo caso la logica di monopolio esercitata dalla Santa Sede, possano essere alla base di blocchi produttivi, anche in presenza di ottimi presupposti, quali abbondanza di materia prima e disponibilità di conoscenze e competenze tecnologiche. L’archeologia ad oggi purtroppo non ha individuato evidenze riconducibili con chiarezza alle strutture produttive; ciò va attribuito essenzialmente alla mancanza di progetti ed indagini in tal senso, ma non possiamo non considerare che la continua trasformazione del paesaggio potrebbe aver compromesso irrimediabilmente la leggibilità di questi contesti. di Sant’Anna (in particolare alcuni lingotti di piombo, pezzi di galena, ghiande missili e frammenti metallici) induce a pensare all’esistenza di una fonderia, databile alla tarda età repubblicana (Corretti 1990, p. 5). Le prime testimonianze di un’attività di produzione dell’allume sono invece molto successive, e risalgono alla seconda metà del XII secolo: in un atto notarile del 1271, redatto per ribadire i diritti del Regio Demanio sull’attività produttiva, due ottantenni chiamati a testimoniare ne attestano l’esistenza sin dalla loro infanzia, esattamente sin dal 1191, sotto il regno di Enrico VI (Testi 1931, p. 442). La controversia sulla proprietà della miniera è ribadita anche in alcuni atti riportati nei Registri Angioini: l’11 novembre 1271 il principe vicario del Regno, in nome del re Carlo I d’Angiò, ordina al maestro portolano Maggio Rosso di Napoli di rivendicare alla Regia Curia un monte di Ischia dove si fabbrica zolfo e allume, che in tempo antico fu del demanio, occupato da tale Guido di Castronuovo (ibid., p. 142). Verso la fine dello stesso anno viene emesso un mandato a favore dei medici ischitani Giovanni di Casamicciola e Simone Archidiacono, per una certa somma da pagare con i proventi dell’allume del monte di Ischia; il 4 marzo 1273 il re ordina che nessuno osi molestare il procuratore dell’entrate sull’allume (Filangeri 2005). Da un documento del 1301 risulta che nel 1299 il re Alfonso IV di Aragona concesse lo sfruttamento delle miniere di allume e zolfo al milite Pietro Salvacossa, valoroso soldato di una famiglia feudale dell’isola; nell’atto della concessione Ferdinando d’Aragona ricorda come suo padre Alfonso avesse fatto installare in precedenza una grande allumiera: «…Sane sermus dms Alfonsus Aragonum Utriusque Sicilie etc. Rex dive ae celestis memorie pater noster colendissimus in insula Iscle quamdam alumedam fieri instituisset in qua continue aluminis magna conficitur quantitas que in curie utilitatem et comodum reducitur…» (Del Gaizo 1984, p. 12). Non siamo a conoscenza di nessuna notizia sul proseguimento della lavorazione nel XIV secolo; non possiamo dire con certezza che la causa di questo silenzio sia l’abbandono della produzione ma, ipotizzando tale eventualità, è verosimile attribuirne le cause all’eruzione del Cremate, uno dei crateri del monte Epomeo 1. Tra gli storici che hanno parlato del cataclisma vi è il Pontano, naturalista del XVI secolo e autore del De bello Napolitano, che nel resoconto dei fatti di guerra aggiunse anche informazioni importanti riguardo alla materia prima utilizzata per la produzione dell’allume. Egli scrive: «… già cento e sessantatrè anni avanti, che fossero queste guerre, apertasi improvvisamente la terra, ne venne dalle sue viscere fuori tanta fiamma di fuoco, che buona parte dell’isola arse, ed immersevisi dentro una villa: la quale apritura menando ed aggirando per aere con fumo e polvere mescolata, sassi di molta grandezza, addirittura dei liti di Cuma, rovinò l’isola quasi tutta. E questi sassi essendo cotti nelle fornaci del detto Perdice, dileguaronsi tutti in alume; e così egli di Siria rivocò in Italia tutta quell’arte, la quale per molti secoli scorsi vi era stata sepolta…» (Pontano 1590, 6, pp. 264-265). 3.2 Ischia (NA) Anche la storia dell’allumiera ischitana s’inserisce in un quadro di sfruttamento delle risorse molto antico, di cui numerosi aspetti rimangono ancora da comprendere con chiarezza. L’insediamento umano sull’isola è documentato a partire dal VII secolo a.C., quando coloni euboici vi crearono il primo emporio commerciale greco dell’occidente. Tra le risorse che hanno sicuramente contrassegnato la storia produttiva dell’isola sin dall’epoca romana, vi sono le acque minerali e le abbondanti argille, sfruttate per la produzione di vasellame. Lo scavo del quartiere metallurgico di Mazzola ha inoltre permesso di documentare una multiforme attività metallurgica, peraltro già testimoniata dalle fonti, durante tutta l’età romana (Mureddu 1972, pp. 35-47). A questo proposito è interessante il ritrovamento, in località Santa Restituta, di una fornace da riduzione del ferro datata al V sec. a.C., mentre una serie di rinvenimenti presso gli scogli 1 L’eruzione avvenne nell’anno 1301 e fu talmente violenta da provocare un disastroso incendio e un momentaneo spopolamento dell’isola. 204 fig. 4 – Via dell’Allume. Veduta di un’area d’estrazione. fig. 5 – Ischia Ins. Orthelius A., 1589, tratto da E. Mazzetti (a cura di), Cartografia Generale del Mezzogiorno d’Italia, 1972. Vi possiamo leggere l’indicazione toponomastica di Aluminis Fodina. Dando per veritiere le parole del Pontano, dovremmo pensare che l’attività di produzione dell’allume più antica si avvalesse di una materia prima diversa, probabilmente delle concrezioni saline di origine vulcanica (senza dubbio reperibili nelle zone dell’isola interessate dalle manifestazioni idrotermali), oppure che simili eventi vulcanici più antichi possano aver provocato i medesimi effetti metamorfici descritti da Pontano. La descrizione contiene elementi di colore, lontani dal poter essere considerati scientifici; tuttavia, la menzione esplicita dell’allume in un contesto simile appare degna di rilievo. Un’ulteriore ipotesi plausibile sui motivi dell’abbandono dell’allumiera è forse da ricercare nella perdita di redditività dei giacimenti ischitani a causa delle importazioni dell’allume prodotto nei paesi del Mediterraneo orientale, abbondanti ed a basso costo. Sappiamo infatti che alla metà del Trecento i giacimenti dell’area anatolica producevano non meno di 60.000 cantari di allume l’anno, in gran parte commerciati con i paesi occidentali (Evans 1936, p. 369). La conquista nel 1453 di Costantinopoli e delle aree di produzione di allume per mano turca avrebbe reso impossibile il proseguimento dei commerci con l’Oriente e, conseguentemente, avrebbe determinato un rinnovato interesse per i giacimenti italiani; in ogni caso, la fase di cui ci stiamo occupando precede di molto questi eventi. È anche per questa ragione, tuttavia, che, nel 1458, si torna a parlare di produzione d’allume nel Regno di Napoli. Come già detto, il merito della “riscoperta” dell’allume napoletano e ischitano è attribuito dal Pontano e, dalla bibliografia nota, al navigatore e commerciante genovese Bartolomeo Pernice; egli infatti, commerciando tessili con i paesi dell’Anatolia, aveva avuto la possibilità di conoscere bene il minerale e il suo processo di lavorazione. Su questo punto sono necessarie alcune riflessioni. Ricordando nuovamente la già citata relazione anonima (si veda il precedente paragrafo), risulta chiaro come l’industria fosse nel 1452 già in piena attività, tanto da apparire ai visitatori come «… una piccola città…». Sappiamo inoltre che l’apertura dell’allumiera di Tolfa avvenne nel 1462 e, secondo quanto afferma lo scopritore Giovanni da Castro, già si lavorava ad Ischia «… perchè Ischia ne produce pochissimo, e le miniere di Lipari furono esaurite dai romani…» (Lesca 1978). Unendo le due testimonianze, la data del 1458 apparirebbe davvero tarda, aggiungendo anche che dal 1452 sarebbe stata in funzione anche l’allumiera di Agnano. La relazione smentisce evidentemente le asserzioni del Pontano per quel che riguarda la data della scoperta dell’allume di Ischia, e probabilmente anche l’attribuire il merito della scoperta al Pernice. Secondo alcuni autori quest’ultimo sarebbe stato addirittura erroneamente citato a riguardo (Pipino 2009, pp. 18-35). Sappiamo inoltre, da una concessione del 1451 integralmente pubblicata da Lisini, che il Pernice in quel frangente, e per i successivi dieci anni, fu impegnato sul territorio toscano nella ricerca di minerali al Monte Argentario e in buona parte del territorio senese (Lisini 1935). Se su questo argomento vi sono dunque indizi contrastanti, sappiamo invece con certezza che la produzione delle allumiere di Ischia e Agnano dovette impensierire proprietari e appaltatori delle miniere di Tolfa a tal punto da proporre, da parte di questi ultimi, un accordo apparentemente più vantaggioso per la controparte napoletana. Esso fu concluso con durata venticinquennale tra i commissari pontifici e il mercante Aniello Pierozzi, rappresentante di re Ferrante, l’11 giugno 1470: con questo accordo si stabiliva che l’allume fabbricato sarebbe stato esportato e venduto per conto della società appena costituita. Tutte le spese, così come i ricavi, sarebbero stati suddivisi a metà e il prezzo di vendita sarebbe stato fissato dai soci; inoltre le transazioni potevano essere effettuate esclusivamente da due commissari, l’uno del Papa, l’altro del Re di Napoli (Feniello 2003, p. 162). Vi erano però delle clausole restrittive al carattere collettivo dell’impresa: la prima stabiliva che se una determinata quantità di allume fosse risultata scadente o non vendibile per le cause più diverse, il danno economico sarebbe ricaduto solo sulla parte responsabile. La seconda postilla stabiliva che se uno dei due contraenti non avesse fornito la quantità di prodotto stabilita, l’altro sarebbe potuto intervenire completando la mancanza e traendone il proporzionale guadagno. Proprio quest’ultima clausola spiega cosa abbia potuto spingere il Papa, oltre alla volontà di rinsaldare i rapporti con Ferdinando I, ad accettare condizioni a lui così poco favore205 S. Fineschi fig. 6 – A sinistra: caldaia da lisciviazione rinvenuta lungo la Via dell’Allume, Ischia. A destra: caldaia da lisciviazione localizzata presso l’Allumiera di Monteleo (XV sec.). voli: era chiaro che le cave napoletane non avrebbero potuto competere con quelle di Tolfa che, al contrario, avrebbero facilmente preso il sopravvento. Gli indizi desumibili dai documenti appena citati, uniti alla permanenza di alcuni toponimi nel territorio isolano, permettono un primo tentativo di ricostruzione della topografia dell’industria (fig. 4). Esiste ancora oggi un sentiero chiamato “via dell’Allume”, o “via dei Carri”, che attraversa il Monte Cito (dove ancora oggi esiste un campo fumarolico) fino ad arrivare alla località di Catreca (entrambi nel comune di Lacco Ameno). Il sentiero con probabilità collegava i luoghi d’estrazione con quelli di produzione. Percorrendo tale tragitto è possibile ad oggi vedere le tracce delle antiche estrazioni e alcune evidenze archeologiche, fra le quali sono riconoscibili anche strutture produttive (fig. 5). Più in specifico, è stata individuata una caldaia da lisciviazione tecnologicamente assimilabile a quella rinvenuta sul sito di Monteleo (quest’ultima datata alla fine del XV secolo). La sostanziale mancanza di innovazioni tecnologiche rilevanti, condizione che caratterizza questo processo produttivo, rende purtroppo difficile proporre una datazione certa, la quale può basarsi esclusivamente sulle dette analogie morfologiche. Tale datazione potrà naturalmente essere confermata solo con un’indagine archeologica più approfondita (fig. 6). assoluta libertà nello stabilire i prezzi di vendita, poiché, oltre ad un’ampia disponibilità, il loro minerale risultava anche di ottima qualità (La Greca 2007, p. 14). Secondo gli autori che si sono occupati di questo contesto estrattivo-produttivo, l’allume si sarebbe ricavato nella contrada denominata “Pirrera” e da questa località veniva poi trasportato presso la località di “Parmito”, dove sarebbe avvenuta la trasformazione in prodotto finito (Iacolino 1980, pp. 39-43). Altri autori, fra cui lo Spallanzani, dubitano invece che le cave fossero ubicate sull’isola e presuppongono un approvvigionamento da Vulcano, che possedeva materia prima in abbondanza, una disponibilità attestata anche nei secoli successivi e proseguita sino alla fine del XVIII secolo (Spallanzani 1788). A livello archeologico non esisteva nessuna prova di questa importante produzione sino alla identificazione, nel 1933, delle anfore da allume. L’identificazione del contenuto di queste anfore non si basa sull’analisi chimica, poiché l’allume non lascia tracce durature, ma su alcune osservazioni: da un lato la testimonianza da parte degli autori classici della presenza del minerale nell’arcipelago eoliano, e in special modo a Lipari; dall’altra, i luoghi di ritrovamento di questi reperti. Le anfore in questione si trovano, infatti, in diversi territori dell’impero romano, in contesti artigianali, laddove effettivamente si richiede l’uso dell’allume. La tipologia di anfora liparota copre un arco cronologico di circa quattro secoli (seconda metà del I secolo a.C.-inizio IV secolo d.C.) e si suddivide in quattro tipologie denominate “Lipari 1”, “1b”, “2a”, “2b” (Borgard 2005, pp. 159-160; Cavalier 1994, pp. 189-196). A conferma di quanto detto vi è anche il ritrovamento di un’iscrizione marmorea, rinvenuta nella necropoli romana di Lipari, dedicata al procurator Cornelius Masutus Tiberii Caesaris Augusti et Iuliae Augustae; la sua presenza sull’isola sembra difficilmente giustificabile con l’amministrazione di un piccolo latifondo imperiale agricolo (metà dell’isola era difatti non coltivabile). Più verosimilmente egli si trovava lì per amministrare i giacimenti di allume, dei quali i romani detenevano il monopolio (De Majo 2007, pp. 72-73). A tal proposito è interessante notare come il termine econo- 4. LE ALLUMIERE DELLA SICILIA 4.1 Lipari (ME) Nel caso delle Isole Eolie, e di Lipari in particolare, dobbiamo precisare che i termini “allume” ed “allume nativo” si riferiscono al medesimo prodotto. Più esattamente parliamo di un minerale che si presenta sotto forma di cristallizzazioni e che, in seguito ad una semplice bollitura, necessaria all’eliminazione di eventuali impurità, diviene prodotto finito. Lipari riveste storicamente un ruolo di primo piano nella produzione dell’allume sin dall’Antichità; la sua origine vulcanica è evidente nei numerosi prodotti la cui esportazione è nota sin da epoche remotissime: ossidiana, pomice e allume. Per quanto riguarda il commercio dell’allume, i liparesi avevano creato un vero e proprio monopolio e quindi una 206 LA PRODUZIONE DI ALLUME NELL’ITALIA MERIDIONALE. I CASI DI AGNANO – ISCHIA (NA) E LIPARI-ROCCALUMERA (ME) mico-finanziario greco monopolion sia attestato per la prima volta proprio con riferimento ai prezzi imposti dai Liparesi a questo prezioso prodotto (Panessa 2003, p. 992). Sappiamo inoltre che nell’VIII secolo d.C. i giacimenti di allume nativo si erano oramai esauriti, a causa probabilmente di una forte eruzione vulcanica, e che questo evento potrebbe aver obbligato alla ricerca di nuove località di approvvigionamento (Cavalier 1994, pp. 189-196). Purtroppo al momento mancano testimonianze archeologiche di tale attività produttiva, ed è ad oggi nota soltanto una galleria di estrazione localizzata sull’isola di Vulcano, detta “Grotta dell’allume”. Qui, malgrado il pessimo stato di conservazione legato agli attacchi chimici dei fluidi vulcanici, sono visibili i segni delle lavorazioni di epoca moderna. È naturalmente possibile che tale giacimento sia stato sfruttato anche anticamente, forse contemporaneamente all’allumiera di epoca romana liparese, ma al momento non abbiamo certezze. Nel caso di uno sfruttamento, antico sembra altamente verosimile pensare che, come detto precedentemente, i giacimenti di Vulcano fossero compresi tra i bacini di approvvigionamento dell’allumiera romana di Lipari, dove forse erano localizzati il centro direzionale e le strutture produttive. Nei primi anni del XVI secolo le miniere furono concesse ai fiorentini Rainaldi Strozzi e Leonardo Tedaldi. Questi ultimi, coadiuvati da circa sessanta tecnici, si stabilirono nei pressi delle miniere e realizzarono le prime abitazioni del quartiere di San Michele, il più antico nucleo della futura cittadina di Roccalumera (Romeo 2009). Allo scadere della concessione la Regia Corte volle gettarsi in prima persona nell’impresa e, con il tramite del comendador mayor de Leon, incaricò lo studioso Giovanni Gallego di presentare una dettagliata relazione sull’attività mineraria e commerciale dell’allume: «… la miniera dell’allume, che si trova a 18 miglia da Messina e ad un miglio dalla marina, è situata in alto, in una montagnola… (…). Il filone dell’allume è costituito da terra che non è tanto buona; al contrario di quello, formato di pietra, che si trova nelle miniere di Mazzaronne e Civitavecchia… (…) La materia con la quale si fà l’allume è una certa vena di terra che si trova nella montagna. Una volta presa, la terra deve stare al coperto; infatti viene deposta in alcuni locali arieggiati, nei quali, da ogni lato, deve soffiare il vento; tuttavia essa non si deve bagnare, perchè nel caso in cui si bagnasse non servirebbe più per fare allume. Questa terra, prima che si faccia l’allume, deve stare depositata sei mesi, ma, se stesse di più, sarebbe meglio, perchè renderebbe di più..» (Cascio 1995, pp. 66-67). Questi stralci di descrizione lasciano intendere che non fosse utilizzata l’alunite per produrre l’allume, bensì un minerale che, seppur depositato in vene sotterranee, presentava la stessa consistenza della terra. Tale materia prima appartiene con probabilità al gruppo degli scisti piritici, ovvero rocce sedimentarie ricche in alluminio e zolfo, usate in numerose allumiere d’Europa (Picon 2005, pp. 27-30). La descrizione del processo produttivo e degli impianti necessari alla produzione dell’allume conferma quanto sostenuto: «… questa miniera di allume dispone di 12 caldaie piccole, da ciascuna delle quali si ricavano due quintali e mezzo d’allume, poco più o poco meno, ogni volta, di modo che tutte raggiungano la somma di 30 o 36 quintali, il che è meno della metà di quanto una sola caldaia suol dare in altre miniere. Le dodici caldaie già dette sono di pietra e sono scavate in una roccia, e sotto di esse si trovano i loro forni fatti con artificio alla stessa maniera; il fondo delle dette caldaie è di piombo, perché essendo in pietra non si ammette che siano di altro metallo. (…) In aggiunta alle caldaie costruite nella roccia vi sono altre vasche, dove, dopo essere stata riscaldata, l’acqua viene versata perché si coaguli e diventi allume. La materia con la quale si fa allume è una certa vena di terra che si trova sulla montagna. Una volta presa la terra deve stare al coperto; infatti viene deposta in alcuni locali arieggiati, nei quali, da ogni lato, deve soffiare il vento; tuttavia essa non si deve bagnare, perché nel caso in cui si bagnasse non servirebbe più a fare allume…» (Cascio 1995, p. 63). Dagli scisti piritici era possibile ottenere anche il vetriolo, mediante un processo produttivo simile a quello richiesto per l’allume, sfruttando i medesimi impianti produttivi. La documentazione ci fornisce chiara testimonianza del fatto che venissero prodotti entrambi i sali, riferendoci i rispettivi prezzi di vendita: nel 1545, quando l’impresa era sotto diretto controllo del capitano Ferdinando Gonzaga, un cantaro di 4.2 Roccalumera (ME) Nonostante manchino al momento sufficienti conoscenze bibliografiche e archeologiche, tanto che gli unici contributi disponibili al riguardo sono frutto del lavoro di studiosi locali, si ritiene comunque utile dare un breve accenno della ricchezza delle evidenze archeologiche ancora riconoscibili nell’attuale abitato di Roccalumera. Sul fronte roccioso che domina il paese si riconoscono ingressi di miniera, vari antri di piccole dimensioni scavati nella pietra locale e forse utilizzati come luoghi di stoccaggio, e resti murari antichi, inglobati in costruzioni più moderne, di cui è difficile riconoscere le originali funzioni ma da attribuire probabilmente all’attività produttiva. I resti sono certamente riferibili a un orizzonte cronologico pre-industriale; una datazione più sicura degli stessi è tuttavia complessa, anche se alcuni indizi di carattere documentario possono far supporre che l’origine dello sfruttamento in quest’area risalga alla fine del XIV secolo. A tal proposito particolarmente indicativo appare un documento datato 18 aprile 1402, dal quale si deduce che nell’area prossima al Monte Scuderi, e più precisamente in Fiumendisi e in Alì, vi fossero giacimenti di allume, argento, ferro, rame e zolfo. Il documento riporta l’autorizzazione concessa dal re Martino a tali Bertu Billuni di Messina, Filippo Aczano di Pizolo ed Andrea Carlino di Napoli, per poter «… chircari et operari in li predetti mineri tutto chillu che ad ipsi sirra possibili tantum di alumi quanto di argentu, di rami, di sulfaru, di ferru, di pulviri di gamillu, quanto eciam di omni altru mitallu terra et petra ki pozuno trovari in tutti li territorii di li loki preditti et in la dicta muntagna di munti Scueri exceptu minera di auro…» (Cascio 1995, p. 55). Agli inizi del ’500 l’allumiera era certamente in attività: la Regia Corte aragonese concesse infatti a Francesco De Fide il diritto di sfruttarne le risorse. L’accordo prevedeva che il concessionario versasse a titolo di pagamento la decima parte del denaro guadagnato (ibid.). 207 S. Fineschi allume costava cinque scudi, mentre il vetriolo tre scudi soltanto (Cascio 1995, p. 63). Quanto detto sopra porta ragionevolmente ad escludere l’ipotesi di essere in presenza di uno di quei casi di confusione terminologica per cui si tendeva a denominare “allume” qualsiasi prodotto salino con potere mordenzante. Un auspicabile approfondito studio di questo contesto potrebbe sicuramente giovarsi delle evidenze archeologiche ancora sopravvissute nel paese di Roccalumera e nei suoi dintorni. Feniello A., 2005, L’allume di Napoli nel XV secolo, in Ph. Borgard, J.P. Brun, M. Picon (dir.), L’Alun de Méditerranée, Napoli-Aix-en-Provence, pp. 97-104. Heyd G., 1913, Storia del commercio del levante nel Medio Evo, Torino, pp. 480-1135. Heers J., 1954, Les Génois et le commerce de l’alun à la fin du Moyen Age, «Revue d’histoire économique et sociale», 32, 1, pp. 31-53. La Greca G., 2007, La storia della pomice di Lipari, II, Lipari. 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The project was created in parallel with the archaeological survey conducted on the site of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, Grosseto), the only production site linked to artificial-alum production that has been archaeologically investigated to date in the European panorama, for the Late Medieval and Modern Era. Although partly ignored by historical-archaeological research, the Agnano and Ischia productions as well as the Lipari and Roccalumera ones should not be considered as episodes of secondary importance in order to reconstruct a general picture of alum production in the Italian Peninsula. In fact, the available documentation offers us numerous clues regarding an exploitation of alunite that can be traced back to a period prior to that traditionally indicated by the sources, that referes to the Modern Age. 208 Alum is an extremely versatile and precious raw material, used since classical times in alchemy, pharmacy, leather tanning and in various fields of metallurgy. Since the Middle Ages, the best known use of alum obtained from the processing of alunite has been linked to dyeing; it is in fact an excellent mordant, and even today, artisan dyestuffs make extensive use of it. Despite the importance that the study of this raw material has for the history of technology and more in general, for material culture, archaeology to date has dealt little with the production of alum, particularly for the medieval and modern era. In recent years, however, new archaeological research conducted by the universities of Roma-La Sapienza and Siena on two important production areas in central Italy (the Colline Metallifere district in southern Tuscany and the Tolfa mountains in upper Latium), has made it possible to acquire important data, which call for a renewed dialogue between historical disciplines. The topic is also fully in line with the research promoted by the ERC Advanced project nEUMed: Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region, thanks to which since 2015 the coastal valleys and inland areas of Colline Metallifere have experienced an intense season of multidisciplinary investigations. The comparison between these study contexts and the main supply areas of the Mediterranean basin (southern Italy, Turkey, Greece, Spain) allows to draw a first balance of the research, and to identify common investigation paths and methodologies to deepen production methods, trade networks, strategies of resource control between the Middle Ages and the Modern Era. € 42,00 BAM-29 ISSN 2035-5319 ISBN 978-88-7814-989-2 e-ISBN 978-88-7814-990-8 I paesaggi dell’allume Alum landscapes L’allume è una materia prima estremamente versatile e preziosa, utilizzata sin da epoca classica in alchimia, farmacia, nella concia del pellame ed in vari campi della metallurgia. Dal Medioevo l’utilizzo certamente più conosciuto dell’allume ottenuto dalla lavorazione dell’alunite è legato alla tintoria; esso è infatti un ottimo mordente, ed ancor oggi le tinture artigianali ne fanno largo uso. Malgrado il rilievo che lo studio di questa materia prima riveste dal punto di vista della storia della tecnologia e più in generale della cultura materiale, l’archeologia ad oggi si è occupata poco di produzione d’allume, in particolare per l’epoca medievale e moderna. Negli ultimi anni tuttavia la realizzazione di nuove ricerche archeologiche condotte dalle università di Roma-La Sapienza e Siena su due importanti aree di produzione dell’Italia centrale, la Toscana centro meridionale (il territorio delle Colline Metallifere) e l’alto Lazio (i monti della Tolfa), ha permesso di acquisire dati importanti, che sollecitano un rinnovato dialogo fra discipline storiche. L’argomento si inserisce inoltre pienamente nelle linee di ricerca promosse dal progetto ERC Advanced nEUMed: Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region, grazie al quale dal 2015 le valli costiere e le aree interne delle Colline Metallifere hanno conosciuto una intensa stagione di indagini multidisciplinari. Il confronto fra questi contesti di studio e le principali aree di approvvigionamento del bacino del Mediterraneo (Italia meridionale, Turchia, Grecia, Spagna) consente di tracciare un primo bilancio della ricerca, e di individuare percorsi e metodologie d’indagine comuni per approfondire metodi di produzione, reti di commercio, dinamiche di controllo della risorsa fra Medioevo ed Età Moderna. edited by Luisa Dallai, Giovanna Bianchi, Francesca Romana Stasolla 29