Biblioteca di
I paesaggi dell’allume
Archeologia della produzione
ed economia di rete
project
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA
Alum landscapes
Archaeology of production
and network economy
a cura di / edited by
Luisa Dallai, Giovanna Bianchi, Francesca Romana Stasolla
SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA
All’Insegna del Giglio
BIBLIOTECA DI
29
Cultura materiale. Insediamenti. Territorio.
Rivista fondata da Riccardo Francovich
Comitato di Direzione
Sauro Gelichi (responsabile) (Dipartimento Gian Pietro Brogiolo (già Università degli
di Studi Umanistici – Università Ca’ FoStudi di Padova)
scari di Venezia)
Comitato Scientifico
Lanfredo Castelletti (già Direttore dei
Musei Civici di Como)
Rinaldo Comba (già Università degli Studi
di Milano)
Paolo Delogu (Professore emerito, Sapienza
Università di Roma)
Richard Hodges (President of the American
University of Rome)
Antonio Malpica Cuello (Departamento Carlo Varaldo (Dipartimento di antichità,
de Historia – Universidad de Granada)
filosofia, storia, geografia – Università
Ghislaine Noyé (École nationale des chartes)
degli Studi di Genova)
Paolo Peduto (già Università degli Studi Chris Wickham (già Faculty of History –
di Salerno)
University of Oxford)
Juan Antonio Quirós Castillo (Departamento de Geografía, Prehistoria y Arqueología de la Universidad del País Vasco)
Redazione
Andrea Augenti (Dipartimento di Storia Cristina La Rocca (Dipartimento di Scienze
Culture Civiltà – Università degli Studi
storiche, geografiche e dell’antichità – Unidi Bologna)
versità degli Studi di Padova)
Giovanna Bianchi (Dipartimento di Scienze Marco Milanese (Dipartimento di Storia,
Storiche e dei Beni Culturali – Università
Scienze dell’uomo e della Formazione –
degli Studi di Siena)
Università degli Studi di Sassari)
Enrico Giannichedda (Istituto per la Alessandra Molinari (Dipartimento di
Storia della Cultura Materiale di Genova
Storia – Università degli Studi di Roma
[ISCuM])
Tor Vergata)
Corrispondenti
Paul Arthur (Dipartimento di Beni Culturali – Università degli Studi di Lecce)
Volker Bierbrauer (Professore emerito,
Ludwig-Maximilians-Universität München)
Hugo Blake (già Royal Holloway – University of London)
Maurizio Buora (Società friulana di archeologia)
Federico Cantini (Dipartimento di Civiltà
e Forme del Sapere – Università degli
Studi di Pisa)
Gisella Cantino Wataghin (già Università
del Piemonte Orientale)
Enrico Cavada (Soprintendenza per i beni
librari, archivistici e archeologici – Trento)
Neil Christie (School of Archaeology and
Ancient History – University of Leicester)
Mauro Cortelazzo (Archeologo libero
professionista)
Fr ancesco Cuteri (AISB, Associazione
Italiana Studi Bizantini)
Lorenzo Dal Ri (già Direttore ufficio Beni
archeologici – Provincia autonoma di
Bolzano Alto Adige)
Franco D’Angelo (già Direttore del Settore
Cultura e della Tutela dell’Ambiente della
Provincia di Palermo)
Alessandra Frondoni (già Soprintendenza
Archeologia della Liguria)
Caterina Giostra (Dipartimento di Storia,
archeologia e storia dell’arte – Università
Cattolica del Sacro Cuore)
Federico Marazzi (Dipartimento di Scienze
Storiche e dei Beni Culturali – Università
degli Studi Suor Orsola Benincasa)
Roberto Meneghini (Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali)
Egle Micheletto (direttore della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio
per le Province di Alessandria, Asti e
Cuneo)
Massimo Montanari (Dipartimento di
Storia Culture Civiltà – Università degli
Studi di Bologna)
Giovanni Murialdo (Museo Archeologico
del Finale – Finale Ligure Borgo SV)
Claudio Negrelli (Dipartimento di Studi
Umanistici – Università Ca’ Foscari di
Venezia)
Michele Nucciotti (Dipartimento di Storia,
Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo –
Università degli Studi di Firenze)
Gabriella Pantò (Musei Reali di Torino –
Museo di Antichità)
Helen Patterson (già British School at
Rome)
Luisella Pejrani Baricco (già Soprintendenza Archeologia del Piemonte e del
Museo Antichità Egizie)
Sergio Nepoti (responsabile sezione scavi in
Italia) (Archeologo libero professionista)
Aldo A. Settia (già Università degli Studi
di Pavia)
Marco Valenti (Dipartimento di Scienze
Storiche e dei Beni Culturali – Università
degli Studi di Siena)
Guido Vannini (Dipartimento di Storia,
Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo
– Università degli Studi di Firenze)
Philippe Pergola (LAM3 – Laboratoire
d’Archéologie Médiévale et Moderne en
Méditerranée – Université d’Aix-Marseille
CNRS/Pontificio istituto di acheologia
cristiana)
Renato Perinetti (già Soprintendenza per
i Beni e le Attività Culturali della Regione
Autonoma Valle d’Aosta)
Giuliano Pinto (già Università degli Studi
di Firenze)
Marcello Rotili (Seconda Università degli
Studi di Napoli)
Daniela Rovina (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province
di Sassari, Olbia-Tempio e Nuoro)
Lucia Saguì (già Sapienza Università di
Roma)
Piergiorgio Spanu (Dipartimento di Storia,
Scienze dell’uomo e della Formazione –
Università degli Studi di Sassari)
Andrea R. Staffa (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo)
Daniela Stiaffini (Archeologa libera professionista)
Stanisław Tabaczyński (Polskiej Akademii
Nauk)
Bryan Ward Perkins (History Faculty –
Trinity College University of Oxford)
I paesaggi dell’allume
Archeologia della produzione
ed economia di rete
Alum landscapes
archaeology of production
and network economy
a cura di / edited by
Luisa Dallai, Giovanna Bianchi, Francesca Romana Stasolla
con contributi di
María Martínez Alcalde, Lorna Anguilano, Ioanna P. Arvanitidou, Çiğdem Özkan Aygün,
Giovanni Arcudi, Marica Baldoni, Giovanna Bianchi, Didier Boisseuil, Mirko Buono,
Chiara Carloni, Beatrice Casocavallo, Laura Chiarantini, Luisa Dallai, Marianna D’Amico,
Michele Di Filippo, Maria Di Nezza, Alessandro Donati, Giulia Doronzo, Stefania Fineschi,
Vittorio Fronza, Cristina Martínez-Labarga, Vasco La Salvia, Alessandra Nardini, Giulio Poggi,
Elisabetta Ponta, Giuseppe Romagnoli, Eleonora Romanò, Francesca Romana Stasolla,
Fabiana Susini, Paolo Tomei, Fabrizio Vallelonga, Vanessa Volpi, Andrea Zifferero
All’Insegna del Giglio
In copertina: Tolfa-Allumiere, fronte di cava (Archivio Progetto Cencelle, Sapienza Università di Roma).
Monterotondo Marittimo (GR), le fornaci del sito di Monteleo (foto P. Nannini, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e
Paesaggio per le Province di Siena, Grosseto e Arezzo).
Ove non altrimenti specificato, le fotografie sono degli Autori dei singoli contributi.
Il volume è stato sottoposto alla double-blind peer review.
L’idea del volume nasce dal convegno internazionale: I paesaggi dell’allume: archeologia della produzione ed economia di rete; Alum
landscapes: archaeology of production and network economy, tenutosi a Roma e Siena nei giorni 9-11 Maggio 2016.
Il convegno si è svolto con il contributo di:
Sapienza Università di Roma (disposizione rettorale 652/2016)
Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali
École française de Rome
CNRS
Comune di Allumiere
Comune di Monterotondo Marittimo
This project has received funding from the European Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research
and innovation programme (grant agreement n. 670792)
ISSN 2035-5319
ISBN 978-88-7814-989-2
e-ISBN 978-88-7814-990-8
© 2020 All’Insegna del Giglio s.a.s.
via Arrigo Boito, 50-52; 50019 Sesto Fiorentino (FI)
tel. +39 055 6142 675
e-mail redazione@insegnadelgiglio.it; ordini@insegnadelgiglio.it
sito web www.insegnadelgiglio.it
Printed in Sesto Fiorentino (FI), luglio 2020
MDF print
Le cose semplici si capiscono attraverso lunghe scadenze
(R. Guttuso, 1975, Come nasce un’opera d’arte, Teche RAI)
Dedichiamo questo volume ad Orano Pippucci,
amministratore entusiasta e tenace, innamorato della ricerca
archeologica, della storia dell’allume e del sito di Monteleo.
Gli dobbiamo molto.
CONTENTS
I PAESAGGI DELL’ALLUME
ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE ED ECONOMIA DI RETE
ALUM LANDSCAPES
ARCHAEOLOGY OF PRODUCTION AND NETWORK ECONOMY
INTRODUZIONE AL TEMA
INTRODUCTION
Giovanna Bianchi, Luisa Dallai, Francesca Romana Stasolla
Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa . . . . . . . . . . . . 11
Studying alum and its landscape: open questions, tools and objectives of a complex research . . . . . . . . . . . . . . 14
Didier Boisseuil
L’alun à la fin du Moyen Âge: nouvelles approches, nouvelles perspectives. Le GdRI EMAE . . . . . . . . . . . . . . 19
Alum at the end of the Middle Ages: new approaches, new perspectives. The GdRI EMAE.. . . . . . . . . . . . . . . 22
RISORSE E AMBIENTE
NATURAL RESOURCES AND ENVIRONMENT
Maria Di Nezza, Michele Di Filippo
Coltivazione e circolazione dell’alunite nel bacino del Mediterraneo dall’Epoca Antica all’inizio del ’900
da “indicatori geologici” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
Exploitation and circulation of alunite in the Mediterranean basin since Antiquity until the beginning of the 20th
century through “geological indicators” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
Alessandro Donati, Vanessa Volpi, Luisa Dallai
La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
Chemical mapping of alum production contexts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
L’ALLUME LAZIALE
THE LATIUM ALUM LANDSCAPE
Francesca Romana Stasolla
Le allumiere dei Monti della Tolfa tra archeologia ed economia di indotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
The allumiere of the Tolfa district: archaeology and economical network . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
Fabrizio Vallelonga
L’insediamento della Bianca, il primo villaggio dei cavatori? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
The settlement of La Bianca, the first village of miners? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
Marica Baldoni, Marianna D’Amico, Giovanni Arcudi, Cristina Martínez-Labarga
I minatori dell’allume: la struttura della popolazione alla luce delle analisi antropologiche . . . . . . . . . . . . . . 69
Alum miners: population structure in the light of anthropological analysis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73
Chiara Carloni, Giulia Doronzo
Modalità di estrazione e tracce di lavorazione dell’allume sui Monti della Tolfa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75
Alum: methods of extraction and traces of processing in the Tolfa mountains . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81
Beatrice Casocavallo
Circolazione delle ceramiche nei territori dell’allume tolfetano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
Circulation of pottery in the territories of the Tolfa alum district . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
Giuseppe Romagnoli
L’“allume di Ferento” e il “vetriolo di Viterbo”: continuità di una produzione tra Medioevo ed Età Moderna . . . . . . 89
The “alum from Ferento” and the “vitriol from Viterbo”. Continuity of a production between the Middle Ages and the
Modern Era . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94
Andrea Zifferero
Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma): conoscenze storiche, criticità e prospettive
di valorizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95
Archaeology of mines and production in the Tolfa mountains (Rome): historical knowledge, issues and opportunities
of valorization . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107
Eleonora Romanò, Fabiana Susini
Allume: attestazioni tecniche del termine e sue derivazioni linguistiche nelle fonti letterarie dall’Età Romana
all’Età Moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
Alum: technical references and linguistic derivations of the term in literary sources from the Roman to the Modern Age . . 111
IL CONTESTO TOSCANO
THE TUSCAN ALUM LANDSCAPE
Luisa Dallai
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo. Nuovi dati per la produzione dell’allume alunitico nel tardo Medioevo . . . . . 115
The excavation of the Allumiera di Monteleo. New archaeological data for the production of alum
in the Late Middle Ages . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
Vanessa Volpi, Laura Chiarantini
Archeometria dell’allume: cicli produttivi a confronto fra il sito di Monteleo e gli altri contesti produttivi
delle Colline Metallifere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131
Archaeometry of alum: a comparative analysis of the production cycles in the site of Monteleo and in other production
contexts of the Colline Metallifere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135
Giulio Poggi, Mirko Buono
Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso dell’Allumiera di Monteleo
(Monterotondo Marittimo, GR) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137
The study of a productive context through production quantification: the site of the Allumiera di Monteleo
(Monterotondo Marittimo, GR) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145
Elisabetta Ponta
Cultura materiale e contesti topografici. L’Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR):
studio dei reperti ceramici e confronto con il territorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147
Material culture and topographical contexts in the territory of the Allumiera di Monteleo
(Monterotondo Marittimo, GR): analysis of pottery finds and comparison with the territory . . . . . . . . . . . . . 154
Giovanna Bianchi, Paolo Tomei
Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume . . . . . . . . . . 155
Natural resources and settlement contexts in the Early Medieval Colline Metallifere: the possible role of alum. . . . . 166
Lorna Anguilano, Vittorio Fronza, Vasco La Salvia, Alessandra Nardini
Paesaggi minerari altomedievali dell’Alta Val di Merse. Il caso di Miranduolo (Chiusdino, SI). . . . . . . . . . . . 167
Early Medieval mining landscapes of Alta Val di Merse. The case of Miranduolo (Chiusdino, SI) . . . . . . . . . . 172
L’ALLUME MEDITERRANEO
THE MEDITERRANEAN ALUM CONTEXTS
Çiğdem Özkan Aygün
The flesh eating stone: alum mining and trade in Asia Minor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175
La pietra che divora la carne: estrazione e commercio di allume in Asia Minore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182
María Martínez Alcalde
El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183
The cultural heritage of alum in Spain. The testimonies of Mazarrón . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194
Ioanna P. Arvanitidou
Alum Mines in Medieval Greece . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195
Le miniere di allume nella Grecia medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200
Stefania Fineschi
La produzione di allume nell’Italia meridionale. I casi di Agnano – Ischia (NA) e Lipari-Roccalumera (ME) . . . . 201
The production of alum in southern Italy. The examples of Agnano – Ischia (Naples) and Lipari-Roccalumera (Messina) . .208
INTRODUZIONE AL TEMA
INTRODUCTION
Giovanna Bianchi*, Luisa Dallai*, Francesca Romana Stasolla**
STUDIARE L’ALLUME ED IL SUO PAESAGGIO:
DOMANDE, STRUMENTI ED OBIETTIVI DI UNA RICERCA COMPLESSA
A quindici anni dall’edizione del volume L’alun de
Méditerranée (Borgard, Brun, Picon 2005), che raccolse
numerosi contributi sul tema della produzione, dell’impiego e della circolazione dell’allume fra l’Antichità ed il
Medioevo, molte nuove ricerche di carattere archeologico e
storico-documentario si sono indirizzate allo studio di questa
importante materia prima, del suo ciclo produttivo e della sua
commercializzazione a cavallo fra Medioevo ed Età Moderna.
In questa sede abbiamo raccolto i contributi proposti
in occasione di due intense giornate di studio svoltesi nella
primavera del 2016 a Roma (Sapienza Università di Roma,
Dipartimento di Scienze dell’Antichità) ed a Siena (Università
degli Studi, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni
Culturali), aggiornandoli alla luce degli ulteriori sviluppi
emersi dalla ricerca in corso. Queste nuove indagini offrono
l’opportunità di analizzare una materia prima di grande rilievo per l’economia del Medioevo, descrivendone non solo
la produzione, ma anche l’impatto sul territorio ed i riflessi
sulle reti economiche.
L’argomento si inserisce inoltre pienamente nelle linee di
ricerca promosse dal progetto ERC Advanced nEU-Med:
Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources,
landscapes and political strategies in a Mediterranean region
(http://www.neu-med.unisi.it), grazie al quale dal 2015
sono state intraprese nuove indagini multidisciplinari sulle
valli costiere e sulle aree interne delle Colline Metallifere
(Toscana sud-occidentale), là dove insistono significativi
depositi polimetallici e rilevanti giacimenti di alunite ed
allumi naturali sfruttati sin dall’Antichità. L’indagine su di
una simile preziosa risorsa presente all’interno del territorio
chiave del progetto può fornire validi spunti per comprendere
in maniera più completa i meccanismi che contribuirono alla
crescita economica di questo distretto tra alto Medioevo e
secoli centrali, obiettivo principale dello stesso progetto ERC.
La questione della produzione e circolazione dell’allume
(o, ancor meglio, degli allumi) può essere affrontata, e così è
stato, da molti punti di vista; nel corso del tempo i contributi
più significativi si sono focalizzati sulle implicazioni socioeconomiche e sulle dinamiche di controllo, circolazione e
gestione della risorsa, offrendo un punto di sintesi attento
in particolar modo agli aspetti emersi dalla ricerca documentaria. Dai lavori di Lopez (Lopez 1933), Fiumi (Fiumi
1943), Singer (Singer 1948), Delumeau (Delumeau 1962),
solo per citare i titoli più celebri, fino ai recenti contributi
miscellanei raccolti nei Mélanges de l’Ecole Francaise de RomeMoyen Âge (Boisseuil, Ait 2014), sono numerosi i lavori che,
per aree geografiche e cronologie differenti, hanno messo a
fuoco aspetti di storia sociale, istituzionale, economica, di
certo interesse.
Diverso è invece il quadro offerto dalla ricerca archeologica. Pur trattandosi di un argomento, quello della lavorazione e circolazione dell’allume, che ha molto a che fare
con l’archeologia della produzione, la storia della tecnologia
e più in generale con la cultura materiale, l’archeologia se
ne è occupata assai poco, ed ancor meno ci si è dedicati a
studiarne le caratteristiche produttive in epoca medievale
e moderna, e ciò malgrado i molteplici campi d’impiego
della materia prima, che la hanno resa oltre che preziosa,
assai versatile. Potremmo dire, prendendo a prestito le
parole di Delumeau, che non solo “la grande storia”, ma
anche “l’archeologia” ha a lungo ignorato l’allume, «…
protagonista assai discreto delle vicende umane, così come
ha lungamente trascurato il grano, l’olio e, in generale, tutto
ciò che è indispensabile alla vita quotidiana: del resto è solo
quando il fornaio non ha più il pane che si parla di lui…»
(Delumeau 1962, p. 301).
Dopo i fondamentali contributi di Maurice Picon che
hanno delineato con precisione la cornice entro la quale
inserire i diversi tipi di produzione d’allume a partire dalla
materia prima utilizzata (a lui si deve la distinzione in allume
naturale, artificiale e di sintesi, che corrisponde a cronologie
successive ed a tecnologie sempre più articolate; Picon
2000, 2005), pochissimi progetti hanno approfondito il
tema della sua produzione e circolazione, e con essi del
legame fra paesaggio storico, produzione ed economia di
rete. Le ragioni di questa poca fortuna sono però piuttosto
facili da individuare: la prima, la più evidente, è la sostanziale “invisibilità archeologica” del prodotto “allume”; in
quanto sale, l’allume non si conserva. La sua lavorazione
inoltre, a differenza di quella degli altri cicli di produzione, ad esempio i metalli, non produce scorie. Mancano
per conseguenza anche buona parte degli “indicatori di
produzione” e questo rende complesso, oltre all’approccio
archeologico, anche quello archeometrico.
Quest’ultimo è risultato inoltre inefficace anche nel
caso, più canonico e consolidato, delle cosiddette “analisi
funzionali”. Come noto, fra la metà del I secolo a.C. ed il IV
secolo d.C., l’allume venne commercializzato da alcune delle
storiche aree di produzione (su tutte le Isole Eolie e l’area
* Università degli Studi di Siena – Dipartimento Scienze Storiche e dei
Beni Culturali (giovanna.bianchi@unisi.it; luisa.dallai@unisi.it).
** Sapienza Università di Roma – Diprtimento di Scienze dell’Antichità
(francescaromana.stasolla@uniroma1.it).
11
G. Bianchi, L.Dallai, F.R. Stasolla
scritte e quelle più propriamente tecniche (ad esempio la
trattatistica rinascimentale e le opere di Biringuccio – De
la Pirotechnia, ed Agricola – De re metallica), ponendo
attenzione agli aspetti tecnologici innovativi ed anche alla
persistenza delle tradizioni empiriche. Ciò con l’obiettivo
di individuare tanto le nuove acquisizioni ed i nuovi saperi,
quanto le tempistiche lunghe dei consolidati “saper fare”,
in alcune aree territoriali particolarmente ben studiati (ad
esempio per la Toscana Meridionale e la sua tradizione
estrattiva e metallurgica). Studiare l’allume da questo
punto di vista vuole dire, in estrema sintesi, approfondirne
gli aspetti tecnici come dato di partenza, per arrivare alla
ricostruzione di un quadro sociale e storico più ampio. Su
questo ambito squisitamente cronologico e tecnologico il
dialogo fra archeologia e fonti documentarie può apportare
significativi elementi di novità al dibattito.
Lo studio della produzione così declinato si inquadra nel
più generale concetto di “archeologia globale”: la solidità
delle ricostruzioni e le nuove acquisizioni sono infatti in
buona misura il risultato di un confronto schietto di carattere
multidisciplinare che individua nella geologia, nell’archeometria e nella chimica ambientale interlocutori privilegiati,
in grado di offrire nuovi spunti alla ricerca, di porre quesiti,
di scongiurare pericolose scorciatoie interpretative.
Di questo approccio multidisciplinare si giova particolarmente lo studio dei paesaggi minerari: leggerne le tracce
estrattive e di trasformazione, i sistemi di infrastrutture, la
gestione agricolo-forestale, il reticolo idrografico e le sue
modificazioni, significa interpretare un complesso palinsesto, consapevoli che gli aspetti produttivi ne sono una delle
premesse iniziali.
Un simile approccio è essenziale nello studio di qualunque
tipo di risorsa rispetto alla quale è necessario individuare
non solo la presenza di aree estrattive e strutture produttive,
delle quali il volume fornisce numerosi esempi, ma anche (e
soprattutto) il rapporto tra luoghi di approvvigionamento,
centri di trasformazione e mercati di consumo.
Negli ultimi decenni il rapporto tra risorse e assetti territoriali è stato uno dei temi maggiormente trattati da archeologi
e storici delle fonti documentarie di età medievale. Meno frequenti, ma comunque presenti nella letteratura archeologica,
sono i lavori relativi allo studio dello sfruttamento delle risorse
minerarie in rapporto alla stessa maglia insediativa. La scuola
senese ha fatto di questo tema un consolidato ambito di ricerca, seguito con continuità a partire dagli anni Ottanta dello
scorso secolo ed affrontato con gli strumenti interpretativi
propri dell’archeologia medievale.
Ancora meno frequenti sono, invece, gli studi che affrontano tali tematiche partendo da una generale analisi del
contesto territoriale, analizzando quindi il più complesso
rapporto esistente tra insediamenti, paesaggio naturale e
trasformazioni antropiche. La rilevanza dell’allume in quanto
fondamentale e preziosa risorsa utilizzabile in molti campi
della cultura materiale rende lo studio dei segni del suo sfruttamento un indispensabile ‘fossile guida’ per comprendere sia
le dinamiche che regolarono la formazione o lo sviluppo di
una rete insediativa connessa a tale sfruttamento, prossima
o meno ai luoghi di produzione, e delle infrastrutture legate
alla lavorazione e al trasporto, sia il rapporto tra insediamenti,
delle Cicladi) in anfore, le Richborough 527, e le “Milo 1”
(Borgard 2005). Le analisi condotte sui contenitori non
hanno però potuto rintracciare alcun resto di allume, e ciò
non stupisce affatto. L’allume è infatti un sale che contiene
alluminio, e l’alluminio è un elemento talmente diffuso nei
suoli e nelle rocce che solo una concentrazione altissima dello
stesso (difficilmente rintracciabile a causa delle condizioni
di giacitura dei materiali) potrebbe indicare la presenza
di un contenuto, piuttosto che la natura dell’argilla o dei
dimagranti impiegati nella produzione del contenitore.
L’identificazione funzionale è stata affidata di conseguenza
non tanto a dati di natura fisico-chimica, quanto ad una
osservazione delle reti di commercio e dei mercati nei quali
i contenitori sono documentati: mercati privilegiati, siti con
vocazione artigianale e produttiva.
La strada dell’archeometria, per quanto complessa, è stata
invece percorsa con risultati assai interessanti più di recente,
e proprio grazie al progetto nEU-Med, sul territorio delle
Colline Metallifere; alcuni degli esiti più promettenti sono
proposti all’interno del volume.
La seconda ragione della scarsa fortuna dell’allume in
archeologia è certamente l’ambiguità del termine stesso,
che non designa con esattezza una singola materia prima,
ed è stato usato per descrivere un più generale insieme di
sostanze mordenzanti di varia natura ed origine (Picon
2005). Ciò rende ancor più difficile la messa a fuoco dei
caratteri peculiari del ciclo di produzione dal punto di vista
delle evidenze materiali.
Dunque: come si può studiare l’allume, ricostruirne il
ciclo produttivo e le implicazioni economiche, definire nuove
cronologie, evidenziarne l’impatto sul paesaggio a partire dal
dato materiale?
È proprio su questi diversi campi di ricerca che il volume
si propone di offrire nuovi spunti di riflessione.
Il primo obiettivo è naturalmente quello di fare il punto
sullo stato delle ricerche sul campo, sia in Italia sia all’estero. I
contributi presentano i dati disponibili per i principali ambiti
produttivi della Penisola (l’Italia meridionale, il Lazio ed in
particolare il distretto di Tolfa Allumiere; la Toscana meridionale ed il territorio delle Colline Metallifere), confrontandoli
con quelli di alcuni fra i principali distretti produttivi del
bacino del Mediterraneo (Asia Minore, Grecia, Spagna). Le
sintesi proposte, oltre a fornire uno “stato dell’arte” della
ricerca archeologica, ci auguriamo forniscano lo stimolo per
un rinnovato e stringente confronto con i dati tratti dalla
ricerca documentaria.
Assieme a questo fondamentale punto di partenza, il
volume affronta un insieme di tematiche di indagine che la
ricerca sul campo può intercettare e sviluppare in vario modo.
Un primo punto che ci preme mettere a fuoco è quello dello studio del ciclo produttivo declinato secondo i
principi dell’archeologia della produzione. Ciò implica
l’individuazione e la valutazione accurata degli indicatori
di produzione e la loro quantificazione per misurarne
l’impatto sul contesto sociale e territoriale di riferimento.
Studiare la produzione in ambito cronologico medievale e
della prima Età Moderna vuole inoltre dire misurarsi criticamente con sistemi di fonti complessi e multidisciplinari,
all’interno dei quali rivestono un ruolo di rilievo le fonti
12
Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa
delle presenze religiose, spesso attrici di queste operazioni,
che prevedono anche nuovi edifici di culto. Il caso de La
Bianca è di nuovo estremamente sintomatico, anche per la
possibilità che fornisce di ricostruzione del contesto sociale
sotto l’aspetto antropologico.
Su scale diverse, ampie porzioni di territorio rispondono
alle nuove esigenze con l’organizzazione concentrica di fasce
areali destinate a funzioni diverse. Le esigenze del processo
di trasformazione dell’alunite prevedono in primo luogo
sistemi di regimazione delle acque (in entrata ed in uscita
dai siti di produzione); la gestione degli scarti di produzione;
l’organizzazione degli approvvigionamenti di legna.
Quest’ultimo aspetto appare dominante, per il paesaggio
del Lazio settentrionale (almeno fino alla diffusione di nuove
strategie tecniche di introduzione delle caldaie in rame, che
richiederanno un quantitativo minore di combustibile),
e ridisegna il paesaggio boschivo attorno alle allumiere, a
volte riconsegnandolo quasi desertificato al termine dello
sfruttamento. Un paesaggio che spesso è strettamente connesso con l’allevamento, anch’esso promosso dai nuovi ed
accresciuti consumi.
A distanza maggiore dalle cave, il ridisegno investe anche
il piano colturale del territorio, che cerca di riconvertirsi
alle nuove esigenze alimentari limitando al minimo le importazioni e concentrando i costi vivi della produzione in
un circuito alimentare quanto più possibile ristretto. Anche
in questo caso, le campagne del comprensorio di Tolfa ed
Allumiere, destinate a colture specifiche e talvolta intensive,
provocano dislocazioni contadine in forme diverse dal popolamento sostanzialmente accentrato che aveva caratterizzato
buona parte del Medioevo e soprattutto la sua ultima parte.
Lo stesso panorama delle colture viene adattato ad esigenze
alimentari poco variegate ma massicce nella quantità, ora
direzionate verso l’interno, cioè verso i territori delle cave.
L’intero paesaggio viene ridisegnato e conformato alle nuove
esigenze con risultati eccellenti, ma a prezzo della perdita di
ogni autonomia insediativa nel raggio di azione destinato a
soddisfare l’ecomonia “di indotto” delle allumiere. Ne faranno
le spese centri di modesta entità, ma anche città comunali di
una qualche consistenza, come Cencelle, che pure mostrava
una sua floridezza, privati di ogni autonomia amministrativa
e soggiogati alle disponibilità degli appaltatori dell’impresa
dell’allume.
Questa organizzazione investe infine le vie di comunicazione, generando percorrenze che collegano le aree boschive
ai forni e le cave alle strade che conducono ai magazzini ed
ai porti. Nei Monti della Tolfa ponti e passaggi vengono
edificati a cura di enti ecclesiastici e di privati, diretti appaltatori delle allumiere oppure convolti nell’economia di
indotto, convogliando i fasci di vie verso direttrici che a volte
cambiano completamente la geografia stradale, contribuendo
di conseguenza a mutamenti anche profondi nelle gerarchie
del popolamento.
Le esigenze del processo estrattivo dell’alunite e delle
attività ad esso collaterali, o da esso dipendenti, hanno profonde ripercussioni anche in un’altra impresa, quella legata
alla lavorazione dei metalli.
I territori dell’allume sono spesso anche territori ad alta
concentrazione di metalli, il cui sfruttamento ha preceduto
risorse e sfruttamento dell’ambiente naturale. Quest’ultimo
aspetto necessita dell’apporto indispensabile delle scienze
archeometriche e delle bioarcheologie.
In quanto risorsa ‘sensibile’ e di primaria importanza,
lo studio dello sfruttamento dell’allume intercetta anche il
tema di ricerca che fa riferimento alla cosiddetta “archeologia
del potere”. Se in generale per ‘potere’ si intende la capacità
di raggiungere determinate finalità esercitando funzioni di
controllo, questa definizione acquisisce maggiore significato
quando tali finalità sono connesse allo sfruttamento di risorse
naturali di particolare rilevanza, collegate a cicli produttivi
complessi, che necessitano di particolari strutture produttive e di conoscenze specializzate. Le strutture e le aree di
produzione dell’allume (e conseguentemente anche la rete
insediativa ad esse associata) divengono, pertanto, uno dei
segni delle strategie economiche, politiche e sociali attuate
da specifici poteri. Di questi ultimi le fonti documentarie
possono individuare i diversi attori e per periodi più vicini
anche decifrare i meccanismi di macro attuazione.
L’archeologia, attraverso il riconoscimento dei segni materiali presenti all’interno del contesto territoriale, è invece
in grado di apportare elementi di conoscenza relativi all’avvicendamento dei poteri che si suppongono preposti a tale
sfruttamento, sia grazie al riconoscimento dell’organizzazione
degli spazi, dei cicli produttivi e delle relative infrastrutture,
sia attraverso lo studio del più complesso quadro economico
(ben ricostruibile in base all’analisi della cultura materiale).
Tali dati sono essenziali per comprendere il livello di pervasività dei poteri stessi e la loro centralità anche in rapporto
al tessuto sociale del territorio.
La produzione di allume genera infatti profonde modificazioni nei territori che ospitano le cave e crea legami
fra questi e le aree di commercio, soprattutto marittimo.
Malgrado l’impossibilità di riconoscere tracce di allume a
partire dall’analisi dei contenitori da trasporto, numerose
sono le possibilità di riscontro archeologico sia delle relazioni commerciali che esso favorisce, sia delle ripercussioni
economiche che la sua produzione provoca nei territori che
ne ospitano le cave. Su questi aspetti, la ricerca archeologia e
topografica è solo agli inizi, e non può trovare risposte senza
l’integrazione della documentazione scritta, che consente
di delineare l’estensione dei quadri territoriali interessati
da quella che potremo definire “l’economia dell’allume”.
Le potenzialità sono tuttavia enormi, come dimostra il
complesso di Tolfa ed Allumiere, fino ad ora studiato
esclusivamente sotto il profilo storico. La dispersione dei
suoi numerosi fronti di cava rende complessa l’indagine
archeologica; tuttavia in taluni casi le ricerche consentono di
cogliere le tracce di strutture produttive, come evidenziato
dai contributi presenti nel volume.
Come qualsiasi impresa, soprattutto se di medio-grandi
dimensioni, anche quella dell’allume (basata sull’allumiera)
non può sussistere senza un territorio che la sostenga, secondo
dinamiche che possono esser almeno in parte categorizzate.
In primo luogo, cambiano gli accentramenti demici in
modo programmato; in area tolfetana l’esempio de La Bianca
rappresenta un caso eclatante di un insediamento costruito ex
novo per ospitare le squadre di minatori ed eventualmente le
loro famiglie. Con i centri abitativi cambia anche la gerarchia
13
G. Bianchi, L.Dallai, F.R. Stasolla
quello dell’alunite. Ora, la necessità di legare la produzione
alla manutenzione delle attrezzature da scavo, da carico, da
trasporto, alla ferratura degli animali adibiti al trasporto,
agli accessori di abbigliamento e di vita di quella parte
della popolazione che gravita attorno alle cave, promuove
una intensa ripresa di attività metallurgiche. Il trasporto
del prodotto finito, infine, coinvolge la progettazione e
la costruzione di magazzini e strutture per lo stoccaggio
del materiale, oltre che lo sviluppo e l’ampliamento delle
strutture portuali. Queste inoltre si gerarchizzano secondo
criteri che sono strettamente legati alle scelte delle direttrici
di commercio del nuovo prodotto. L’analisi delle direttrici
è studiata sulla base della documentazione scritta, ma
riteniamo che anche la ricerca archeologica possa dare il
suo contributo.
Se il prodotto allume non lascia tracce certe del suo
trasporto, le merci di accompagno o dei carichi di ritorno
possono costituire invece una testimonianza importante
della rete di diffusione del mercato dell’allume anche oltre
le tratte strettamente portuali. La circolazione dei prodotti
ceramici e l’individuazione di mercati e scambi sia in area
toscana che per il Lazio settentrionale forniscono interessanti
spunti di analisi.
Alla luce di queste brevi riflessioni si pone la scelta del
titolo del volume: delineare i paesaggi dell’allume vuol dire
cercare di comprendere il fenomeno della sua produzione
in un ampio spettro di visuale, leggerlo come chiave di un
processo economico ampio e diversificato. Significa anche
individuare delle linee di indagine che consentano una
effettiva comparazione di situazioni che, pur diverse, sono
unite da un mercato a tratti comune, da modalità produttive
ed economiche simili, e per le quali crediamo sia possibile
delineare delle linee di ricerca comparabili.
STUDYING ALUM AND ITS LANDSCAPE:
OPEN QUESTIONS, TOOLS AND OBJECTIVES
OF A COMPLEX RESEARCH
Fifteen years after the edition of L’alun de Méditerranée
(Borgard, Brun, Picon 2005), which included numerous
contributions on the production, use and circulation of alum
between Antiquity and the Middle Ages, new archaeological
and historical research has focused on the study of this important raw material, its production cycle and commercialization, between the Medieval and Modern Era.
In this volume the contributions presented over the
course of a two-day long workshop held in Rome (Sapienza
University of Rome, Department of Antiquities) and Siena
(University of Siena, Department of Historical Sciences and
Cultural Heritage) in the spring of 2016 have been gathered
and updated in light of newly acquired data from the still
ongoing research. These offer the opportunity to focus on
a raw material of great importance for the economy of the
Middle Ages, not only illustrating its production but also the
impact and effects it had on the territory and the economic
networks.
The topic is also in line with research promoted by the
ERC Advanced project nEU-Med: Origins of a new economic
union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political
strategies in a Mediterranean region (http://www.neu-med.unisi.it). Thanks to this project, since 2015 new multidisciplinary
investigations have been undertaken on the coastal valleys
and inland areas of the Colline Metallifere (south-western
Tuscany), an area that hosts significant polymetallic, alum
and alunite deposits exploited since ancient times. The
analysis of such a precious resource attested within the key
territory of the project can provide valuable insights for a
better understanding of the main topic of research raised by
nEU-Med, namely the mechanisms that contributed towards
the economic growth of this territorial district between the
Early Middle Ages and the turn of the millennium.
The issue of alum (or, more properly, “alums”) production and trade can and has been addressed from different
perspectives; in time, the most significant contributions
have focused on socio-economic matters as well as on the
dynamics of resource control, circulation and management,
offering particularly attentive syntheses as to aspects emerged
from the written sources.
From the works of Lopez (Lopez 1933), Fiumi (Fiumi
1943), Singer (Singer 1948), Delumeau (Delumeau 1962),
just to mention some of the most well-known publications,
to the most recent miscellaneous contributions collected in
the «Melanges de l’Ecole Francaise de Rome Moyen Age»
(Boisseuil, Ait 2014), research carried out in various geographical areas and for different chronological periods has
focused on significant aspects of social, institutional and
economic history.
As to archaeological research, the picture is quite different.
While the processing and circulation of alum is a subject very
much related to the history of technology and production
and, more in general, with material culture, archaeology has
given little attention to it and even less to the study of its production characteristics in both Medieval and Modern times,
BIBLIOGR AFIA
Fiumi E., 1943, L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale, Firenze.
Delumeau J., 1962, L’alun de Rome, XVe-XIXe siècle, Paris.
Singer C., 1948, The earliest chemical industry. An essay in the Historical Relations of Economics and Technology illustrated from Alum
Trade, London.
Boisseuil D., Ait I., 2014 (a cura di) Le monopole de l’alun pontifical
à la fin du moyen âge, «Mélanges de l’Ecole française de Rome.
Moyen Âge», 126-1, pp. 147-148.
Biringuccio V., 1540, De la Protechnia, Venezia (ristampa anastatica
a cura di A. Carugo, Milano 1977).
Agricola G.,1556, De re metallica, Basilea (ed. a cura di Hoover
H.C., Hoover L.H., New York 1950).
Picon M., 2000, La préparation de l’alun à partir de l’alunite aux époques
antique et médiévale, in Arts du feu et productions artisanales, XX
Rencontres Internationales d’Archéologie et d’Histoire d’Antibes,
Antibes, pp. 519-530.
Picon M., 2005, Des aluns naturels aux aluns artificiels et aux aluns
de synthèse matières
primières, gisements et procédés, in L’Alun de Méditerranée, a cura di
Ph. Borgard, J.P. Brun, M. Picon (Napoli-Lipari 2003), Napoli-Aix-en-Provence, pp. 13-38.
Borgard P., Les amphores à alun (Iersiècle avant J.-C.-IVesiècle après
J.-C.) in L’Alun de Méditerranée, a cura di Ph. Borgard, J.P.
Brun, M. Picon (Napoli-Lipari 2003), Napoli-Aix-en-Provence,
pp. 12-38.
Lopez R.S., 1933, Genova marinara nel Duecento, Benedetto Zaccaria
ammiraglio e mercante, Milano-Messina.
14
Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa
despite the many fields of application this raw material could
find, making it a precious and versatile resource. Quoting
Delumeau’s words, we could say that not only “la grande
histoire”, but also, to some extent, archaeology «a longtemps
oublié l’alum, parce qu’il était un personage discret, comme
elle a longtemps négligé de s’intéresser au blé, á l’huile et en
general á tout ce qui est indispensable á la vie quitidienne.
C’est seulment quand le boulanger n’a plus de pain qu’on
parle de lui.» (Delumeau 1962, p. 301).
Following the fundamental contributions of Maurice
Picon, who outlined in detail the framework in which the
different forms of alum production might be chart according to raw material type (Picon classified alums as natural,
artificial and synthetic, each corresponding to subsequent
chronologies and increasingly articulated technological
practices; Picon 2000; Picon 2005), few projects have
carried on the topic of its production and circulation, and
with them the nexus between the historical landscape and a
networked economy. The reasons for this are, however, easily
identifiable: the first, and most evident, is the substantial
“archaeological invisibility” of alum as a product: alum is
a salt, and consequently does not stand the test of time;
moreover, its processing, unlike that of other production
cycles (such as metals) does not generate byproducts. As
a consequence, a good part of typical production markers
is missing, making for a complex archaeological and also
archaeometric approach.
The latter has also proved ineffective in the more traditional and well-established case of the so-called “functional
analyses”. As we know, in the Roman world, between the
middle of the 1st century BC and the 4th century AD, alum
was traded from some of the historical areas of production
(on all the Aeolian Islands and in the area of the Cyclades) in
amphorae, the Richborough 527 type and the so-called “Milo
1” (Borgard 2005). However, the analyses carried out on
pottery have not been able to trace any residue of alum. This
is not surprising; alum in fact is a salt containing aluminium,
a ubiquitous element in soils and rocks whose presence only
in sufficiently high concentrations (difficult to trace due to
the conditions of the archaeological deposit) can point to the
original nature of the vessel’s content, rather than to clay or
slimming agents used for the making of pottery.
Functional identification was therefore entrusted not so
much to data of a physico-chemical nature, but rather to
the observation of trade networks and markets in which the
amphorae are documented, such as privileged centres and
sites where craft and productive activities were carried out.
The archaeometrical approach, however complex, has
been recently carried out with remarkable results, thanks
also to the nEU-Med project, on the territory of the Colline
Metallifere; some of the more interesting outcomes are presented in the volume.
The second reason for alums ill fortune in archaeology
is certainly due to the ambiguity of the term itself, that
does not indicate a single raw material but has been used to
describe a wide set of etching substances of different nature
and origin (Picon 2005), making it even more difficult to
focus on the peculiar characteristics of the production cycle
and its material evidence.
Consequently, how can alum be studied? How can its
production and subsequent economic implications be reconstructed? How can archaeology define new chronologies and
highlight exploitation impact on the landscape, starting off
from material data? It is precisely on these different fields of
research that this volume aims to offer new food for thought.
The first objective is to assess the current state of research, both in Italy and abroad. Contributions present data
available from the main explotation areas in the Peninsula
(southern Italy; Lazio and the district of Tolfa-Allumiere in
particular; southern Tuscany and the territory of the Colline
Metallifere), comparing them with evidence from some of
the best renowned alum districts across the Mediterranean
basin (Asia Minor, Greece, Spain). The hope is that these
summaries, in addition to providing a “state of the art” of
the archaeological research, will stimulate a renewed and
systematic comparison with data garnered from the documentary sources.
Together with this fundamental starting point, the volume
addresses also a number of scientific questions that field
research can intercept and develop in various ways.
A first point on which we want to focus is the study of
the alum cycle according to the principles of the archaeology
of production. This implies the identification and accurate
evaluation of production indicators and their quantification,
so as to measure the impact on the social and territorial
contexts of reference.
Studying alum production in the Medieval and Early
Modern Age also implies a critical approach to complex and
multidisciplinary sources, where the written and more properly technical ones (such as Biringuccio’s De la Pirotechnia
and Agricola’s De re metallica) play a major role, emphasizing innovative technological aspects and the persistence of
empirical traditions. This with an aim also at identifying
newly acquired knowledge as well as long timeframes of
consolidated ‘know-how’s’, particularly well-analyzed in some
areas (for example in the mining and metallurgical tradition
of Southern Tuscany). From this perspective the study of
alum implies, as starting point, a more in-depth analysis of
those technical aspects that allow to reconstruct a wider social
and historical framework. In this purely chronological and
technological field, the dialogue between archaeological and
documentary sources can provide significant new elements
to the debate.
The study of alum production thus declined is part of the
more general concept of “global archaeology”: the reliability
of the reconstructions and new acquisitions are in fact largely
the result of direct comparison of a multidisciplinary nature
that sees in geology, archaeometry and environmental chemistry its main spokesmen, capable of putting forward new
research questions and at the same time avoiding dangerous
interpretative shortcuts.
This multidisciplinary approach is particularly useful in
the study of mining landscapes: decoding their exploitation
and transformation traces; reading their infrastructure
systems; focusing on the modifications of their agricultural-forestry management and hydrographic network, means
interpreting a complex matrix, aware that the productive
aspects are just one of the initial premises.
15
G. Bianchi, L.Dallai, F.R. Stasolla
Such data is essential to understand the level of pervasiveness
of these forms of control, also in relation with the territories
social fabric.
Alum production generates great changes in the territories
that host the quarries, forming links between them and the
areas of trade, especially maritime ones. Archaeology does
not offer direct evidence as to the trading of the finished
product, due to the impossibility of recognizing traces of
alum from pottery analysis. There are, however, numerous
ways by which archaeology can highlight evidences of those
commercial networks fostered through alum exploitation
and the economic repercussions that its production causes
in the quarrying districts
On these specific aspects, archaeological and topographical research has just started taking its first steps, and cannot
as yet provide answers without the integration of written
documentation, making it possible to outline the extent of
the territorial frameworks included in what we might define
as “the alum economy”. However, the potential is enormous.
The extraordinary complex of Tolfa, so far studied from an
exclusively historical perspective, is a good example; the area
is not easy to read archaeologically because of the dispersive
nature of its numerous quarries; nevertheless, the surveys
have allow to view some of the production structures, as
highlighted by a specific contribution in the volume.
Like any enterprise, especially if of medium-large size,
alum (based on the “allumiera”) cannot exist without a territory to support it, according to dynamics that can at least
be partially categorized.
At Tolfa-Allumiere the population centres change in a
planned manner; the example of La Bianca represents a
striking case of an “ex novo” settlement, built to house the
mining teams and possibly their families. With these centres
religious hierarchies, often playing a key role in these very
operations, also change, involving in the process new places
of worship. Again, the case of the settlement of La Bianca
is extremely indicative, also for the possibility it provides of
reconstructing, from an anthropological point of view, the
social context.
On different scales, large portions of territory respond
to the new needs with the organization of concentric buffer
areas intended for different functions.
The requirements of the alunite processing cycle include,
first of all, systems of water regulation (both in and out of
the production sites); the management of production waste;
the organization of wood supplies. This last aspect appears to
dominate the landscape of northern Lazio (at least until the
spread of new technical strategies, such as the introduction
of copper boilers which required a smaller quantity of fuel),
and redesigns the forest landscape around the allumiere, at
times returning it in an almost desertified form at the end
of the exploitation. A landscape that is often closely linked
to livestock farming, also promoted by new and increasing
demand.
At a greater distance from the quarries, this remodelling
affects also the territories cultivation plan, trying to reconvert it to new food requirements by limiting imports to a
minimum and concentrating the live costs of production in
a food circuit as restricted as possible. Again, the Tolfa and
Such an approach is essential in the study of any type
of resource with respect to which it is necessary to identify
extraction areas and production structures, of which this
volume provides numerous examples, but also (and above all)
the relationship between places of supply, processing centres
and consumer markets.
In recent decades, the relationship between economical
resources and territorial structures has been one of the most
discussed topics by medieval archaeologists and scholars. In
the field of archaeological research a two-fold approach to
this theme has generally been preferred: settlement analysis in relation to production structures situated inside or
immediately adjacent to the inhabited area; the study of
nucleated settlement patterns in relation to the exploitation
of agricultural resources. Less frequent, but still present in
the archaeological literature, are studies focusing on the
exploitation of mining resources in relation to settlement
patterns. The Sienese school has made the latter a consolidated topic of research, followed with continuity since the
1980s, tackling the subject with those interpretative tools
typical of medieval archaeology. Less frequent are studies
that deal with these themes starting from a general analysis
of the environmental context, thus studying the more complex relationship between settlements, natural landscape and
anthropic transformations.
The importance of alum as a fundamental and precious
resource that can be used in many fields of material culture
makes the study of the traces left by its exploitation an indispensable ‘index fossil’; it highlights the dynamics that regulated the formation or development of a settlement network
connected to such exploitation, located in the vicinity or at
a distance from the production sites and the infrastructures
linked to the processing and transport, both in relation to
settlements, resources and the natural environment.
This last requires the fundamental contribution of archaeometry and bioarchaeology.
As a ‘key’ resource of primary importance, the study of
alum exploitation also intersects another topic of research,
the so-called “archaeology of power”. If, in general, ‘power’
represents the ability to achieve certain goals by exercising
control functions, such a definition acquires greater significance if these goals are connected to the exploitation of
natural resources of particular importance, related to complex production cycles, which require specific structures and
specialized knowledge.
The areas and structures were alum is worked (along
with the related settlement network) become therefore a key
feature of the economic, political and social strategies implemented by specific powers. As to the latter, written sources
can identify the different players involved and, for more
recent historical periods, decipher their general strategies.
Archaeology, through the identification of the material
signs preserved within the territorial context, is instead
capable of shedding light on those changing authorities
supposedly in charge of such exploitation. In order to achieve
this goal workspace organization, production cycles and the
related infrastructures, all encompassed in a more complex
economic framework (carefully reconstructed through the
analysis of material culture), must be taken into account.
16
Studiare l’allume ed il suo paesaggio: domande, strumenti ed obiettivi di una ricerca complessa
Allumiere district countryside, intended for specific and
sometimes intensive crops, causes peasant relocation in forms
that are different from the substantially centralised pattern
that had characterised much of the Middle Ages, especially
its later centuries.
The same selection of crops is adapted to food requirements that are not varied but massive in quantity, now directed
inland towards the quarrying districts. The whole landscape is
reshaped, conforming to the new requirements with excellent
results, but at the price of the loss of any settlement autonomy
within the territorial range of action destined to satisfy the
“supply chain” economy of the allumiere. It will be at the
expense of small towns, but also communes of some size, such
as Cencelle, stripped of any administrative autonomy and
subject to the priorities of the alum company’s contractors.
Finally, this organization invests the roadways, generating
routes that connect the wooded areas to the furnaces and
the quarries to roads that lead to warehouses and ports. In
the Tolfa mountains, bridges and passageways are built by
ecclesiastical and private bodies, direct contractors of the
allumiere or involved in its related economy, conveying the
roadways indirections that at times completely change the
routes geography, consequently contributing to at times
significant alterations in settlement hierarchies.
The needs of the alunite extraction process and the activities related to or dependent on it, have profound repercussions also on another economic cycle, the one related to
metalworking. Alum territories are often areas with a high
concentration of metals whose exploitation often preceded
that of alunite. The need to link this production to excavation
upkeep in the form of loading and transport equipment, the
shoeing of animals used for transport, along with clothing
and daily-life accessories of that part of the population that
gravitates around the quarries, promotes an intense resumption of metallurgical activities.
The transport of the final product involves the planning
and construction of warehouses for the storage of material,
as well as the development and expansion of port facilities.
These are also hierarchized according to criteria that are
closely linked to the choices of the new product trade routes.
The analysis of the trade network is studied on the basis of
written documentation, but we believe that archaeological
research can also give its contribution.
If alum in itself does not leave definite traces of its passage,
the accompanying goods or return cargoes can be an important witness s to its commercial network, even beyond strictly
maritime routes. The circulation of ceramic products and the
identification of markets and trade goods, for example both
in the Tuscan area and in northern Lazio, provide interesting
insights for future analyses.
In light of these brief reflections the book’s title is chosen: outlining the alum landscape, in fact, means trying to
understand the phenomenon of its production in a wide
range of views, reading it as the key to a broad and diversified economic process. It also means identifying lines of
investigation that allow an effective comparison of various
geographical contexts that, although diversified, are linked
by a sometimes common market and by similar productive
and economic methods, for which we believe it is possible
to outline comparable lines of research.
17
Didier Boisseuil*
L’ALUN À LA FIN DU MOYEN ÂGE:
NOUVELLES APPROCHES, NOUVELLES PERSPECTIVES. LE GdRI EMAE
Alum at the end of the Middle Ages:
new approaches, new perspectives. The GdRI EMAE
L’initiative de la rencontre qui s’est tenue à Rome et à
Sienne en 2016 est née d’une réflexion menée dans le cadre
des travaux d’un Groupe de Recherche Internationale (acronyme GdRI), formé à partir de 2014, grâce au CNRS, et qui
réunit une dizaine de partenaires : les universités de Rome
(Sapienza), de Sienne et de Sassari (en Italie), de Valence (en
Espagne), de Gand (en Belgique), de Berlin (Max-Planck
Institut), de Paris (Paris1-Sorbonne), de Tours, à travers
deux UMR (le Lamop et le CESR, en France) et l’École
Française de Rome. L’objectif de ce GdRI intitulé EMAE:
Exploitation of Mediterranean Alums in Europe, est d’étudier
la production, la commercialisation et les usages des aluns
à la fin du Moyen Âge (entre les XIIIe et le XVIe siècle).
L’alun est un produit connu de tous ceux qui étudient
l’histoire de la Rome d’Ancien Régime, puisqu’il a fait l’objet
d’une étude remarquable réalisée par Jean Delumeau, publiée
en 1962, sous le titre L’alun de Rome (Delumeau 1962),
ouvrage traduit récemment à l’initiative de la commune
d’Allumiere (Poggi 1990). Cette recherche met en avant
l’importance du minéral produit à Tolfa, notamment entre
1550 et 1650, qui a soutenu l’essor d’une industrie textile à
Venise, en Lombardie, à Naples et sans doute ailleurs dans
la seconde partie du XVIe siècle. Il s’agit d’une enquête
exemplaire d’histoire économique, fondée sur des analyses
quantitatives et qui dispose, pour l’Espagne, d’un équivalent :
le vaste travail de Felipe Ruiz Martín, publié seulement en
2005 (Ruiz Martin 2005). Ces ouvrages complètent les
travaux plus anciens de Charles Singer qui soulignait déjà
le rôle de l’alun dans l’essor de l’artisanat et de l’industrie
en Occident et les balbutiements de la chimie moderne. Ils
s’inscrivent surtout dans le prolongement des études menées
sur le commerce de l’alun au Moyen Âge qui insistent sur
le rôle de ce minéral dans la fortune des hommes d’affaires
génois – notamment Benedetto Zaccaria (Lopez 1933), entre
le XIIIe et le XVe siècles. En sorte que l’alun est devenu le
paradigme des produits méditerranéens qui ont suscité l’essor
de monopoles commerciaux comme le suggérait Armando
Sapori (Sapori 1967, pp. 331-335).
L’objectif de notre enquête est de revenir sur ce paradigme
à la lumière des travaux récents qui font place à des interrogations et des approches plus contemporaines. Les travaux de
nos collègues antiquisants ont, à ce titre, été déterminants :
l’étude des amphores de Lipari incite à regarder de plus près
la circulation des aluns; les contributions du volume collectif
édité à Naples en 2005 par Philippe Borgard, Jean-Pierre
Brun et Maurice Picon, L’alun de Méditerranée (à l’issue d’une
rencontre de 2003) (Borgard, Brun, Picon 2005) nous a
poussé à mener une réflexion plus approfondie sur les lieux
de production, sur le commerce de cette matière première à
l’époque médiévale. L’enquête se heurte, toutefois, à plusieurs
écueils que les travaux antérieurs avaient déjà, pour partie,
signalés.
– La définition même de l’alun. Il est communément admis
que l’alun est un sulfate double d’aluminium et de potassium,
mais cette définition chimique ne désigne qu’une partie des
sulfates appelés aussi autrefois aluns. Ainsi, il est parfois
délicat d’interpréter les expressions anciennes – voire fort
anciennes. Il est très probable que ces expressions désignaient
d’autres produits chimiques proches (ou aux effets/usages
proches dans un cycle de production notamment) que nous
connaissons mal.
Ces incertitudes sont renforcées par le fait que les hommes
du Moyen Âge eux-mêmes hésitaient ou utilisaient des
distinctions parfois nombreuses pour qualifier les produits
qu’ils commercialisaient ou employaient. Ainsi dispose-t-on
d’une gammes très étendue d’aluns : aluns de roche, alun de
plumes… Il n’est pas rare que dans la littérature historique,
on identifie rapidement ces produits à tel ou tel type de sulfate
ou à des produits de telle ou telle qualité ou provenance. Je
reste pour ma part très circonspect face à ces interprétations
qui ne sont souvent fondées que sur quelques références
archivistiques et qui sont peu discutées. Je considère que le
meilleur moyen de s’assurer de leur origine ou de leur nature
est d’identifier leur cheminement ou de comprendre leur
mode de production.
Or, sur ce dernier plan, il faut bien admettre que les études
manquaient encore il y a peu. L’alun n’a pas bénéficié des
travaux poussés que les métaux (le fer, l’argent notamment)
ont suscités. Sans doute parce qu’il paraît moins ‘utile’
dans les systèmes économiques anciens, moins important
dans l’histoire des techniques, mais aussi parce les traces
archéologiques de son existence sont plus discrètes. Certes,
la belle description de Vannoccio Biringucci dans son De
la Pirotechnia (Biringuccio 1540), reprise par Agricola,
est connue – notamment, dès le XVIIIe siècle, par Targioni
Tozzetti 1 –, mais elle n’a été commentée que par Charles
Singer et plus récemment par le regretté Maurice Picon
(Picon 2000, pp. 519-530).
* Université de Tours, Département d’Histoire et d’Archéologie – Cethis
(didier.boisseuil@wanadoo.fr).
1
Comme l’atteste un manuscrit du savant toscan conservé à Florence,
BNCF Mss Palatino 1065.
19
D. Boisseuil
C’est dans ce contexte que Luisa Dallai et moi-même
avons initié en Toscane des recherches auxquelles très vite
ont été associés nombre de nos collègues : d’abord Ivana
Ait et par la suite Francesca Romana Stasolla, David Igual,
Jan Dumolyn, Pinuccia Simbula, Enrico Basso et beaucoup
d’autres ainsi que plusieurs étudiants. C’est avec eux que
nous avons organisé plusieurs rencontres associant histoire
et archéologie, soutenues par l’École Française de Rome (à
Sienne en 2009 2, à Allumiere en 2010 3, à Sassari en 2014 4)
qui ont donné lieu notamment à deux publications dans
les Mélanges de l’École Française de Rome Moyen Âge 5. C’est
en s’appuyant sur ces rencontres, que nous avons proposé
la constitution d’un groupe de recherche élargi autour des
aluns au Moyen Âge (XIIIe-XVIe s.) dont vous pouvez suivre
l’activité grâce à notre site internet 6. Le GDRI a organisé sa
première rencontre à Mazarrón en 2015 7 : une rencontre
sous le soleil de Carthagène qui nous a permis de nous
rapprocher de nos amis espagnols et de préparer notre table
ronde d’aujourd’hui.
Le projet du GDRI tire sa cohérence d’un faisceau d’éléments directement empruntés à l’historiographie que j’évoquais précédemment et à nos recherches en cours :
ont été employées pour faire de l’alun – ce que rien n’atteste
pour l’heure –, c’est vraisemblablement à une autre échelle,
plus petite (selon un mode de production artisanal). La séquence que nous avons retenue est un moment dans l’histoire
du produit alun, celle où s’affirme un procédé industriel.
– La deuxième observation qui donne cohérence à notre
enquête, c’est le cadre. Il s’avère qu’au cours des XIIIe-XVIe
siècles, la production d’alun s’est essentiellement (peut-être
même exclusivement) concentrée autour du bassin méditerranéen : d’abord en Anatolie et ensuite en Méditerranée
occidentale. Le reste de l’Europe (et même l’espace français
actuel) sont complètement absents (tout au moins en l’état
de nos recherches) 8. Dans cet espace, et je le retiens comme
un fait majeur, les lieux de production sont nombreux, bien
plus nombreux que nous l’avions soupçonné initialement
notamment pour la seule fin du XVe siècle ; ce qui offre une
fenêtre d’observation plus étendue que ce que nous avions
imaginé. Il s’agit d’un espace qui du point de vue politique est
morcelé, mais cela ne signifie pas qu’il est cloisonné : bien au
contraire, la Méditerranée est un espace de circulation pour
les produits comme pour les les hommes et leurs techniques.
– Troisième facteur qui contribue à donner cohérence à notre
projet : les acteurs du commerce de l’alun. Au cours de cette
longue période de trois siècles, ce sont d’abord et avant tout
des hommes d’affaires italiens : des Génois, bien sûr, mais
aussi des Florentins (au premier rang desquels les Médicis à la
fin du XVe siècle), voire des Vénitiens, des Siennois. Ils se sont
chargés du transport (occasionnellement de la production) de
l’alun méditerranéen, et ont permis son acheminement vers le
reste de l’Europe, notamment et surtout autour de la Manche
ou de la Mer du Nord (Flandres, Angleterre) où l’alun était
consommé et redistribué, entrant dans de nombreux cycles
de production surtout ceux du textile.
– Le mode de production d’abord. Il s’avère que la période
du XIIIe au XVIe siècle est marquée par l’exploitation d’un
type de roche, les roches alunifères et plus particulièrement
l’alunite, selon une chaîne opératoire décrite notamment
par Vannoccio Biringucci permettant d’obtenir, en quantité,
de façon régulière un alun de qualité constante (du sulfate
double d’aluminium et de potassium): bref selon un procédé que l’on peut qualifier d’industriel (selon les canons
désormais admis des historiens des techniques d’Ancien
Régime). Cela ne signifie pas pour autant que d’autres
modes de production n’aient pas été employés (notamment
les plus anciens : la collecte et purification des aluns natifs),
mais la production d’alun d’alunite paraît, au cours de notre
période, dominante. Par la suite, des aluns ont été produits
dans le nord de l’Europe notamment en Angleterre, mais avec
d’autres matières premières et selon des procédés techniques
distincts (Miller 2002).
Cela ne signifie pas non plus que l’alunite ou d’autres
roches alunifères aient été ignorées auparavant, mais si elles
1. AXES DE RECHERCHES
Pour mieux saisir le rôle véritable de ces acteurs essentiels du commerce, il convient de comprendre comment ils
participèrent à la mise en œuvre d’une chaîne de produit
(commodity chain: pour reprendre un concept utilisé par les
historiens de l’économie, notamment Immanuel Wallerstein)
(Hopkins-Terence,Wallerstein 1986, pp. 157-170). Ils
furent les intermédiaires actifs entre des producteurs et des
utilisateurs.
Toutefois, pour bien mesurer l’étendue et la capillarité
des trafics de ces commeçants, il nous a semblé qu’il était
souhaitable de mieux connaître les usages de l’alun. Dans quel
cycle de produits manufacturés intervenait-il ? Dans quelles
chaînes opératoires est-il attesté ? Quelles sont les qualités
chimiques des aluns qui étaient sollicités ? Ces questions
sommairement posées sont au cœur de la réflexion de l’un
des axes de notre GDRI. Elles sont essentielles. Il s’agit de se
faire une idée la plus précise possible des secteurs dans lesquels
les aluns étaient mobilisés. Bien sûr, le cycle de production
auquel on pense principalement est celui de la teinturerie.
2
I Senesi e le risorse naturali (secc. XV-XVI)/Les Siennois et les ressources
naturelles (XV e-XVIe siècles), I. Ait, D. Boisseuil dir. avec le soutien de l’École
française de Rome, Università degli Studi di Siena avec le soutien de l’École
française de Rome, Sapienza Università di Roma (Sienne, le 30 novembre 2009).
3
Le monopole de l’exploitation et de la commercialisation de l’alun de Tolfa
autour de 1500/Alle origini del monopolio commerciale: le miniere di allume del
papa dir. D. Boisseuil, I. Ait, avec le soutien de l’EFR, Sapienza, Università di
Roma (Rome, décembre 2010).
4
Tra Storia e Archeologia. L’allume mediterraneo nell’Occidente tardo-medievale, Università di Sassari, Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della
Formazione, Corso di Laurea in Scienze dei Beni Culturali, Corso di Dottorato
in Archeologia, Storia e Scienze dell’Uomo, Giovedì 6 Marzo 2014.
5
Production d’alun et monopole romain en Toscane méridionale (fin XV e-début
XVIe siècles), Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge [En ligne], 1261 | 2014, URL : http://mefrm.revues.org/1879.
6
https://aluns.hypotheses.org/sample-page.
7
Seminario Internacional “ Mazarrón en los espacios mediterráneos del alumbre
(siglos XV-XVI) ” (ed.) Didier Boisseuil (université de Tours), David Igual Luis
(Universidad de Castilla-La Mancha), María Martínez Alcalde (Ayuntamiento
de Mazarrón/Museo de Mazarrón), les 5 et 6 février 2015 (Mazarrón (España),
espacio Centro Cultural de Mazarrón).
8
Je ne connais, à travers la littérature du XVIIIe siècle, que des velléités d’exploitation à Prades (Pyrénées), au Mont Dore (Auvergne), à Cransac (Rouergue).
20
L’alun à la fin du Moyen Âge: nouvelles approches, nouvelles perspectives. Le GdRI EMAE
Depuis l’Antiquité, l’alun sert de mordant et son rôle paraît
si essentiel que Vanoccio Biringucci rappelait « qu’il était
aussi essentiel au teinturier que le pain à l’homme » 9, mais il
convient de dépasser cette péremptoire évidence. Car il n’était
pas utilisé pour toutes les teintures naturelles, pour toutes les
fibres textiles (Cardon 2014). Il convient donc de déterminer le plus précisément possible dans quel cycle son usage
est attesté, voire s’est imposé. Une grande quantité d’alun
produit en Méditerranée alimentait la draperie flamande :
mais à quel type de drap servait-il exactement ? Les draps de
luxe exclusivement ? Dans quelle quantité était-il nécessaire ?
Dans quelles structures de production intervenait-il : dans
les ateliers de teinturerie, selon des chaîne de production
contrôlées par quels entrepreneurs ? Observe-t-on des écarts/
des évolutions selon les périodes ? Peut-on assurer, sur près
de trois siècles, un usage égal, une stabilité des besoins qui
structureraient les échanges ? Ne faut-il pas considérer aussi
des procédés techniques alternatifs ? Franco Franceschi a ainsi
montré combien l’alun n’est pas indispensable à un drapier
arétin du XVe siècle alors qu’il lui était tout à fait accessible
(Franceschi 2012, pp. 127-136).
Les sources documentaires doivent nous permettre d’y
voir plus clair – notamment les livres de recettes dont nous
avons pu apprécier l’importance à travers une belle initiative
du Max Planck : “ colour in context ”, une base de données
sur les recettes de couleurs 10 –, mais il faudrait aussi aller plus
loin dans une analyse des processus chimiques mis en œuvre.
Toutefois, ces questionnements fondamentaux qui
concernent les textiles ne doivent pas nous empêcher de
penser à d’autres cycles de production et à un usage plus
diffus, moins concentré de l’alun. Je pense notamment à
l’industrie des cuirs (qui a fait ces dernières années l’objet de
remarquables enquêtes), celle du papier et même timidement
celle la métallurgie. Ces questions intéressent étroitement le
thème de notre rencontre, car il est important de connaître à
quel type de besoin répondait les aluns commercialisés et par
conséquent, éventuellement, quels aluns étaient recherchés
et quels aluns étaient produits.
Je ne reviendrai pas sur les enjeux de la production 11. Je
voudrais juste insister sur plusieurs points qui me semblent
importants. Outre les matières premières mobilisées et les
structures de production, je crois qu’il faut prendre en considération, dans les observations, la taille des exploitations et
les structures entrepreneuriales : le mode de gestion de la
Chambre Apostolique qui déléguait la production et la commercialisation à des sociétés choisies ne vaut pas pour toutes
les alunières, notamment celles plus modestes. En Toscane,
l’activité n’était pas contrôlée par un acteur dominant, mais
par des sociétés industrielles (largement dominées à la toute
fin du XVe siècle par des banquiers) qui produisaient de
façon autonome de l’alun. Je serais curieux de connaître la
forme entrepreneuriale des exploitants des autres alunières
du bassin méditerranéen…
Cela m’amène au dernier axe de nos recherches : la
commercialisation de l’alun. Nous avons pris le parti de
traiter ce thème en étudiant les réseaux d’acteurs. Il ne s’agit
pas de céder à la mode actuelle qui fait de l’analyse des
réseaux un gage de sérieux (Lemercier 2005, pp. 88-112;
Malamut, Ouerfelli 2012) mais de s’emparer d’un mode
de réflexion, de construire un outil qui puisse nous aider à
mieux comprendre les conditions d’organisation, les modalités de cette commodity chain que je citais précédemment.
L’idée n’est pas tant de connaître les acteurs (même si cela
paraît nécessaire) que d’identifier leurs actions. Il s’agit de
suivre l’alun en pistant les transactions dont il fait l’objet,
les étapes, les moyens de sa circulation (bref de considérer
des routes et des vecteurs de la circulation de l’alun). Pour ce
faire, nous nous proposons de mettre en place une banque de
données qui identifie outre les acteurs, les temps, les lieux,
les moyens de transport, de stockage, de distribution des
aluns (en considérant très précisément leur dénomination),
en restant conscients des cadres normatifs qui autorisent,
construisent ses transactions. C’est une initiative délicate
fondée sur l’exploration de quelques fonds documentaires
(actes notariés, registres de fiscalité indirecte), la disponibilité et l’expertise de nos collègues. Cette entreprise n’a
pas pour ambition d’être exhaustive ; elle cherche à révéler
une structure, une architecture dans ses principaux traits et
dans ses évolutions à l’échelle de l’Europe. C’est un travail
expérimental et la banque données est destinée à manifester ce qui articule plus qu’à produire des résultats concrets
(durée, coût de circulation) qu’on espère pouvoir exposer
à l’occasion, néanmoins. Cette structure esquissée, révélée
doit permettre : 1- d’identifier ce qui fonde les conditions
des marchés localement – avant d’entrevoir un hypothétique
marché unifié – de l’alun : 2- les goulots d’étranglement, le
rôle de certains acteurs comme les métiers urbains, ou les
arts dans leur politique d’achat, de stockage : 3- de pointer
les situations paradoxales lorsqu’elles existent. Il conviendra
aussi de considérer les lacunes, les zones d’ombres et de dépasser la simple dénomination des produits pour apprécier
leur origine ou leur qualité, en suivant l’iter, le parcours des
cargaisons, les opérations commerciales de leurs détenteurs
successifs, pour autant que cela soit possible.
Ces recherches, ces questionnements que je viens d’esquisser, ont aussi un sens bien pratique, pragmatique : ils doivent
servir d’appui à des recherches futures que des financements
publics de calibre européen permettraient de mener à bien,
articuler à des enquêtes nationales, régionales et locales. Il
est encore prématuré d’établir la liste des « appels à projet »
auxquels nous pourrions répondre, mais la masse des savoirs
collectés est, conformément aux sollicitations du CNRS (et
de la plupart des partenaires), destinée à faciliter la mise en
œuvre d’un dossier de candidature. Sans préjuger des options que nous prendrons pour répondre aux appels, il me
semble pouvoir conclure cette brève présentation du GDRi,
en esquissant plusieurs perspectives qui pourraient soutenir
des recherches futures. J’en vois au moins trois (mais elles ne
sont ni exclusives, ni définitives):
9
(…) anchor li tintori di panni et lane, alli quali non le altrimenti necessario
chel pane a l’homo (…).,Biringuccio 1540, fol. 31.
10
COLOUR ConTEXT. A Database on Colour Practice and Colour
Knowledge Sylvie Neven, chargée de recherches du FRS-FNRS. http://web.
philo.ulg.ac.be/transitions/colour-context-2/
11
cf. l’intervention de Stasolla, Bianchi et Dallai dans ce même volume.
– la place de l’alun dans les cycles de production (qui pourrait par exemple permettre de répondre à des demandes
très contemporaines, en matière de restauration des œuvres
21
D. Boisseuil
d’art (peinture, tissus, etc.) en comprenant mieux son rôle
chimique, et son usage dans des procédés alternatifs (mais cela
reste sujet à des besoins qui ne sont pas en l’état identifiés) ;
– La connaissance des réseaux de l’alun permettrait de proposer un modèle d’analyse des réseaux de circulation des
produits d’ancien régime ;
– enfin, l’étude des structures de production et de la circulation des produits offrent un moyen original de saisir une
organisation de l’espace à l’échelle méditerranéenne voire
européenne et surtout de la faire saisir, à différents niveaux,
en proposant par exemple des itinéraires, des routes de l’alun
(maritimes, terrestres). Dans cette perspective, notamment,
comment ne pas se réjouir de l’écoute et du soutien des
collectivités territoriales et notamment des communes d’Allumiere, de Monterotondo Marittimo et de Mazarrón, qui
nous a accueillis.
Lopez R., 1933, Genova marinara nel Duecento. Benedetto Zaccaria
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Malamut E., Ouerfelli M. (dir.), 2012, Les échanges en Méditerranée médiévale: marqueurs, réseaux, circulations, contacts, Aix-enProvence.
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English abstract
BIBLIOGR AFIA
In 2014 an international network of researchers has promoted a multidisciplinary research group, initiated by the
the CNRS an denominated Exploitation of Mediterranean
Alums in Europe. Its main interest was to shed light on the
importance of alum in western Europe at the end of the
Middle Ages. The research themes selected by the researchers
and their main questions are organized around three axes :
alum production and its technological aspects between the
13th and 16th centuries; the use of alums in the manufacturing of goods (textiles, tanning, etc.); exchange networks
generated by alum trade in the Mediterranean and across
the European continent. The results of this work aim to establish the importance of a type of almost unknown product
(sulfates) in economic and social history, in the history of
science and technology and in archaeology.
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Lemercier C., 2005, Analyse de réseaux et histoire, «Revue d’histoire
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22
RISORSE E AMBIENTE
NATURAL RESOURCES AND ENVIRONMENT
Maria Di Nezza*, Michele Di Filippo**
COLTIVAZIONE E CIRCOLAZIONE DELL’ALUNITE
NEL BACINO DEL MEDITERR ANEO DALL’EPOCA ANTICA
ALL’INIZIO DEL ’900 DA “INDICATORI GEOLOGICI”
Exploitation and circulation of alunite in the Mediterranean basin since Antiquity
until the beginning of the 20th century through “geological indicators”
1. INTRODUZIONE
2. GENESI
L’allume, nell’accezione più ampia del termine, è stato
impiegato largamente già nell’Antichità. Tale minerale aveva
infatti un utilizzo in molti campi: oltre a favorire il fissaggio
della colorazione vegetale sui tessuti e ad essere impiegato
nella concia delle pelli per impedirne l’indurimento e la
putrefazione (Franceschi 2014), l’allume era usato anche
nell’industria della carta, per la disseccazione del pesce, per
utilizzo farmaceutico, nell’imbiancatura delle monete 1, come
fondente nella lavorazione dei metalli (Bianchi, Bruttini,
Dallai 2011) e del vetro (Plinio, Nat. Hist., II, XXXV; Fiumi
1943; Di Carlo et al. 1984).
Non è ben chiaro a quale periodo risalga il complesso
procedimento di trasformazione dell’alunite in allume. La
presenza di un ciclo di produzione artificiale o industriale
consente di riconoscere gli impianti di lavorazione e trattamento della materia prima, dei quali non sono noti esempi
anteriori alla fine de XV secolo, mentre risulta più complesso
identificare i possibili fronti di cava, anche se sia in area
toscana che laziale ne sono documentati significativi esempi
(si vedano i contributi di Dallai; Donati et al.; Carloni,
Doronzo e Stasolla in questo volume).
In questo lavoro ci proponiamo di identificare alcune
aree idonee a tale produzione prendendo in considerazione
degli indicatori geologici che saranno integrati e verificati
con indizi indiretti di carattere storico-archeologico, spia di
eventuali estrazioni minerarie effettuate nell’Antichità.
Gli indicatori geologici sono stati selezionati in base alla
genesi dei depositi di allume; essi si originano per particolari
condizioni chimico-fisiche in ambiente fumarolico, cioè
nella fase finale del processo magmatico, partendo da rocce
ricche di alluminio. Il diverso grado di alterazione della roccia
madre e la tipologia di fluido endogeno possono portare alla
formazione di associazioni di minerali di alterazione di elevato
pregio economico, tra cui alunite e caolino, nonché metallici,
in particolari casi anche facilmente cavabili. Tali condizioni
geologiche però si verificano solo in alcune aree del bacino
del Mediterraneo, che coincidono anche con i luoghi dove
si sono avuti già nell’Antichità insediamenti molto fiorenti
e grandi scambi commerciali legati a questa materia prima.
Con il termine allume viene designato un gruppo di sali
(solfati doppi idrati di metalli trivalenti e monovalenti) che,
a seconda dell’elemento prevalente, assumono nomi specifici
diversi. Ne parlano già Strabone (Strabone, Geografia, V, 9)
Columella (Columella, De re rustica, II, 11, 1.) e Plinio, che
definisce l’allume un sale sudato dalla terra (Plinio, Naturalis
Historia, II, XXXV); oggi sappiamo che si tratta in realtà di
un solfato doppio di alluminio e potassio (K2SO4 Al2(SO4)3
24H2O), che assume il nome di allume di rocca quando si
presenta sotto forma vetrosa. Questo minerale si trova in
natura in rocce vulcaniche ricche in potassio, che sono state
soggette all’azione chimica e fisica delle acque termali e del
vapore acqueo.
L’allume è un sale costituito da solfato di ammonio e
potassio con 24 molecole di acqua di cristallizzazione che
si presenta in bei cristalli bianchi e trasparenti, solubili in
acqua. A causa della sua solubilità in genere esso non si trova
in natura (le piogge l’avrebbero disciolto nel corso dei millenni), ma viene prodotto artificialmente per trasformazione
di minerali di alluminio meno solubili, come la allumite o
alunite, un solfato basico di alluminio e potassio.
La formazione dell’alunite avviene in ambiente subvulcanico, nella fase finale del raffreddamento di un corpo magmatico plutonico intruso all’interno della crosta. Un ruolo
importante assume la fase del vapore acqueo, che contiene
agenti potenzialmente molto importanti per il trasporto di
elementi metallici nei sistemi idrotermali.
In un sistema idrotermale i fluidi acquosi possono contenere quantità variabili di fasi volatili (H2O, CO2, SO2, H2S,
N2), e sali in soluzione, quali ad esempio i sali di cloruro;
se presentano quantità maggiori del 24% in peso di NaCl
equivalente, i fluidi sono definiti salamoie (ipersaline). Anche
il vapore acqueo riveste un ruolo importante per il trasporto
degli elementi metallici. La fase vapore in un sistema idrotermale diventa sempre più densa all’aumentare di temperatura
e pressione; al punto critico di 374°C e 225 bar, la fase fluida
e quella vapore diventano indistinguibili, e si comportano
come un fluido supercritico, ovvero come un fluido acquoso
(di alta pressione e temperatura) che ha densità analoga a
quella del liquido e viscosità analoga a quella del gas. I fluidi
supercritici sono miscibili tra di loro e hanno alta capacità di
trasporto del materiale disciolto.
I sali sublimano intorno alle fumarole e forniscono la
prova diretta del ruolo dei vapori nel trasporto di quantità
* Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma (maria.dinezza@
ingv.it).
** CNR-IGAG, Roma (michele.difilippo@uniroma1.it).
1
Ciò è ben documentato per l’epoca classica ma anche per il Medioevo
(Giumla-Mair 2005).
25
M. Di Nezza, M. Di Filippo
fig. 1 – L’evoluzione dei regimi
di fluidi idrotermali, all’interno e al di sopra di una camera
magmatica, che porta alla
formazione e deposizione dei
minerali connessi ad un’intrusione a carattere acido.
La sequenza (A) (B) e (C) è
illustrata nel testo. Immagine
modificata da William-Jones,
Heinrich 2005.
26
Le fonti rinascimentali testimoniano che la cavatura nel territorio di Tolfa era effettuata con dei picconi in ferro immanicati
in acero, provenienti da Montieri, centro siderurgico attivo in
quel periodo, localizzato nel territorio delle Colline Metallifere
(Toscana meridionale) (Cortese, Francovich 1995).
A distanza di due secoli le descrizioni di Targioni Tozzetti
evidenziano per la Toscana un’innovazione sostanziale legata
all’utilizzo dell’esplosivo, che comportò anche una maggiore
specializzazione del lavoro e che sicuramente ne incrementò
la produttività 3.
Per quanto riguarda la possibilità di estrazione e l’approvvigionamento pre-rinascimentali, ancora è controversa la
tipologia di cavatura adoperata, in quanto eventuali tracce di
coltivazioni sui fronti di cava più antichi sono state cancellate
da lavori più moderni.
Fino a qualche decennio fa, l’allume veniva estratto anche
trattando rocce di natura sedimentaria, come bauxite in
giacitura secondaria.
significative di elementi metallici. Tra i fluidi sono presenti,
oltre ad H2O, altri componenti importanti quali CO2, H2S,
così come HCl, CO e H2.
La concentrazione di elementi metallici nei vapori vulcanici
è variabile e dipende dalla composizione e dalla natura del
magma sorgente. I magmi basaltici, ad esempio, poveri di
alluminio, sono particolarmente arricchiti in Cu, Zn, Pb, Sb,
As, Ag, Au, mentre i magmi andesitici, ricchi di alluminio,
mostrano una relativa abbondanza di Cu, Pb, Zn, così come
Mo e Hg; i magmi felsici presentano invece concentrazioni minori degli elementi di cui sopra, ma più alti tenori in Sn e Mo.
I depositi fumarolici di vulcani attivi o di intrusioni subvulcaniche sono poveri di sali, ma ricchi di SO2, H2S, HCl
nella fase vapore, che si traducono in un liquido ipersalino
residuale (fig. 1). La fase vapore si condensa formando un
liquido che contiene HCl e H2SO4, con un pH molto basso;
ciò produce generalmente aloni di avanzata argillificazione
caratterizzati da minerali, come pirofillite e alunite, accompagnati da intensa lisciviazione. Questo tipo di alterazione
è comunemente osservato in tutte le fumarole ad alto contenuto in solfuri dei sistemi epitermali.
I vapori favoriscono anche il trasporto di minerali metallici
e possono formare depositi minerali di importanza economica per precipitazione diretta dai fluidi gassosi o dalla loro
condensazione in acque meteoriche 2.
4. RICOSTRUZIONE E INTERPRETAZIONE
DEI DATI GEOLOGICI ALLA LUCE
DELL’ARCHEOLOGIA
4.1 La geografia dei giacimenti
Per studiare i processi di formazione dell’alunite si
devono prendere in considerazione una concomitanza di
fenomeni geologici, tra cui la presenza di rocce intrusive
recenti (Pliocene), testimoniate dalle aree geotermiche o
dai sistemi vulcanici attivi, cioè le zone in cui il gradiente
geotermico è superiore ai 30°C/km, dove è maggiore lo stato
di fratturazione dei corpi vulcanici (faglie; Morbidelli,
Negretti 1965a, 1965b), ma soprattutto dove si registra
una maggiore permeabilità delle rocce ed emissione di fluidi
acidi (Negretti, Lombardi, Morbidelli 1966). A ciò si associano fenomeni di alterazione delle rocce (caolinizzazione,
alunitizzazione e argillificazione) 4, e la diffusione di zolfo,
di solfati di potassio e di alluminio (allume e allumite) e di
solfato di rame (calcantite; Lombardi 1969).
Dal punto di vista geologico e vulcanologico, la ricorrenza
di questi fenomeni geologici permette di ubicare possibili
centri di cavatura nella penisola italiana in Toscana, nel
Lazio, in Campania, nelle isole Eolie e nella zona etnea, e
di includere numerose altre zone europee e del bacino del
Mediterraneo. Nelle diverse regioni italiane menzionate era
possibile reperire il minerale in giacitura secondaria, per l’azione dei vapori sulfurei, dei soffioni e delle solfatare esercitata
3. ATTIVITÀ ESTR ATTIVA
Sulla base della genesi di formazione da processi geologici,
l’alunite può trovarsi in giacitura primaria e secondaria.
I corpi vulcanici in giacitura primaria conservano la posizione della superficie geologica nelle condizioni originarie
della sua formazione (batolite, laccolite, dicco o filone per
le rocce eruttive intrusive; cupole, colate, espandimenti,
protrusioni per le rocce eruttive effusive), mentre quelli in
giacitura secondaria hanno subito successive modificazioni;
in questo caso specifico, la giacitura secondaria si ha quando
il corpo vulcanico è stato interessato da un diverso grado di
alterazione da parte dei fluidi idrotermali e fumarolici. Tale
processo di alterazione può arrivare anche al disfacimento
totale del corpo principale in zone subaeree, con diverso grado
di pezzatura e granulometria della roccia madre, e quindi
anche alla mobilizzazione del materiale a notevole distanza
dal luogo dove è avvenuta l’alterazione.
In caso di giacitura primaria ed in base a come si presenta
il giacimento, la coltivazione può avvenire per cava o distacco,
e può essere eseguita a cielo aperto o all’interno di gallerie
o pozzi; nel caso di giacitura secondaria l’estrazione avviene
solo a cielo aperto.
L’estrazione in sotterraneo con pozzi o gallerie avveniva
lungo giunti di raffreddamento della colata vulcanica o lungo
fratture da cui i gas avevano trovato la via più facile di risalita
per alterare le trachiti e latiti. All’aperto, la coltivazione in
cava avveniva per gradini, sfruttando i piani di stratificazione
delle rocce, con maestranze che utilizzavano strumenti da
lavoro relativamente semplici.
3
Il Targioni scrive che oltre all’attività manuale, per la quale erano impiegati
gravine, zappe e picconi, la cavatura avveniva anche tramite l’utilizzo di esplosivo.
Il principio era semplice: veniva praticato un foro tramite l’utilizzo di gucchie
(strumenti simili a degli scalpelli) di grandezze diverse all’interno della roccia.
Quando il foro era abbastanza profondo veniva inserita la polvere da sparo ed
il tutto coperto con un tappo di legno all’interno del quale veniva fatta una
traccia per permettere l’accensione, realizzata gettando sopra alla polvere dei
tizzoni ardenti (Targioni Tozzetti 1745). Una volta effettuata l’esplosione si
procedeva manualmente alla rimozione delle parti di roccia che non fossero
cadute. Se i pezzi fossero risultati troppo grossi, i fenditori si occupavano di
ridurne le dimensioni con grosse mazze. A questo punto il cavatore sceglieva le
pietre buone da destinare alla lavorazione (Riparbelli 1984).
4
Per un approfondimento sul tema si rimanda a Lombardi 1967, 1973,
1984; Field, Lombardi 1972; Giavarini, Lombardi 1977; Alietti et al. 1979;
Lombardi, Mattias 1979; Lombardi, Mattias 1987; Lombardi et al. 1987
2
Per maggior dettagli si rimanda Cambi, Elli 1964, 1965a, 1965b, 1966;
Cambi, Elli, Tangerini 1965; Skinner 1966; Maurel 1967.
27
M. Di Nezza, M. Di Filippo
28
fig. 2 – Distribuzione dei siti dove ricorrono i fattori geologici che permettono la formazione dell’alunite.
Coltivazione e circolazione dell’alunite nel bacino del Mediterraneo
su rocce feldspatiche e leucitiche, che alterava fortemente la
roccia madre intensamente fratturata.
Le zone maggiormente interessate da tali fenomeni sono
quella della Toscana meridionale (le Colline Metallifere:
Massa Marittima, Monterotondo Marittimo, Castelnuovo
Val di Cecina, Campiglia Marittima, la regione dei soffioni
boraciferi di Larderello, e l’Argentario) 5, dell’alto Lazio
(Canale Monterano ed area di Tolfa-Allumiere, Zifferero
1992), della Solfatara di Pozzuoli, di Agnano e Capo Miseno
in Campania, dell’isola di Ischia 6, delle Isole Eolie ed in particolare di Lipari (Picon 2005) e Vulcano (De Poerck 1951;
De Roover 1970), di Ustica (Pichler 1968) e Pantelleria
(Spera 2011).
Nell’area mediterranea (fig. 2), la concomitanza di questi
fattori si può osservare in diverse regioni dell’arco vulcanico
egeo, come illustrato dal contributo di Arvanitidou in questo
volume, ed in particolare nelle isole di Lesbos 7, Lemnos 8,
Milos 9, Nysiros (Ambrosio et al. 2010), Kos (Papoulis et
al. 2005) e Santorini (Vespa et al. 2006); nella Tracia, a nord
della Grecia, essi ricorrono a Sapes-Kassiteres (Voudouris
2014; Voudouris et al. 2014). In Turchia si riconoscono
importanti giacimenti nelle provincie di Kütahaya (Tolun
1974), Giresun (Tolun 1974), Izmir (Tolun 1974), Bodrum
(Rabayrol 2018) e Afyon (Kuşcu, Yildiz 2016) ed in
Anatolia occidentale (Seyhan 1969; Oygür 1997; Oygür,
Erler 2000). Altri giacimenti sono noti in Siria, in particolare ad Edessa (Boyle 1979).
L’alunite si può trovare inoltre in notevole concentrazione
nell’ovest e nel centro della Slovacchia, a Viglasska Huta
(Kuthan 1956) e presso Dekys (Forgáč 1972).
In Ungheria si riconoscono giacimenti presso le montagne
di Velence (Bajnóczi et al. 2002; Ondrejka et al. 2018);
in Bulgaria se ne localizzano nella provincia di Srednogorie
(Dabovski et al. 1991; Lerouge et al. 2006) e nel distretto di
Breznik (Radonova, Velinov 1970; Lerouge et al. 2006).
In Francia concentrazioni sono documentate presso
Madriat ed in altre località della regione del Puy de Dôme
(Charrin 1940, 1948), mentre in Spagna sono noti i depositi
di Rodalquilar (Friedrich 1960; Lodder 1966; Arribas et
al. 1995) e Mazzaron (si rimanda al contributo di Martínez
Alcalde, in questo volume); giacimenti di alunite, associata
a caolinite, si rinvengono anche in prossimità della vetta del
cratere del vulcano Teide a Santa Cruz de Tenerife, nelle Isole
Canarie (Hoyos de Castro, Mata 1958). In Germania infine
depositi sono localizzati a Wurzen, presso Lipsia (Kashkai
1973).
4.2 I dati storici
Nella nostra Penisola, le parti affioranti delle vene alunitiche localizzate nei territori sopra menzionati sono state
oggetto di intensa raccolta per tutto il Medioevo e per buona
parte dell’Evo Moderno. Già nel corso del XIII secolo vi sono
le prime testimonianze scritte dell’esistenza di una “industria”
dell’allume; un documento del 1284 attesta la vendita al
comune di Massa Marittima di lumaie, zolfinaie e bagni del
territorio di Monterotondo Marittimo (Fiumi 1943). Altre
indicazioni, ancora duecentesche, riguarderebbero l’isola
d’Ischia, come si ricava dagli atti processuali del 1271, circa la
rivendicazione fiscale delle miniere di allume e di zolfo (Testi
1931, p. 442; per l’approfondimento relativo ai documenti
si rimanda al contributo di Fineschi, in questo volume);
presso Pera erano ancora visibili nell’Ottocento grandi vasche
in muratura che servivano per la fabbricazione dell’allume,
che veniva poi portato a Casamicciola (Chevalley de Rivaz
1831). Anche se reputato di mediocre qualità, il prodotto
veniva esportato in vari paesi; è a questo periodo che, forse,
va riferita la notizia riportata da De Roover (1970) secondo la
quale «L’allume d’Ischia era così scadente che a Bruges e a Parigi
gli statuti delle corporazioni ne proibivano l’uso» 10.
Nel Quattrocento ed almeno fino al 1456, anno del terremoto del Sannio, il più devastante dell’appenino centromeridionale, è ben attestata la produzione di allume nell’area
flegrea 11; l’attività interessava anche Agnano e la Solfatara di
Pozzuoli, che forniva il mercato di Barcellona (Del Treppo
1967) (per dettagli si rimanda al contributo di Fineschi in
questo volume).
L’estrazione dell’allume è documentata per il XV secolo
anche nell’isola di Lipari e a Paternò (Heers 1954; Trasselli
1964; Heers, De Gröer 1978; Pipino 1976; 2003), alle
pendici dell’Etna; fra le zone di estrazione più note vi è quella
presso Roccalumera, nei Peloritani.
Se si considerano gli indicatori geologici ed i rinvenimenti
archeologici associati all’attività estrattiva dell’alunite, appare
chiaro come le caratteristiche mineralogiche-petrografiche e la
paragenesi caratteristica, nonché quelle geologico-strutturali
della formazione, abbiano condizionato non solo la tipologia
di estrazione, ma anche i successivi processi produttivi.
La paragenesi dei giacimenti di alunite li arricchisce di
minerali argillosi, anche economicamente importanti, come
ad esempio le argille più o meno caoliniche e i minerali metallici. Tale associazione è dovuta alla fase idromagmatica, che
porta non solo ad arricchire questi minerali lungo fratture dei
corpi magmatici, ma rende molto alterata la roccia madre. I
caratteri geo-strutturali delle latiti e trachiti alterate dai gas
senza dubbio assumono da questo punto di vista un ruolo
5
Per una bibliografia si rimanda a Dallai 2003, 2009, 2014; Dallai,
Francovich 2005; Dallai et al. 2008; Dallai 2009a, 2009b; Dallai, Ponta
2009; Bianchi, Bruttini, Dallai 2011.
6
Una rassegna in Pipino 1988, 1989; Feniello 2003, 2005a, 2005b (si
rimanda inoltre al contributo di Fineschi in questo volume; Costantini et
al. 1990; Lazzarotto 1993). Celebri sono gli studi pionieristici di geotermìa
condotti da Paolo Mascagni, scienziato eclettico e professore di medicina presso
l’Università degli Studi di Siena, famoso a livello internazionale per le sue scoperte anatomiche formulate nella seconda metà del secolo XVIII sul funzionamento
del sistema linfatico umano. Attraverso l’analisi delle caratteristiche geologiche
dei lagoni delle Colline Metallifere nei dintorni dell’abitato di Pomarance (PI)
donde proveniva, Mascagni si dedicò all’estrazione di allume per uso industriale
(Mascagni 1779) e medico (Vannozzi 1996, 2015).
7
Voudouris, Alfieris 2005; Vamvoukakis 2009; Voudouris et al. 2014.
8
Voudouris, Alfieris 2005; Voudouris et al. 2007; Voudouris et al.
2014.
9
Riferimenti in Markopoulos, Katerinopoulos 1986; Kelepetsis 1989;
Rye et al. 1992; Hall et al. 2003a, 2003b; Alfieris et al. 2013; Voudouris
et al. 2014.
10
Per tale affermazione l’Autore fa preciso riferimento a De Poerck (1951,
I, p. 170), che riferisce: «… l’isola di Vulcano… forniva una qualità d’allume di
cui la cattiva qualità era solidamente stabilita; è quindi a giusto titolo era proibito
a Valenciennes. L’allume che si estraeva dalle miniere d’Ischia (“Nysche”) non
doveva essere migliore, poiché la stessa misura è presa nei suoi riguardi a Bruges».
11
Sull’argomento si rimanda alla bibliografia di Feniello, in particolare:
Feniello 2003, 2005a, 2005b.
29
M. Di Nezza, M. Di Filippo
primario; se fratturate, esse permettono infatti l’alterazione
e la deposizione dell’alunite in filoni (giacitura primaria).
L’alterazione si ha lungo i filoni mineralizzati che si formano
nelle fratture dei corpi geologici o vulcanici, ma può arrivare
anche in superficie ed alterare enormemente la roccia madre
(giacitura secondaria). Ciò comporta che le pezzature del
materiale da cavare saranno molto diverse.
Nella giacitura secondaria, a seconda del grado di alterazione della roccia madre, la pezzatura risultante del deposito
potrà essere più o meno grossolana, a seconda del basso o
dell’alto tasso di alterazione; più i corpi geologici hanno un
basso grado di pezzatura, più risulterà facile l’estrazione del
materiale. In presenza di queste caratteristiche giaciturali la
maggior parte della raccolta del minerale poteva avvenire a
cielo aperto, con attrezzi non troppo sofisticati; ciò rende
maggiormente complessa l’individuazione di segni di cavatura. La lavorazione poteva infatti avvenire semplicemente
attraverso la setacciatura, in quanto la pezzatura del minerale
doveva essere molto fine.
Quando la richiesta del minerale cominciò ad aumentare
iniziarono ad essere cavati anche depositi in giacitura secondaria con pezzatura più grossolana e in giacitura primaria
(seguendo i filoni).
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5. CONCLUSIONI
Prendendo in considerano le caratteristiche geologiche
delle rocce vulcaniche ed i processi alterativi ad essi associati
per la formazione dell’alunite si possono localizzare, su sole
basi geologiche e trascurando qualsiasi considerazione sulle
emergenze archeologiche, numerose possibili aree di antica
produzione di allume.
L’indicatore preso in considerazione è la presenza di rocce vulcaniche ricche di alluminio in ambiente fumarolico,
soggette ad un alto grado di alterazione dovuta all’attività
vulcanica tardiva.
Tale condizione ha portato ad identificare delle aree del
Mediterraneo, ed in particolare della nostra Penisola, che, per
la presenza di associazioni mineralogiche caratteristiche, in
passato sono state dei centri produttivi di questa materia prima.
La relativa abbondanza dell’alunite, associata alla presenza
di rocce alterate nella fase idrotermale in giacitura secondaria,
e la facile accessibilità del giacimento, hanno contribuito allo
sviluppo di una lunga attività estrattiva, che ha interessato
minerali in giacitura primaria e secondaria, coltivati sia a
cielo aperto che per pozzi e gallerie.
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English abstract
The term alum has been mentioned since ancient times
(for Strabo was στυπτηρία, for Columella and Pliny the alumen), sometimes improperly, for a number of astringents and
mordant saline substances. Alum is both a specific “chemical
compound” and a class of chemical compounds. For their
properties alums were used in the processing of fabric and
leather as fixers of color. The specific compound is the hydraeted potassium sulfate (potassium alum), with the formula
KAl3[(OH)6/(SO4)2]. Alunite comes from alteration mineral
contained within volcanic rocks rich in aluminum, such as
latites and trachytes, which under peculiar geological and
volcanological conditions, generate characteristic association
of minerals.
Geological association of aluminous volcanic rocks and
the presence of alteration minerals were the geological-mineralogical indicators used in this research, in order to detect
possible quarries area in the Mediterranean basin.
32
Alessandro Donati*, Vanessa Volpi*, Luisa Dallai**
LA MAPPATURA CHIMICA DEI CONTESTI
DI PRODUZIONE DELL’ALLUME
Chemical mapping of alum production contexts
1. INTRODUZIONE
concentrazione dei depositi alunitici, ha permesso inoltre
di caratterizzare funzionalmente specifiche aree connesse
alle fasi di produzione dell’allume ed ha fornito interessanti
elementi di valutazione in relazione ai residui di lavorazione
della materia prima (alunite). Si presenteranno infine i primi
risultati comparativi ottenuti con la spettroscopia di assorbimento atomico (GF-AAS) applicata a campioni di alunite
prelevati nelle cave del distretto di Monterotondo MarittimoMontioni (Toscana, GR) e nell’area tolfetana (Cava della
Concia, Cava Grande, Lazio, Roma), allo scopo di fornire
una preliminare comparazione fra i diversi bacini di approvvigionamento e di ipotizzare future analisi di provenienza.
Le Colline Metallifere sono da anni un territorio di sperimentazione multidisciplinare, dove le analisi geochimiche, a
partire dai lavori pioneristici del secolo XVIII (ad esempio le
osservazioni di Paolo Mascagni sui lagoni, che furono oggetto di una sua comunicazione presentata all’Accademia dei
Fisiocritici di Siena il 16 Marzo 1779, oggi conservate in un
manoscritto presso la stessa Accademia), hanno contribuito
in tempi più recenti alla migliore lettura storica dei siti a
vocazione produttiva.
L’approccio multidisciplinare allo studio del paesaggio
storico e delle sue risorse ha visto coinvolti il Dipartimento
di Scienze Storiche e dei Beni Culturali ed il Dipartimento
di Biotecnologie, Chimica e Farmacia dell’Università di
Siena attraverso un primo progetto pilota avviato nel 2009
e denominato Ar.Chi.Min., Archeologia e Chimica per il
Patrimonio Minerario (www.archimin.unisi.it). Lo scopo della
ricerca è stato definire e testare un protocollo combinato di
metodologie archeologiche e scientifiche per lo studio, la
conservazione e la valorizzazione del patrimonio archeominerario della Toscana meridionale. A questo fine sono stati
utilizzati dati chimico-ambientali realizzati direttamente
sul campo, a supporto di banche dati già disponibili per il
territorio, con l’obiettivo finale di evidenziare e verificare la
possibile congruenza fra la presenza di anomalie geochimiche
e la localizzazione di siti archeominerari ed archeometallurgici
non ancora censiti. Il protocollo è stato modulato su scale
differenti per essere applicato a contesti topografici piccoli
e medio-grandi.
In questo contributo presenteremo e discuteremo una
parte dei dati ricavati dal progetto Ar.Chi.Min., rileggendoli
alla luce delle più recenti acquisizioni della ricerca multidisciplinare condotta nel territorio delle Colline Metallifere,
con l’obiettivo di identificare a scala territoriale le possibili
zone di estrazione e produzione dell’allume alunitico in base
alla concentrazione di alcuni elementi chimici diagnostici.
A tal fine saranno considerati in particolare Al (Alluminio)
e K (Potassio), la cui presenza è stata determinata attraverso
l’analisi di sedimenti fluviali.
Lo studio di dettaglio intra-situ condotto sul complesso
delle Allumiere di Monteleo, sito localizzato nel territorio
di Monterotondo Marittimo, nel cuore di una delle aree di
A.D., V.V., L.D.
2. I GIACIMENTI DI ALUNITE: VALUTAZIONE
TERRITORIALE A “GR ANDE SCALA”
Sul territorio delle Colline Metallifere la valutazione a
grande scala è stata impostata utilizzando il noto censimento
Rimin, database di analisi chimiche realizzato tramite prospezione geochimica ed analisi di sedimenti fluviali, in parte
consultabile attraverso il portale Geoscopio della Regione
Toscana (Banca Dati Indagini Geotematiche – BDIG;
risorsa consultabile all’indirizzo: www.regione.toscana.it/-/
banche-dati-sottosuolo). I sedimenti analizzati si formano a
seguito della continua erosione, lisciviazione e miscelazione
dei versanti; essi sono perciò rappresentativi dei terreni che
costituiscono il territorio d’indagine, e forniscono un valore
medio degli elementi considerati. Nel nostro studio i dati
Rimin sono stati integrati con le informazioni di carattere
bibliografico relative ad aree estrattive sfruttate in diverse
epoche storiche (Inventario 1995).
L’alunite (solfato doppio insolubile di K e Al; KAl3(SO4)2
(OH)6) non è molto comune in natura; essa si forma a
causa della circolazione di fluidi di origine magmatica con
presenza di S, che attraversano rocce incassanti ricche in Al
e K e povere in Ca 1.
In Toscana meridionale la genesi dell’alunite è associata a fenomeni idrotermali acidi legati all’attività magmatica recente del Pliocene inferiore (Giannini 1955;
Costantini et al. 1990; Lazzarotto 1993; ISPRA 2002).
Contemporaneamente alla tettonica di tipo distensivo che
ha generato le depressioni dove si sono depositati i sedimenti
* Dipartimento di Biotecnologie, Chimica e Farmacia, Università di Siena
(alessandro.donati@unisi.it; vanessa.volpi@unisi.it).
** Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali (luisa.dallai@
unisi.it).
1
Per agevolare la lettura dei dati esposti si richiamano qui le corrispondenze
fra i simboli e gli elementi chimici che saranno menzionati nelle pagine seguenti:
K-Potassio, Al-Alluminio, Cu-Rame, Pb-Piombo; Ag-Argento, Zn-Zinco, FeFerro, As-Arsenico, Cr-Cromo, V-Vanadio, S-Zolfo, Ca-Calcio.
33
A. Donati, V. Volpi, L. Dallai
continentali marini, fluidi idrotermali legati alla messa in
posto di corpi magmatici hanno permeato gli ammassi
rocciosi fratturati, reagendo con le rocce incassanti (Liotta
et al. 2010). La maggior parte dei giacimenti alunitici della
Toscana meridionale si è formata perciò su litotipi di origine
sedimentaria (scisti argillosi o argille ricche in Al e K, appartenenti alle formazioni di Poggio al Carpino e del Verrucano:
Casini et al. 2007, 2008); è questo in particolare il caso
di Monteleo e dell’Accesa. L’eccezione è invece costituita
dal giacimento di Montioni, dove sono presenti litotipi di
origine magmatica (ignimbriti e rioliti) (Costantini et al.
1990; Thirion Merle, Cantin 2009) (fig. 1).
Tramite l’analisi della banca dati Rimin si è verificata la
congruenza fra la presenza di alti tenori di Al e la localizzazione di siti di estrazione e lavorazione dell’alunite storicamente
attestati nella Toscana meridionale. Poiché l’Al è uno dei più
diffusi elementi chimici che compongono la maggior parte
dei minerali, il suo impiego come elemento diagnostico per
identificare le aree di estrazione dell’alunite è risultato più
problematico di quanto non sia, ad esempio, utilizzare le
alte concentrazioni di metalli pesanti (Cu, Pb, Ag, Zn e Fe)
come traccianti dei relativi cicli produttivi.
Osservando la fig. 2, realizzata sulla base dell’elaborazione
della banca dati Rimin, risulta evidente che i siti a vocazione
produttiva (ciclo di produzione dell’allume alunitico) di epoca pre-industriale si posizionano nelle aree dove i valori di Al
corrispondono a concentrazioni medio-alte (Cavone dell’Acqua-Massa Marittima; Montioni; Montieri). Fra questi, la
corrispondenza più efficace fra evidenze archeominerarie e
valori geochimici riguarda il contesto estrattivo del Cavone
dell’Acqua, localizzato nel territorio di Massa Marittima; si
tratta di un’area di rilevante impatto economico, sulla quale
fig. 1 – Carta geologica della Toscana, progetto CARG; APA: Argille
a Palombini, CCA: Calcare Cavernoso, VER: Gruppo del Verrucano.
In figura vengono riportati i dettagli dell’area di Buca dei Falchi per
Monteleo e dell’area del Cavone per l’Accesa.
fig. 2 – Mappa di concentrazione dei valori
di Al nel territorio delle
Colline Metallifere. Elaborazione prodotta sulla
base dei valori estratti
dalla banca dati Rimin,
Risorsa: Regione.toscana/geoscopio/database
geologico regionale. Elaborazione: A. Bardi.
34
La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume
la coltivazione dell’alunite è attestata a più riprese fra la metà
del XV ed il XVI secolo (Dallai et al. 2018).
Meno evidente è invece la corrispondenza fra concentrazione di Al ed area estrattiva nel caso dell’Allumiera di
Monteleo (Monterotondo Marittimo), il contesto meglio
studiato dal punto di vista archeologico; il sito si attesta
infatti su valori di concentrazione medio-bassi, difficilmente
compatibili con quanto evidenziato dalle prospezioni di indagine e dalla documentazione storica (cfr. Dallai in questo
stesso volume). La lettura di questo dato ci porta a formulare
alcune ulteriori considerazioni:
Descrizione
Strati di colore bianco a
granulometria prevalentemente fine
e consistenza plastica
Strati di colore rosa/rosso a
granulometria prevalentemente fine
e consistenza plastica
Strati terrosi di colore marrone chiaro
Al % Fe %
S % As mg/Kg
11
0.3
4
400
8
2
4
1000
6
3
1
300
tab. 1 – Area 3000, stratigrafia indagata all’interno della canalizzazione
(Saggio F).
mento utile ad identificare le diverse fasi di trattamento dell’alunite. Posto che l’identificazione dell’area di calcinazione
(Aree 1000 e 2000) non presentava particolari problemi interpretativi, l’analisi si è concentrata maggiormente sull’Area
3000, che doveva ospitare le fasi di macerazione, lisciviazione
e cristallizzazione del prodotto, ed in particolare sugli spazi
localizzati a ridosso di una delle caldaie da lisciviazione. Per
questi ultimi si era ipotizzata la funzione di possibile deposito
temporaneo di materiale estratto e forse calcinato, databile
all’ultima fase di vita del sito. Un’ulteriore area di indagine
è stata inoltre individuata all’interno di una grande canalizzazione di scolo delle acque dalle diverse aree del sito (Area
3000, F) (fig. 3). All’interno di quest’ultima struttura è stata
individuata una stratigrafia molto interessante, composta da
un’alternanza di materiale di scarto con diverse granulometrie
e colori (bianco, rosa e rosso) e terra (ulteriori dettagli in
Dallai, in questo stesso volume).
I valori di Al riscontrati sul suolo, nei pressi della struttura probabilmente destinata alla lisciviazione, e sull’area
di deposito di materiale da trattare, si attestano intorno al
5%-6% (fig. 4), percentuali molto significative, certamente
relazionabili alla presenza di minerale sul posto.
I dati più interessanti provengono tuttavia dall’interno
della canalizzazione di scolo (Area 3000, F). La descrizione
sintetica della sequenza stratigrafica in relazione al valore degli
elementi diagnostici è riportata in tabella (tab. 1).
La tabella mostra come gli strati di colore bianco presentino il contenuto più elevato di Al, mentre gli strati di
colore rosa o rosso contengano una quantità inferiore di Al
e maggiori impurità; la colorazione rosa o rossiccia è infatti
attribuibile alla presenza di Fe.
È interessante notare come in tutti questi strati sia presente
un contenuto di As elevato, fino a 1000 mg/Kg. Simili valori
attestati nei residui di lavorazione potrebbero far presupporre che gli strati rosa e rossicci, più ricchi di impurità e di
consistenza pastosa, siano relativi alla fase di ripulitura delle
caldaie di lisciviazione (dopo ogni ciclo di cottura il materiale
impuro si stratificava sul fondo della caldaia e questa doveva
essere svuotata e ripulita), senza escludere che essi siano il
prodotto della lisciviazione legata alla fase di macerazione, ed
in particolare alle acque di innaffiamento delle piazze da macerazione. Secondo la descrizione di Targioni Tozzetti (metà
del XVIII secolo), le opere di canalizzazione dell’allumiera
facevano infatti confluire anche i residui delle piazze di macerazione all’interno della canalizzazione principale (Targioni
Tozzetti 1751-1754, IV, pp. 312-315). La presenza di As
si lega infine alla fase di calcinazione della materia prima;
percentuali così elevate indicano che in questo primo step di
trattamento dell’alunite non si erano realizzate le condizioni
1. A Monteleo la ricchezza del giacimento, attestata da tutte le
fonti storiche, si controbilancia con la sua limitata estensione.
2. Lo sfruttamento storico del giacimento, attestato dalle
fonti e valutato anche quantitativamente con l’utilizzo di
metodi di calcolo volumetrici (si vedano le considerazioni di
Poggi e Buono in questo volume) risulta piuttosto intenso
e potrebbe aver inciso significativamente sui tenori di Al
registrati in epoca recente.
3. I valori più alti registrati dalla mappatura geochimica
per l’elemento Al si localizzano in corrispondenza dei filoni
mineralizzati a solfuri misti (area di Serrabottini-Cavone e
Niccioleta-Massa Marittima; Poggio di Montieri; Poggio
Trifonti-Monterotondo Marittimo), mentre nel caso della
sola attestazione di alunite, essi risultano complessivamente
meno elevati sull’intero territorio analizzato (Montioni,
Monteleo).
L.D.
3. MONTELEO: LO STUDIO DI DETTAGLIO
INTRA-SITU
Le analisi geochimiche sono state utilizzate sia a scala
territoriale che, come detto in premessa, all’interno di singoli
siti (come sul sito Allumiera di Monteleo), in contemporanea con le attività di scavo; in questo caso le analisi si sono
avvalse dell’uso di uno strumento portatile di fluorescenza
a raggi X (pXRF).
Le analisi sono state condotte impostando griglie regolari
di 1 m², al cui interno sono state effettuate tre analisi per
quadrato; il valore su metri quadrati ottenuto per ciascun
elemento è il risultato della media delle tre misure. Oltre ai set
di analisi sistematici su griglia si sono effettuate anche analisi
supplementari su stratigrafie particolarmente significative
(singole US) e su strutture produttive (Dallai, Volpi 2015).
Il materiale di partenza per la produzione dell’allume è,
come detto, l’alunite (KAl3(SO4)2OH6), che diviene allume
attraverso un ciclo produttivo ben descritto in altri contributi
e sintetizzabile nei quattro fondamentali passaggi: calcinazione (eliminazione di anidride solforosa ed infragilimento
della roccia); macerazione (alterazione spinta delle pietre cotte
attraverso l’utilizzo di acqua, fino a formare un materiale di
consistenza pastosa, ricco di allume); lisciviazione (cottura e
concentrazione del materiale proveniente dalla macerazione
in soluzione acquosa) e cristallizzazione (sedimentazione e
formazione di cristalli di allume).
Attraverso le analisi pXRF effettuate sul sito di Monteleo,
si è voluto testare se l’Al potesse essere utilizzato come ele-
35
A. Donati, V. Volpi, L. Dallai
fig. 3 – Allumiere di Monteleo, area
3000. Localizzazione delle analisi
pXRF on-site.
venienti da aree geografiche diverse. Per questo tipo di analisi
vengono generalmente utilizzati gli elementi minori e le terre
rare, che sono legati alla genesi dei minerali e delle rocce
nelle diverse aree geografiche. In questo studio preliminare
si è cercato di caratterizzare i depositi alunitici analizzando
gli elementi in traccia tramite spettroscopia di assorbimento
atomico (GF-AAS), utilizzando alcuni campioni provenienti
dai siti delle Colline Metallifere (Montioni e MonteleoMonterotondo Marittimo), e confrontandoli con campioni
provenienti dal distretto laziale dei Monti della Tolfa (Cava
Grande e Cava della Concia).
I risultati delle analisi sui campioni prelevati dalle cave di
Monteleo e Montioni visibili in fig. 4 (in particolare nell’istogramma A), evidenziano per Monteleo elevate concentrazioni
per la sua totale eliminazione. Questo non significa però che
l’allume prodotto non fosse di buona qualità; dalle caldaie
di lisciviazione si recuperava infatti la soluzione più pura e
priva di corpo, che poteva produrre la cristallizzazione di un
ottimo prodotto.
V.V.
4. TR ACCIATUR A DELLA PROVENIENZA
DELL’ALUNITE
L’identificazione della provenienza delle materie prime
è uno dei temi di ricerca più interessanti per l’archeometria
e l’archeologia della produzione; le indagini si basano sulla
diversità composizionale che esiste tra le materie prime pro36
La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume
fig. 4 – A: Analisi chimiche dei campioni di suolo provenienti da Monteleo (Monterotondo Marittimo) e da Montioni (Follonica); B, C: Confronto tra i valori dei campioni di suolo toscani (Monteleo e Montioni) e laziali (Cava della Concia e Cava Grande, Tolfa).
37
A. Donati, V. Volpi, L. Dallai
di As e bassi valori di Cr rispetto alle cave di Montioni; queste
ultime, al contrario, mostrano elevate concentrazioni di Cr,
Pb e V. La diversa concentrazione di tali elementi può essere
dovuta alla natura delle rocce incassanti su cui i fluidi idrotermali, all’origine dei giacimenti alunitici, hanno circolato; nel
caso di Montioni le rocce incassanti sono formate da litotipi
di origine vulcanica, mentre nel caso di Monteleo i litotipi
sono di origine sedimentaria.
Se i campioni della Toscana Meridionale vengono confrontati con quelli provenienti dalla Cava Grande e dalla Cava
della Concia (Monti della Tolfa), la provenienza delle materie
prime risulta ulteriormente diversificarsi. In fig. 4 (grafico
B) possiamo osservare che il campione laziale si differenzia
da quelli di Monteleo per l’assenza di elevate concentrazioni
di As, e dai campioni di Montioni per l’assenza di V. Dal
grafico C (fig. 4) si può infine osservare la similitudine fra i
depositi alunitici che si sono generati dall’alterazione di rocce
vulcaniche (campioni provenienti da Montioni e dalla Tolfa)
e la loro diversificazione rispetto al deposito di Monteleo, che
si è generato per alterazione di rocce sedimentarie.
Questo tipo di indagine preliminare può aprire una
interessante linea di ricerca sulla distinzione geochimica tra
materie prime provenienti da siti diversi e quindi sulla loro
provenienza.
mettenti riguardo alla possibilità di caratterizzare la materia
prima, ed ha permesso di differenziare, in base ad alcuni
elementi in traccia (in particolare As, Pb, Cr e V), minerali
provenienti da siti estrattivi diversi all’interno delle Colline
Metallifere e campioni di altri contesti italiani, come quello
alto-laziale.
Considerando infine la presenza dell’arsenico (As) nello
scarto della canalizzazione dell’Area 3000 di Monteleo alla
luce dell’analisi di provenienza, le elevate concentrazioni di
questo elemento avvalorano il dato storico secondo cui la
materia prima utilizzata in questo sito fosse esclusivamente
quella della cava di Buca dei Falchi e del Poggio Marruche.
In conclusione, le analisi chimiche e pXRF potrebbero
essere impiegate in prospettiva per una mappatura estensiva
dell’alunite proveniente dai contesti estrattivi storicamente
attestati sulla Penisola, con l’obiettivo di determinare i bacini
di approvvigionamento dei diversi siti di produzione.
A.D., V.V., L.D.
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A.D.
5. CONCLUSIONI
Le analisi territoriali a “grande scala” hanno consentito di
identificare quale fosse la distribuzione spaziale di alluminio
nei sedimenti fluviali delle Colline Metallifere. Malgrado la
corrispondenza solo parziale fra le concentrazioni più elevate
ed i siti noti di estrazione e lavorazione dell’alunite, riteniamo
che tale elemento possa essere utilizzato come valido tracciante per concorrere a determinare le aree a maggiore potenziale
archeominerario. Le mappe di concentrazione evidenziano
tuttavia, sia nel caso dell’Alluminio (Al) che per gli altri
metalli storicamente coltivati nel territorio delle Colline
Metallifere (in particolare Cu, Pb, Fe), il fortissimo impatto
ambientale determinato dalla fase estrattiva contemporanea;
nel caso dei depositi di alunite, la cui coltivazione data ad
epoca pre-industriale, ciò determina una scarsa visibilità dei
valori di concentrazione in paragone a quelli frutto delle più
recenti attività estrattive, e dunque una limitata evidenza del
dato storico.
Al contrario, le indagini pXRF on-site, svolte all’interno
del sito dell’Allumiera di Monteleo, hanno permesso di identificare specifiche aree collegate ad una ben determinata fase
della lavorazione dell’alunite. Le analisi condotte sui residui
di lavorazione all’interno della canalizzazione dell’Area 3000
in particolare si sono rilevate utili sia per caratterizzare composizionalmente il materiale, sia per fornire elementi relativi
alla qualità del prodotto di scarto, e quindi determinare una
stima del grado di efficienza del processo produttivo. Ciò
evidenzia alcune potenziali criticità del ciclo, in particolare la
mancata eliminazione di parte dell’As, e l’elevata percentuale
di Al residuo nelle acque di risulta.
L’analisi di provenienza, seppur basata su un limitato
numero di campioni, ha fornito risultati preliminari pro38
La mappatura chimica dei contesti di produzione dell’allume
English abstract
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The Colline Metallifere district, where the site of Allumiera
di Monteleo is located, has been a place of multidisciplinary
research developed by the Departments of Biotechnology,
Chemistry and Pharmacy and History and Cultural Heritage
of the University of Siena. In this area archaeological, chemical
and geological proxies have provided very significant data for
the reconstruction of the historical and productive landscape
(mining and metallurgical in particular). In this paper we will
discuss the concentration of some chemical elements (i.e. Al
and K) emerged during the multidisciplinary investigations,
which can be considered diagnostic of ancient activities related
to alum extraction and processing. The detailed intra-situ
physico-chemical study conducted on the Monteleo productive complex has also allowed to functionally characterize
the areas inside the site on the basis of elemental analysis of
the soil. Finally, chemical comparison between alum samples
taken from the Colline Metallifere and the Tolfa areas, represents a first step in planning an extensive mapping of the
deposits at national level, with the aim of determining the
supply basins of the various production sites.
39
L’ALLUME LAZIALE
THE LATIUM ALUM LANDSCAPE
Francesca Romana Stasolla*
LE ALLUMIERE DEI MONTI DELLA TOLFA
TR A ARCHEOLOGIA ED ECONOMIA DI INDOTTO
The allumiere of the Tolfa district: archaeology and economical network
cui fanno parte e alle quali spesso danno il proprio nome 4.
Così, ad esempio, accade nel caso del castrum Centumcellensis,
per il quale la Margherita Cornetana nel 1451 documenta la
riduzione a tenuta assegnata alla mensa episcopale di Corneto
e Montefiascone 5 (figg. 2-3). Le cause di queste profonde
modifiche sono legate da un comune destino politico, ma
poi soggette a situazioni contingenti, fra le quali vengono
ricordate la recrudescenza della malaria, la peste del 1348 o
il terremoto del 1349. Va però detto che non sempre questi
eventi portano immediatamente a fenomeni di abbandono;
ad esempio, a Cencelle la ricostruzione del palazzo pubblico
dopo l’evento sismico è indizio di un potere comunale ancora
saldo alla metà del XIV secolo 6.
Certamente, però, lo stato di tensione fra nobiltà e papato e la distruzione mirata di alcuni centri da parte papale
determinarono profonde trasformazioni nel territorio; ciò va
tenuto presente per un riequilibrio storiografico che non si
limiti ad attribuire allo sfruttamento dell’allume ogni forma
di modifica topografica dell’area. In realtà, la decisione di
procedere al massiccio sfruttamento dell’alunite contribuì a
catalizzare la rifunzionalizzazione dei castelli superstiti ed agì
in modo rinvigorente nell’economia del territorio. Tutta l’area
dei Monti della Tolfa venne infatti, a seguito del ritrovamento
di Giovanni da Castro, rapidamente riorganizzata in modo
funzionale alla nuova industria, gerarchizzandosi in relazione
ai nuovi poli produttivi.
Innanzitutto, nel cuore del bacino tolfetano si assiste ad
una concentrazione dell’abitato attorno prima a Tolfa Nuova,
quindi ai nuovi piccoli centri demici nei pressi degli impianti,
come La Bianca, o a centri che avranno uno sviluppo autonomo, anche come sede delle strutture per la gestione delle
industrie, come nel caso di Allumiere 7 (fig. 4). Questi costituiscono il cuore pulsante del popolamento dell’allume ed
ospitano coloro che, in modo diretto o mediato, sono legati
ai processi estrattivi e colturali, a cominciare dai minatori
e dalle loro famiglie. Il paesaggio demico tende a spostarsi
La complessa attività estrattiva che lo sfruttamento dell’alunite nel comprensorio dei Monti della Tolfa genera, ha
profonde conseguenze in un’ampia fascia di territorio 1. Per
una lettura della topografia storica e delle fonti documentarie
la prospettiva archeologica consente di acquisire elementi di
maggiore comprensione di un fenomeno nel suo complesso:
in questo caso la risposta di un territorio agli stimoli indotti
da una determinata attività 2.
A seguito della chiusura dei mercati orientali, dopo la
caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, si pose
in Occidente in grave problema della penuria di allume,
sostanziale per la tenuta di alcune delle attività strategiche
nell’orizzonte economico europeo, come ad esempio quella
tessile. La ricerca del prezioso minerale generò affannose
ricerche, nella consapevolezza di quanto il successo dell’impresa avrebbe giovato ai territori interessati dallo sfruttamento
dell’allume. Fu quindi l’occasione di riprendere, e mettere
a regime, le attività estrattive che in modo sporadico erano
state condotte nei periodi precedenti nell’area del Lazio
settentrionale, nell’entroterra di Civitavecchia; l’accordo
fra Giovanni da Castro, a cui si deve l’individuazione delle
cave del minerale, e la Camera Apostolica generò una delle
industrie più proficue ed estese della prima Età Moderna 3.
Le trasformazioni dell’area tolfetana erano in realtà avvenute già prima dell’iniziativa di Giovanni da Castro. Nel XV
secolo l’area dei Monti della Tolfa (fig. 1) può dirsi del tutto
sotto il controllo pontificio, grazie alle vittorie dell’Albornoz
contro i di Vico e gli Anguillara. Tale controllo prevede il possesso diretto di molte zone da parte della Camera Apostolica,
oppure indiretto per mezzo di ordini religiosi, come quello di
S. Giovanni o del S. Spirito; si avvia cioè un processo che si
concluderà con il reale monopolio delle zona per il remunerativo sfruttamento dell’allume. Questo processo di accentramento politico ed amministrativo, immediatamente anteriore
all’avvio dell’industria allumierifera, genera la perdita delle
funzioni militari o di presidio territoriale di molti centri, che
nel corso del XV secolo subiscono un progressivo abbandono
o vengono trasformati in poli amministrativi delle tenute di
4
Per le trasformazioni dell’area tolfetana nel Medioevo, e sulla situazione
immediatamente precedente l’avvio dell’industria dell’allume, si vedano le
riflessioni di F. Vallelonga in Vallelonga 2006a, 2006b, 2012a, 2016 ed infine
Vallelonga, Del Ferro, De Lellis 2018, con ulteriori riferimenti bibliografici.
5
Supino 1969, doc. 581, pp. 429-430. Per alcuni spunti di analisi
topografica sulla base dei documenti della Margherita Cornetana nel territorio
dei Monti della Tolfa, si rinvia a Sorrento 2014.
6
Somma 2014a; Somma in Somma, Stasolla 2016; Somma 2018.
7
Zifferero 1996, pp. 739-756. Per le indagini nell’area de La Bianca, si
rimanda a Vallelonga 2012b, oltre che ai contributi in questi stessi atti dello
stesso Fabrizio Vallelonga per l’analisi archeologica e di Cristina MartínezLabarga per quella antropologica.
* Sapienza Università di Roma (francescaromana.stasolla@uniroma1.it).
1
Per l’industria dell’allume in area tolfetana, nella ricca bibliografia ci si
limita a rimandare a Zippel 1907; Monaco 1983; Jacoby 2005, oltre al recente
contributo di Ivana Ait in Ait, Dallai, Ponta 2018.
2
Per una prima lettura in chiave archeologica, si rimanda a Stasolla
2014, 2018b.
3
Nella vasta bibliografia, si rimanda al solo Ait 2014 per una sitensi delle
vicende ed un’ampia bibliografia di riferimento.
43
F.R. Stasolla
fig. 1 – Area dei Monti della Tolfa, attorno ad Allumiere, ancora identificabili
da zone rurali e boschive.
fig. 2 – Localizzazione di Cencelle.
verso le colline dell’interno, complice anche il processo di
impaludamento di parte della fascia costiera, ancora per i
secoli XVI-XVII, che spinge ad utilizzare la via Clodia o la via
Cassia per le lunghe percorrenze. Questa situazione favorisce
la frequentazione, e quindi la rivalutazione economica, dei
centri dell’Etruria interna, soprattutto di quelli situati lungo
il percorso di queste arterie stradali 8.
Anche lo sfruttamento del territorio venne ripensato in
funzione delle operazioni legate alle pratiche minerarie: le
piante dei numerosi catasti, a cominciare dall’Alessandrino,
mostrano come le macchie camerali, destinate a fornire
legname per la lavorazione del materiale alunitico, si concentrassero nel cuore del bacino tolfetano (fig. 5). Del resto,
la preoccupazione di sopperire al bisogno di materie prime
risulta anche dai primi contratti di appalto, come quello del
1463 che riporta il diritto di incidere et estrarre tam lapideis
quam ligna nelle zone delle cave e negli immediati dintor-
ni 9, o come quello del 1465, che prevede l’obbligo da parte
del locatore ogni anno durante detta locatione di sementare
nel tenimento e paesi de la Lumera almeno cinque rugla di
ghiande per la reparatione de le silve che se tagliano, a cio che
non manchano legna a detta Lumera 10. La preoccupazione
per il disboscamento si esprime anche con norme a tutela
dei boschi, che prevedono il divieto di tagli per esemplari
inferiori ai 30 anni; altri boschi erano protetti, riservandoli
alle attività costruttive, ed evitando quindi il taglio delle
piante in età giovane 11. Sotto il pontificato di Alessandro VI
(1492-1503) è attestata l’esistenza di un apposito ufficiale per
la sorveglianza delle selve di Tolfa. Le aree periferiche, come
quelle di Cencelle (fig. 6) e di S. Maria sul Mignone (fig. 7),
ripresero velocemente la loro vocazione agricola, o perché
troppo distanti dai luoghi dell’attività estrattiva, o per la
natura dei terreni, che si prestavano a questo tipo di impiego
9
In un documento del 14 gennaio 1463, tali diritti vengono specificatamente ricondotti da un’area in fundo vallis fiumicelli, qui dicitur montis Maiestatis ad
sinistram respicit, versus Tulfa circa locum etiam qui dicitur Il Campo del Horto,
prope aquam videlicet fontis dicti castri (ASR, Camerale III, b. 2360).
10
Theiner 1861-1862, doc. 379, pp. 434-436; Zippel 1907, pp. 438-444.
11
ASR, Camerale III, b. 2380.
8
Per l’assetto viario medievale della zona, per le modifiche e per i raccordi tra costa ed aree interne, si vedano Vallelonga, Del Ferro, De Lellis
2018; Casocavallo, Maggiore, Quaranta 2018, due quadri d’insieme che
sistematizzano molta della bibliografia precedente, più parcellizzata e dispersa.
44
fig. 3 – Cencelle, veduta aerea.
fig. 4 – Pianta, e Veduta Dell’Allumiere, e Cave D’Alume. ASR, Disegni e Piante, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani, coll. I, cart. 122, f. 48.
45
F.R. Stasolla
fig. 5 – Mappa delle tenute dell’allume, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani.
fig. 6 – Tenuta di Cincelli, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani.
meglio di quelli dell’entroterra collinare 12. Il timore che la
preziosa risorsa lignea, da utilizzarsi sia come combustibile
che per le numerose infrastrutture di cava, venisse a mancare
portò sin dall’inizio a prevedere opere di rimboschimento,
spesso per una quota – anche la metà – a carico della Camera
Apostolica, che compartecipava in questo modo alle spese
per la gestione indiretta delle allumiere 13. Ciò che colpisce fin
dai primi accordi fra la Camera Apostolica e gli appaltatori è
la chiarezza organizzativa nel contemperare lo sfruttamento
diretto delle cave con l’economia di indotto, indispensabile
per garantire la sostenibilità del territorio e quindi un successo di lunga durata dell’intera impresa. Un documento
del 1462, un accordo stilato fra la Camera Apostolica da
una parte e Giovanni da Castro, Bartolomeo da Fra Mura
e Carlo Caetani dall’altra, rinnovato in prima istanza per
tre anni, poi di nuovo per nove, prevede che gli appaltatori
possano usufruire delle cave, delle risorse boschive dell’area,
dei corsi d’acqua e delle sorgenti per l’approvvigionamento
idrico; possono inoltre avere fieno e paglia a titolo gratuito,
seminare fino a 60 moggi di grano, orzo ed altri cereali ed
avere l’esclusività del raccolto, usufruire dei diritti permanenti
di pascolo, fino ad un massimo di 90 mucche, 120 buoi da
lavoro, 120 bufali, 600 montoni, 1.500 pecore, oltre che
12
Per S. Maria al Mignone e le sue vicende, oltre che per l’area ad essa
riferibile: Del Lungo 1994, Nardi Combescure 2002; Vallelonga 2012a.
13
Così in un documento del 1 novembre 1462: ASR, Tolfa, b. 2378,
Allumiere 1467, f. volante; Delumeau 1990, pp. 79 ss.
fig. 7 – Tenuta di S. Maria del Mignone, Catasto delle Tenute di Allumiere di Giovanni Battista Cingolani.
46
fig. 8 – Cencelle, chiesa romanica di S. Pietro (ricostruzione L. Pardo).
fig. 9 – Cencelle, chiesa romanica di S. Pietro, cripta.
dell’esenzione del pagamento dei diritti di dogana. A fronte
di questi vantaggi, i contraenti sono tenuti alla realizzazione
e alla gestione degli impianti, alla produzione di 30.000
cantari di allume (circa 1.500 tonnellate), oltre che al rimboschimento in collaborazione con la Camera Apostolica 14.
Queste condizioni ritornano in più contratti successivi, con
14
le medesime percentuali, segno che si era trovato un equilibrio fra necessità delle allumiere e sfruttamento delle risorse
locali 15. La necessità di strumenti ed animali per il servizio
della allumiere e per la produzione agricola che il territorio
15
Così ad esempio in più documenti di appalti del 1465: Theiner 18611862, doc. 379, pp. 434-436; Zippel 1907, pp. 438-444; ASR, Camerale
III, n. 2378; ASV, Arm. XXIX, n. 34, cc. 60r-62v; Delumeau 1990, p. 80;
Barbieri 1940, p. 21.
ASR, Tolfa, b. 2378, Allumiere 1467, f. volante; Delumeau 1990, p. 79 ss.
47
F.R. Stasolla
minato la statica, subisce in modo definitivo la tamponatura
degli accessi legati alla sua funzione cultuale. All’area presbiteriale si accede attraverso una porta ricavata nel muro perimetrale
sinistro, appena all’inizio della navata; una delle scale di discesa
nella cripta, quella sinistra, viene tamponata e l’area doveva
ospitare una qualche attività produttiva, della quale restano una
vaschetta ed i resti di una canaletta; nella muratura dell’abside
principale della cripta viene aperta una porta. Quest’ultima
apertura attesta non solo della definitiva perdita della funzione
cultuale dell’edificio, ma anche del nuovo rapporto topografico
fra questo edificio e lo spazio extraurbano. Le pareti della cripta
vengono ricoperte di intonaco grigiastro, sul quale vengono
tracciati numerosi graffiti, che comprendono anche tracce
di computi 17. In questa fase, certamente sono in uso la zona
presbiteriale e la sottostante cripta, destinate appunto al centro
gestionale di una azienda agricola 18 (fig. 9).
Nell’area presbiterale, riconvertita a scopo abitativo,
doveva alloggiare il gestore della tenuta, non sappiamo se
in modo stabile o sporadico: il rinvenimento di una serie
di ceramiche rivestite attesta che era ancora al suo posto al
momento del crollo definitivo dell’intera struttura, che conservava almeno in parte gli arredi liturgici (fig. 10). Il corredo
ceramico è costituito soprattutto da maioliche rinascimentali
di provenienza altolaziale, che evidenzano lo scollamento del
centro dal mercato romano e la sua saldatura con la nuova
realtà imprenditoriale. Ma i dati più interessanti provengono
dall’area della ex cripta, adibita a sede di attività agricole e
dotata di un accesso carraio nell’abside centrale. Il ritrovamento di focolari, fosse per la cenere e noccioli di quercia e
rovere riconduce ad un contesto contadino. In particolare,
l’analisi del contesto unitamente ad un lavoro di archeologia sperimentale 19 ha indotto a riflessioni interessanti sulla
sua funzionalità. La cripta nel XVI secolo è ormai adibita
a magazzino, ospita attrezzi da lavoro e molta ceramica da
cucina, oltre che un luogo per attività produttive legate alla
preparazione del cibo. Dopo una bollitura in olle ceramiche,
in un focolare le ghiande venivano tostate, quindi gettate,
insieme a cenere e braci, sul pavimento in lastre litiche per
il raffreddamento, infine lasciate in recipienti o buche nel
pavimento, alternate a strati di cenere. Dopo alcuni giorni
esse venivano prelevate e le ceneri erano riutilizzate per un
nuovo ciclo di tostatura; le ghiande tostate erano pronte per
la macinatura. Questa preparazione era indispensabile per
consentire l’uso di ghiande nell’alimentazione umana, ed il
suo carattere seriale a Cencelle costituisce un elemento importante di qualifica del tipo di alimentazione di contadini,
evidentemente impiegati nella tenuta. Inoltre, ciò costringe
a rivalutare la presenza di macchie di quercia e rovere nel
panorama tolfetano, che tradizionalmente si associa alla sui-
fig. 10 – Cencelle, ceramiche dalla cripta della chiesa romanica di
S. Pietro.
attorno garantiva ai lavoranti appare chiara anche dall’elenco
dei beni di Carlo Gatanis e di suo figlio Alfonso del 1515, che
divide bubalos centum domitos, equos currus et alias massaritias
da 50 buoi pro agricoltura 16.
Più distante dalle cave, infatti, il territorio si organizza in
tenute agricole facenti capo spesso ai vecchi castra, sottoposti
spesso all’autorità della Camera Apostolica o di enti religiosi,
variamente affittate dagli appaltatori delle allumiere per il
sostegno diretto dei lavoranti. Queste tenute dovevano avere un centro di riferimento per esigenze legate alle attività
agricole che erano chiamate a svolgere, e/o per l’alloggio dei
lavoranti e dei contadini. La documentazione materiale di
queste strutture appare estremamente rarefatta, se in genere
restano solo le menzioni delle fonti. Acquista quindi una certa
rilevanza il caso del sito Cencelle, dove uno spazio legato ad
un’azienda agricola è stato chiaramente identificato nell’area
della chiesa romanica, ormai rifunzionalizzata (fig. 8). Qui, in
un periodo che compreso tra il XV e il XVI secolo, l’edificio
perde il suo carattere religioso e l’area del presbiterio viene
presumibilmente adibita a centro della nuova tenuta agricola,
che nei catasti storici è nota come Tenuta di Cincelli, una
delle strutture in dotazione degli appaltatori delle allumiere.
La chiesa di S. Pietro, che aveva già subito una serie di
trasformazioni dopo il terremoto del 1349, che doveva averne
16
17
Tonizzo Feligioni 2010. L’assetto della cripta aveva in prima istanza fatto
ipotizzare la possibilità di un uso carcerario della struttura, viste le attestazioni
nelle fonti scritte della presenza di una struttura di detenzione a Cencelle. Il proseguo delle indagini tende a far propendere per un uso esclusivamente agricolo
della struttura, banché il contesto sia ancora in fase di analisi e di riflessione.
18
Stasolla 2012, pp. 34-35; Stasolla 2014b; Barone 2014, 2015;
Stasolla 2018a.
19
Il lavoro è stato oggetto di una tesi di laurea magistrale in Archeologia
Medievale presso l’Università di Roma Sapienza, ad opera di Valentina
Guaglianone; la parte sperimentale è stata seguita da Cristina Lemorini, correlatrice della tesi; le analisi paleobotaniche si devono ad Alessandra Celant.
ASR, Salvatore, cass. 468, 82 F e 82 G.
48
Le allumiere dei Monti della Tolfa tra archeologia ed economia di indotto
fig. 11 – Pianta delle strutture molitorie dell’area delle allumiere (ricostruzione di C. Carloni).
«Perché nel carreggiar li Allumi a Civita Vetula c’è bisogno
della tenuta di Ferrara a commodità della posta delli Bufali
promette la detta Camera che il Dohaniero pro tempore delle
pecore consegnerà ogni anno alli appaltatori delle tenuta per
il prezzo che li Grimaldi et moderni appaltatori l’hanno continuamente avuta havendone però essi bisogno per tal uso» 21.
Le tenute erano destinate ad usi diversi e quelle agricole
necessitavano anche di infrastrutture per la trasformazione
delle derrate. La preoccupazione di fornire il territorio di
mulini sembra essere prevalente, cosa comprensibile anche
nella necessità di sostenere un numero progressivamente
sempre più ingente di personale adibito alle cave (fig. 11).
Le strutture di molitura nell’area dei Monti della Tolfa
ancora nel XII secolo sembrano saldamente nelle mani dei
comuni. Abbiamo, ad esempio, notizie di mulini lungo il fiume Marta, controllati dalla comunità di Corneto ed assegnati
in gestione a privati, come riportato nei resoconti quattrocenteschi delle assemblee comunali della città, confluiti nelle
riformanze. Questi dovettero rimanere a lungo attivi in modo
quasi esclusivo, se negli statuti di Corneto si specifica che
città e contado dovevano usufruirne necessariamente, senza
serie alternative. In realtà fu proprio l’attività delle allumiere a
sviluppare anche quella molitoria, e la Chiesa se ne fece parte
attiva, anche perché si occupava della riscossione delle tasse
sul grano e sul macinato. Ancora nel 1473 Corneto concesse
in locazione a Carlo Gaytano de Pisis molendina comunis civitatis prefate quibus molitur frumentum apud fluminum Marte;
i locatari sono tenuti a far macinare grani a tutti i Cornetani,
nicoltura. È evidente che queste specie arboree, e soprattutto
i loro frutti, rappresentavano uno dei cardini dell’alimentazione non solo animale, e vanno ascritte a buon diritto nel
computo delle risorse alimentari primarie nell’area delle
tenute dell’allume. La necessità di difendere beni e derrate
qui accumulate sembrano tradite dal ritrovamento di armi,
alcune delle quali del periodo di passaggio fra XV e XVI
secolo, come nel caso di punte da balestra.
Altro centro dove è chiaro questo processo è il Castrum
Ferrariae: nel borgo, grazie alle liste del sale e del focatico,
vengono calcolati 100 abitanti nel 1416, mentre esso risulta
distrutto nei censimenti successivi. Ferraria è concessa in
feudo con Tolfanuova, Monte Castagno e Valmarina a
Francesco Orsini, prefetto di Roma, da Eugenio IV, privilegio
rinnovato da Nicolò V e Callisto III; quest’ultimo nel 1457
trasferisce la prefettura, e quindi i territori, a Pierluigi Farnese,
suo nipote. Con Pio II (1458-1464) il sito torna agli Orsini
per breve tempo, finché nel 1540 se ne impadronisce Everso
degli Anguillara. Con l’avvio dello sfruttamento dell’allume,
la zona suscita l’interesse del papato e viene trasformata in
una tenuta, probabilmente a seguito delle vicende di Tolfa
Nuova. A questo punto Ferraria non è più nominato come
castrum, ma come tenimento: in un verbale di un consulto
secreto del 28 novembre 1578, è menzionato il tenimento
Ferrario a proposito di cavalli presi o catturati in quel fondo
sottoposto ai Dohaneris Patrimonii. Nella prima metà del XVI
secolo la tenuta viene destinata al pascolo dei bufali, tanto da
diventare incolta e stepposa 20. La tenuta, citata nell’appalto
delle Lumiere del 1578 al capitolo 11, apparteneva dunque
alla Camera Apostolica, che l’aveva adibita a pascolo, alla cui
amministrazione era preposto il Doganiere del Patrimonio:
20
21
Per le notizie, sostanzialmente documentarie, sul castrum Ferrariae, si
rimanda a Brunori 1984 e a Toti 1999; a parte qualche saltuaria ricognizione, il
sito attende ancora una indagine archeologica. È pertanto rientrato nell’interesse
del Progetto Cencelle, vista la sua funzione estrattiva collegata con le dinamiche
di sfruttamento del territorio.
ASR, Camerale III, b. 2380; De Cupis 1911, pp. 193-195.
49
F.R. Stasolla
alla manutenzione dei mulini, a pagare una quota destinata
alla riparazione della turris palatii comunitatis et fabbrica lige
molendini fatta da magister Dattolus in fine versus cannetum
quod est in insula flumini Marte 22.
Così, Pio II Piccolomini e Gregorio XIII, oltre al vescovo
di Corneto e Montefiascone, fra XV e XVI secolo risultano
committenti di tre strutture molitorie: la mola delle Lumiere, il
mulino del capitano Ettore Blancardo e le Mole del Mignone.
Si tratta di mulini a sei ruote, quindi opifici significativi e predisposti per un uso che potremo definire pre-industriale. Solo nel
1661 abbiamo informazioni circa un mulino a Civitavecchia,
segno che il grosso della produzione veniva macinata nei pressi
delle aree di coltivo, e destinata alle esigenze delle allumiere.
Ancora nel 1746 questi mulini sono considerati strettamente
associati all’attività allumerasca e dati in affitto agli appaltatori;
per essi si organizza anche un sistema di convogliamento delle
acque che risulterà compromesso solo alla metà del XVIII
secolo, in occasione dei lavori per la captazione delle acque
funzionali al nuovo acquedotto di Civitavecchia. Lo stesso papa
Piccolomini aveva concesso a Giovanni da Castro di edificare
un mulino presso la chiesa di S. Severella, che con l’occasione
venne restaurata e dotata di un sacerdote per la “comodità delle
Lumiere” 23. Una situazione che sembra abbastanza standardizzata, esemplificativa di una modalità di creare servizi attorno
ad un’attività principale, ben evidente nell’articolazione rivelata
dallo scavo archeologico nel sito de La Bianca 24.
Oltre ai mulini, a volte ad essi connessa è nota l’attività metallurgica, fondamentale per la produzione di strumentazione
nelle cave, di attrezzi agricoli, di elementi di carpenteria, di
ferri equini per gli animali adibiti al trasporto dell’allume. E,
dobbiamo immaginare, in primo luogo per la manutenzione
delle caldaie. Non stupisce quindi che già nei primi accordi
Pio II ribadisse a Giovanni da Castro il diritto di sfruttamento
non solo dell’allume, ma anche dei diversi metalli presenti
nell’area e che il medesimo da Castro ottenesse, accanto al
mulino di S. Severella, anche un appalto per 25 anni di un forno per lo sfruttamento del ferro. Di fatto, l’articolazione del
bacino tolfetano, caratterizzato a settentrione dai giacimenti
di alunite e a meridione da una maggiore concentrazione di
materiali ferrosi, ben si presta ad un’organizzazione razionale
di gestione di risorse in questo caso complementari 25.
Una terza fascia di territorio comprende invece quegli
insediamenti il cui sfruttamento sembra connesso con la
commercializzazione dell’allume. È il caso, ad esempio, della
Castellina sul Marangone, le cui ultime fasi di vita sembrano
connesse con il controllo della strada per la quale transitava l’allume fino al porto di Civitavecchia, per l’imbarco 26. A questo
punto, la Camera Apostolica in mancanza di una propria rete
commerciale, si affida a distributori esterni, fra i quali spiccano ad esempio i Medici 27, mentre non mancano accordi per
fare compagnia et unione de tutte allumiere, come, ad esempio,
quello del 1470 fra il papato e re Ferdinando II di Napoli 28.
La rete viaria subisce profonde mutazioni, che vanno a
definire quelle che potremo definire le “strade dell’allume”,
fra luoghi di produzione e luoghi di immagazzinamento e di
commercio, ma anche fra tenute agricole e cave, e centri residenziali, e mulini, in un complesso reticolo che solo in parte
sfrutta l’apparato stradale precedente. Parte di tale viabilità
si deve proprio alle nuove esigenze, e la sua predisposizione
e la sua manutenzione non infrequentemente rientra negli
accordi contrattuali: nei nove anni di contratto, a partire
dal 1465, Pierantonio di Andrea da Macerata si impegna
in esclusiva a far fare la strada che va da locho de la Lumera
a Civitavechia, in tal forma e modo spianare et disponete, che
agevolmente li carri potterano carrigiare e portare li alumi, e di
mantenere detta via a tutte sue spese durante questo tempo di
detta sua conduca. Item promesse detto Perantonio fra termine di
due mese proximi sequenti haver in ordine tante carra et buffali,
che seriano sufficienti a portare de dicta Lumera a Civitavecchia
ogni quantità di alume che sia di bisogno, e promesse far fare
le dette carra e mantenere a tutte sue spese durante detto tempo
di locatione. Gli è inoltre permesso edificare a Civitavecchia,
presso le aree di produzione o dove necessario, capanne et
ogni altro edificio li piacessi per comodità di se e soi al portare e
carrigiare detto alume. Una interessante annotazione riguarda
il periodo previsto per le attività di trasporto, dal 1 marzo al
30 novembre, a meno che necessità specifiche non richiedano
trasporto eccezionali nel periodo invernale 29; e ne deduce
che anche nei pressi dei luoghi di produzione dovessero
essere previsti luoghi con conservazione del prodotto finito.
L’obbligo di costruire strade compare in più contratti, anche
coevi. Parallelamente, la contrattualistica prevede anche il
monitoraggio sulle bestie da soma e gli impegni nel trasporto:
ad esempio, nel 1571 un appalto prevede il servizio a carreggiare con 200 cavalli dalle cave al porto di Civitavecchia, oltre
che l’impegno alla manutenzione delle strade 30.
Anche alcune infrastrutture, come alcuni ponti, si devono
agli stessi appaltatori delle allumiere, ad esempio nel caso della
famiglia Olgiati fra la fine del XVI ed i primi decenni del XVII
secolo, che realizzò un ponte sopra il fiume Mignone, di travi,
tavoloni et ferramenti per poter condurre li strami per le bestie,
come riportato dal Catasto delle tenute delle allumiere 31.
22
ASR, Salvatore, cass. 468, 82B. Per una prima analisi delle strutture
molitorie, si rimanda a Stasolla 2012, pp. 108-111.
23
Il papa concesse licenza a Giovanni suddetto non solo di fabbricar l’edifitio
per l’alume, ma anco di edificar forno di vena di ferro, e il molino a grano nelle
ruine delle chiesa di Santa Severa hora Santa Severella, posta vicino al castel di
Cincelli. Et fu nel fabbricar il mulino ricoperta et restaurata ncora la chsola di Santa
Severella deputadovi un Sacerdote secolare per comodità delle Lumiere (Insolera
2007, p. 277). In una visita pastorale dell’8 aprile 1656, la chiesa della SS. Trinità
viene collocata supra Molas Allumierarum pedictas in distantia duorum miliarum
circiter in itinere ad Allumieras (Brunori 1993, p. 220).
24
Si rimanda al contributo di Fabrizio Vallelonga in questi stessi atti.
25
Nella conferma papale degli accordi fra Giovanni di Castro, Corneto e
la Camera Apostolica, datata al 20 agosto del 1461, si specifica la possibilità de
fodendis albumine aliisque mineriis et metallis diversis et sculptis seu non sculptis,
que pro tempore in dictis conventionibus contento tam lapides pro dicto albumine,
quam etiam metalla alia (Theiner 1861-1862, doc. 365, pp. 419-420). Lo sfruttamento metallurgico dell’area dei Monti della Tolfa attraversa molte epoche,
ed è stato oggetto di svariati studi: si rimanda a Zifferero 1994; Giardino
2006, Drago 2018, e per quanto attiene specificatamente al Medioevo, a
Zifferero 1996 e Passigli 2000, quest’ultimo soprattutto nella relazione tra
risorse minerarie e ambiente.
Gran Aymerich, Prayon 1996, p. 1127.
Si rimanda, a titolo di esempio, al contratto con i Medici del 1466:
Delumeau 1990, p. 82 ss.
28
Documento del 1 giugno del 1470: Theiner 1861-1862, pp. 464-467.
29
Theiner 1861-1862, doc. 379, pp. 434-436.
30
ASR, Camerale III, b. 2360.
31
Per gli appalti con gli Olgiati, e per la contrattualistica con i vari appaltatori, soprattutto per quanto attiene alle forniture di legname, si rimanda a
Passigli, Spada 2014.
26
27
50
Le allumiere dei Monti della Tolfa tra archeologia ed economia di indotto
La ricostruzione delle viabilità minore si appoggia anche
all’analisi delle presenze ceramiche, che nel caso di Cencelle
mostrano chiaramente come fosse ben attivo il collegamento
con Tuscania e Blera, quindi con l’asse della via Clodia; non è
forse un caso che proprio sulla Clodia e sulla viabilità minore
ad essa correlata sorgano Vallerano, Farnese, Castro, centri
importanti nel panorama delle maioliche rinascimentali. Nella
stessa direzione, i legami con Acquapendente evidenziano la
vitalità delle relazioni di quest’area con la Cassia e da qui con
la Toscana. Lo spostamento delle presenze ceramiche nell’area
tolfetana verso la Toscana meridionale proprio in corrispondenza cronologica con l’avvio dello sfruttamento dell’allume
rappresenta un tassello importante del quadro di slittamento
delle gerarchie territoriali dalla fascia costiera verso l’interno
collinoso ed ora più densamente abitato e sfruttato 32.
Il collegamento con l’area toscana è confermato anche dalle
presenze numismatiche, fino ad ora note solo da dispersione
monetale nei centri dei Monti della Tolfa, e soprattutto da
Cencelle, sito per il quale la presenza di emissioni toscane è
elevata. Va notata però una estrema rarefazione del dato numismatico dalla fine del XIV secolo, proprio in concomitanza,
evidentemente, con la riduzione del centro urbano a tenuta
agricola a servizio delle allumiere 33. I nuovi ritrovamenti de
La Bianca assumono a questo proposito un valore di segnale
del cambiamento dei luoghi del commercio, che si concentra
nell’area delle cave e nei centri di stazionamento del materiale
e soprattutto della direzione dell’attività minatoria 34.
Infine, l’industria dell’allume promosse inevitabilmente lo
sviluppo portuale. Va notato come da parte dei pontefici si sia
attuata anche la ristrutturazione del sistema difensivo costiero,
strettamente legato alle infrastrutture portuali sia maggiori,
come il grande porto di Civitavecchia, sia minori, come il
piccolo scalo presso il castello di S. Severa, quest’ultimo ad
opera di Urbano VIII. Nel 1567 Pio V emette un decreto che
stabilisce l’edificazione di nuove torri di avvistamento (Torre
Chiaruccia, Marangone, S. Agostino e Le Graticce a Pescia
Romana) e la ristrutturazione di quelle già esistenti (Maccarese,
Palidoro, Flavia, Corneto, Il Torraccio, Montalto) 35.
A livello politico, la scoperta dell’alunite segna la battuta
finale della giurisdizione di Corneto sul comprensorio. In un
primo momento Corneto si dimostra interessata all’impresa
dell’allume in un territorio da lei controllato da secoli; in una
lettera del papa al di Castro si accenna ad un contratto stipulato fra questi, la Camera Apostolica e la città di Corneto,
secondo il quale Giovanni avrebbe versato due ducati per
ogni cantaro di allume fabbricato e il 15% del valore degli
altri metalli alla Camera 36. Una parte del profitto sarebbe
spettato a Corneto per la ricostruzione delle mura della città.
L’interesse di Corneto scema quando si vede privata dei suoi
possedimenti nel territorio e vede diminuire l’importanza
del suo porto a vantaggio di quello di Civitavecchia 37. Il
porto civitavecchiese costituisce lo snodo fondamentale del
commercio dell’allume, e numerosi contratti menzionano
la presenza di magazzini e della rete dei trasporti trasmarini,
benché alcuni accenni lascino intuire anche la possibilità di
un trasporto almeno in parte via terra 38.
Molto ancora resta da fare nella comprensione delle mille
sfaccettature di una industria di livello internazionale come
l’allume tolfetano. Va però sottolineato come, anche a fronte
di un fenomeno estremamente noto, ricchissimo di documentazione scritta, il contributo archeologico possa arricchire
il quadro delle informazioni ed ampliare l’angolo di visuale,
per una migliore comprensione del fenomeno storico.
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38
ASR, Arch. Osp. Salvatore, cass. 468, n. 80: 1464 (in realtà 1465), dal 2
giugno al 5 agosto si è mandato a Civitavecchia per terra dall’allumiera di messer
Bartolomeo Framura, cant. 1254, lib. 42. Io Nicolò da Fabriano commissario per
n. S. alle allumiere fo fede como messer Bartolomeo Framura et Carlo Gatano a
consignato questo alume mandato a Civitavecchia et in altri lochi per terra dal dì
cominciò a mandare lo alume sino a tucto dì 7 d’agosto 1465, cantara 66652 lib.
98. Theiner, Codex diplomaticus, doc. 379, pp. 434-436, doc. Del 20 marzo
1465: Perantonius Andree de Macerata stabilisce un contratto con la Camera
Apostolica, in base al quale garantisce che porterà da lochi dove si fano li alumi
nel tenimento de la Tolfa fino a Civitavechia tutte le quantità de li alumi che le
serano consignati da li officiali a ciò deputati per la Camera.
32
Barone 2015, Casocavallo, Maggiore, Quaranta 2018, con ampi
riferimenti bibliografici.
33
Vanni 2012, 2014; Mancini 2014.
34
Si rimanda al conributo di Fabrizio Vallelonga in questi stessi atti.
35
Sulle ristrutturazioni del porto di Civitavecchia in relazione al commercio
dell’allume: Curcio, Zampa 1995; Strangio 2006; Vaquero Piñeiro 2011.
36
Theiner 1861-1862, III, p. 429; Zippel 1907, pp. 16-17.
37
Calisse 1936, pp. 294-295: Corneto avrebbe impedito di provvedere a
grano e bestiame per i lavoranti.
51
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dei Monti della Tolfa, «Archeologia Medievale», XXIII, pp. 739-754.
Zippel G., 1907, L’allume di Tolfa e il suo commercio, «Archivio della
Regia Società Romana di Storia Patria», XXX, pp. 438-444.
English abstract
The article aims to analyze the territories of the Tolfa area
to understand how this area contributed to the alum industry.
The start of alum production in the mid-fifteenth century
profoundly changed the territory for a wide range. In fact,
it was necessary for the whole area to be at the service of the
quarries and infrastructure of the new activities.
Cities, inhabited centers, rural settlements were radically
modified for a rational organization of production and
transport of what was needed by the “lumiere”. The whole
territory was divided into estates, which produced different
and complementary products. The dynamics of these transformations are analyzed from an archaeological point of view,
in order to understand the changes in the landscape and the
settlement structures. The entire territory around the alum
quarries is in fact transformed in function of an economy
functional to the needs of production, transformation,
transport and export of the products of the alum industry.
52
Fabrizio Vallelonga*
L’INSEDIAMENTO DELLA BIANCA,
IL PRIMO VILLAGGIO DEI CAVATORI?
The settlement of La Bianca; the first village of miners?
1. PREMESSA
dell’età del Bronzo finale, in parte indagato negli anni ’70 del
secolo scorso (Barbaro 2010, pp. 245-246). Nelle prossimità
della fonte della Bianca, che è stata sicuramente un elemento
catalizzatore della presenza umana, sono segnalate strutture
e ritrovamenti riferibili al periodo romano 2. Inoltre a poche
centinaia di metri da Prato Stopponi, in direzione est, nel
fitto della boscaglia, si trovano due cave di alunite a cielo
aperto, nei pressi delle quali sono ancora riconoscibili i resti
di una fornace impiegata per l’arrostimento del minerale.
L’esistenza di un edificio, conosciuto nell’area come
“Cappella dei minatori”, era nota da tempo, anche se la
memoria legata al culto era completamente scomparsa. Negli
anni ’80 del secolo scorso, a opera dell’Associazione Klitsche
de La Grange, fu effettuato un intervento di scavo che ebbe
come risultato la completa messa in luce dell’aula di culto
(Brunori 1985).
Le indagini preliminari svolte nel 2010 hanno comportato
l’escavazione di numerose trincee e saggi su gran parte della
terrazza (fig. 2). Lo scavo preventivo ha permesso l’individuazione di nuove strutture attorno alla chiesa (Settore A)
e, ad alcuni metri di distanza da esse in direzione ovest, il
rinvenimento di resti di muri a secco, pertinenti un edificio
del periodo etrusco, inquadrabile tra gli ultimi decenni del VI
e gli inizi del V secolo a.C. (Settore B – fig. 2, n. 2). Nell’area
a nord del percorso che dalla chiesa moderna della Madonna
di Lourdes si dirige verso Allumiere, sono stati rinvenuti
strati ricchi di materiale ceramico e acciottolati, associati a
materiali dell’età del Bronzo antico, medio e finale, e alcuni
apprestamenti riferibili al periodo rinascimentale, tra i quali
una canaletta in mattoni e una vasta area di concentrazione
di pietrame, riconducibili alle attività minerarie svolte nelle
circostanti cave (fig. 2, n. 3).
Alle scoperte effettuate nel 2010 bisogna aggiungere il
recente ritrovamento (settembre 2016) di strutture murarie
e di frammenti di mattoni e ceramiche inquadrabili nel
periodo rinascimentale, nell’area a sudest di Prato Stopponi,
nel piazzale antistante la moderna chiesa della Madonna di
Lourdes (fig. 2, n. 4). Il ritrovamento lascia supporre l’esistenza
di un edificio di notevoli dimensioni, plausibilmente una delle
strutture pertinenti le attività estrattive effettuate nelle vicine
cave, strutture di cui abbiamo una precisa testimonianza nel
racconto seicentesco di fra Zenobi Simoni da Pescia, eremita
nel vicino convento di Cibona, di cui si dirà più avanti.
Le indagini archeologiche nella località La Bianca
(Allumiere–RM), nell’area localmente indicata con il
toponimo di Prato Stopponi, sono iniziate nel 2010, come
attività preventiva alla realizzazione di edifici di civile
abitazione, disposta dall’allora Soprintendenza per i Beni
Archeologici dell’Etruria Meridionale. In seguito alle scoperte
effettuate, venuta a cessare la possibilità di realizzare gli edifici
progettati, grazie alla disponibilità del Comune di Allumiere e
del competente ispettore della Soprintendenza Archeologica,
dott. G. Gazzetti, si è proseguita l’indagine, sotto la supervisione scientifica di quest’ultimo. La prosecuzione dell’attività
è stata resa possibile anche dall’impegno di decine di volontari
dei Gruppi Archeologici d’Italia che, con dedizione e solerzia,
si sono avvicendati sullo scavo nel corso di sette campagne:
alla loro passione si deve la possibilità di presentare questi
risultati 1. Grazie alla collaborazione costante con la cattedra
di Archeologia Medievale della Sapienza Università di Roma,
da anni impegnata in un vasto programma di indagini sul
territorio, è stato possibile inserire le ricerche svolte in un
quadro più ampio e avvalersi di preziose collaborazioni e
ausili scientifici, che hanno già reso possibile l’avvio dello
studio antropologico dei resti degli inumati da parte del
Dipartimento di Biologia della Università degli Studi di
Roma “Tor Vergata”, i cui primi risultati sono presentati
all’interno di questo volume.
2. RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI
ALLA BIANCA-PR ATO STOPPONI
L’area di Prato Stopponi si trova su un’ampia terrazza
naturale lungo le pendici meridionali del Poggio Elceto, in
posizione dominante rispetto l’attuale centro abitato della
Bianca e con una favorevole visibilità su un ampio tratto del
massiccio montuoso tolfetano, fino al mare (fig. 1).
La zona è densa di numerosi ritrovamenti di varie epoche:
sulle pendici della collina dell’Elceto è localizzato un abitato
* Museo Civico “A. Klitsche de La Grange”, Allumiere. Collaboratore della
Direzione (vallelongaf@libero.it).
1
Tra i tanti si ringraziano in particolare l’arch. S. Pacchetti, che ha curato
la grafica sullo scavo e nel post scavo, e F. Gentile, che ha contribuito all’organizzazione del cantiere. Un ricordo particolare va a Dino Gasseau, amico
recentemente scomparso, che ha messo a disposizione le sue competenze professionali e curato il rilevamento topografico. Infine un ringraziamento va al dott.
A. Regnani, presidente dell’Associazione Klitsche de La Grange di Allumiere,
per l’incoraggiamento e l’aiuto concreto che ha costantemente fornito sin dalle
prime fasi del lavoro.
2
Ringrazio per questa informazione l’assistente di zona della Soprintendenza
Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia
di Viterbo e l’Etruria Meridionale, sig. A. Fedeli.
53
F. Vallelonga
fig. 1 – L’area centrale dei Monti della Tolfa (base CTR 1:10.000) con localizzazione delle principali cave e località citate nel testo 1) La Bianca 2)
Allumiere 3) Tolfa 4) Cappella di Cibona 5) S. Maria della Sughera 6) La Trinità 7) Struttura rinvenuta presso il casale della Concia 8) Strutture
presso gli Sbroccati 9) Strutture presso gli Sbroccati.
54
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
fig. 2 – La Bianca e l’area di Prato Stopponi (base catastale 1:1000) con localizzazione degli interventi di scavo preventivo: 1) Cappella dei Minatori
(foto da drone di L. Sestili-aggiornamento agosto 2012) 2) Edificio etrusco 3) Canaletta di epoca rinascimentale 4) Strutture murarie rinvenute
di fronte alla chiesa della Madonna di Lourdes.
55
F. Vallelonga
3. LO SCAVO DELLA CAPPELLA DEI MINATORI
2010-2016
riduzioni in alcuni casi furono posizionate intenzionalmente
nella nuova fossa, con una particolare attenzione al trattamento dei crani e delle ossa lunghe, a volte conservate ai piedi
del nuovo individuo, secondo una pratica ben attestata nei
cimiteri medievali (Becker 1996, pp. 702-704; Stasolla et
al. 2015, pp. 279-280).
Quasi tutti gli inumati erano sistemati in semplici fosse
scavate nel terreno, prive di qualsiasi accorgimento. Nel
caso della t. 39 (US 296) è stato possibile però riconoscere
l’esistenza di una cassa lignea testimoniata dalla presenza di
almeno undici chiodi, trovati sia nel riempimento che sul
fondo della fossa, alcuni dei quali disposti simmetricamente
a distanze regolari lungo i lati della fossa (fig. 4).
Altre sepolture si trovavano all’interno della chiesa, sia
lungo le pareti perimetrali che all’interno dell’abside. Le
due sepolture individuate nell’abside erano entrambe orientate est-ovest, con testa ad ovest, e poste ai piedi di piccoli
muri, forse utilizzati come sedili. Probabilmente una terza
sepoltura, di cui rimanevano pochissimi resti, era posizionata
nello spazio intermedio tra le due. La posizione delle tombe
le connota come sepolture privilegiate, verosimilmente di
membri del clero. La sistemazione della fossa della t. 14 (US
185), in cui venne realizzato una sorta di alveolo cefalitico
con spezzoni di mattoni, e la medaglietta devozionale che
accompagnava l’individuo deposto nella t. 4 (US 139) sembrano confermare il rilievo delle sepolture.
Le altre tombe scavate all’interno dell’aula di culto erano
collocate lungo i muri perimetrali, con una particolare concentrazione presso l’angolo sud ovest dove sono stati recuperati i resti di ben cinque individui sovrapposti l’uno all’altro.
Lo scavo in corrispondenza dell’edificio religioso ha interessato l’aula di culto e l’area ad esso circostante (Vallelonga
2012a, pp. 57-71), perimetrata da un muro che la circonda
a sud, ovest e su parte del lato nord (fig. 2, n. 1; fig. 3). Sul
lato nord inoltre è stato portato alla luce un ambiente quadrangolare che si appoggia ai muri perimetrali della chiesa,
dotato di due accessi, l’uno ad ovest, presso l’angolo, e l’altro
all’angolo opposto. All’interno dell’ambiente al momento
dello scavo si rinvenne uno strato composto da ceneri, carboni
e scorie metalliche e qui E. Brunori suggeriva di localizzare la
bottega di Vannino di Antonio di Sergiovanni, un artigiano
attivo durante l’appalto di Agostino Chigi (Brunori 1985,
pp. 25-26). L’aula di culto è a navata unica, orientata quasi
perfettamente est-ovest, lunga 19 m e larga 8 m. L’abside ha
un profilo esterno poligonale, ottenuto sagomando i mattoni in forma pentagonale e ammorsandoli sovrapponendo
i lati tagliati in modo tale da ottenere l’angolo desiderato.
Sulla struttura si aprono due accessi, l’uno al centro della
facciata, l’altro sul lato nord, in prossimità dell’ambiente
quadrangolare cui si è fatto cenno poc’anzi. La navata, coperta
da un pavimento di mattoni rettangolari, è separata dalla
zona absidale da un muro, conservato solo a livello della
fondazione. L’area presbiteriale è leggermente sopraelevata
rispetto al piano pavimentale dell’aula, assecondando tra
l’altro la naturale pendenza del terreno che acquista quota
procedendo verso est.
Il muro che circonda la zona attorno alla chiesa, sui lati
nord e ovest, racchiude lo spazio cimiteriale relativo all’edificio di culto. Al suo interno sono state infatti recuperate
gran parte delle 61 tombe sino ad oggi scavate. Sul lato ovest
inoltre si trovano due cisterne poste presso gli angoli dell’area
cimiteriale, in posizione grossomodo simmetrica. Le cisterne
hanno dimensioni simili (lato ca. 2×2 m e profondità ca. 1,50
m) ed erano entrambe coperte in origine da volte in mattoni
di cui rimangono ancora alcuni elementi in situ.
Il maggior numero di sepolture era concentrato nell’area
antistante la facciata, il numero di inumati diminuiva procedendo verso la zona a nord della chiesa, dove il deposito
naturale sale progressivamente, tanto che alcune rocce affiorano dal piano di calpestio esterno all’edificio. L’esterno della
parete nord della chiesa era inoltre interessato da un grosso
taglio a essa parallelo al cui interno trovarono posto alcune
sepolture allineate.
Nell’insieme le tombe mostravano una certa varietà di
orientamenti dovuti probabilmente a condizionamenti legati
allo spazio a disposizione, alla presenza di strutture e di elementi affioranti del substrato roccioso. È possibile tuttavia
notare una pianificazione dell’organizzazione cimiteriale che
sembra aver comportato, con le dovute eccezioni, prima la
deposizione delle sepolture orientate nord-sud e successivamente lo scavo delle sepolture orientate est-ovest. Queste
ultime, infatti, tagliavano costantemente quelle precedenti
ed erano disposte su file regolari. La continua immissione di
tombe all’interno dell’area cimiteriale comportò la parziale
riduzione di quelle più antiche, i cui resti si trovavano molto
spesso all’interno dei riempimenti di quelle posteriori. Le
4. I RITROVAMENTI
I reperti rinvenuti durante lo scavo, principalmente ceramica e metalli, provengono per la maggior parte da depositi
tagliati dalle sepolture o dai loro riempimenti. All’interno
delle stratigrafie si nota una consistente quantità di materiali
residui del periodo etrusco che, insieme ai resti di un muro
posto presso l’angolo sud-est del recinto cimiteriale, testimoniano l’estensione del coevo insediamento individuato
nel Settore B sino a quest’area. Un numero più consistente
di frammenti ceramici, alcuni dei quali relativi a forme
parzialmente ricostruibili, sono stati rinvenuti nei depositi
che obliteravano le due cisterne. Le ceramiche recuperate,
ancora in corso di studio, consistono per lo più in frammenti
di maioliche rinascimentali (soprattutto ciotole, piatti con
decorazione a monticelli e alcuni frammenti di boccali), e, in
minor misura, maioliche arcaiche (soprattutto relative a piatti
con decorazione ad archetti) e ceramiche ispano-moresche.
I ritrovamenti sinora effettuati suggeriscono una cronologia
compresa tra la seconda metà del XV secolo e gli inizi del
secolo successivo (fig. 5).
Come di consueto per i cimiteri di età medievale la maggior parte delle sepolture scavate non ha restituito reperti
associabili ai defunti; lo scavo di alcuni inumati, che rappresentano, è bene sottolinearlo, delle eccezioni nel panorama
del cimitero, ha restituito tuttavia dei reperti monetali e
degli elementi di corredo personale di estremo interesse su
cui vorrei soffermarmi in questa sede. Essi infatti possono
56
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
fig. 3 – Planimetria della c.d. Cappella dei Minatori (aggiornamento 2016).
offrire un contributo utile alla definizione cronologica
dell’insediamento, agli aspetti legati alla circolazione monetaria, alle problematiche relative alla loro interpretazione in
ambito cimiteriale e alla definizione di alcuni caratteri della
comunità dei cavatori.
Le due tombe che hanno restituito monete sono entrambe
pertinenti ad individui di età adulta, di sesso maschile; la loro
posizione topografica all’interno del cimitero non denota
alcuna particolarità.
57
F. Vallelonga
posto, o forse gettato, dall’alto, dalla sommità della cisterna
e quindi da est verso ovest, nello stretto spazio tra quest’ultima e il muro perimetrale dell’area cimiteriale. Se invece si
ipotizza che tale giacitura sia stata voluta, la posizione del
cadavere dovrebbe assumere un ben specifico significato. La
posizione prona è interpretata generalmente come segno di
condanna da parte della comunità verso il defunto o come
espediente volto ad evitare il suo ‘ritorno’ (Bissoli 2001, p.
68; Mongelli et al. 2011, pp. 150-152). L’appartenenza a una
categoria non accettata dalla società però si estrinsecava nel
periodo medievale con l’esclusione dal cimitero. Tale destino
era riservato agli scomunicati, agli eretici, ai fanciulli non
battezzati (Lauwers 2005, pp. 166-176), e secondo alcuni
esteso anche ai debitori e a chiunque fosse morto subito dopo
aver commesso un misfatto (Finucane 2013, pp. 269-274).
Ovviamente queste regole potevano essere applicate o disattese a seconda del contesto socio-culturale in cui ci si trovava
e non escludono la possibilità che il biasimo collettivo si
potesse esprimere anche in forme differenti, non canonizzate,
e che alcune sepolture potessero risultare ‘marginali’ pur se
nell’ambito di un cimitero.
Nel nostro caso, inoltre, la posizione dello scheletro e la
presenza delle monete potrebbero rafforzare e sostenere a
vicenda una chiave interpretativa rituale della sepoltura, non
escludendo però una (non impossibile) mera coincidenza
o il valore rituale di solo uno dei due gesti e quindi la loro
dissociazione.
La presenza delle tre monete d’argento, infatti, impone
altri interrogativi e lascia aperto lo spazio a molteplici ipotesi
se ricondotta a motivazioni rituali, alla luce, si ribadisce, delle
cautele avanzate sopra e di un orientamento della critica
che tende a ridimensionare un’ampia diffusione di queste
pratiche (Saccocci 2011) 3. Le monete sono state rinvenute
in corrispondenza della mano sinistra del defunto, tanto
da sembrare strette nel pugno. Purtroppo le condizioni di
conservazione del ritrovamento non consentono di essere
più precisi. La mano era incompleta e le monete sono state
rinvenute, sovrapposte, sulle ossa metacarpali. Rimangono
aperte quindi due possibilità, cioè che le monete fossero poste
intenzionalmente nella mano o che fossero occultate nella
manica della veste del defunto. La prima ipotesi implicherebbe una motivazione rituale nel seppellimento e una tale
prospettiva potrebbe spiegare anche la posizione dell’inumato
volutamente deposto in tale modo, in segno di condanna o,
si potrebbe azzardare, di prosternazione (Vallelonga 2012a,
p. 66; una tale interpretazione non è comunemente accolta:
Simmer 1982, p. 44). Pur accettando tale chiave di lettura
permangono comunque numerosi problemi interpretativi.
In primo luogo, citando L. Travaini, ci troviamo di fronte
a good coins o a bad coins? La presenza di oggetti preziosi
all’interno delle tombe era condannata dalla chiesa, in particolare a partire dal XIII secolo e soprattutto nei confronti
delle monete d’argento e d’oro, per il loro particolare valore
(Travaini 2004, pp. 176-177 e pp. 179-181). In questo caso
potremmo pensare allora che le monete associate al defunto
fig. 4 – Particolare della tomba 39 (US 296) in corso di scavo. Si
possono notare alcuni dei chiodi disposti lungo il margine della fossa
(disegno reperti O. Cerasuolo).
La t. 2 (US 110) era posta lungo il muro perimetrale
dell’area cimiteriale, in prossimità della cisterna sud-ovest.
L’individuo si conservava purtroppo in cattivo stato poiché
l’area appariva rimaneggiata in periodi recenti e lo scheletro,
molto superficiale, era stato oggetto dell’attenzione di ignoti
‘curiosi’ che avevano rimosso il femore destro (fig. 6). La
prima particolarità della sepoltura, priva degli arti inferiori
a causa degli interventi di cui sopra, consiste nella posizione
dell’inumato, che era stato deposto prono all’interno di
una fossa terragna. Inoltre, in corrispondenza della mano
sinistra, conservava tre monete d’argento, dei grossi di zecca
fiorentina, databili tra il 1476 e il 1483 (fig. 7).
Il ritrovamento è alquanto singolare e induce a diverse
considerazioni e interpretazioni delle quali si cercherà di
rendere conto di seguito. Una prima ipotesi, sostanziata
soprattutto dai dati di scavo, potrebbe spiegare l’anomala
posizione come frutto del timore di contagio (nella seconda
metà del Quattrocento l’area è afflitta a più riprese da epidemie di peste) o della semplice incuranza dei fossori che
avrebbero causato l’affrettata deposizione del cadavere nella
fossa, senza la minima attenzione alla sua posizione. Nel
cimitero in esame altre tombe, del resto, sembrano subire un
trattamento poco accurato. Nella t. 5 (US 144), ad esempio,
l’inumato era deposto con le gambe piegate, probabilmente
a causa delle ridotte dimensioni della fossa. Nella t. 43 (US
308) il braccio del defunto era rimasto sollevato e poggiava
in verticale lungo la parete della fossa. La posizione dello
scheletro della t. 2 lascia intuire che il cadavere era stato de-
3
Molto più argomentato e ricco di confronti l’intervento inedito reperibile all’indirizzo: https://www.academia.edu/19797914/ (ultima consultazione
16/9/2016).
58
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
fig. 5 – Ceramiche rinvenute nello scavo della Cappella dei Minatori: 1) Maioliche arcaiche 2) Maioliche rinascimentali (dis. O. Cerasuolo).
59
F. Vallelonga
siano proprio la causa della sua condanna e ne simboleggino
il peccato? Era necessario occultare un tale valore per rendere
manifesto il biasimo nei suoi confronti già espresso dalla
posizione prona? La pratica abbastanza frequente di aggiramento di tale divieto però testimonia che alle monete era
riconosciuto anche un valore positivo. Essa è stata spiegata
in numerosi modi: semplicemente come espressa volontà del
defunto di non separarsi dai propri beni, come una sorta di
obolo a Caronte, nella credenza che i denari potessero essere
utili nell’aldilà, o ancora le monete potevano avere un particolare valore simbolico forse legato, in questo caso, anche al
loro numero, tre, e essere considerate quindi un amuleto 4.
Sembra invece di poter escludere un carattere rituale per il
ritrovamento associato alla t. 30 (US 245), posizionata nell’area antistante la facciata della chiesa. Lo scheletro presentava
una vistosa frattura di tibia e perone sinistri, evidentemente
mai curata, tanto che le ossa erano risaldate in maniera anomala e la gamba sinistra doveva risultare più corta di diversi
centimetri rispetto la destra, causando un handicap motorio
dell’inumato (fig. 8).
Oltre questa singolarità, la sepoltura ha restituito un
gruzzolo monetale, composto da undici monete d’oro e due
d’argento. Le monete sono state recuperate sul costato dell’individuo in corrispondenza della mano sinistra che sembrava
posta a loro protezione 5. Esse hanno diverse provenienze:
si tratta infatti di monete spagnole, un doble excelente de la
granada e un excelente, di un “cruzado” portoghese, di ducati napoletani, pontifici, veneziani e di un ducato rodiota.
Le due monete d’argento sono un grosso fiorentino e un
grosso di papa Alessandro VI, tosati e fortemente usurati.
La datazione delle monete presenti nel gruzzolo varia tra
il 1464-1471, cronologia alla quale può essere ricondotto
il ducato del pontefice Paolo II, e il 1504-1523, datazione
presunta del doble excelente, almeno sulla base del simbolo
del monetiere (figg. 9-10).
Anche in questo caso il ritrovamento lascia il campo a
varie ipotesi. Il primo dubbio ovviamente investe il carattere
di intenzionalità o meno del deposito di monete. Si può
ipotizzare che esse fossero occultate all’interno delle vesti del
defunto (se abbigliato), forse dentro la manica data la loro
posizione, e non sarebbero quindi state ritrovate al momento
della sepoltura (Pigozzo 2005). I dati derivanti dall’osservazione tafonomica, suggeriscono però, non senza incertezze,
la possibilità che il morto fosse avvolto in un sudario, il che
presuppone un trattamento del corpo che dovrebbe escludere
la possibilità di occultare alcunché. Questo darebbe forza
all’ipotesi di un loro inserimento intenzionale nella tomba,
magari per espressa volontà del defunto, che avrebbe portato
con sé un gruzzolo di denaro corrente. L’incertezza è di non
poco conto per interpretare il ritrovamento e comprendere
l’identità dell’inumato. Questi gruzzoli monetali, infatti, sono
spesso collegati a mancati recuperi e attribuiti a viandanti, a
persone forestiere che, colte improvvisamente dalla morte,
fig. 6 – Tomba 2 (US 110) con particolare delle monete rinvenute.
4
In realtà l’unica attestazione che mi sia nota è molto distante cronologicamente e geograficamente ed è riportata da C. D’Angela che ricorda come
a Venosa negli anni ’60 vi fosse ancora l’usanza di deporre tre monete nelle
sepolture: D’Angela 1983, p. 88.
5
Per un rinvenimento analogo a Zagabria, in un contesto di poco posteriore:
Mašić, Pantlik 2008.
fig. 7 – Tomba 30 (US 245) con particolare delle monete rinvenute.
60
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
fig. 8 – Monete rinvenute nella tomba 2.
fig. 9 – Monete rinvenute nella tomba 30.
61
F. Vallelonga
fig. 10 – Monete rinvenute nella tomba
30.
della loro presenza. Anche in questo caso si possono richiamare diverse spiegazioni per il “mancato recupero” che
vanno semplicemente dalla mancanza di un’opportunità
propizia all’impossibilità di riconoscere il luogo di sepoltura
(Saccocci 2011) 6. Si potrebbero inoltre evocare di nuovo
la superstizione o la pietà religiosa, ma suggerirei anche di
considerare una efficiente forma di sorveglianza del cimitero
o una ancor più severa forma di controllo sociale, sicuramente necessaria in una comunità composta sì da artigiani
specializzati, ma anche da individui di dubbia fama attratti
dalla promessa di asilo accordato ai lavoranti delle miniere.
Le questioni sollevate da questi ritrovamenti sono molteplici e di difficile soluzione allo stato attuale, non si può
quindi che essere d’accordo con L. Travaini che suggerisce
di procedere caso per caso, lasciando aperto il campo a
molteplici soluzioni, in attesa che l’ampliarsi del panorama
delle acquisizioni ci permetta di lavorare su una casistica
significativa.
sarebbero state sepolte con i denari necessari al viaggio che
portavano accuratamente nascosti. In questo caso la varietà
delle monete potrebbe ipoteticamente connotare l’inumato
come un mercante, in grado di approvvigionarsi di valuta
pregiata e di tesaurizzarla, forse in base a particolari criteri di
selezione, data la molteplicità dei coni che difficilmente può
riflettere direttamente la circolazione monetale in quest’area (per simili considerazioni, in altro contesto geografico:
Travaini 1999). Ma se la deposizione delle monete fosse stata
intenzionale, l’ipotesi di un loro “mancato recupero”, forse
troppo spesso evocato per spiegare i ritrovamenti monetali
in tomba, potrebbe risultare indebolita. Dovremmo allora
pensare a un individuo ben inserito nella comunità per il
quale la pietà dei congiunti, il loro rispetto, o forse la loro
superstizione, possono aver fatto in modo che nessuno abbia
osato appropriarsi del denaro. A questo si potrebbe obiettare
domandandosi perché qualcuno non se ne sia impadronito
in un secondo momento. Se la presenza delle monete era
palese (e questo vale anche per la t. 2) è possibile che altri,
estranei alla sfera dei congiunti, a partire dagli stessi fossori,
eventualmente impiegati nello scavo della tomba, sapessero
6
Escluderei quest’ultima possibilità nel contesto in esame, date le limitate
dimensioni del cimitero e la presenza di elementi strutturali (le cisterne, il muro perimetrale della chiesa) che rendono facilmente individuabili entrambe le sepolture.
62
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
fig. 11 – Tomba 4 (US 139) con particolare della medaglietta devozionale rinvenuta al suo interno.
fig. 13 – Tomba 32 (US 269) con particolare degli elementi in ferro
rinvenuti (elaborazione grafica Susanna Pacchetti).
Un altro ritrovamento di notevole interesse è associato
alla t. 4 (US 139), cui si è fatto cenno nelle righe precedenti.
Sul costato del defunto, nella parte sinistra, si trovava una
medaglietta devozionale di bronzo, di forma ovale con appiccagnolo trasversale (fig. 11). La medaglietta fu probabilmente
posta qui al momento della sepoltura. Era infatti consuetudine portare questi oggetti al collo o attaccati al rosario ma
anche al petto, su lato sinistro, il più possibile vicino al cuore
(Ronc, Bertolini 2001, p. 121). Nel nostro caso il lato della
medaglietta a vista al momento del ritrovamento era quello
più usurato, perché originariamente a diretto contatto con
il corpo, e rappresentata la figura di un religioso inginocchiato, forse in atto di ricevere le stimmate, probabilmente
identificabile con san Francesco. Sull’altro lato, quello che
doveva essere visibile quando l’individuo in vita indossava
il pendaglio, è invece chiaramente riconoscibile la figura
di Maria in gloria, circondata da fasci di luce. Ben visibile
appare la legenda: IMMACVLATA CONCEPCIO. Il tipo
rappresentato può essere assimilabile a quello della Madonna
su una falce di luna circondata da un intenso irraggiamento
solare, che si diffonde in particolare tra gli ultimi decenni del
1400 e l’inizio del 1500 (Simi Varanelli 2008, pp. 211-220;
fig. 12 – Tomba 21 (US 210) con particolare del coltello e della fibbia
rinvenuti al suo interno.
63
F. Vallelonga
Zuccari 2005, p. 66). Del resto la devozione all’Immacolata
Concezione ben si adatta al clima del pontificato di Sisto
IV, fervente immacolatista, che nel 1476-1477 ne istituì
ufficialmente la festa.
Per completezza di esposizione si dà conto anche degli
altri ritrovamenti effettuati nel cimitero che interessano la t.
21 (US 210) e la t. 32 (US 269). La prima, scavata durante
l’ultima campagna di scavo (agosto 2016), è posizionata
presso l’angolo sud-est del recinto cimiteriale. L’individuo è
deposto in fossa terragna e presenta orientamento nord-sud,
con testa a nord. Lo sepoltura è caratterizzata da un corredo
composto da una fibbia di ferro e da un coltello che erano
però collocati dietro la schiena dell’inumato (fig. 12). La t.
32, infine, ha restituito dei piccoli anelli di ferro ritrovati
sopra il bacino dell’inumato e in prossimità del costato, forse
pertinenti ad una cintola o a qualche elemento di guarnizione
delle vesti (fig. 13).
bili nell’area settentrionale del massiccio tolfetano, presso il
fiume Mignone, dove però non sono conosciute tracce di
escavazione del minerale. Le tenute sono posizionabili a non
molta distanza dal Casalaccio. Infatti nella «Topografia dei
terreni del Casalone» del 1836 è menzionato un «Piano della
Montigiana» situato presso il «Quarto del Casalaccio» (ASR,
Collezione disegni e mappe, I, cart. 1, f. 41). La Montigiana è
posta presso il Casalone nella «Corografia del Territorio della
Tolfa ed Allumiere» risalente al XIX secolo (ASR, Collezione
disegni e mappe, I, cart. 123, f. 229). Sempre in quest’area è
posizionata la «Monticianella» nel «Catasto del territorio di
Corneto» del 1801 (ASR, Catasti antichi, coll I, 14).
Al di là della possibilità che l’attività estrattiva sia stata
tentata o praticata anche in questa zona, appare verosimile
un riadattamento dell’insediamento di Santa Severella, che si
veniva a trovare in una posizione strategica lungo la direttrice
che metteva in collegamento Corneto con il bacino minerario. È utile inoltre ricordare che Corneto fu coinvolta nelle
prime fasi dell’industria estrattiva per molteplici motivi, dalla
possibilità di usare il suo porto a quella di rifornire di grano
e animali gli insediamenti minerari. Inoltre è possibile che
la città vantasse dei diritti sul bacino minerario se Giovanni
di Castro nel 1461 chiese e ottenne proprio da Corneto il
permesso di estrarre il minerale trovato nel suo territorio
(Ait 2014). La parte interessata doveva essere necessariamente
quella a sud del Mignone, corrispondente al territorio di
Cencelle, che già nel XIII e XIV secolo con lunghe contese
era stata sottomessa per brevi periodi a Corneto. Nel XV
secolo i suoi proventi dovevano essere di pertinenza della
mensa episcopale di Corneto, che fu riconfermata in questo
possesso nel 1451, poco prima della scoperta dell’alunite
(Supino 1969, pp. 421-422, doc. 570). L’area controllata
dalla città si estendeva sicuramente fino alla Farnesiana e
ai pressi dell’attuale Allumiere. Nei documenti medievali,
infatti, l’eremo della Trinità, le cui prime notizie certe risalgono al 1243-1244, a poca distanza dall’ultimo centro
nominato, è spesso definito «de Centumcellis». Nell’eremo, ad
esempio, vennero tenuti due capitoli provinciali dell’ordine
agostiniano «in loco de Centumcellis», nel 1275 e nel 1278.
Ancora nel 1510 ci si prende cura «loci Centumcellarum, ubi
Sancti Augustini quondam habitaculum» (Zazzeri 2008, pp.
254-259). Se quindi le motivazioni elencate sopra sarebbero
di per sé sufficienti a spiegare il diretto coinvolgimento di
Corneto nell’impresa dell’allume, rimane da interrogarsi
sull’affermazione di Giovanni di Castro riguardante la scoperta del minerale nel territorio della città. A quali cave si
riferiva lo scopritore dei giacimenti di alunite non è chiaro.
Se effettivamente Corneto vantava diritti sul territorio un
tempo controllato da Cencelle, quest’ultimo, come si è visto,
si estendeva sino alla parte centrale del massiccio tolfetano
almeno fino alla zona della Trinità. Due documenti del XIV
secolo, uno datato al 1319, l’altro al 1349, elencano una serie
di possedimenti posti nella città, nel suo distretto e forse
nelle sue prossimità (ACV, pergg. 398 e 515). Si chiariscono
così i confini dell’insediamento che comprendevano l’area
della Farnesiana per attestarsi verso il Mignone nella zona
dell’attuale Casalaccio, che è probabilmente identificabile
con il «castrum de Breccis» citato nei documenti. Il toponimo
Brecciaro è, infatti, attestato nella zona, a non molta distanza
5. LA BIANCA E I PRIMI INSEDIAMENTI
MINER ARI
Quanto sta emergendo dallo scavo della Bianca si colloca
in un panorama ben più ampio legato alla scoperta dell’alunite sui Monti della Tolfa, tra la fine del 1460 e i primi mesi
del 1461 (Ait 2014), e alle profonde trasformazioni indotte
nel paesaggio da tale avvenimento. Parallelamente all’affermazione dell’industria estrattiva nell’area si assiste alla nascita di
nuovi insediamenti o alla rivitalizzazione di centri di origine
medievale connessi alle attività produttive e al controllo del
bacino minerario. Allo stesso tempo l’intervento diretto dei
pontefici nella zona accelera la crisi di alcuni insediamenti
medievali, sancendo la fine delle dominazioni signorili con
l’acquisto di Tolfa Vecchia e la distruzione di Tolfa Nuova
(Vallelonga 2006a, pp. 196-198).
Lo storico cornetano Muzio Polidori, nel XVII secolo,
attribuiva a Giovanni di Castro la paternità di uno dei primi
insediamenti nell’area. Lo scopritore dei giacimenti di alunite,
stando al suo racconto, avrebbe infatti ottenuto da Pio II
l’autorizzazione a costruire un «edifitio per l’alume, ma anco
di edificar forno di vena di ferro et molino a grano nelle ruine
della chiesa di S. Severa, hora S. Severella» (Polidori 1977,
p. 260). Quest’ultima è identificabile nell’attuale località La
Farnesiana ed è nota già in un documento farfense del 939
e citata più volte nei secoli XIII-XIV, tra i possedimenti di
Cencelle e anche come pertinenza dell’eremo della Trinità
presso Allumiere (Vallelonga 2006a, p. 197; Mazzon 2014,
pp. 205-206, doc. LXXII, pp. 220-221 doc. LXXVII, pp.
266-268, doc. XCII, pp. 269-273, doc. XCIII, pp. 315-316,
doc. CVII; ACV, perg. 398; ACV, perg. 1497). Quest’area
fu del resto oggetto di interesse degli appaltatori dell’allume, come sottolineato da I. Ait, con specifico riguardo alle
tenute della «Montexana» e «Montexanela», citate in un
appalto del 1492 e già note tra le dipendenze del castello di
Monte Cocozzone (Ait 2014) 7. I toponimi sono rintraccia7
S. Passigli ne sottolinea l’importanza per l’approvvigionamento di legna
(Passigli 2014, p. 210). Il castello di Montecocozzone è attestato per la prima
volta nel 1235 è stato a lungo oggetto di contesa tra Viterbo, Tarquinia e Roma.
Le vicende del castello e della sua tenuta ci sono note a grandi linee sino al XV
secolo (Cola 1985, pp. 69-85; ACV, perg. 1457; ACV, perg. 2737).
64
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
dal Casalaccio, presso Poggio Campo Sicuro, ma è possibile
che in origine indicasse un’area più estesa caratterizzata
dalla presenza di sedimenti fluviali. Del resto nelle strutture
dell’attuale Casalaccio è ancora riconoscibile una planimetria
organizzata attorno ad un cortile centrale cinto da mura e
protetto da una torre, già riconosciuta come antica nel 1800,
quando l’architetto Ignazio del Frate, incaricato dal Monte di
Pietà di Roma, di costruire in loco un «procojo da vacche»,
riconobbe «un recinto quadrato di muri di antica costruzione,
alti dal piano della terra palmi 20. Sulla estremità dei quali
si veggono de’ così detti merli che uniti alla esistenza di una
diruta torre, addimostrano il carattere di un’antico [sic] fortino» (ASFR, Fondo Monte di Pietà, sezione II, serie 1, b. 2,
fasc. 4). È importante ricordare che proprio in quest’area sono
individuabili i toponimi «Piano della Montigiana» e «Prato
della Montigiana», probabilmente quindi in corrispondenza
delle tenute della «Montexana» e «Montexanella» dell’appalto
del 1492, citate nelle righe precedenti.
I possedimenti di Cencelle, come si è detto, si spingevano
sino all’Eremo della Trinità, presso Allumiere, dove durante
l’appalto del Chigi fu aperta una cava e non è inverosimile
pensare che anche a Giovanni di Castro fosse nota la presenza del minerale in questa zona, ma rimane un’ampia
zona d’ombra che corrisponde proprio all’area mineraria
che doveva essere al confine tra Tolfa Vecchia, Tolfa Nuova
e Cencelle. Tra i possedimenti viene nominato il «castellare
Tolfiziole», molto probabilmente identificabile con l’altura
della Tolficciola, a poca distanza da Tolfa Vecchia e Tolfa
Nuova, il documento non specifica con chiarezza se esso fosse
compreso all’interno del «districtus» della città, ma potrebbe
essere un forte indizio della penetrazione di Cencelle verso
l’interno dell’area montuosa. A testimonianza del profondo
coinvolgimento di Corneto e della sua classe dirigente al di
là del Mignone, fino nel cuore del bacino minerario, bisogna
infine ricordare che Bartolomeo Vitelleschi, primo vescovo
della neonata diocesi di Corneto-Montefiscone fu insignito,
nel 1435, del feudo di Tolfa Nuova (Canonici 2011, p. 329).
Quest’ultimo insediamento è il grande assente dalle trattative legate alla nascente industria dell’allume. Dopo Corneto,
infatti, vengono coinvolti nell’impresa mineraria i signori di
Tolfa Vecchia dai quali, sempre nel corso del 1461, Giovanni
di Castro ottiene il permesso di estrarre e lavorare il minerale presente nel loro territorio (Ait 2014). Mai invece nelle
trattative è coinvolta Tolfa Nuova. Il centro è citato almeno
a partire dal 1223 quando appare costituito in libero comune
(ACV, perg. 1062). Nel 1235 appare il nome di Gerardo di
Cappello che risulta signore di Tolfa Nuova (ACV, perg.
1119). L’insediamento, come testimoniato dai documenti
dell’Archivio dell’Ospedale del S. Salvatore e dell’Archivio
Orsini, è molto attivo nel corso del secolo XIV, dominato
dai signori della Tolfa è in grado di mettere in campo una
politica molto aggressiva, fatta di rapine ai danni di castelli
vicini, come quelli di Carcari, di Statua e di Santa Severa, ma
anche di una politica di penetrazione e conquista territoriale
che lo porta a controllare il castello di Monte Castagno, la
Castellina del Marangone e la stessa Santa Marinella (Ait
2014; Archivio UCLA, Box 61, folder 7-vecchia segnatura
I.A.I.4-I.A.I.5). Proprio nelle vicende legate alla conquista di
Carcari si hanno probabilmente i precedenti che causeranno
la definitiva acquisizione di Tolfa Nuova ai di Vico. Nel
1349, infatti, Nerio del fu Baldo dei Signori di Tolfa Nuova
promette al prefetto Giovanni di Vico di rivendere solo a lui
e ai suoi eredi il castello con il suo tenimento (ACV, perg.
3168). Del resto, come notato da I. Ait, la presenza dei di Vico
nel castello è attestata dall’esistenza di un loro palazzo sulla
sommità dell’insediamento (Ait 2014) e i Prefetti e i nobili di
Tolfa Nuova si trovano già insieme nel 1247-1248, all’epoca
di Innocenzo IV. Nel 1430 Tolfa Nuova è ormai proprietà
di Giacomo II di Vico e verrà coinvolta nelle lotte tra questi
ultimi e i pontefici. Una serie di eventi bellici traumatici che
portarono probabilmente al graduale spopolamento dell’insediamento la cui rocca fu «scarcata» in almeno due occasioni,
nel 1432 e nel 1435. Il castello appare quindi disabitato nel
1460, quando viene occupato da Everso d’Anguillara che ne
riedifica le mura e cerca di ripopolarlo, stando almeno alla
testimonianza di Niccolò della Tuccia (Vallelonga 2006a,
pp. 182-183). Nel decennio seguente il centro fu ancora
oggetto di contese e del tentativo dei pontefici di insediarvi
un castellano. Fu proprio questa continua instabilità, che
poteva risultare dannosa all’attività delle cave, a determinare
la distruzione del castello voluta da Sisto IV, al momento della
restituzione della tenuta agli Orsini, nel 1471 (Muntz 1882,
p. 235). Una politica finalizzata all’abbandono dei vecchi castelli di origine medievale che porta alle estreme conseguenze
quella già prefigurata da Pio II, che invitava gli operai a non
recarsi nei castelli infestati dalla peste, e proseguita da Paolo
II che aveva cercato di impadronirsi con la forza di Tolfa
Vecchia (Nardi Combescure 2002, p. 129).
Anche gli insediamenti di Rota e della Castellina del
Marangone furono coinvolti nella ridefinizione del territorio
determinata dall’attività mineraria (Vallelonga 2006a, p.
198; Vallelonga 2006b, p. 154). Per il secondo in particolare
abbiamo recenti dati emersi dalle indagini archeologiche che
confermano la frequentazione del sito a partire dal periodo
tardo romano e per tutto il periodo medievale (Prayon 2016,
pp. 153-168). L’insediamento è certamente identificabile,
come già indiziato dalla toponomastica, con il castello di S.
Silvestro, la cui esistenza è testimoniata da un documento
dell’archivio Orsini, datato al 1289, che ci rivela come all’epoca il fortilizo fosse soggetto ai signori di Tolfa Nuova e
dotato di un palazzo e di una chiesa (Archivio UCLA, Box 61,
folder 7-vecchia segnatura I.A.I.4). Gli scavi nell’area centrale
dell’insediamento, in corrispondenza di un zona pianeggiante
(area B) hanno rivelato l’esistenza di due importanti fasi
costruttive riferite a un grande edificio denominato Casale
I, databile tra la fine del XIV secolo e gli inizi del successivo.
Questo edificio venne ristrutturato agli inizi del XV secolo
e rimase attivo sino agli inizi del secolo XVII secolo (Casale
II), proprio in concomitanza con lo sfruttamento minerario
quindi, ed è da rilevare la similitudine con quanto riscontrato,
sempre su base archeologica, negli scavi di Cencelle, tra la fine
del XV e gli inizi del XVII secolo (Stasolla 2014, p. 141).
Si potrebbe quindi ipotizzare che l’edificio potesse rappresentare il ‘centro direzionale’ della tenuta della Chiaruccia,
funzione a cui si dovrebbe la protratta frequentazione del
sito, ipotesi più convincente di quella avanzata nelle prime
fasi dell’indagine che voleva l’insediamento posto a controllo
della via di transito dell’allume diretta a Civitavecchia, che
65
F. Vallelonga
in realtà correva a nord-ovest di esso, alla distanza di ca. 5
km (Gran Aymerich, Prayon 1996, p. 1127; Vallelonga
2012b, pp. 120-122).
La tradizione più consolidata vuole che le prime cave
siano state aperte nell’area centrale dei Monti della Tolfa, tra
Tolfa Vecchia e Allumiere. Le zone interessate sarebbero state
quelle nella Selva degli Sbroccati (La Concia) e La Bianca
(Zifferero 1996, pp. 745-748). Nella prima località sono
ancora rintracciabili delle murature, nel sottobosco, probabilmente pertinenti alle infrastrutture per le cave, che sarebbe
di estremo interesse indagare in maniera più accurata (fig.
1, nn. 8-9) 8. In località La Concia, presso l’odierno casale lì
presente, sono emerse, durante dei lavori di scavo, interrotti e
purtroppo immediatamente ricoperti in seguito alla scoperta,
delle strutture murarie, anch’esse forse pertinenti ad opifici
connessi con l’industria dell’allume (fig. 1, n. 7).
A queste considerazioni si deve aggiungere però l’apporto
di un’altra fonte di estrema importanza che è rappresentata
dalle memorie di fra Zenobi Simoni da Pescia, eremita di
Monte Senario che nel XVII secolo dimorò a lungo presso il
santuario di Cibona, sito a poca distanza dalla Bianca (Dias
2008). Nei suoi scritti il religioso si occupò ampiamente
della storia del santuario di Cibona e dell’origine dell’impresa dell’allume. In particolare nelle «Memorie antiche delle
Lumiere», ci ha lasciato una descrizione particolareggiata delle
cave aperte presso La Bianca, affermando che lì Agostino
Chigi avrebbe spostato l’industria estrattiva, costruendo una
fornace, caldaie, piazze per il minerale, un palazzo e la stessa
cappella dei minatori dove fece «dipingere Madonna Santa
Maria col suo Bambinello, Misere Santo Pietro e Misere
Santo Agostino» (Cugnoni 1883, pp. 153-155). Quello che
non torna però nel racconto dello Zenobi è l’inquadramento
cronologico: egli infatti, con attenzione cronachistica, riferì
questi avvenimenti al 1464-1465, ben prima degli appalti
del Chigi. La difficoltà risiede proprio nell’individuazione
dell’errore di Zenobi, se esso cioè riguardi la datazione degli
avvenimenti o l’identità del protagonista del racconto. Gli
storici che si sono occupati dell’argomento sono ormai
propensi a considerare valida la datazione degli avvenimenti
raccontati e ad attribuire la paternità delle opere descritte
alla figura di Giovanni di Castro, ritenendo così La Bianca
il più antico insediamento minerario (Dias 2008, pp. 127128; Baldini 2003). Si potrebbe, comunque, più cautamente
riferire genericamente la cappella alla prima fase di sfruttamento minerario, poiché non mi sembra ci siano elementi
che la possano ricondurre proprio alla figura del di Castro.
L’attribuzione della cappella al Chigi, può essere effettivamente dovuta non a una svista di Zenobi, bensì alla precisa
volontà di glorificare la figura del banchiere senese e attirarsi
la simpatia del pontefice Alessandro VII (Fabio Chigi), al
quale erano indirizzati i suoi scritti. In aggiunta a questo
bisogna considerare che le testimonianze coeve all’appalto di
Agostino Chigi ricordano il suo soggiorno presso «la ternità»,
cioè presso l’Eremo della Trinità dove era stata aperta una
cava d’allume, o a una non meglio identificata «Lumiera» ed è
nota l’esistenza di una sua abitazione collocata genericamente
presso le cave (Rowland 2001, pp. 70-71, 78, 80, 177; Luzio
1886, pp. 528-529). Se è difficile comprendere a quale luogo
si riferisca effettivamente la «Lumiera» citata nell’epistolario
del Chigi, con più sicurezza possiamo localizzare alla Bianca
la sottoscrizione di un altro documento, indirizzato al Chigi e
datato al 1508, riguardante i lavori intrapresi alla chiesa della
Sughera, in cui per la prima volta si citano esplicitamente «le
lumere bianche», lasciando pochi dubbi sull’identificazione
del toponimo (Cugnoni 1879, pp. 483-484). Nel carteggio
riguardante la costruzione della chiesa della Sughera, in una
lettera del 1504, Agostino lamenta gli elevati prezzi per la
costruzione e li raffronta con i costi «di q(ue)lli ch(e) han(n)
o murata la chiesa». Non è chiaro a quale chiesa si riferisca
il Chigi, poiché manca qualsiasi altra specifica in tal senso.
Secondo N. Mannino la chiesa citata sarebbe identificabile
con la cappella della Bianca, che quindi l’autrice riconduce
al banchiere senese, mentre E. Brunori era più propenso a
credere che il testo si riferisse ad interventi successivi effettuati all’epoca del Chigi sulla chiesa (Mannino 1997, p. 137;
Brunori 1985, p. 36).
Un’ulteriore testimonianza che il sito della Bianca era
precedente all’epoca di Agostino Chigi è fornita da un
Chirografo dell’epoca di Urbano VIII, del 12 gennaio 1635,
che dà facoltà a Tullio aiutante delle milizie di Castel S.
Angelo, Massimo e «fratelli de’ Celli» della Tolfa di restaurare
alcune case nel territorio di Tolfa in «luoco d(ict)o La Bianca,
che altre volte in tempo della felice m(aest)à di Pio II nostro
pred(ecessor)e erano habitate e servivano per il magistero delli
Allumi» (ASR, Camerale I, Chirografi, registro 160, n. 617) 9.
La questione merita sicuramente degli approfondimenti
ed è utile puntualizzare quanto emerso negli ultimi anni in
tal proposito. In primo luogo l’insediamento della Bianca si
colloca su una direttrice viaria più antica, probabilmente in
uso nel Medioevo. Una testimonianza in tal senso è rappresentata dalla retrodatazione della piccola cappella dedicata alla
Vergine, che si trova proprio lungo il percorso tra la chiesa
di Cibona e La Bianca, e precedentemente ritenuta coeva
all’impresa mineraria (fig. 1, n. 4). La scoperta di affreschi
attribuibili al XIV secolo testimonia l’esistenza di un’edicola
sacra in quest’area ben prima dell’inizio dello sfruttamento
minerario (Baldini 2003, pp. 29-37).
I dati di scavo, ancora in corso di elaborazione, non
consentono l’individuazione di chiare cesure cronologiche
in un periodo presumibilmente di circa 40-50 anni, cioè
dall’attivazione delle miniere all’operato del Chigi, circoscrivibile quest’ultimo nell’ambito di un ventennio, tra il 1500 e
il 1520. La cronologia dei materiali rinvenuti, se da un lato è
pienamente ascrivibile al periodo esaminato, sembra suggerire
una certa antichità del contesto, testimoniata soprattutto
dalla presenza delle maioliche arcaiche, addirittura un possibile indizio di una precedente frequentazione dell’area, se
letto unitamente alla scoperta degli affreschi presso la cappelletta di Cibona. Anche la scansione temporale delle due
fasi cimiteriali, contraddistinte da differenti orientamenti,
potrebbe essere compatibile con una sequenza, che vedrebbe
9
Devo l’informazione dell’esistenza di questo documento a Don Augusto
Baldini, esperto conoscitore della storia locale, che ringrazio per la disponibilità
e per le indicazioni che mi ha fornito.
Ringrazio il sig. G. Padroni per avermi indicato l’esistenza di queste
strutture.
8
66
L’insediamento deLLa Bianca, il primo villaggio dei cavatori?
la prima sepoltura con gruzzolo inquadrabile ancora nella
seconda metà del XV secolo e quella successiva, quella con
le monete d’oro, nei primi decenni del secolo XVI. Questo
suggerimento cronologico non può però che essere trattato
con la massima cautela vista la lunga circolazione di queste
monete, l’arco cronologico molto ampio da esse abbracciato
all’interno di uno stesso gruzzolo e, in ultima analisi, le circostanze di formazione dei gruzzoli stessi. Alla seconda fase
potrebbero inoltre collegarsi anche delle modifiche strutturali
testimoniate dalla tamponatura dell’ingresso laterale della
chiesa e dall’aggiunta dell’ambiente quadrangolare sul lato
nord; questi interventi potrebbero essere riferibili all’operato
del Chigi e aver contribuito a tramandare il ricordo di un suo
intervento nell’area, come voleva E. Brunori.
Il numero delle sepolture finora scavate, che non dovrebbe
essere di molto inferiore al totale degli individui accolti nel
cimitero, anche se rimangono ancora da scavare la zona a
sud della chiesa e quella retrostante l’abside, sembra invece
più compatibile con una cronologia breve, considerando il
numero di operai impegnato nelle miniere che all’epoca del
Chigi, ad esempio, era di ca. 500 persone (Passigli 2014).
Questo ovviamente a patto che tutti fossero seppelliti presso
questo luogo di culto.
La documentazione scritta e i documenti del catasto
Alessandrino dimostrano inoltre l’esistenza di altri piccoli
agglomerati presso le cave (Santacroce 2014, pp. 30-31) 10.
Di questi sappiamo ancora molto poco sia sulle fasi iniziali
che sull’epoca di abbandono. L’insediamento della Bianca
tuttavia sembra essere tra essi il più strutturato e quello
destinato a una più lunga continuità di vita. Fino al trasferimento dell’attività direzionale a Monte Roncone (Allumiere),
intorno al 1580, la direzione delle miniere si trovava alla
Bianca e l’insediamento era dotato di una serie di botteghe
artigiane accuratamente elencate in un inventario del 1572
(ASR, Camerale III, b. 2360; Santacroce 2014, pp. 30-34).
I risultati dello scavo e le fonti scritte convergono invece
sull’epoca dell’abbandono dell’edificio, ma non del villaggio
quindi, che può ascriversi entro il primo trentennio del 1500,
probabilmente poco dopo il 1522, quando nel santuario costruito dallo stesso Agostino alla Sughera, presso Tolfa, verrà
spostato il luogo di culto e di sepoltura dei minatori, all’interno
della Cappella di Sant’Antonio Abate (Mannino 1997, p. 139).
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3/9/2016. URL: http://journals.openedition. org/mefrm/1964;
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10
Anche il racconto della morte di Alfonso Gaetani nella sua casa presso
le miniere è significativo a tal proposito. Ait 2010, p. 251.
67
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English abstract
The excavations carried out in Allumiere-La Bianca
(Rome) since 2010, thanks to the collaboration between
Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale and the volunteers of the Gruppi Archeologici
d’Italia, led to the discovery of a small chapel, known locally
as Cappella dei Minatori (Miners’ Chapel), and its cemetery.
The contribution is focused on the cemetery and the grave
goods found in some of the tombs, including two hoards of
gold and silver coins. The discovery is related to the presence
of the alum mines and to the beginning of new mining settlements, such as La Bianca. The settlement dates back to the
second half of the 15th century and the beginning of the 16th
century. It’s still unclear if the commissioner of the chapel
was Giovanni di Castro, who discovered the alum mines in
1460, or Agostino Chigi, a banker from Siena, who was the
mining contractor at the beginning of the 16th century.
68
Marica Baldoni*/**, Marianna D’Amico*, Giovanni Arcudi**, Cristina Martínez-Labarga*
I MINATORI DELL’ALLUME: LA STRUTTUR A DELLA POPOLAZIONE
ALLA LUCE DELLE ANALISI ANTROPOLOGICHE
Alum miners: population structure in the light of anthropological analysis
1. INTRODUZIONE
non necessariamente sono costituiti da tutti gli individui della
popolazione in esame (Ubelaker 1989; Alesan, Malgosa,
Simó 1999). In un certo senso l’analisi paleodemografica e
l’analisi antropologica in generale si riflettono in un paradosso: analizzare i morti per comprendere i vivi (Wood et
al. 1992; Alesan, Malgosa, Simó 1999). Il presente lavoro
riporta i risultati delle analisi preliminari condotte tra il 2015
e il 2016 e presentate in occasione del convegno sui paesaggi dell’allume tenutosi a Roma e Siena dal 9 all’11 maggio
2016. L’analisi dei resti scheletrici provenienti dal cimitero
di La Bianca è stata sottoposta ad analisi più approfondite
e multidisciplinari volte alla ricostruzione archeo-biologica
di questa popolazione e presentate nel lavoro di Baldoni e
collaboratori (Baldoni et al. 2018).
Il nostro scheletro può essere considerato come un vero
e proprio archivio biologico che conserva non solo le informazioni contenute nel nostro patrimonio genetico ma può
conservare anche informazioni circa le abitudini di vita,
gli stress funzionali e/o nutrizionali occorsi durante la vita
dell’individuo e molto altro (Fornaciari, Mallegni 1981;
Fornaciari, Mallegni 1989; Borgognini Tarli, Pacciani
1993), pertanto l’antropologo attraverso l’identificazione
e l’analisi di tracce sulle ossa può ricostruire la biografia
antemortem di un individuo e, più in generale, di una popolazione (Borgognini Tarli, Pacciani 1993; Cattaneo,
Grandi 2004).
Scopo del presente lavoro è l’analisi dei resti scheletrici rinvenuti presso il sito di La Bianca (Allumiere, VT). Verranno
presi in considerazione in questa sede i risultati delle analisi
volte alla determinazione del sesso e dell’età al momento
della morte presentate nel 2016 in occasione del convegno
“I paesaggi dell’allume: archeologia della produzione ed economia di rete/Alum landscapes: archaeology of production and
network economy”, il prosieguo delle analisi antropologiche
sia morfologiche sia molecolari e le analisi archeobotaniche
sono state pubblicate nel lavoro di Baldoni e collaboratori
(Baldoni et al. 2018).
L’analisi antropologica è stata volta inizialmente a definire
il quadro paleodemografico della popolazione in esame in
quanto esso rappresenta un punto di partenza imprescindibile per le successive analisi sia morfologiche sia molecolari.
Pertinenza della paleodemografia è l’identificazione dei
parametri demografici di popolazioni del passato, quali ad
esempio il tasso di natalità e di mortalità, l’aspettativa di vita,
la frequenza di mortalità nelle diverse classi di età (BocquetAppel, Masset 1982; Hill, Hurtado 1995). L’analisi paleodemografica permette quindi, a partire da questi parametri, di
ricostruire la struttura della popolazione in esame (Howell
1986). La teoria paleodemografica si basa su una serie di assunzioni, prima tra tutte che la stima del sesso e dell’età alla
morte del campione in esame rifletta la reale composizione
per sesso ed età della popolazione reale, tuttavia è necessario
considerare che i resti scheletrici di provenienza archeologica
2. MATERIALI E METODI
Una volta giunti in laboratorio si è proceduto a un’iniziale
fase di pulizia a secco al fine di rimuovere l’eccesso di terra dai
reperti osteologici. Sebbene possa sembrare banale, la fase di
pulizia riveste una notevole importanza e rappresenta una fase
molto delicata dello studio. La terra è stata rimossa mediante
l’uso di bisturi e specilli unitamente a spazzole e spazzolini
a setole morbide. Data la rilevanza dei resti in esame è stata
effettuata la sola pulizia a secco, evitando qualunque contatto
dei resti con l’acqua per evitare danni che avrebbero potuto
inficiare le analisi molecolari (Borgonigni Tarli, Pacciani
1993). Una volta puliti, i resti sono stati restaurati prima di
procedere all’analisi vera e propria.
Il primo elemento imprescindibile di un’analisi antropologica è la definizione del numero minimo di individui (NMI),
ovvero l’elemento osseo più rappresentato tenendo conto
della lateralità dello stesso nonché del sesso e/o dell’età alla
morte (Buikstra, Ubelaker 1994; Duday 2006; White et
al. 2012). La stima del sesso è stata effettuata prendendo in
considerazione cranio, mandibola e bacino, secondo il metodo proposto da Acsádi e Nemeskéri (AcsÁdi, Nemeskéri
1970), rivisto da Ferembach e collaboratori (Ferembach et
al. 1977-1979) unitamente alla metodica messa a punto da
Phenice (Phenice 1969), che permette la stima del sesso dalla
sola analisi della sinfisi pubica mostrando un’attendibilità del
96% anche in resti scheletrici frammentati (Phenice 1969).
La stima del sesso è stata effettuata sul solo campione adulto,
dal momento che nei non-adulti (individui che non hanno
ancora raggiunto la piena maturità scheletrica) il mancato
sviluppo dei caratteri sessuali secondari può condurre a un
risultato fuorviante e poco attendibile (Scheuer 2002).
* Laboratorio di Biologia dello Scheletro e Antropologia Forense,
Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” (marica.
baldoni@gmail.com; cristina.martinez@uniroma2.it; marianna.damico0810@
gmail.com).
** Laboratorio di Medicina Legale, Dipartimento di Medicina Sperimentale
e Chirurgia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” (arcudi@med.
uniroma2.it).
69
M. Baldoni, M. D’Amico, G. Arcudi, C. Martínez-Labarga
La stima dell’età alla morte è stata invece condotta sull’intero campione scheletrico a disposizione. Per il campione
adulto sono stati utilizzati metodi proposti da diversi autori 1.
Analogamente anche per i non-adulti sono state utilizzate
metodiche differenti per la stima dell’età alla morte 2. In
questo modo è stato possibile suddividere l’intero campione
in esame in classi di età. Una volta delineato il quadro paleodemografico della popolazione in esame, è stato condotto uno
studio più approfondito al fine di tentare una vera e propria
ricostruzione biologica di questa popolazione. Sono state
raccolte informazioni in letteratura su popolazioni italiane al
fine di inquadrare il campione in esame nello scenario della
Penisola. Nel presente lavoro si riportano esclusivamente i
risultati preliminari dell’analisi paleodemografica condotta
tra il 2015 e il 2016 e presentata in occasione del convegno del
2016. Le analisi antropologiche si sono successivamente concentrate sulla stima della statura, sullo studio dei marcatori
di stress muscolo-scheletrico (inserzioni di tendini, muscoli e
legamenti sull’osso), e sull’analisi paleopatologica. Tali risultati unitamente a quelli derivanti dalle indagini molecolari e
archeobotaniche sono riportati nel lavoro pubblicato nel 2018
da Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018).
fig. 1 – Distribuzione per età del campione scheletrico rinvenuto presso
il cimitero di “La Bianca”.
3. RISULTATI E DISCUSSIONE
Il calcolo del NMI offre il punto di partenza per tutte le
successive analisi (Buikstra, Ubelaker 1994; White et al.
2012). Il NMI stimato è risultato pari a 70 individui totali,
90% adulti e 10% non-adulti (Baldoni et al. 2018). La
stima del sesso, come sottolineato precedentemente, è stata
condotta sul solo campione adulto. I risultati ottenuti mostrano una netta prevalenza di maschi (68,5%) rispetto alle
femmine (8,6%). Purtroppo in un 12,9% dei casi non è stato
possibile procedere alla stima a causa del cattivo stato di conservazione e dell’elevata frammentarietà dei resti scheletrici a
disposizione; tali individui sono stati identificati come NR
(non registrabili) (Baldoni et al. 2018). L’elevata presenza
di individui di sesso maschile si riflette anche nel valore di
sex-ratio, ovvero nel rapporto tra individui di sesso maschile e
individui di sesso femminile. Tale valore per la popolazione in
esame è risultato pari a 8,00, mostrando una netta prevalenza
del sesso maschile sul femminile (Baldoni et al. 2018). Tale
valore, se confrontato con i valori di altre popolazioni italiane,
coeve si mostra al di fuori della media ed eccezionalmente
alto (tab. 1). Come mostrato in tab. 1 i valori di sex-ratio si
aggirano intorno all’unità, con lievi eccezioni come Bologna,
che mostra invece una netta prevalenza di individui di sesso
femminile (Brasili, Veschi 1998). Nella popolazione di La
Bianca si nota al contrario un netto sbilanciamento del sesso
maschile, a testimoniare la particolarità dell’area cimiteriale
che si ritiene collegata alle vicine cave di Allumiere. Anche
ipotizzando che gli individui per i quali non è stato possibile fornire la stima del sesso fossero di sesso femminile, il
valore di sex-ratio sarebbe comunque pari a 3,7 e pertanto si
fig. 2 – Distribuzione del campione adulto per sesso ed età alla morte.
discosterebbe dai valori riscontrati per le popolazioni coeve.
Il risultato ottenuto non stupisce in quanto, nel campione
in esame, è la natura del contesto archeologico che permette
di spiegare lo sbilanciamento osservato tra i due sessi nonché
le differenze riscontrabili con altri campioni provenienti da
altri siti italiani.
L’analisi si è quindi focalizzata sulla stima dell’età alla
morte, prendendo in considerazione l’intero campione
scheletrico a disposizione. I risultati della distribuzione per
età del campione sono mostrati in fig. 1. Come si evince dal
grafico, nel 12,9% dei casi non è stato possibile assegnare una
specifica classe d’età a causa del cattivo stato di conservazione
e dell’elevata frammentarietà dei resti scheletrici a disposizione, e gli individui sono stati definiti genericamente adulti
(GA). Si riscontra la presenza di due individui perinatali, ma
il picco di mortalità si osserva nelle classi 19-30 e 31-40 anni,
la mortalità nei due sessi è tuttavia probabilmente ascrivibile
a cause differenti.
I risultati della valutazione della mortalità differenziale
tra i due sessi sono mostrati in fig. 2. Come evidenziato dal
grafico, per le donne il picco di mortalità si osserva nelle
classi 19-30 e 31-40 anni; tale mortalità può essere correlata
alle complicazioni durante la gravidanza o il parto, nonché
all’insorgenza di infezioni che sono maggiormente comuni
nelle donne in stato interessante a causa di un abbassamento
delle difese immunitarie (Kamel 1984; Roberts et al. 2001;
1
Si rimanda in particolare a: Todd 1920; Brothwell 1981; Işcan et al.
1984; Işcan et al. 1985; Lovejoy et al. 1985; Meindl, Lovejoy 1985; Brooks,
Suchey 1990.
2
Fazekas Kósa 1978; Stloukal, Hakanova 1978; Hoffman 1979;
Ubelaker 1989; Scheuer, Black 2004;
70
SITO
Allumiere
Santa Severa (RM)
Bergamo (BG)
Torcello (VE)
Padova (PD)
Bologna (BO)
Cencelle (VT)
Albano (RM)
Colonna (RM)
DATAZIONE
XV-XVI sec. d.C.
IX-XIV sec. d.C.
VII-XII sec. d.C.
X-XII sec. d.C.
IX sec. d.C.
X-XI sec. d.C.
IX-XV sec. d.C.
XI-XII sec. d.C.
VIII-X sec. d.C.
sex-ratio
8,00
1,40
1,00
1,35
1,00
0,44
1,43
1,55
1,41
NON-ADULTI
10%
41,3%
6,7%
34,0%
26,3%
32,3%
37,5%
22,5%
38,0%
ADULTI
90%
58,7%
93,3%
66,0%
73,7%
67,7%
62,5%
77,5%
62,0%
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BRASILI, VESCHI 1998
BALDONI 2019
CIAFFI et al. 2015
BALDONI et al. 2016
tab. 1 – Confronto relativo al valore di sex-ratio e delle percentuali di adulti e non-adulti della popolazione in esame con altre popolazioni italiane
coeve.
ereditato esclusivamente per linea materna, potrebbe ovviare
questo limite. Il resto del campione mostra un picco di mortalità tra i 7 e i 12 anni; tale valore potrebbe essere spiegato
con il passaggio dalla prima alla seconda infanzia, nonché con
il probabile inizio di uno stile di vita molto simile a quello
degli adulti anche a livello di attività lavorative.
Si è quindi proceduto al calcolo dell’indice di giovanilità
(IJ), ovvero il rapporto tra il numero di individui di età
compresa tra i 5 e i 14 anni (D5-14) e il numero di individui
di età superiore ai 20 anni (D20-x). Tale valore è risultato
essere 0,06; i valori di riferimento secondo Bouquet-Appel e
Masset (Bouquet-Appel, Masset 1977) sono compresi tra
0,1 e 0,3, il che indica che nel campione in esame i non-adulti sono poco rappresentati. Il risultato non stupisce anzi
avvalora l’ipotesi che l’area cimiteriale rispecchiasse la realtà
dei lavoratori dell’allume. È stato quindi calcolato l’indice
bambini/adolescenti (B/A) al fine di valutare se, all’interno
del campione dei subadulti, ci fosse uno sbilanciamento
tra individui più piccoli (D5-9) e più grandi (D10-14). Tale
indice ha restituito un valore di 1,0 al di sotto dei valori
di riferimento compresi tra 1,5 e 2,0 (Bouquet-Appel,
Masset 1977), il che indica che il campione dei bambini
è poco rappresentato. Come si evince dai dati riportati in
tab. 1, le percentuali riscontrate per la popolazione di La
Bianca si discostano da quanto riscontrato per popolazioni
italiane coeve.
Avendo a disposizione la mappa dell’area cimiteriale si
è cercato di valutare eventuali differenze nella disposizione
degli inumati a partire dai dati paleodemografici. La mappa
dell’area cimiteriale con le informazioni paleodemografiche
del campione è riportata in fig. 4; in blu sono indicati gli
individui di sesso maschile, in rosso quelli di sesso femminile, in verde gli individui per i quali non è stato possibile
stimare il sesso e in viola i non-adulti. Sebbene la mappa sia
aggiornata al 07/03/2016, non è possibile osservare una disposizione dei corpi in relazione al sesso degli inumati il che,
ci fa escludere la presenza di aree di sepoltura e forse anche
di rituali differenziali all’interno della comunità.
Una volta delineato il quadro paleodemografico l’analisi
antropologica è stata rivolta allo studio dei marcatori di
stress muscolo-scheletrico, al fine di ricostruire le attività
della popolazione di Allumiere e provare a relazionare
ciascun individuo a una specifica fase di lavorazione dell’allume. Tali dati unitamente a quelli derivanti dall’analisi
paleopatologica e dalle analisi molecolari e archeobotaniche sono riportati nel lavoro di Baldoni e collaboratori
(Baldoni et al. 2018).
fig. 3 – A sinistra resti scheletrici dell’US 108 di un feto di 5 mesi di
gestazione, a destra quelli dell’US 349, un feto a termine.
Rothberg et al. 2008; DeWitte 2017). Data la ridotta
rappresentazione degli individui di sesso femminile nel
campione in esame, tuttavia, qualsiasi considerazione relativa alla mortalità osservata è da considerarsi come una mera
ipotesi in quanto la numerosità campionaria non consente
di approfondire l’interpretazione dei dati riscontrati. Per
gli uomini invece il picco maggiore si evidenzia nella classe
31-40 anni; in tal caso la mortalità maschile potrebbe essere
correlata al sovraccarico lavorativo e il relativo stress fisico
legato alla complessa lavorazione dell’allume.
Solo pochi individui raggiungono un’età avanzata, probabilmente a causa dello stile di vita di questa popolazione
nonché delle scarse condizioni igienico-sanitarie. Non si può
infine escludere che la mancanza di donne al di sopra dei 50
anni di età possa essere legata all’esiguo numero di queste
ultime nel campione oggetto di studio.
Per quanto riguarda i non-adulti, il 2,9% della mortalità risulta ascrivibile tra i perinatali (individui al di sotto
dell’anno di età); nel caso del cimitero di La Bianca questi
sono rappresentati da due feti, l’US 108 un feto di 5 mesi
di gestazione e l’US 349 un feto a termine. Entrambi i feti
sono riportati in fig. 3. Per nessuno dei due è stato possibile,
allo stato attuale dell’analisi, fare ipotesi sulla madre, l’analisi
del DNA e in particolare del DNA mitocondriale (mtDNA),
71
M. Baldoni, M. D’Amico, G. Arcudi, C. Martínez-Labarga
fig. 4 – Mappa dell’area cimiteriale con le indicazioni paleodemografiche. In blu gli individui di sesso maschile, in rosso quelli di sesso femminile, in verde gli individui adulti per i quali non è stato possibile formulare alcuna ipotesi sul sesso e in viola i non-adulti. La mappa riportata è
aggiornata al 07/03/2016. Le analisi antropologiche sono successivamente state estese a un totale di 70 individui (Baldoni et al. 2018).
4. CONCLUSIONI
mortalità si concentri nelle classi 19-30 anni e 31-40 anni.
Data l’eccezionalità del campione a disposizione, l’analisi
anatomo-morfologica ha preso in considerazione i marcatori
di stress muscolo-scheletrico e la presenza di alterazioni patologiche. Tali risultati, unitamente a quelli derivanti dalle analisi
di antropologia molecolare e archeobotaniche sono riportate
nel lavoro di Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018).
Il presente lavoro riporta i risultati preliminari delle analisi
antropologiche sui resti scheletrici dei minatori dell’allume
rinvenuti presso il sito di La Bianca (Allumiere, VT) 3, ricondotti a un numero minimo di individui (NMI) pari a 70:
90% adulti e 10% non-adulti. La diagnosi di sesso è stata
condotta esclusivamente sul campione adulto mentre nessuna ipotesi di genere è stata avanzata per i non-adulti, non
avendo questi ultimi raggiunto la piena maturità scheletrica.
Il campione appare costituito prevalentemente da individui di
sesso maschile (68,5%) mentre il sesso femminile costituisce
solo l’8,6% del campione. Nel 12,9% dei casi non è stato
possibile determinare il genere degli individui a causa del
cattivo stato di conservazione e/o dell’elevata frammentarietà
dei resti scheletrici a disposizione. Il valore di sex-ratio pari
a 8,00 conferma la netta prevalenza del genere maschile sul
femminile. La stima dell’età alla morte ha mostrato la presenza
di individui perinatali (<1 anno di età), sebbene il picco di
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3
Le analisi sono state presentate in occasione del convegno I paesaggi
dell’allume: archeologia della produzione ed economia di rete / Alum landscapes:
archaeology of production and network economy del maggio 2016, successivamente
ampliate e riportate nel lavoro di Baldoni e collaboratori (Baldoni et al. 2018).
72
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English abstract
The present research reports the results of the preliminary
anthropological analyses performed on the skeletal sample
recovered in the cemetery area of La Bianca (Allumiere,
Rome, Italy) presented during the congress “I paesaggi
dell’allume: archeologia della produzione ed economia di
rete/Alum landscapes: archaeology of production and network
economy” held at Roma and Siena in 9-11 May 2016. The
analyses have been subsequently deepened and published
along with the results of the molecular and arcaheobotanical
analyses (Baldoni et al. 2018).
The sample counts a total of 70 individuals 90% adults
and 10% non-adults. Non-adults are clearly underrepresented
and, among adults, a high prevalence of males with respect
to females was observed as witnessed by the sex-ratio value
(8.00). Despite the observed paleodemographic draft is
different from what commonly observed in coeval skeletal
sample, the obtained results are not surprising as the archaeological context witnesses the cemetery area was connected
to the neighboring alum production system.
73
Chiara Carloni*, Giulia Doronzo*
MODALITÀ DI ESTRAZIONE E TR ACCE
DI LAVOR AZIONE DELL’ALLUME SUI MONTI DELLA TOLFA
Alum: methods of extraction and traces of processing in the Tolfa mountains
1. I LUOGHI DELL’ALLUME
picconi da cava, martelline, asce, mazze e punte da ferro. Si
tratta quindi di utensili che non hanno subito particolari
evoluzioni morfologiche nel corso dei secoli: asce e picconi
vengono utilizzati per il lavoro in cava senza soluzione di
continuità fino all’avvento dell’industrializzazione, quando sono sostituiti dalle macchine a vapore o dalla polvere
pirica utilizzata nelle mine. Nelle cave di allume del Lazio
questi strumenti rimarranno attestati fino alla chiusura
definitiva delle Fabbriche Camerali, a metà XIX secolo, con
il solo apporto innovativo delle mine caricate a polvere che,
durante la fase estrattiva, permettevano di velocizzare il
lavoro staccando enormi quantità di materiale dalle pareti
che veniva poi ridotto in pezzi più piccoli (fig. 2). Durante
le ricognizioni effettuate sul territorio sono stati rinvenuti
fronti di cava che conservano ancora, seppure molto labili,
le tracce degli strumenti: sono visibili i segni verticali lasciati
dalle martelline a doppia punta, rilevati in un fronte presso
la cava della Castellina; le spaccature praticate dalle asce e
infine, nella zona della Cava della Bianca, i fori d’incasso
per i cunei che venivano poi colpiti con le mazze praticando
profonde fenditure nella roccia (fig. 3) 2.
Si deve al Mignanti un’accurata descrizione del metodo di
lavoro con le mine: gli operai scendono con le corde fino a
metà parete e si appoggiano all’impalcatura, poi con un palo
di ferro appuntito praticano un foro nella roccia che viene
riempito di polvere sulfurea; il tutto veniva poi chiuso con
un tappo in cui era praticata una scanalatura per la miccia,
alla cui accensione seguiva la veloce risalita degli operai sulle
corde e l’attesa della detonazione. La descrizione dei lavori
fatta da Scipione Breislak nel 1786, cioè circa due secoli
dopo, non aggiunge dati innovativi rispetto alla precedente,
testimoniando una sostanziale fossilizzazione delle tecniche
di estrazione (Breislak 1786, p. 30, par. XVI).
Per quanto riguarda i lavoratori del ciclo di produzione
dell’allume, la percentuale maggiore era sicuramente rappresentata proprio da chi operava nelle cave, attestati a 250 unità
in un registro del 1557; essi erano seguiti da 148 tagliatori di
pietra che si occupavano di ridurre ulteriormente la pezzatura
del materiale (Delumeau 1962a, p. 70 nota 1). Queste figure
professionali erano altamente specializzate: con l’esperienza
maturata nel tempo, riuscivano ad individuare le vene più
fertili di pietra alluminosa e la estraevano in modo da salvaguardare la propria vita e allo stesso tempo mantenere florida
Nel territorio tolfetano la produzione dell’allume deriva
dalla lavorazione dell’allunite o pietra alluminosa, che veniva
estratta nelle numerose cave distribuite nel territorio e tra le
varie forme presenti è l’allume di potassio il più conosciuto,
tanto da aver dato il nome ad una lunga serie di sali. I nomi
con cui questi minerali sono conosciuti, cioè “Allume di
rocca” e “Allume di Roma”, derivano dai siti di rinvenimento:
i primi originari della Mesopotamia a Roccha od Orfa e i
secondi dal distretto dei monti della Tolfa. L’allume presente
nel territorio laziale si presenta sotto forma di roccia compatta
e distribuita in grossi filoni inseriti all’interno della massa di
trachite, la colorazione varia dal bianco, al giallo, al rosso e
al violetto, a causa della presenza di alcuni minerali metallici,
come il ferro 1.
Per l’estrazione dell’allume il procedimento, ampiamente
descritto dai documenti d’archivio, risulta molto caratteristico, tanto che lo stesso Papa Sisto V durante una visita alle
cave datata 1588 viene invitato ad assistere a questa particolare fase, definita jucundum aliquod spectaculum: sotto il
controllo degli appaltatori Altoviti, Ridolfi ed Olgiati, molti
minatori si calarono da rupi alte e scoscese legati con funi
per la loro sicurezza. Armati di sbarre e leve di ferro atte a
scalzare il materiale, iniziarono a far cadere enormi sassi che
sarebbero poi stati frantumati, bruciati e sciolti in acqua per
ricavarne l’allume (Mignanti 1936, pp. 91-92). Il minerale
non si dispone in strati ma giace in masse o filoni compatti,
perpendicolari e non molto profondi rispetto al piano di
campagna; per questo motivo lo scavo inizia con una trincea
abbastanza profonda, che arriva fino al centro della vena e
continua a seguirla. Il risultato di tale procedimento è un profondo taglio nella montagna, che deve essere adeguatamente
sostenuto con puntelli e armature. Le pareti sono verticali e
gli operai lavorano su impalcature mobili in legno sorrette
da corde, fissate sulla cima del fronte e destinate anche alla
risalita e discesa verso la propria postazione; questo taglio
diventa sempre più profondo e più largo fino a creare una
vera e propria strada utilizzata dai carri per il trasporto del
minerale verso le aree di trasformazione (fig. 1).
Tra gli strumenti tradizionali utilizzati per l’estrazione
dell’allume dalla fine del XV al XVIII secolo sono attestati
* Sapienza Università di Roma (chiara.carloni@alice.it; giulia.doronzo@
uniroma1.it).
1
Si rimanda ai testi di A. Zifferero (Zifferero 1992, 1996a, 1996b) e C.
Giardino (Giardino 2006) per un quadro generale sulle caratteristiche geologiche e minerarie dei Monti della Tolfa.
2
Nella Cava Grande e nella Cava Vecchia o Gregoriana, sono riconoscibili
dei fori perfettamente circolari praticati per l’inserimento della polvere pirica, il
cui diametro misura circa 6 cm mentre la lunghezza varia dai 40 cm ai 60 cm.
75
C. Carloni, G. Doronzo
fig. 1 – Metodo di estrazione dell’allume in una illustrazione di Fougeroux
de Bondaroy.
fig. 2 – Traccia di mina in sezione.
lavoro nel vecchio fronte, evitando l’accavallarsi di percorsi di
entrata e di uscita e risparmiando alcuni gradoni per la corretta
inclinazione del pendio, in modo da evitare slamature.
Dalla pianta della cava denominata “Cavetta”, posizionata
lungo la via delle cave, in zona Cave Vecchie, è possibile
risalire ad una dettagliata descrizione dei vari settori del
cantiere (fig. 4). Un elemento che caratterizza ogni cava è
la strada d’accesso (A), che doveva permettere il passaggio
degli animali da soma e dei carri; essa era collegata da una
parte con la cava stessa e dall’altra con le fornaci per la prima cottura del materiale, era spesso stretta e costeggiata da
pareti rocciose instabili. L’interno della cava si presentava
come un’enorme conca di forma ellissoidale o circolare, caratterizzata da molti fronti di scavo, denominati “lumiere” e
aperti in epoche differenti, tanto da essere appellate “lumiera
vecchia” (H) e “lumiera nuova” (M). I fronti di estrazione
erano costituiti da alte pareti di roccia intervallate da piani
su cui correva la strada principale, che serviva i diversi settori e si sviluppava con l’accrescersi della cava stessa; perciò
essa spesso era costituita da diversi spezzoni più o meno
antichi (I, C, B). Sul fondo della conca si trovava un canale,
parzialmente sotterraneo, denominato Emissario (O) che
permetteva lo scolo delle acque provenienti dalla montagna
ma soprattutto lo smaltimento del materiale di scarto della
cava. Il canale svolgeva un’opera fondamentale all’interno del
cantiere, ma andava manutenuto costantemente, pertanto i
diversi appaltatori evitarono lo spurgo. L’avere ostruito zone
di cava vecchie ma ancora parzialmente produttive non ne
permetteva più lo sfruttamento, neanche in caso di necessità,
fig. 3 – Tracce di cunei.
e praticabile la cava per gli appalti futuri, assicurandosi un
salario garantito nel corso del tempo.
A seguito dell’individuazione del materiale e dell’apertura
dei fronti di estrazione sorgevano diverse necessità logistiche
che comportavano la creazione di un vero e proprio cantiere,
costituito da figure professionali diverse e da infrastrutture
efficienti, quali la strada creata tramite l’apertura della prima
trincea, che doveva permettere la fuoriuscita del materiale con i
carri e doveva essere quindi sempre praticabile e libera da detriti
e dall’acqua di risalita delle falde acquifere. Prima di aprire un
nuovo fronte inoltre bisognava considerare l’andamento del
76
fig. 4 – Pianta della cava denominata “Cavetta”; ASR Cam. III b.
2352/3.
assai deteriorato, tanto che è possibile riconoscere solo la
forma ellissoidale della cava; le pareti più alte e maggiormente esposte alle intemperie sono in gran parte sgrottate
o in fase di crollo, perciò non sono più visibili le tracce di
lavorazione lasciate dagli strumenti. La via d’accesso alla cava
si è conservata a partire dalle fornaci sino all’ingresso, ma non
sono più apprezzabili i piani stradali a NE e SE; solo sul lato
Ovest è ancora rilevabile una sorta di piano orizzontale, che
potrebbe far pensare alla strada carrabile. Anche le quote
interne originarie sono obliterate dall’enorme interro e dal
fitto bosco (fig. 5). Per la Cava della Bianca, che risulta essere
la più antica attestata, non è più possibile apprezzare l’area
del cantiere nascosto ormai dalla vegetazione, ma si leggono
ancora diversi gradoni che occupano tutto il versante della
collina e conservano qualche sporadico fronte di estrazione.
Spazi angusti e poco delineati erano le strutture in cui si viveva, poiché spesso al termine del contratto si tornava ai propri
paesi di origine. I piccoli agglomerati di case s’impiantavano
intorno alle cave e ai siti di trasformazione: non si trattava
quindi di strutture abitative frutto di una progettazione ma
di insediamenti nati dalla necessità. Caratteristiche precipue
di questi agglomerati erano la mobilità e la temporaneità: le
semplici strutture erano realizzate da ristretti gruppi di persone
o dagli stessi gruppi familiari, senza ricorrere all’esperienza di
manovali specializzati. Chi invece non era in grado di sostenere
la spesa di una casa si adattava a vivere negli edifici destinati
alla lavorazione dell’allume (Santacroce 2014, p. 52).
A partire dal 1572 si contano ben nove agglomerati, tutti
caratterizzati dalla presenza di strutture legate ai processi di
produzione, quali il deposito del materiale estratto, l’edificio
industriale specifico (fornace e caldara), la stalla, le stanze del
fattore e quelle del guardiano 4. Solo intorno al 1600 viene
finalmente costruito Allumiere, un vero e proprio paese operaio, carico di una dignità urbanistica come lo era stato sino
ad allora solo il paese limitrofo di Tolfa. Sarà circa un secolo
fig. 5 – Cava denominata “Cavetta”.
essendo il costo dello smaltimento assai elevato. Era possibile
che questi emissari fossero allargati in modo da diventare veri
e propri corsi d’acqua, da attraversare tramite ponti di legno,
attestati sia nelle piante (P), che nell’iconografia 3.
Una ricognizione nella zona della Cavetta e al suo interno
ha messo in luce uno stato di conservazione del complesso
3
Una celebre veduta di Pietro da Cortona illustra il ponte costruito nella cava
Grande. Pietro Berrettini detto da Cortona (Cortona 1596-Roma 1669), Paesaggio
dell’Allumiere di Tolfa. Olio su tela (61×75 cm). Roma. Pinacoteca Capitolina.
4
La Bianca, Monte Roncone, Cava Nuova, Cava del Pian delle Poste,
Cava del Bosco, Cave Vecchie, Taglio di Lazzarino, Taglio di Tognino, le Mole
a Santa Severella.
77
C. Carloni, G. Doronzo
fig. 6 – Resti di abitazioni
presso le “Cave Vecchie”.
dopo, nel 1737, sotto l’appaltatore Gangalandi, che verrà
previsto un vero e proprio piano urbanistico del paese, tale
per cui alle vecchie abitazioni dovevano esserne aggiunte di
nuove, strutturate su due piani e distinte per nuclei familiari.
Nel 1750, cioè dopo quasi due secoli di attività estrattiva, i
nuclei abitativi erano ridotti a cinque e poi a tre; una contrazione evidentemente legata all’andamento del mercato
dell’allume che, a partire dal XVII secolo, lentamente ma
inesorabilmente decresce (Santacroce 2014, p. 52 e segg.).
Al 1738 risale un documento ecclesiastico chiarificatore
della situazione del popolamento della zona tolfetano-allumierasca, ossia uno “stato delle anime” che riporta quattro
specifiche località con rispettivo numero di abitanti: alle
Allumiere vivevano quarantasette famiglie; al Palazzo
Camerale ossia a La Bianca sono testimoniate diciassette persone non legate da vincoli di parentela; alla Cava Gangalandi
vivevano tre famiglie mentre alle Cave Vecchie ventinove
famiglie, che stavano ristrutturando le loro abitazione ottemperando all’ordine pervenuto nel 1737 che intimava loro di
attuare una poderosa sistemazione dell’abitato.
Proprio queste strutture sono state rinvenute e sono
posizionate oggi lungo Via Mario Fontana, pochi km a
NE rispetto all’abitato di Allumiere. Esse sono attestate
dalle fonti sin dal 1572; in seguito, nel 1737, l’abitato venne
fortemente ristrutturato ed è presente ancora in una pianta
antica che descrive il piano generale delle miniere nel XIX
secolo (Santacroce 2014, p. 53 fig. 11; p. 55, nota 118). In
seguito il sito verrà abbandonato probabilmente a seguito
della chiusura delle Fabbriche Camerali, avvenuta intorno
alla fine del XIX secolo. Ad oggi rimangono visibili solo due
strutture abitative adiacenti, composte ognuna da due piani
sovrapposti con tetto a capriate lignee; di queste l’abitazione
posta a Sud è la più antica (fig. 6). Completamente ricoperte
dalla fitta vegetazione sono invece ulteriori strutture di cui si
indovina solo l’ingombro e che dovevano svilupparsi lungo il
pianoro delineato dalla strada carrabile e dal Fosso delle Cave.
2. PROCESSI DI LAVOR AZIONE
Per quanto concerne i processi di lavorazione del minerale,
una prima descrizione dettagliata delle fabbriche di allume
a Tolfa e degli strumenti adottati è presente nel secondo
capitolo del De Pirotechnia di Vannuccio Biringuccio: «l’Allume di Rocca e le sue miniere» del 1540 (Biringuccio, De
Pirotechnia 1540, II, pp. 78-81). L’autore descrive le quattro
differenti fasi di lavorazione del minerale: la calcinazione,
la macerazione, la lisciviazione e la cristallizzazione. Tali
processi vengono similmente riportati nel De Re Metallica”
da Giorgio Agricola 5. L’opera compilata circa 20 anni dopo,
è arricchita anche da alcune rappresentazioni che illustrano
le fasi di lavorazione e la strumentazione adottata (fig. 7).
In particole nelle incisioni sono rappresentate le fornaci per
la calcinazione (A), i processi relativi al raffreddamento per
innaffiamento con acqua del materiale semilavorato (B); la
fase della lisciviazione, il cui materiale allo stato liquido (E),
veniva condotto per dei canali di legno (F) nei cassoni dove
avveniva la cristallizzazione (G).
Oltre a queste opere si aggiungono una serie di testi
compilati nello stesso secolo e in quelli successivi, che si
arricchiscono di informazioni trattando anche dell’uso delle
macchine idrauliche. Diverse sono le descrizioni redatte a
partire dal XVI secolo e relative alle fasi di lavorazione e
trasformazione dell’alunite 6.
La prima competenza segnalata dall’autore del testo era
quella della scelta degli operai addetti all’estrazione della
pietra, i quali dovevano avere una vasta esperienza per cavare
il minerale. Inoltre, il materiale estratto veniva selezionato
5
Agricola G., 1556, De Re Metallica, pp. 458-460. Una descrizione
dell’evoluzione dei processi di lavorazione in Picon M., La préparation de l’alun
à partir de l’alunite aux époques antiques et médiévale, in Actes des XX rencontres
internationales d’archéologie et d’histoire d’Antibes (21-23 octobre 1999), Antibes
2000, pp. 519-531.
6
Una delle più interessanti è contenuta nella fonte catastale del territorio di
Allumiere, nota come il Catasto Generale delle Tenute delle Allumiere, di Lorenzo
Corsini, redatto nell’anno 1696.
G.D.
78
MODALITÀ DI ESTRAZIONE E TRACCE DI LAVORAZIONE DELL’ALLUME SUI MONTI DELLA TOLFA
fatta evaporare. Una volta terminato questo processo l’allume raccolto in casse di legno veniva posto in un ambiente
contiguo a quello della “caldara”, dove si lasciava per circa
quindici giorni.
In questo periodo l’allume si cristallizza e la liscia, che non
subisce questa trasformazione, viene recuperata e raccolta allo
stato liquido dentro dei tini comunicanti tra loro e posti a
diverse pendenze, per permettere lo spostamento del liquido
verso il pozzo, detto “zanfone”. In quest’ultimo la liscia superflua veniva a mischiarsi con l’acqua, per essere poi raccolta
dalla ruota a tazze e posta nuovamente nella caldara per un
nuovo ciclo di cottura. Infine, l’allume veniva staccato dalla
cassa con l’ausilio di mazze di legno e portato nei magazzini.
Nel territorio di Allumiere sono state effettuate alcune
ricognizioni mirate, volte principalmente all’individuazione
e documentazione delle suddette strutture produttive. Nello
specifico le indagini sul campo hanno interessato tre aree,
poste nello stesso comune, nelle località di La Bianca, Le
Cave Vecchie e nel sito del Castagneto dei Cinque Bottini,
dove sono state localizzate anche alcune delle cave di allume.
La prima documentata è la fornace di La Bianca, che risulta localizzata tra le colline di Poggio Elceto e Monte Urbano.
Essa è raggiungibile da un sentiero con andamento NW/SE,
che si distacca a Nord dal percorso che ancora oggi collega i
centri abitati della Bianca con la Tolfa. Il sentiero dopo circa
250 m piega verso SW e corre lungo le pendici meridionali
delle suddette colline, per poi perdersi nella fitta boscaglia. In
questo ultimo tratto il sito si raggiunge mediante un percorso
caratterizzato da una sensibile pendenza, ma è probabile che
originariamente il tracciato fosse meno ripido o proseguisse
lungo le pendici settentrionali del poggio Elceto.
Il sito di La Bianca è considerato nella tradizione storica
del territorio il primo dei centri sorti per ospitare in modo
stabile gli operai che lavoravano nelle lumiere. Da una lettera
indirizzata al pontefice Alessandro VII nel XVII secolo da un
eremita, padre Zenobi Simoni da Pescia, della comunità di
S. Maria della Cibona, possono essere estrapolati diversi dettagli descrittivi riferiti probabilmente alle cave e alle attività
produttive presenti nel territorio di La Bianca, nonostante
le evidenti incongruenze cronologiche, che inquadrano il
periodo di attività di Agostino Chigi nella seconda metà del
XV secolo, quando l’appaltatore non era ancora nato 8.
Nel testo padre Zenobi ricorda che Agostino trasferì la
fabbrica dell’allume presso la Fontana della Bianca, dove si
mise alla ricerca di nuove cave per l’estrazione del minerale.
Dopo aver individuato nella zona molti filoni di allunite,
scelse comunque un’area collinare posta più a nord tra la
Rocca della Tolfa e la Fontana di La Bianca, dove gli operai
allestirono anche le fornaci per la prima cottura del minerale
cavato, che una volta cotto veniva portato presso la fontana
de La Bianca. Sempre secondo quanto riportato nel testo di
padre Zenobi, a La Bianca venne successivamente aperto un
nuovo fronte di cava migliore rispetto al precedente, perché
collocato in uno spazio più ampio. Oltre alla nuova cava
venne realizzata nei pressi della fontana di La Bianca una
fornace per la cottura dell’allume; vennero inoltre allestiti
fig. 7 – Le fasi di lavorazione dell’alunite riportate nel “De Re Metallica”
di Giorgio Agricola.
per eliminare eventuali scarti. Una volta cavato il materiale
veniva condotto, attraverso dei carri, presso le fornaci dove
la pietra, lasciata ad essiccare per separarla dagli scarti, veniva calcinata per circa otto ore nelle “caldare” 7. Una volta
raffreddato il materiale veniva condotto, sempre con i mezzi
da soma o carri, presso i piazzali delle allumiere, dove in seguito veniva accatastato per circa quaranta giorni e bagnato
continuamente. Il semilavorato diveniva allume e assumeva
una consistenza simile alla calce.
Concluse queste fasi di lavorazione l’allume veniva portato, sempre con mezzi da soma e carri, presso degli ambienti
chiusi dove erano in funzione delle “caldare”, poste su delle
fornaci. Qui avveniva il processo della lisciviazione. Nelle
“caldare” riempite d’acqua che era prima portata all’ebollizione e poi all’evaporazione per una intera giornata, la polvere
di allume e l’acqua venivano mescolate dagli operai.
In queste fasi l’allume si liberava completamente delle
scorie residuali e l’acqua presente nelle “caldare” veniva
7
I tempi di questa prima cottura possono variare ed arrivare sino a 12-14
ore circa; le pietre sono pronte quando dalla fornace esce del fumo bianco ed
esse risultano rosate.
8
Il documento è riprodotto in G. Cugnoni, Agostino Chigi il Magnifico,
Archivio della Società Romana di Storia Patria, VI (1883), pp. 154-155.
79
C. Carloni, G. Doronzo
fig. 8 – Catasto generale delle Tenute delle
Allumiere del 1696.
Le restanti zone produttive sono raggiungibili mediante un percorso asfaltato che, dall’incrocio con la località
Sant’Antonio, di dirige verso NE. La prima delle due aree
produttive è posta lungo il lato SW della suddetta strada, ed
è collegata ad essa mediante un sentiero posto più a Sud. La
località è denominata nelle fonti cartografiche odierne come
Cava Vecchia, ma in origine doveva corrispondere all’area
produttiva della Cavetta. In particolare, la località distinta
dalla cava e dalle quattro fornaci risulta rappresentata in una
delle vedute illustrate nel Catasto generale delle Tenute delle
Allumiere del 1696 (fig. 8). La fornace (A) è posta lungo un
percorso che, molto probabilmente, corrisponde al tracciato
odierno. Nella stessa veduta sono rappresentate anche le
cave dette Cava Grande e Cava Vecchia (B e C), l’abitato di
Allumiere, gli stabilimenti produttivi (Caldare n. 18 e 23)
ed il piazzale (n. 19).
Inoltre, nello stesso Catasto è raffigurato il villaggio dei
minatori, con le abitazioni dove al primo piano alloggiavano
gli operai, mentre al piano terra si trovavano le stalle (A).
L’impianto produttivo e la cava sono raffigurati anche in
una planimetria realizzata nel 1707 da Carlo Piancastelli. Le
tracce relative alle quattro fornaci, il percorso verso la cava e
la strada che conduce alle abitazioni degli operai sono ancora
riconoscibili, se pur quasi interamente ricoperte dal fogliame
dei castagneti impiantati. Le strutture sono state realizzate
contro terra, sfruttando la pendenza naturale del terreno da
SW verso NE: le “caldare” erano collocate sul pianoro, dal
quale venivano caricate di pietrame, ed erano alimentate da
quattro aperture poste lungo le pendici del colle e a ridosso
di un percorso parallelo a quello attuale. Le strutture sono
purtroppo interamente obliterate dal fogliame.
L’ultimo opificio per la calcinazione dell’allume è posizionato presso un diverticolo tortuoso della menzionata strada
fig. 9 – Opificio per la calcinazione dell’allume.
quattro forni per la lisciviazione del minerale, di maggiori
dimensioni rispetto alla fornace per la cottura dell’alunite.
Ad oggi non è facile stabilire se la fornace e la cava identificate nella zona possano corrispondere ad una di quelle
ricordate nelle lettere di padre Zenobi. L’impianto che presenta uno sviluppo NE/SW, è visibile solo in superficie, e
risulta quasi completamente riempito dallo stesso pezzame
in crollo e da uno spesso strato di interro 9. La fornace è stata
realizzata in pezzame calcareo di varie dimensioni, disposto
irregolarmente e privo di legante, che presenta nella parte
inferiore delle evidenti tracce di combustione.
9
Della struttura sono visibili solo parte della camera di cottura di forma
circolare, dal diametro di 2 m; il prefurnio si conserva per un tratto di circa
3,80 m e misura in larghezza circa 0,80 m.
80
MODALITÀ DI ESTRAZIONE E TRACCE DI LAVORAZIONE DELL’ALLUME SUI MONTI DELLA TOLFA
asfaltata, dalla quale si separa lungo il lato NW dirigendosi
verso Allumiere e verso il cenobio della Santissima Trinità
(fig. 9). Dopo circa 300 m, a NE della cosiddetta Cava
Grande, lungo il lato NE del percorso, si individuano le due
bocche della fornace a pianta circolare, rivestite internamente
da blocchi squadrati di trachite. Queste ultime si trovavano
su uno slargo creato appositamente per garantire il transito
dei carri che trasportavano il pietrame già selezionato. Come
le precedenti, anch’esse risultano realizzate contro le pendici
NE della collina, lungo le quali venivano anche alimentate.
Le due fornaci sono parte di un’unica struttura, il cui alzato,
leggibile per circa 2,50 m, è realizzato in conci di pietra di
varie dimensioni legati da malta di calce tenace e di colore
biancastro. Lungo la facciata, ad una distanza di circa 4,50
m l’uno dall’altro, sono visibili i due prefurni, la cui volta
a botte è realizzata impiegando conci di trachite e laterizi
che compongono la ghiera dell’arco della volta. Nella parte
inferiore, addossato al paramento, sembrerebbe essere stato
allestito un bancale. I due prefurni presentano una forma ad
imbuto, la cui larghezza varia dai 2,20 m ai 2,43 m e tende a
ristringersi verso l’interno, mentre la profondità di questi è di
circa 2,50 m. Purtroppo non è possibile stabilire l’originaria
altezza delle strutture, dato che i piani di frequentazione risultano interamente obliterati dai crolli e dall’interro. Questo
settore della fornace si affaccia su un pianoro molto ampio,
che agevolava il lavoro degli operai addetti alla calcinazione.
Per quanto riguarda lo stato di conservazione del paramento,
questo presenta diversi punti di frattura dovuti principalmente all’azione distruttiva della vegetazione.
Cingolani G.B., 1696, Modo da fabricare l’Allume, in Misura, pianta
e descrizione delle tenute spettanti all’appalto delle Allumiere da parte
della Camera Apostolica, 1696, ASR, Collezione di disegni e mappe,
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English abstract
Alum is a material to be extracted with peculiar procedures by getting a deep cut in the mountain, adequately
supported with props and armor. The traditional working tools remain in use until the permanent closure of
Camerali’s factories in the mid 19th century, with the only
innovative contribution of powder-loaded mines. The start
of the construction site, made up of different professionals
and efficient infrastructure, was followed by the installation
of small groups of houses around the quarries and processing sites. The manufacturing process have four steps:
calcination, maceration, leaching and crystallization. In the
territory of Allumiere targeted surveys were carried out,
primarily aimed at the identification and documentation
of production facilities in three areas located in the same
district: “località La Bianca”, “Le Cave Vecchie” and the site
of the “Castagneto de Cinque Bottini”, where also some of
the alum quarries have been localized.
C.C.
BIBLIOGR AFIA
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81
Beatrice Casocavallo*
CIRCOLAZIONE DELLE CER AMICHE
NEI TERRITORI DELL’ALLUME TOLFETANO
Circulation of pottery in the territories of the Tolfa alum district
Lo studio delle presenze ceramiche nei territori coinvolti
dalla scoperta dell’allume permette di delineare un quadro
abbastanza rappresentativo della circolazione e diffusione di
tali manufatti, soprattutto per produzioni del tutto peculiari come le ceramiche smaltate di produzione umbra o le
ceramiche ispano moresche, che possono essere un ulteriore
indicatore di già noti rapporti economici. In questo contributo sono stati presi in considerazione i reperti rivenuti nei
comuni di Allumiere e Tolfa. I materiali di Allumiere, in
parte esposti nel museo Civico, provengono dallo scavo effettuato negli anni ’80 del secolo scorso alla Bianca (Brunori
1985, pp. 7-48), all’Eremo della Trinità (Allumiere 1991) e
al Castrum Ferrarie 1. Per Tolfa si sono analizzati i materiali
provenienti dal convento di Santa Maria della Sughera, da
due pozzi individuati all’interno delle mura e da uno scarico
extramurario sotto la collegiata di S. Egidio 2.
La scoperta dell’allume fissata al 1462, secondo quanto
riportato nei Commentari di Papa Pio II Piccolomini, e retrodata alla fine del 1460 inizi 1461 da Ivana Ait 3, coinvolge un
territorio più ampio di quello dei monti della Tolfa, trasformando tutta l’area in quello che oggi definiremmo come un
vero e proprio ‘polo minerario’. In questo quadro temporale
l’area dei monti della Tolfa, con i castelli di Tolfa Vecchia e
di Tolfa Nuova 4, passa sotto il controllo della curia papale,
atto che portò ad una riorganizzazione del potere e a un forte
contrasto con le signorie locali e i potenti comuni dell’alto
Lazio, come Corneto (Tarquinia) e Viterbo, già da tempo ben
inseriti nelle dinamiche di sfruttamento e possesso di quei
territori 5. Il centro di Corneto, data la contiguità territoriale
con i monti della Tolfa, è sicuramente quello più coinvolto
anche per le dinamiche di controllo e gestione di una zona
strategica quale quella della valle del Mignone. Quest’area,
nella zona più prossima a Cencelle, viene sfruttata come
riserva di legname, utilizzato come combustibile necessario
all’impresa estrattiva e quindi di fondamentale importanza 6.
Anche il porto di Corneto 7 in un primo tempo viene coinvolto nell’organizzazione dell’attività estrattiva, infatti nel
1460 è oggetto di interventi di restauro voluti da papa Pio
II, proprio in vista di una sua utilizzazione per il commercio
dell’allume, commercio che di lì a poco passerà attraverso il
porto di Civitavecchia. Altro forte legame con il centro di
Corneto è quello legato al monopolio della produzione della
farina per panificare 8.
A contendere a Corneto il controllo dell’area dei Monti
della Tolfa è Viterbo, centro da sempre interessato a questa
parte di territorio (Nardi Combescure 2002, pp. 116-119).
La presenza sulla parte Nord del rilievo tolfetano di un collegamento con l’entroterra in un punto tra Monte Monastero
e S. Arcangelo, che riporta il toponimo di passo di Viterbo, ci
fa riflettere sull’organizzazione del tessuto stradale di questa
parte di territorio 9.
Il primo aspetto da analizzare è quello delle vie del commercio: marittimo e terrestre. Nel caso dell’allume la via
marittima è quella principale, ma non dobbiamo dimenticare
quella terrestre 10. Partendo dalla via terrestre, le direttrici
più importanti sono quella costiera e quella che collegava la
nostra area con l’interno, ovvero l’Umbria, la Toscana e l’alto
Lazio. L’Umbria gioca un ruolo fondamentale, divenendo
cerniera tra l’area tirrenica e adriatica, perché attraversata da
quelle importantissime vie che sono i tratturi utilizzati nella
6
«Niccolò V ripristina Bartolomeo Vitelleschi, vescovo di Corneto e
Montefiascone, nel possesso del castello di Centocelle e delle tenute di S. Maria
in Mignone e S. Savino, col pieno godimento di frutti, redditi, pascolo e altri
diritti, usurpati, per la malizia dei tempi, e già concessi alla mensa episcopale
di Montefiascone da Urbano V sul castello di Centocelle e da Eugenio IV
riconfermati ed estesi poi, dopo l’unione della chiesa di Corneto con quella
di Montefiascone, a S. Maria in Mignone e S. Savino»; Supino 1969, doc.
570, pp. 421-422.
7
Sul porto di Corneto vd: Palermo 2007, pp. 118-126; Annoscia,
Casocavallo, Trucco 2019.
8
La curia papale concede in regime di monopolio al Gaetani, mercante
pisano che, insieme a Giovanni di Castro e Bartolomeo Framura, vengono
ricordati come scopritori dell’allume tolfetano, i mulini del comune di Corneto
per la produzione della farina per panificare. Ait 2010: p. 245, nota 61. Per una
disamina dei mulini sul fiume Mignone vd: Carloni, Maggiore 2012, pp.
647-648; Vallelonga 2012b, p. 121.
9
Per l’analisi della viabilità tra la costa e l’interno nell’area dei monti della
Tolfa vd Vallelonga 2018, pp. 157-171; per l’area tra Corneto e Tuscania vd:
Casocavallo, Maggiore, Quaranta 2018, pp. 173-189.
10
Come ben evidenziato da Ivana Ait, nel contratto del 1465 si specifica
che per l’allume venduto via terra i soci dovevano rispettare i vincoli applicati
agli altri operatori, mentre per quello venduto via mare avrebbero goduto di
maggiori libertà: «possano trarre e finire come li sarà di piacere» Ait 2014, p. 9.
* MIBACT, Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per l’Area
metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale (beatrice.
casocavallo@beniculturali.it).
1
Nel 1992 sono stati effettuati i primi interventi di scavo vd: Brunori 1984,
pp. 13-42. Per il materiale ceramico vd: Mazza 1984, pp. 43-53.
2
Per un inquadramento generale dei ritrovamenti ceramici nell’area dei
Monti della Tolfa vd: Nardi 1994, pp. 52-56. Per i ritrovamenti ceramici a
Tolfa vd: Vallelonga 2012a, p. 198.
3
Sulla scoperta dell’allume vd: Ait 2014, con bibliografia.
4
Sulle vicende dei castelli di Tolfa Vecchia e Tolfa Nuova vd: Vallelonga
2012a, pp. 195-199. Per un’analisi dei toponimi vd: Nardi Combescure 2002,
p. 121, nota 41.
5
La massiccia produzione di allume spinse il papato ad una gestione
diretta dei territori dei monti della Tolfa, con la distruzione di Tolfa Nuova e
l’acquisto del castello di Tolfa Vecchia. Il papato con Paolo II annette anche i
centri di Rota e Monterano, controllando così tutti gli accesi alla zona sia dalla
costa sia dall’interno. Nardi Combescure 2002, pp. 111-131; Vallelonga
2012a, pp. 200-202.
83
B. Casocavallo
fig. 1 – Allumiere, La Bianca, ceramica graffita, piatti con decori
vegetali.
fig. 3 – 1. Tolfa, ciotola emisferica con decoro a linee concentriche;
2. Allumiere, Eremo della Trinità, ciotola emisferica con decoro geometrico entro linee.
fig. 2 – Allumiere, La Bianca, ciotole con decori geometrici, vegetali
e a monticelli.
fig. 4 – Allumiere, Eremo della Trinità, scodella in ceramica smaltata di
produzione umbra con il tipico decoro a squame con cartiglio centrale
e all’esterno il motivo a “petal back”.
transumanza e che rappresentano, dall’antichità fino ai tempi
moderni, il collegamento tra l’adriatico e la Tuscia 11. Altro
elemento da analizzare è il sistema delle grandi fiere, che
aveva portato ad aprire nuove piazze di commerci e quindi
anche nuove vie di percorrenza per le merci. Questo sistema,
ormai consolidato, ancora forte e presente anche nel nostro
ambito cronologico, può essere un ulteriore elemento di
comprensione del movimento di persone e cose. Sappiamo
infatti della presenza nel 1458 di vascellari derutesi a Viterbo,
come nel caso di Angelo di Menicuccio, che era alla fiera di
Viterbo «… co li vase…» 12. Inoltre dai documenti presenti
nella Margarita Cornetana sappiano come nel 1436 Giovanni
Vitelleschi, patriarca di Alessandria, arcivescovo di Firenze
legato della Sede Apostolica, conceda alla popolazione di
Corneto di poter tenere mercato nei quattro giorni precedenti
e nei quattro successivi alla festa di S. Maria di Castello, ricorrente il 20 maggio, dove espressamente viene scritto che
«… i mercanti potranno accedere nel territorio cornetano
con le proprie merci senza impedimento alcuno, esenti da
dazi, pedaggi, passaggi, gabelle, rivendicazione di diritti di
rappresaglia e di debiti pubblici o privati, e condanne; ovviamente si assicura protezione a tutti coloro che si recheranno
a detta fiera, fatta eccezione per i nemici della Chiesa e gli
omicidi» 13. Ancora più tardi, nel 1563, abbiamo notizia della
presenza alla fiera di Castel Durante (Urbania) di compratori
di somari provenienti dalle Lumiere 14.
La ceramica che arriva attraverso questi percorsi terrestri
è soprattutto quella prodotta in ambito sub-regionale, come
la ceramica graffita, l’ingobbiata e la più pregiata ceramica
smaltata. Analizzando la ceramica graffita, si nota che l’area
11
Contatti tra le due coste, tirrenica e adriatica, nell’Italia centrale sono
attestati già per il periodo protostorico, le vie di percorrenza sono quelle della
transumanza delle greggi che si spostavano dai pascoli estivi dell’Appennino
marchigiano alle pianure del viterbese. Bonomi Ponzi 1997.
12
Viterbo è una delle città a cui Federico II, nel 1240 concesse il privilegio
di una fiera della durata di 15 giorni. Tramontana 1983, p. 697; Nicolini
1980, p. 30.
Supino 1969, doc. 538, p. 398.
Santacroce 2014, p. 70. Notizia tratta dal documento conservato presso
l’Archivio di Stato di Roma, Camerale III, Tolfa busta 2382, libro giornale,
anno 1564, p. 64.
13
14
84
in vista dello sfruttamento per l’estrazione dell’allume, che
coinvolge anche le vie di comunicazione dell’area posta a NE,
e quella degli attraversamenti sul fiume Mignone 17, avranno
favorito anche il passaggio di uomini e merci ed agevolato
quel commercio su scala ridotta che era rappresentato da un
traffico interregionale, quale quello della ceramica ingobbiata.
Questo si sarà giovato di due direttrici: la via più interna
di collegamento con i centri di Ischia di Castro, Farnese e
Acquapendente, e quella di valle, con i nuovi accessi sul fiume Mignone che permetteranno il passaggio di merci, forse
mediato da Corneto, piazza di attrazione di queste ceramiche,
come documentato dall’alta presenza delle stesse nei contesti
di scavo Cornetani.
Per le produzioni di ceramica smaltata di metà XV-fine
XVI secolo, le importazioni giungono soprattutto dai maggiori centri produttori dell’Italia centrale: Montelupo, Faenza
e Deruta; anche in questo caso le direttrici di commercio sono
terrestri. L’approvvigionamento dell’Urbe, come evidenziato
da Gull, avviene via terra; le ceramiche più pregiate provengono infatti da Perugia, Deruta e Todi (Gull 1995, pp.
79-86). Nella nostra area dobbiamo però registrare una
discreta presenza di ceramiche derutine (fig. 4), di contro a
una scarsa presenza, allo stato attuale dei dati disponibili, di
ceramiche toscane, soprattutto quelle prodotte da Montelupo
tra XV e XVI secolo. Questo dato, se confermato da ulteriori
rinvenimenti, si pone in contrasto con quello registrato nei
vicini centri di Corneto 18 e Tuscania (Whitehouse 1972,
pp. 209-235), ma anche con il centro di Cerveteri 19, posto
a Sud dei Monti della Tolfa. In questo caso non possiamo
più pensare ad una mediazione da Corneto, dove alla fine
del XV secolo il porto non era più fulcro degli arrivi e punto
di attrazione delle merci come era stato precedentemente;
molto probabilmente queste ceramiche arrivano direttamente dall’entroterra. Possiamo ipotizzare che la richiesta di
ceramiche così pregiate sia stata possibile nell’area dei monti
della Tolfa grazie alla presenza di importanti famiglie che
potevano accedere ad un mercato sicuramente più costoso
rispetto a quello dei prodotti che abbiamo descritto precedentemente, arricchendo e impreziosendo così il proprio
corredo ceramico 20 (fig. 5).
A questa rete viaria dobbiamo affiancare quella marittima. In questo periodo per l’area in questione dobbiamo far
riferimento in un primo momento al porto di Corneto e
successivamente a quello di Civitavecchia. Il porto di Corneto
è strettamente legato al traffico del sale e del frumento,
commercio gestito e governato dalla curia papale, che aveva
un diretto controllo dello scalo. Di particolare interesse,
per la nostra ricerca, è la lettura dello Statuto del 1545, che
rileva la presenza al porto di prodotti di accompagno come
fig. 5 – Allumiere, Eremo della Trinità, scodella in ceramica smaltata
di produzione umbra con decoro a quarti sulla tesa e profilo di donna
“Bella” nel cavetto.
di produzione è soprattutto quella umbra, con materiale che
trova puntuali riscontri con le produzioni dei noti centri di
Todi e Orvieto. Sono presenti piatti e scodelle con decori
vegetali che si inseriscono negli spazi definiti da linee creando
dei quarti nei cavetti, e linee ondulate che separano foglie
trilobate sviluppate in modo continuo sulle tese (fig. 1).
La presenza sempre costante nella nostra area di queste
produzioni, anche se con quantitativi diversi a seconda dei
centri 15, sembra essere in linea con quella documentata anche
in altre aree come quella veientana (pensiamo ai ritrovamenti
di Isola Farnese e Formello Boanelli 1998, pp. 139-162),
dove il canale è quello di approvvigionamento dell’Urbe,
che permette a questi centri di beneficiarne come ha ben
evidenziato Paolo Gull (Gull 1995, pp. 79-86). Nel nostro
caso, questa particolare ceramica di produzione Umbra arriva
attraverso i già consolidati rapporti commerciali che avevano
visto l’ampia diffusione delle produzioni di maiolica arcaica
di XIII-XIV secolo 16, confermando per questa regione il ruolo
di cerniera tra la costa tirrenica e quella adriatica. Inoltre il
ruolo di mediatrice commerciale nella distribuzione e redistribuzione di merci che avevano come punto ultimo del loro
viaggio le piazze delle fiere e i porti della costa, come quello
di Corneto, pone la presenza di questa produzione ceramica
non direttamente ricollegabile all’indotto dell’allume.
Altre produzioni sicuramente attestate in area Tolfetana
sono quelle dell’ingobbiata e della smaltata (figg. 2, 3). La
presenza della ceramica ingobbiata, proveniente dai centri
produttori dell’alto Lazio come Ischia, Castro, Farnese,
Bagnoregio, Valentano, Acquapendente e Viterbo, rientra
bene in quelle dinamiche di commercio già viste e analizzate
nel centro di Corneto, ma anche per quei centri posti sulla
direttrice viaria interna, come ad esempio Blera, analizzata da
Elisabetta Ferracci (Ferracci 1998, pp. 163-170) e nella vicina
Cencelle studiata da Nadia Barone (Barone 2009, pp. 189206). In questo caso forse la riorganizzazione del territorio,
17
Sono attestati lavori di ripristino del ponte dell’Aurelia sul Mignone
nel 1452-1453. Vallelonga 2018, pp. 162, 163. In generale sulla viabilità che
attraversava il fiume Mignone vd: Carloni, Maggiore 2012, pp. 646-647.
18
Le ceramiche di Montelupo appaiono ben attestate, sono presenti sia
le produzioni di XV secolo con decori tipici del genere floreale blu, foglie di
prezzemolo, ma anche le produzioni con decori italo-moreschi, nastro spezzato,
ed i più tardi (prima metà del XVI secolo) alla porcellana ed il genere a paesi o
delle girandole della metà-fine XVI secolo.
19
Per i dati su Cerveteri vd: Quaranta, Casocavallo 2013.
20
Sulla presenza di importanti famiglie interessate al commercio dell’allume
vd: Ait 2010, pp. 231-262.
15
Nel centro di Corneto i dati di scavo mostrano che la ceramica graffita
è presente con una percentuale del 3,52%. Casocavallo, Catini 2005, pp.
163-175; per Blera vd: Ferracci 1998, pp. 163-170.
16
La maiolica arcaica è costantemente attestata nei centri del distretto
Tolfetano: Nardi 1994, pp. 52-56; per Castrum Ferrarie vd: Mazza 1984, pp.
43-53; per i dati emersi dai recenti scavi alla Bianca si rimanda all’intervento
di Fabrizio Vallelonga in questo volume.
85
B. Casocavallo
fig. 6 – Tolfaccia, ciotola, ispano moresca,
nella vasca decorazione a raggiera in lustro
dorato.
fig. 7 – Tolfa, ceramica ispano moresca, ciotola, sulla vasca decoro del
fiore quadripetalo detto “rosas”.
fig. 8 – Allumiere, Eremo della Trinità, ceramica da fuoco
con rivestimento a vetrina
con decori vegetali in giallo
e verde.
la ceramica, che le fonti non sempre registrano. Nel Libro
V, capitolo XVIII (Ruspantini, p. 247), si cerca di regolare
la vendita dei prodotti comprati direttamente al porto, «…
si stabilisce che pomi frutti e vasi che siano giunti nel porto
di Corneto e acquistati all’ingrosso debbano essere venduti
al minuto entro due giorni dopo il bando, allo stesso prezzo
d’acquisto, aumentando delle sole spese, sotto pena di un
ducato d’oro se si sarà rifiutato di venderli…», restituendoci
il quadro di una politica gestionale attuata dal Comune di
controllo dei traffici e del mercato minuto.
Le aree interessate dai traffici marittimi sono quelle della
costa Toscana e dalla Liguria, alle quali dobbiamo aggiungere quelle delle coste Francesi e Spagnole 21. Quest’ultime
divengono di particolare interesse, se messe in relazione alla
presenza di una caratteristica produzione ceramica quale
quella a lustro metallico, prodotta nella penisola Iberica.
Questo peculiare tipo di ceramica, definita ispano moresca,
che troviamo già attestata nelle produzioni di XIV secolo in
vari siti del Lazio e della Toscana 22, nell’area Tolfetana è ancora presente anche nelle successive produzioni di pieno XV
con discrete percentuali (fig. 6). Ma l’impulso del commercio
dell’allume che proprio dalla metà del XV secolo vede legare
l’area dei monti della Tolfa e lo scalo di Civitavecchia con
le coste della Francia e della Spagna, può considerarsi forse
come elemento di traino per il commercio delle ceramiche,
che sono da considerare sempre come merci di accompagno
(fig. 7). I documenti attestano che i mercanti genovesi, attivissimi nel commercio dell’allume, commerciavano anche
olio da Maiorca e Siviglia, insieme al quale viaggiavano
anche le ceramiche ispano moresche che erano trasportate
all’interno di giare 23.
Successivamente, tra il XVII e XVIII secolo, le ceramiche
attestate sono esclusivamente quelle d’ambito locale. Sono
presenti le produzioni di ceramica da fuoco con rivestimento a
vetrina e dai caratteristici decori in giallo e verde (fig. 8). Queste
ceramiche, che arrivano dai centri produttori posti all’interno
come Vetralla, dimostrano come in questo momento ci sia
una netta diminuzione dei traffici ceramici a lunga distanza.
L’area dei monti della Tolfa, in questa fase cronologica, sembra
isolarsi e non riesce più a trarre profitto delle più ampie rotte
commerciali. Infatti se in altri centri come Corneto, arrivano
ancora prodotti dall’area toscana, come, ad esempio, le tarde
produzioni di graffita da Pisa, queste al momento non sembrano essere presenti nell’area dei monti della Tolfa.
Quindi possiamo affermare, sulla base di questo preliminare riesame delle presenze ceramiche sui monti della Tolfa,
che si spera possa essere ampliato con nuovi rinvenimenti,
che lo svilupparsi del commercio legato all’allume, che portò
ad un riassetto della viabilità, con l’apertura e potenziamento
della direttrice che collegava la zona dei monti della Tolfa
con Civitavecchia e il suo porto e alla nascita di Allumiere,
possa aver trainato anche il commercio delle ceramiche.
Questo è indubbio soprattutto per le produzioni regionali,
come le ceramiche ingubbiate e smaltate prodotte dai vicini centri altolaziali, mentre non sembra, allo stato attuale
delle ricerche, che lo stesso sia avvenuto per le più pregiate
ceramiche smaltate, soprattutto per le produzioni toscane,
come ad esempio quelle montelupine. Di contro l’intensificarsi dei traffici marittimi, dovuti proprio alla scoperta
Sul commercio e navigazione nel Medioevo vd: Tangheroni 1996.
Sulla presenza della ceramica ispano moresca in Toscana vd: Francovich,
Gelichi 1984.
21
23
Per i documenti pisani vd: Berti 1999, pp. 250-251. A Palermo le fonti notarili
parlano di giare piene di stoviglie di Valenza. Platamone, Fiorilla 1999, p. 344.
22
86
Circolazione delle ceramiche nei territori dell’allume tolfetano
dell’allume, può forse essere stato un ulteriore vettore per lo
straordinario commercio della ceramica ispano moresca, così
massicciamente presente nei contesti cornetani 24 e attestata
con discrete percentuali anche nei siti dei Monti della Tolfa.
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English abstract
The study of the ceramics found at Allumiere and Tolfa
allows us to picture the circulation and spread of these materials at the time of the discovery of alum. Trade routes, both
inland and coastal, have to be taken into consideration in
order to understand how these products arrived in this area.
In the mid-15th century, the ceramics conveyed through the
land routes, often linked to the web of large fairs, are above
all the ones produced in a sub-regional context, such as
Umbrian-made graffiti ceramic, the engobe ceramic stemming
from the production centers of Lazio and the more important
glazed ceramic produced by Montelupo, Faenza and Deruta.
To this road network we must add the maritime one, which
involves, at first, the port of Corneto (Tarquinia) linked to the
salt and wheat traffic and subsequently that of Civitavecchia.
The areas affected by maritime traffic are mainly the Tuscan
and Liguria shorelines, to which we must add the French and
Spanish coasts. The written sources attest that the Genoese
merchants, very active in the alum trade, also traded oil from
Mallorca and Seville, with which Hispano Moorish ceramics
also traveled. Between 17th and 18th century, the ceramics are
only locally produced. Therefore, the development of alum-related trade seems to have fostered the diffusion of slipware and
glazed ceramics produced by the nearby upper Latium centers.
Finally, the intensification of maritime traffic, due precisely
to the discovery of alum, could have perhaps triggered the
extraordinary proliferation of Hispano-Moorish ceramics.
24
Per un’analisi delle presenze a Corneto vd: Camardo, Casocavallo
2005, pp. 312-320.
87
Giuseppe Romagnoli*
L’“ALLUME DI FERENTO” E IL “VETRIOLO DI VITERBO”:
CONTINUITÀ DI UNA PRODUZIONE
TR A MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA
The “alum from Ferento” and the “vitriol from Viterbo”.
Continuity of a production between the Middle Ages and the Modern Era
1. INTRODUZIONE
soprattutto nella concia delle pelli, come mordente in tintoria
e nella farmacopea. I suoi utilizzi sono quindi prossimi a
quelli dell’allume di alunite, anche se, rispetto a quest’ultimo, si trattava certamente di un prodotto di minore qualità
(Occhini, Picon 2005, p. 120).
L’area di Ferento-Acquarossa si trova nella valle tiberina a
Nord di Viterbo, al centro di un importante distretto minerario, il cui sfruttamento è attestato a partire dall’età arcaica
in relazione al centro di Colle San Francesco-Acquarossa
(Judson, Östenberg 1983; Zifferero 1991, pp. 219-220)
(fig. 1). La città romana e medievale di Ferento, sorta a
brevissima distanza dall’abitato etrusco, fu occupata continuativamente dall’età repubblicana fino all’ultimo quarto del
XII secolo, ovvero fino alle radicali distruzioni compiute dal
Comune di Viterbo tra il 1170 e il 1172, che ne causarono
il definitivo (Romagnoli 2014). Gli scavi e le ricognizioni
hanno potuto documentare le tracce di una continuità delle
attività siderurgiche in questo lungo arco temporale (Panichi
2011, pp. 99-100; De Minicis 2011; Pavolini, Persia 2011) e
forse ininterrotta, fino alla piena Età Moderna con la presenza
di due ferriere, poste rispettivamente sul Fosso Fornicchio e
sul Fosso Guzzarella e documentate dal XVI-XVII fino agli
inizi del XX secolo. Nelle fasi più recenti il minerale proveniva
dai forni fusori pontifici di Canino e Bracciano (Romagnoli
2014, pp. 176-178).
Minerali ferrosi, sotto forma soprattutto di ocra rossa e di
limonite, sono presenti in diverse località del territorio (Colle
San Francesco-Acquarossa, Monte Piombone) (Panichi
2011, pp. 99-100), ma i due principali giacimenti erano
collocati nelle località Solfatara-Edifizio e Macchia Grande,
rispettivamente 2 km circa a Nord e 3 km circa a Sud della
città romana e medievale (fig. 2). Gli strati mineralizzati
presenti in entrambi i siti sono costituiti da impregnazioni
di solfuri di ferro (marcasite, limonite, pirite) accompagnati
da zolfo nativo e presentano analoghe condizioni di giacitura: gli strati ricchi di minerali ferrosi, di potenza variabile
da alcuni centimetri a qualche decimetro, sono intercalati
ai tufi basali e si trovano naturalmente esposti nelle vallate
profondamente incise dall’erosione dei corsi d’acqua (il Fosso
della Ferriera per Macchia Grande; il Fosso della Solfatara
per l’Edifizio-Solfatara, affluenti del Torrente Vezza), alla
profondità di qualche decina di metri dalla superficie delle
piattaforme (Vighi 1956; Camponeschi, Nolasco 1986, pp.
282-283; Arnoldus-Huyzendveld 1996) 1. L’ossidazione
della marcasite dà origine ad un solfato di ferro – noto con
il nome di “vetriolo verde” o “vetriolo romano” – utilizzato
2. L’ATTIVITÀ DELLE FABBRICHE
DEL VETRIOLO (XVII-XIX SEC.)
Nel corso della seconda metà del XV secolo, dopo la
caduta di Costantinopoli in mano turca e l’interruzione
dell’approvvigionamento di allume, lo Stato Pontificio
incentivò la ricerca di nuovi giacimenti minerari, capaci
di sopperire al fabbisogno interno. Le scoperte effettuate
sui Monti della Tolfa in quegli anni (Delumeau 1962, pp.
13-21; Ait 2014; Passigli, Spada 2014) incoraggiarono ad
estendere le ricerche all’intero territorio del Patrimonio di
San Pietro. In questo contesto si collocano l’individuazione
e il primo sfruttamento delle terre vitrioliche di alcuni siti
della valle tiberina. Il principale di essi si trovava presso
Bagnoregio, in loc. Fonte Capita, ove sorgerà più tardi il
villaggio di Vetriolo. L’attività estrattiva in questo sito iniziò
probabilmente nell’ultimo decennio del XV secolo e proseguì
per buona parte del XVI secolo.
Nel 1567 un’ulteriore manifattura fu avviata dai Monaldeschi
a Montecalvello, un sito collocato circa 20 km a Nord-Est di
Viterbo 2.
Un terzo e più importante polo produttivo si sviluppò
nel corso del XVII secolo nell’area di Ferento-Acquarossa.
La fabbricazione del “vetriolo verde” o “vetriolo romano”
nel sito della Solfatara presso Ferento è documentata con
certezza dalla metà del XVII secolo. Le fonti parlano di una
vera e propria ‘scoperta’ del fiorentino Francesco Attavanti.
Nella sua esperienza maturata nelle miniere di vetriolo
toscane di Gambassi nel territorio di Volterra e di Selvena
nell’Amiata, l’Attavanti aveva perfezionato un nuovo metodo
di lavorazione del minerale e di fabbricazione delle caldaie,
che gli fruttò l’appalto delle fabbriche camerali dal 1644
al 1680 3. Già al momento della sua scoperta il giacimento
presso Ferento era considerato il più importante dello Stato
Pontificio (uberes fodinae vitrioli, ex quibus non solum potest
quotannis fabricari quantitas ei necessaria, sed parari merces
lucrosa, si exteris quoque venalis proponatur) (Barbieri 1940,
* Università degli Studi della Tuscia – DISTU (romagnoli@unitus.it).
1
Per la geologia dell’area: Micheli 1962; Bertini et al. 1971; Brizi,
D’Ambrosi, Di Sabatino 1988.
2
3
89
Occhini, Picon 2005; Baciarello 2006; Baciarello 2012, pp. 137-151.
Per Selvena si veda Citter 2001.
G. Romagnoli
fig. 2 – L’area di Ferento-Acquarossa con la localizzazione dei giacimenti
di Solfatara-Edifizio e Macchia Grande.
fig. 1 – Carta di inquadramento del territorio con le principali località
menzionate nel testo. Le stelle indicano le manifatture del vetriolo
(XV-XVIII secolo).
pp. 97-99, pp. 104-105), e ciò, probabilmente, anche a causa
del progressivo esaurirsi, sul finire del XVI secolo, delle cave
di Bagnoregio (Baciarello 2019, p. 140).
La fase sei-settecentesca della coltivazione dei giacimenti di
Ferento è ricostruibile da un inedito fondo camerale conservato
presso l’Archivio di Stato di Roma, comprendente documenti
contabili ed amministrativi, inventari, mappe della tenuta e
planimetrie delle fabbriche dalla fine del XVII alla metà circa
del XIX secolo, quando le fabbriche cessarono l’attività 4.
Un primo sondaggio su questa documentazione consente di
precisare l’ubicazione delle aree estrattive e degli impianti e di
ricostruire le diverse fasi del processo di produzione.
I primi impianti furono realizzati dalla Camera Apostolica
intorno al 1644 nelle immediate prossimità delle putizze della
Solfatara e del Fosso omonimo, dove erano collocate anche le
aree di estrazione. La posizione di questo primo Edifizio del vetriolo è indicata in una mappa camerale settecentesca (fig. 3) 5.
Essendo divenuta in breve tempo inservibile e incommoda
per le lavorazioni – probabilmente a causa delle esalazioni
dalla solfatara – la fabbrica fu demolita nel 1738 e ricostruita
sulla sommità del vicino Monte Liberto, in sito più eminente,
e più commodo alla miniera, e cava suddette co’ suoi condotti,
e stigli necessarij rifatti di nuovo. Il complesso settecentesco,
rappresentato in diverse mappe della tenuta camerale (figg.
4-5), nelle principali corografie dello Stato Pontificio a partire
dalla fine del XVI secolo (Frutaz 1972, II, tavv. 155, 178, 211,
220) e nei rilevamenti del Catasto Gregoriano 6 – compren-
fig. 3 – Pianta dei terreni spettanti alla R.C.A. adiacenti all’Edificio del
vetriolo, XVII sec., part. (Archivio di Stato di Roma, Camerale II –
Vetriolo, b. 19, mappa allegata. Su concessione del Ministero dei Beni
e della Attività Culturali). La lettera H indica il sito delle fabbriche
seicentesche dirute; in E-F-G il sito della fabbrica settecentesca.
deva, oltre alla vera e propria fabbrica (vasche per il lavaggio
del minerale, caldaie, fabreria e depositi per i materiali e gli
attrezzi), uno stallone con fienile per commodo delle bestie da
lavoro, e stanze per li garzoni, un fontanile parimenti nuovo,
oltre il Casino che attualmente si stà fabricando per abitazione
degli Appaltatori pro tempore con sua Chiesola per commodo de’
medesimi, e di tutti gli operari della Miniera, e Cava 7. Il complesso è tuttora visibile in loc. Edifizio, sebbene notevolmente
alterato da un recente intervento di ristrutturazione condotto
per la conversione in struttura ricettiva (fig. 6).
Il processo produttivo descritto dai documenti camerali
prevedeva la fermentazione delle terre vitrioliche in capannoni coperti e quindi il lavaggio con acqua in quattro distinti
vasconi (paramenti) da cui si otteneva la lisciva depurata
4
Archivio di Stato di Roma, Camerale III – Comuni, Viterbo, b. 2489;
Disegni e piante, Collezione 1ª, cart. 126, nr. 56 (Viterbo, officina del vetriolo,
XVIII secolo), 68 e 79 (fabbrica e terreni del vetriolo, XIX secolo); Camerale
II – Vetriolo, b. 1. Alcuni disegni del XIX secolo sono riprodotti in Bentivoglio
1983, pp. 28-31.
5
Archivio di Stato di Roma, Camerale II – Vetriolo, b. 19.
6
Archivio di Stato di Roma, Presidenza Generale del Censo, Catasto
Gregoriano, Viterbo, F. 179.
7
90
Archivio di Stato di Roma, Camerale III – Comuni. b. 2489.
L’“allume di Ferento” e il“vetriolo di Viterbo”: continuità di una produzione tra Medioevo ed Età Moderna
fig. 4 – Lo stabilimento del vetriolo intorno al 1820, dopo la ristrutturazione progettata dall’architetto camerale F. Navone (rielaborazione da:
Archivio di Stato di Roma, Catasto Gregoriano Viterbo, Fg. 179 Ferento).
archivistica per le fabbriche di Bagnoregio (Grillo, Cipriani
2000; Baciarello 2006; Baciarello 2012).
Le vicine selve camerali di Michignano (presso Grotte S.
Stefano) e Fiojene (nel territorio di Celleno), poste rispettivamente a 2 e a 4 km circa di distanza, erano adibite esclusivamente al rifornimento di combustibile per la fabbrica.
3. GLI ANTECEDENTI DI ETÀ MEDIEVALE:
L’ALLUME “FERENTANO”
Se le fasi sei-settecentesche dello sfruttamento del sito della
Solfatara possono essere delineate con maggiore dettaglio, la
ricostruzione di quelle antecedenti si presenta più difficoltosa.
Tuttavia, un prezioso – per quanto isolato – riferimento documentario nello Statuto comunale di Viterbo del 1251/1252
ad un pedaggio applicato sull’allume de Ferento suggerisce
che già nel corso del XIII secolo i giacimenti dell’area fossero
già in qualche modo sfruttati per ottenere un prodotto dalle
caratteristiche similari a quelle dell’allume, ma, verosimilmente, di minore qualità: esso veniva tassato dal Comune
per 1 denaro per salma, contro i 12 denari dovuti per salma
per l’allume çuccarino (“zuccherino”) e i due solidi per libbra
richiesti per l’allume di rocca (de Castello) 8. Se questa ipotesi
coglie nel vero, la produzione a Ferento potrebbe aver solo
subito un’interruzione in età tardomedievale o rinascimentale, riprendendo su scala industriale con il nome di “vetriolo
di Viterbo” o “vetriolo romano” alla metà del XVII secolo.
Il passo degli statuti viterbesi presenta anche un altro
interesse: evidenzia infatti che lo sfruttamento dei giacimenti
fig. 5 – Pianta delle fabbriche del vetriolo, 1767, part. (Archivio di
Stato di Roma, Camerale III – Comuni, b. 2489, mappa allegata. Su
concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali)
(figg. 7-8). Il liquido ottenuto passava attraverso condotti di
piombo alle caldaie e da qui nei piletti per il raffreddamento
e la cristallizzazione del materiale, che infine veniva stoccato
nel soprastante magazzeno per le fasi di asciugatura (fig. 9).
Un procedimento analogo è illustrato dalla documentazione
8
Egidi 1930, p. 152; Occhini, Picon 2005, p. 120; Romagnoli 2006,
pp. 54-55.
91
G. Romagnoli
fig. 6 – Il complesso
dell’Edifizio dopo i
recenti lavori di ristrutturazione (2016).
fig. 7 – Pianta delle fabbriche del vetriolo, seconda metà del XVIII sec., part. (Archivio di Stato di Roma, Disegni e piante, Coll. I, cart. 126, nr.
56, part. Su concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali): A. Capannone per le terre; B. Intercapedine, ò sia chiavicone scoperto; C.
Vascone per la prima lavatura delle terre del vetriolo; D. Repiani superiori a detto vascone, per posare, e far scolare la terra bagnata; E. Sorgente dell’acqua
allacciata con muri; F. Chiavicone che porta l’acqua alle vasche; G. Vasche da schiarire e spurgare l’acque del vetriolo; H. Vascone grande per riposare
l’acque purgate dov’è il condotto per mandare à bullire l’acqua nelle Caldare; I. Repiano selciato e chiavicone per lo spurgo di tutte le vasche; L. Stanza
delle Caldare, e sopra detta, stanza per gl’omini; M. Stanzoni delli Piletti da Congelare il vetriolo, e sopra detto tutto un gran magazzeno per riporre il
vetriolo fatto; N. Al terreno, stanza per dispensa, e sopra detta vi passa il sopradetto magazzeno grande; O. Bottino grande per la deposizione dell’acqua
del ricotto; P. Chiaviconi sotterranei uno sopra l’altro, e scoli per tenere asciutto lo stanzone delli Piletti; Q. Chiavicone sotterraneo; R. Chiavicone scoperto;
S. Forni, e stanza per gettare le Caldare di piombo; T. Fontanile; V: Stalla; X. Fienile sopra detta stalla; Z. Stanza de li Garzoni.
dagli ultimi anni del XII o dai primi del XIII secolo, il centro
di Ferento e una vasta area circostante risultano confiscate e
poste sotto la diretta gestione delle autorità comunali, con il
divieto di qualsiasi forma di utilizzo da parte di privati, come
veniva decretato dai durissimi provvedimenti decretati degli
Statuti Comunali del 1237/8 e del 1251/2 (Egidi 1930, pp. 58,
199, 203, 245-246, Romagnoli 2006, pp. 52-55). Tali divieti
erano ancora vigenti nella seconda metà del Cinquecento, e
minerari del distretto di Ferento-Acquarossa non si arrestò
dopo le distruzioni dell’abitato effettuate tra il 1170 e il 1172
e il suo definitivo abbandono, che si concretizzò tra gli ultimi anni del XII e i primi del XIII secolo 9; anzi, le attività
estrattive potrebbero aver ricevuto un impulso con l’inizio del
dominio viterbese. Vale la pena sottolineare che, già a partire
9
Sulla distruzione dell’abitato: Romagnoli 2019.
92
L’“allume di Ferento” e il“vetriolo di Viterbo”: continuità di una produzione tra Medioevo ed Età Moderna
fig. 8 – Pianta delle fabbriche del vetriolo dettaglio dell’immagine
precedente con l’area delle caldaie e i relativi forni di fusione (L) (Archivio di Stato di Roma, Disegni e piante, Coll. I, cart. 126, nr. 56. Su
concessione del Ministero dei Beni e della Attività Culturali).
fig. 9 – Pianta dimostrativa della Manifattura del Vetriolo Romano
nella Fabbrica Camerale di Viterbo, 1787-1792 (Archivio di Stato di
Roma, Camerale II – Vetriolo, b. 19, pianta allegata. Su concessione del
Ministero dei Beni e della Attività Culturali).
re della Solfatara, allo stato attuale interdetta per via delle
esalazioni nocive delle putizze.
Non si può escludere, che nel corso del XIII secolo alcune
fasi della lavorazione del minerale potessero essere svolte
proprio nel perimetro dell’abitato abbandonato. Le indagini
archeologiche condotte nell’area prossimità del Teatro e alle
Terme a partire dal 1994 hanno portato in luce le tracce
relative ad una serie di fosse parallele di forma allungata,
scavate negli strati di macerie e alternativamente utilizzate nel
corso del XIII secolo, che sono state suggestivamente poste in
connessione con le fasi di evaporazione e cristallizzazione del
minerale 10 (fig. 10); ma anche questo aspetto sarà meritevole
di un ulteriore approfondimento e rilettura con la prosecuzione delle campagne di scavo nell’area urbana di Ferento.
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solo sul finire del XVIII secolo la tenuta comunale di Ferento
fu ceduta a privati (Romagnoli 2019).
4. CONCLUSIONI
Da quale dei due giacimenti dell’area di FerentoAcquarossa sopra menzionati proveniva il minerale menzionato dagli statuti medievali viterbesi? Diversi indizi portano
al giacimento dell’Edifizio-Solfatara, sede della fabbrica
camerale sei-settecentesca: esso è vicinissimo a Ferento (poco
più di un kilometro in linea d’aria) ed è collegato all’area
dell’abitato da un agevole percorso carrabile, certamente in
uso tra l’Antichità ed il Medioevo e ricalcato in Età Moderna
dalla carrareccia per Grotte S. Stefano (Romagnoli 2014,
pp. 170-172). Questa ipotesi andrà verificata alla luce di più
ricognizioni analitiche e prospezioni nella zona delle minie-
10
Maetzke et al. 2001, p. 312; Occhini, Picon 2006, p. 122; De Minicis
2011, pp. 91-92; per il contesto: Romagnoli 2014, pp. 27-42.
93
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English abstract
The roman and medieval town of Ferento is located in
the Tiber valley about 10 km north of Viterbo, at the heart
of an important mining area, whose exploitation, attested
since the Etruscan period, continued in roman and medieval period, even after the destruction and abandonment of
the settlement caused by the destruction carried out by the
Viterbese between 1170 and 1172. The municipal statute
of Viterbo of 1251/1252, which refers to a toll applied on
a “Ferento alum”, suggests that during the 13th century the
iron sulphate deposits of Solfatara and Macchia Grande,
located at a very short distance from the medieval town,
were exploited to obtain a product with characteristics similar to those of alum, but probably of lower quality. After a
break, the production resumed with the name of “vetriolo
di Viterbo” or “vetriolo romano” in the mid-17th century.
The archival documentation allows us to follow the events
of the manufacture, from the building of the factories of the
Camera Apostolica in 1644 to their definitive disposal during
the second half of the 19th century.
94
Andrea Zifferero*
ARCHEOLOGIA DELLE MINIERE E DELL’INDUSTRIA
SUI MONTI DELLA TOLFA (ROMA): CONOSCENZE STORICHE,
CRITICITÀ E PROSPETTIVE DI VALORIZZAZIONE
Archaeology of mines and production in the Tolfa mountains (Rome):
historical knowledge, issues and opportunities of valorization
1. UNA STORIA NASCOSTA
di diversi studiosi locali: questi hanno concentrato gli sforzi
nel tentativo di restituire una giusta dignità al distretto, protagonista di vicende storiche di primo piano, dove i minerali
non metallici (l’alunite) e quelli metallici (principalmente la
galena argentifera e la limonite), avrebbero giocato un ruolo
decisivo nello sviluppo del comparto, in un flusso ininterrotto dalla Protostoria agli anni del secondo dopoguerra. Tale
approccio, difettoso sotto il profilo archeominerario e più
in generale sotto quello estrattivo e tecnologico, è generato
dall’equivoco di ritenere la storia il frutto di cicli continui
che si ripetono, sullo sfondo di una “corsa all’oro” simile a
quella che ha investito molti Stati del Nord-ovest americano
nell’Ottocento 3.
Con l’avvio di ricerche archeominerarie ed archeometallurgiche, sia pure non sistematiche, il quadro è oggi meno
opaco sull’effettivo interesse delle comunità protostoriche, in
particolare nell’età del Bronzo, per i giacimenti di solfuri misti
e forse, ma sempre in modo indiretto, per quelli di alunite; tra
l’età del Ferro e il periodo etrusco l’attenzione per il bacino
minerario sarebbe contenuta, come suggeriscono i dati dal
sito costiero alla Castellina del Marangone, limitati a scorie
di forgia indicanti l’attività di fabbri ferrai, in un contesto che
doveva fare i conti con l’incipiente ed invasiva distribuzione
dell’ematite elbana lungo le rotte alto- e medio-tirreniche 4.
Se la siderurgia del periodo romano sembra servirsi del
minerale elbano almeno fino alla metà del I secolo a.C.,
qualche dato raccolto senza controllo archeologico ripropone
il problema del rapporto tra signoria medievale e coltivazione
dei giacimenti metalliferi: un tema che è stato affrontato con
un robusto impianto di metodo nella Toscana meridionale e
centro-occidentale, ma che offre ancora contorni evanescenti
sui Monti della Tolfa 5.
I Monti della Tolfa conservano una storia nascosta: non
perché il distretto sia stato trascurato da ricerche archeologiche, storiche o ambientali e neppure per l’assenza di volontà
nelle Amministrazioni locali, che vorrebbero rilanciare la propria immagine, oggi marginale nell’economia della Regione
Lazio, anche attraverso il patrimonio minerario 1.
Una storia nascosta, perchè la sua sostanza può emergere
soltanto da un uso avvertito e consapevole di metodi di ricerca e fonti documentarie, a fronte della più grande impresa
di età preindustriale dell’Italia centrale, di fatto inghiottita
dalla spirale del tempo e dalla vegetazione, che ha ricoperto
cave, compromesso gallerie, sgretolato muri e avvolto opifici
(figg. 1-2).
Il quadro dei Monti della Tolfa rappresenta infatti in modo
esemplare quei bacini minerari dove i picchi di popolamento
e produttività si sono alternati a periodi di stasi, dovuti alle
contingenze dell’industria e dell’assetto geopolitico: lo sviluppo locale ha conosciuto forme di continuità, interruzioni
e mutamenti improvvisi, fino alla ripresa coincidente con
il periodo finale della rivoluzione industriale, sincronica,
tuttavia, con la sintesi artificiale dell’allume; un fattore che
ha indotto una progressiva perdita di interesse verso i giacimenti di alunite, protagonisti tra la metà del Quattrocento
e il Settecento di un’eccezionale impresa tecnologica e finanziaria, governata in modo incerto dalla Reverenda Camera
Apostolica 2.
La cornice entro cui si collocano i dati tolfetani è in larga
misura frutto del lavoro, appassionato ma talvolta fuorviante,
* Università di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali
(andrea.zifferero@unisi.it).
1
Per un quadro di sintesi sul bacino minerario, cfr. i contributi in Fedeli
Bernardini 2000.
2
La bibliografia sulle imprese minerarie tolfetane è vastissima: un profilo
generale dei giacimenti minerari in Camponeschi, Nolasco 1978; per gli aspetti
storici dell’impresa dell’allume sono fondamentali Barbieri 1940; Delumeau
1990 (traduzione italiana dell’opera originale del 1962) e Nenci 1982; per una
sintesi sul patrimonio di archeologia industriale si rimanda a Di Carlo et al.
1984; sulle cave di alunite cfr. Regione Lazio 2007, pp. 65-77 (Renato Sansa);
un lavoro di grande pregio, che ha avuto il merito di suscitare l’attenzione degli
studiosi sull’area, è quello di Rinaldi 1978, scritto con passione ma con un taglio
storiografico eccessivamente condizionato dall’ambiente locale; sul comparto
vedi anche Santacroce 2014. Per i documenti che anticipano almeno al 1371
l’attività delle cave intorno all’Eremo della Trinità e alla Farnesiana, cfr. Ait 2014,
con bibliografia, ed ora Dallai, Ait, Ponta 2018, pp. 214-220. Il recentissimo
scavo della prima cappella dei minatori alla Bianca, costruita dopo la metà del
Quattrocento in prossimità della lumiera superiore, è descritto in Vallelonga
2012a. sui caratteri minerogenici e chimici dell’alunite e sull’impiego dell’allume
dalla Protostoria al Medioevo vedi Borgard, Brun, Picon 2005.
3
Un esempio di tale tendenza è espressa in Berardozzi, Cola, Galimberti
2018, ultimo di vari contributi che, pur presentando una pregevole documentazione storica e/o di archeologia industriale, vanno considerati con cautela
nell’interpretazione dei dati mineralogici e geologici.
4
Per l’identificazione di coltivazioni minerarie mirate ai solfuri misti nei
periodi protostorico e tardo-etrusco (?) si rimanda da ultimo a Giardino et al.
2014, con bibliografia; sull’estrazione dei solfuri misti e dell’alunite in età etrusca
mi sia consentito il rinvio a Zifferero 1991, 1996a, 2017, con bibliografia;
sull’alunite cfr. anche Lo Schiavo 2005; Sulla lavorazione del ferro da lingotti
di incerta provenienza (probabilmente elbana) alla Castellina del Marangone,
vedi Zifferero 2008; von Hase 2011; Giardino 2011.
5
Sulla fine dell’impiego dell’ematite elbana in età romana, vedi Dallai
2016, pp. 100-105, con bibliografia; Corretti 2017. In generale sul periodo
romano e medievale, cfr. Zifferero 1995 e Nardi Combescure 2002; per il
fenomeno dell’incastellamento locale, è ancora valido Tron 1982; sul rapporto
tra siti incastellati e miniere cfr. Brunori 1984, 1985, da consultare con cautela.
Per il rapporto tra signoria medievale e coltivazione dei giacimenti in Toscana
95
A. Zifferero
fig. 1 – Carta del popolamento nel bacino minerario tolfetano con la localizzazione delle principali cave e miniere coltivate nel Quattrocento.
Simbologia: 1 = centro abitato; 2 = centro di dimensioni minori; 3 = tracce di insediamento; 4 = santuario; 5 = cappella; 6 = cava di alunite a
cielo aperto; 7 = cappellacci ferriferi e giacimenti di solfuri misti; 8 = attività di metallurgia estrattiva. Topografia: 1 = Tolfa; 2 = Eremo della
Trinità; 3 = Cava della Concia (lumiera inferiore?); 4 = tracce di insediamento presso la futura Cappella Grande di Agostino Chigi; 5 = Cava della
Bianca (lumiera superiore?); 6 = Cappella della Selva di Cibona; 7 = Montelumbricum? (Poggio Ombricolo); 8 = giacimento di solfuri misti a SE
di Poggio Ombricolo; 9 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti ai Pozzi; 10 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti a quota 202; 11 = cappellaccio
ferrifero ad E della Roccaccia; 12 = Castrum Ferrarie; 13 Tulfa nova (fonte: Zifferero 1996c).
96
Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma)
fig. 2 – Carta del popolamento nel bacino minerario tolfetano con la localizzazione delle principali cave e miniere coltivate tra l’Ottocento e il Novecento.
Simbologia: 1 = centro abitato; 2 = centro di dimensioni minori; 3 = case di minatori abbandonate; 4 = santuario; 5 = cappella; 6 = santuario obliterato;
7 = opificio; 8 = opificio obliterato; 9 = cava di alunite a cielo aperto; 10 = cava di alunite a cielo aperto, nuovamente coltivata; 11 = miniera di alunite
in galleria o perforazione; 12 = cava di caolinite (quadrato) e cava di caolinite ed alunite (quadrato nel cerchio) 13 = cappellacci ferriferi e giacimenti
di solfuri misti. Topografia: 1 = Allumiere; 2 = Tolfa; 3 = La Bianca; 4 = Eremo della Trinità; 5 = Cava del Castagneto; 6 = Miniera dell’Orrore; 7 =
Cava della Trinità; 8 = case dei minatori presso la Cava Grande; 9 = villaggio delle Cave Vecchie; 10 = Cava Gregoriana (o Cavarella?); 11 = Miniera
Provvidenza; 12 = Cava Rotella; 13 = Miniera delle Trincere; 14 = Cava della Castellina; 15 = Cavetta; 16 = Cappella di Santa Maria delle Grazie; 17
= Cava di Mario in Val Perella; 18 = Edificio della Concia; 19 = Miniera di Santa Barbara; 20 = Cava Tosti; 21 = Cava di caolino alla Bianca; 22 =
Cappella Grande di Agostino Chigi; 23 = Cappella della Selva di Cibona; 24 = Chiesa di Santa Maria di Cibona; 25 = Cava Gangalandi o Cavaccia;
26 = Chiesa di Santa Maria della Sughera; 27 = cappellaccio ferrifero sotto Cibona; 28 = Forno del ferro sotto Cibona; 29 = Edificio del Ferro; 30
= giacimento di solfuri misti a SE di Poggio Ombricolo; 31 = Edificio del Piombo; 32 = Cava del Piombo; 33 = Ribasso vecchio?; 34 = Edificio dei
Pozzi; 35 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti ai Pozzi; 36 = cappellaccio ferrifero e solfuri misti a quota 292; 37 = cappellaccio ferrifero ad E della
Roccaccia; 38-39 = cappellacci ferriferi e solfuri misti di Pian Ceraso; 40 = Forno del ferro di Pian Ceraso (fonte: Zifferero 1996c).
97
A. Zifferero
fig. 3 – Panoramica del grande fronte di estrazione a cielo aperto della
cava di alunite del Moro (Allumiere) (XV secolo).
fig. 5 – Dettaglio del fronte di estrazione della figura precedente: in
evidenza, i segni di strumenti a mano (picca o piccone) e buco di palo.
fig. 6 – Dettaglio del fronte di estrazione a cielo aperto nelle Cave
Vecchie (Allumiere), con impronte di cannelli da mina (XVIII secolo).
cazione del controllo sui giacimenti da parte della Reverenda
Camera Apostolica, che governerà dal 1462 gli appalti per
l’estrazione dell’alunite e dei solfuri misti, riscuotendo proventi sostanziosi dai contratti di affitto delle cave 6.
La prima a risentire gli effetti di tale concentrazione (con
le restrizioni sull’uso delle selve e sui pascoli nelle tenute
camerali) è l’estrazione signorile, mirata ai solfuri misti
piombo-argentiferi: nell’unico caso finora indagato, essa è
incentrata sul controllo diretto dei filoni, attraverso il castrum
Ferrarie, un borgo eretto in corrispondenza delle miniere di
galena, all’interno del quale dovevano trovarsi i forni per la
riduzione del minerale, secondo un modello produttivo ben
ricostruito in Toscana 7.
Il vero salto di qualità nella documentazione storica avviene, tuttavia, con l’avvio dell’estrazione dell’alunite, nella
storia dell’impresa come in quella della tecnologia, nell’organizzazione delle comunità operaie come nelle forme del
culto, nella produzione agricola come nel taglio delle selve:
fig. 4 – Fronte di estrazione a cielo aperto nel versante occidentale della
Cava del Moro (Allumiere), con tracce di lavorazione a mano e buco
di palo per sorreggere un ponteggio (XV secolo).
Di pari interesse è l’impatto prodotto dalla scoperta dei
giacimenti di alunite sul tessuto dei castelli e dei borghi fortificati dell’area: la concentrazione dei lavori e delle attività
economiche all’interno del bacino minerario conduce ad un
sostanziale collasso dell’incastellamento basso-medievale: in
altri termini il sistema signorile locale non resiste alla rivendi-
6
Nardi Combescure 2002, con bibliografia; Vallelonga 2006a, 2006b,
2012b.
7
Sul castrum Ferrarie cfr. Brunori 1984 ed ora Berardozzi, Cola,
Galimberti 1998; per il sistema signorile di produzione metallurgica in Toscana,
si rinvia a Francovich et al. 1989; Benvenuti et al. 1992; Cortese 2014, con
bibliografia; sulle innovazioni delle tecniche estrattive e metallurgiche nel periodo
mediceo, cfr. adesso Farinelli 2017.
vedi Casini, Francovich 1993; Francovich, Farinelli 1994; Cambi, Cavari,
Mascione 2009; Cortese 2014, con bibliografia; Dallai 2016, con bibliografia.
98
Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma)
a partire dalla metà del Quattrocento si innesca un processo
che stravolge il sistema di popolamento basso-medievale e
crea le premesse per lo sviluppo successivo, fino a fissare la
forma e l’assetto contemporaneo del comprensorio (figg. 3-6).
L’attività estrattiva ha prodotto una mole impressionante
di documentazione, raccolta nel fondo Camerale III presso
l’Archivio di Stato di Roma, che attende di essere compulsata
nel suo vastissimo potenziale di informazioni per la geografia
storica, la storia economica e l’archeologia industriale, così
come per l’archeologia della produzione, la storia della tecnologia, le scienze sociali.
Nè, occorre aggiungere, ha giovato granchè al comparto
l’unica e isolata attenzione che esso ha ricevuto sotto il profilo ambientale negli anni Ottanta del Novecento, con la
redazione del piano di fattibilità per un Parco Regionale dei
Monti della Tolfa, mai istituito (e accettato dalle comunità
locali): è anche vero che mancava allora una sensibilità per
la storia globale, essenziale per considerare l’ambiente come
un contesto mutevole, vero teatro di attività delle comunità
umane 8.
Questa spinta antropica ha costruito il paesaggio, di volta
in volta percepito come paesaggio agrario e/o minerario, a
seconda dei periodi di recessione o di utilizzo più o meno
intenso delle risorse minerarie; soltanto in tempi recenti
si è fatta strada l’idea che l’ambiente possa avere una sua
evoluzione storica, indotta e modificata dall’uomo: si veda
al proposito la diffusione locale dell’areale di coltura del
castagno, analizzata dallo scrivente in rapporto con l’incastellamento medievale; un fattore che dimostra il nesso tra
il miglioramento colturale della specie e la distribuzione
dei siti monastici e signorili 9. Gli effetti negativi provocati
dall’assenza di un metodo corretto e integrato di ricerca
multidisciplinare hanno condizionato ogni tentativo di
valorizzare il comprensorio, in un contesto peraltro suggestionato dalla rimozione che le comunità hanno fatto del
passato minerario, inquadrandolo nelle aule scolastiche
alla stregua di un filone archeologico pari a quello delle
necropoli protostoriche o delle tombe etrusche di cui è
ricco il comparto 10.
La ricerca antropologica recente ha fatto emergere il
bisogno di “cannibalizzare” il proprio vissuto: la rimozione
dell’esperienza della miniera è spesso inevitabile nel patrimonio collettivo, tanto forte è il carico di negatività che tale
forma di produzione comporta nei minatori e nelle comunità
di appartenenza 11.
È però evidente come la concentrazione delle attività
estrattive, in poco più di trecento anni di storia mineraria,
abbia portato i Monti della Tolfa al centro di sperimentazioni e di processi di innovazione tecnologica di notevole
interesse, da ritenersi pietre miliari nella tecnologia dell’età
preindustriale: vale la pena ricordare, per l’abbondanza di
fonti documentarie, lo sviluppo della tecnica di spurgo delle
acque dalle platee delle cave a cielo aperto o l’introduzione
della polvere da sparo per apprestare le mine da cava (a circa
metà del Cinquecento), oppure ancora il passaggio dalla
coltivazione del minerale con i ponteggi su parete verticale
alla coltivazione in galleria, attraverso una fase intermedia
(riferibile al Seicento), definita dalle fonti come lavoro a
grottesco, consistente nell’asportazione in parete della polpa
dei filoni alunitiferi, attraverso larghe aperture a cui spesso
non corrispondeva un successivo lavoro di regolarizzazione
del fronte di cava. I rapporti degli architetti camerali sono
infatti ricchi di descrizioni di cave sgrottate in parete e sfondettate nella platea, ad opera di appaltatori desiderosi di
ricavare il massimo profitto dal contratto di estrazione, con
l’effetto di trascurare i lavori di regolarizzazione dei fronti e
di ribasso delle platee, pure richiesti dai termini dell’accordo. L’insuccesso di un’attività che avrebbe potuto acquisire
dimensioni più cospicue e durature nel tempo è dovuto
all’incapacità della Reverenda Camera Apostolica di mantenere gli appaltatori entro i binari di un corretto impiego
della tecnica estrattiva: allo scadere del contratto la cava era
di solito in condizioni così critiche che i successivi appaltatori preferivano attivare nuovi lavori di ricerca, piuttosto
che mettere in atto costosi scavi di ribasso delle platee e di
regolarizzazione dei fronti di cava, resi oltretutto pericolosi
dai crolli frequenti (slamature) 12.
Una diversa perizia viene posta, al contrario, nel perfezionamento delle tecniche di raffinazione del minerale, suddivise
nelle quattro fasi della calcinazione, della macerazione, della
lisciviazione e della cristallizzazione, che attendono ancora di
essere indagate sotto il profilo tecnologico: sappiamo infatti
che il sistema delle piccole caldaie di rame per la lisciviazione del minerale di alunite, qui introdotto nel 1690 in
sostituzione delle grandi caldaie in bronzo, era ricordato tra i
contemporanei come esempio di tecnologia di avanguardia 13.
Un altro potenziale canale di ricerca è legato al rapporto
tra centri urbani, cave, miniere e opifici: non tanto a Tolfa, il
cui sviluppo è incardinato nel Rinascimento sul tessuto di età
medievale, che esprime la classica forma dell’incastellamento,
quanto nel caso di Allumiere, dove l’impianto originario
del centro è stato progettato agli inizi del Cinquecento in
funzione dell’estrazione dell’alunite ed è poi cresciuto come
centro di raffinazione del minerale e di supporto logistico
all’attività mineraria, in una valle disposta tra i monti aluminosi: il Faggeto, il Monte Maggiore, il Poggio Elceto e il
Monte Roncone (oggi Monte delle Grazie) 14.
12
Alcuni approfondimenti sulla storia della tecnologia e sulla possibilità
di documentarne effetti e applicazioni attraverso l’archeologia mineraria in
Morelli 1996; Zifferero 1996b; Candelori 2000; per le carte di periodo
dell’attività mineraria sui Monti della Tolfa, cfr. Zifferero 1996c; cartografie
commentate anche in Pompei 1933; Rinaldi 1978, 1985; sulle tecniche estrattive
in Età Moderna vedi Farinelli 2017, pp. 111-137 e, con riferimento al comparto
tolfetano, Carloni, Doronzo 2018.
13
Di Carlo et al. 1984, pp. 40-50.
14
Per lo sviluppo urbano di Tolfa è ancora attuale Morra 1979; le vicende
storiche ed estrattive legate alla nascita di Allumiere sono in Rinaldi 1978;
Brunori 1985; gli aspetti urbanistici sono trattati in Genovesi 2000 (scheda
di Claudio Gentili).
Per il piano di fattibilità del Parco Regionale dei Monti della Tolfa, cfr.
Contoli, Lombardi, Spada 1980; un esempio di trattamento separato dei dati
ambientali rispetto al paesaggio antropico dei Monti della Tolfa in Faraglia,
Riga 1997. Sulla funzione dell’archeologia come indicatore per leggere il dissesto
idro-geologico in un parco possibile sui Monti della Tolfa, vedi Zifferero 1999;
per una lettura integrata delle risorse boschive locali nella storia dell’industria
mineraria, cfr. ora Passigli, Spada 2014.
9
Zifferero 1999b.
10
Zifferero 1996b.
11
Sulla memoria storica nei distretti minerari cfr., p. es., Contini 1996 e
Cannada Bartoli 2000, limitatamente all’area in esame.
8
99
A. Zifferero
2. L’ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE
NELLE TESTIMONIANZE DEI NATUR ALISTI
E NEI MANUFATTI (DAL CINQUECENTO
ALL’OTTOCENTO)
Un altro problema riproposto in letteratura, sia pure
in modo cursorio ma in veste finalmente scientifica, è la
presenza in zona dell’ematite, nelle varietà lamellare e macrocristallina (oligisto): questo minerale, di inequivocabile
origine elbana, era impiegato in supporto alla limonite
locale negli impianti siderurgici tolfetani, a partire almeno
dal Duecento e Trecento, come hanno sottolineato recenti
indagini archeometallurgiche, con un picco di intensità tra
Cinquecento e Seicento 19.
La necessità di incrementare il tenore metallico della vena
di ferro tolfetana è un dato ricorrente nelle cronache e nei
documenti d’archivio; un fenomeno emerso, del resto, in
molti siti basso-medievali della Toscana, attraverso indagini
archeometallurgiche a fianco dell’intervento archeologico:
in questi casi si legge con chiarezza la necessità di migliorare la resa qualitativa del metallo, ottenuto con l’uso dei
cappellacci limonitici di alterazione delle mineralizzazioni
a solfuri misti 20.
Nel bacino metallifero tolfetano, l’afflusso dell’ematite
elbana sembra addensarsi intorno a due fasi principali: una
prima basso-medievale, rivelata da un impianto siderurgico
scavato di recente nel sito di Cencelle e probabilmente anche
da ematite proveniente dal castrum Ferrarie; una seconda, di
età rinascimentale e barocca, testimoniata da fonti d’archivio
dell’Ospedale romano di Santo Spirito in Sassia, che acquisiva
ematite elbana per alimentare una ferriera attiva nell’area di
Manziana, della cui produzione resta traccia nei documenti
dell’Archivio Segreto Vaticano e nei resti monumentali segnalati per la prima volta negli anni Sessanta del Novecento 21.
L’ematite destinata alla ferriera di San Spirito alla Mantiana
giungeva al porto di Santa Severa: qui è stata localizzata in
abbondanza nello specchio d’acqua antistante lo scalo da
recenti ricerche subacquee 22.
La cospicua diffusione dell’ematite nella media valle del
Mignone ci illumina sulla dinamica del trasporto del minerale grezzo all’interno, indiziando le presumibili stazioni
di cambio del trasporto (o più verosimilmente di arrostimento, in considerazione dell’estesa copertura vegetale):
vi si rinvengono infatti in superficie masselli anche nella
varietà dell’oligisto, per i quali persiste l’equivoco, da parte
degli studiosi locali, che siano frutto della minerogenesi del
settore (che peraltro ha un substrato a flysch di chiara origine
Per capire a fondo la consistenza del patrimonio industriale
dei Monti della Tolfa occorre sottolineare come esso abbia
prodotto una documentazione di rilievo nella storia della tecnologia: basti pensare all’interesse dei naturalisti seicenteschi
e settecenteschi, che hanno lasciato corografie di dettaglio (in
particolare quella di Pier Maria Cermelli, stampata a Napoli
nel 1782, con rappresentazione ingrandita dell’area estrattiva
dei solfuri misti, a Sud della Bianca), cioè vere e proprie carte
di periodo dell’attività mineraria che suppliscono alla ancora
limitata conoscenza del materiale d’archivio. La tendenza
tutta illuminista di produrre descrizioni accurate da parte
dei naturalisti e dei geografi ha di fatto moltiplicato le fonti
documentarie sui progressi delle tecnologie nei settori della
geologia e mineralogia e delle tecniche estrattive 15.
Resta insuperata l’opera di Scipione Breislak (1786) sulla
natura e i caratteri dei depositi minerari della Tolfa: una
descrizione accurata degli aspetti minerogenici ed estrattivi
dell’alunite, utile, tra l’altro, per collocare con relativa precisione le prime cave attivate nella zona circostante Tolfa e
quelle alla Bianca (cosiddette “lumiera inferiore” e “lumiera
superiore”): è comunque evidente come l’apporto maggiore
del testo risieda nel valore epistemologico e nel metodo di
indagine applicato alle scienze naturali 16.
Argomenti che meritano adeguati approfondimenti
derivano dalla ricerca sulle tecniche seicentesche e settecentesche di prospezione e coltivazione dei filoni metalliferi: si
può infatti osservare come la strategia di ricerca e scavo a
cielo aperto, di solito adoperata nell’estrazione dell’alunite,
preceda quella in galleria nella coltivazione della galena argentifera: un metodo peculiare per i solfuri, che si riscontra
nelle coeve attività estrattive delle Colline Metallifere (Monti
di Campiglia), dove è stato praticato nella Cava del Piombo
presso Monte Calvi 17.
Un elemento di forte interesse è la presenza di minatori
sassoni, richiamati nel Settecento per risolvere problemi di
ingegneria mineraria che la tecnica di scavo a cielo aperto non
riusciva a superare nella ricerca e coltivazione dei solfuri misti:
sarebbe costruttivo tentare un’analisi condotta con i metodi
dell’archeologia mineraria, per determinare l’effettiva portata
di questi interventi nell’area più meridionale del bacino minerario tolfetano, con l’ausilio dei documenti d’archivio e dei
testi di naturalistica, contenenti la nomenclatura dei pozzi e
delle gallerie di raccordo scavate dai Sassoni 18.
cunicoli, è efficacemente avanzata in Felicioni 2000; ulteriori informazioni su
questa presenza in Fornander 1989. Per la documentazione archeomineraria
superstite, cfr. ora Tamagnini 1999.
19
La distribuzione medievale e moderna dell’ematite elbana sulle coste del
Lazio, in forma di minerale crudo, deve essere ancora inquadrata dalla ricerca
storica, tecnologica ed archeomineraria: per una utile sintesi, anche se molto
datata, cfr. Ilva 1938. Per alcuni aspetti della presenza del ferro elbano nel bacino
minerario tolfetano, si rinvia a Zifferero 1991, 1992; i risultati delle indagini
archeometallurgiche sul materiale semilavorato da Cencelle in La Salvia 2000,
2014 con bibliografia. Sui giacimenti ferriferi dei Monti della Tolfa è ancora
fondamentale Ferrini 1975.
20
Per la tecnica di arricchire il tenore metallico della limonite dei giacimenti
delle Colline Metallifere con l’ematite elbana, cfr. Francovich et al. 1989;
Benvenuti et al. 1992; Cucini Tizzoni, Tizzoni 1992.
21
La Salvia 2000; per l’ematite dai dintorni del castrum Ferrarie, cfr.
Berardozzi, Cola, Galimberti 1998, p. 11.
22
Sullo scalo dell’ematite elbana a Santa Severa e il rapporto con la ferriera
di Manziana, un cenno in Zifferero 1991, nota 49; la ferriera di Manziana
è segnalata in Vecchiarelli 1962-63 e Cavallini 2006. Per l’identificazione
di un relitto carico di ematite elbana nello specchio d’acqua antistante Santa
Severa, cfr. Enei 2008, pp. 57; 65; 87-88 n. 42, con bibliografia.
15
Cermelli 1782: questa cartografia è trascritta in Berardozzi, Cola,
Galimberti 1998, pp. 137-142; tra gli studi del periodo vedi anche Morozzo
1791 e i documenti seicenteschi e settecenteschi trascritti in Morra 1979,
provenienti da archivi locali.
16
Sull’identificazione della lumiera inferiore e della lumiera superiore si
veda Brunori 1985.
17
Per la tecnica di estrazione a cielo aperto dei solfuri misti nei giacimenti
del Campigliese, cfr. Casini 1993; Cascone, Casini 1997; Farinelli 2017,
pp. 111-137.
18
Il contributo tecnologico portato dai Sassoni nel bacino tolfetano è
impostato in Cavallini 2000, anche per gli aspetti della metallurgia estrattiva
desumibili dagli opifici sopravvissuti; un’interpretazione negativa di questo
apporto, ben visibile nella tecnica di coltivazione del filone attraverso pozzi e
100
Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma)
fig. 7 – I resti dell’Edificio del Piombo, presso Poggio Ombricolo
(Allumiere) (XVIII secolo).
fig. 8 – Diagramma schematico delle relazioni tra archeologia del
paesaggio ed archeologia del paesaggio minerario.
marina); equivoco alla radice di errori passati nella letteratura
specializzata, sempre difficili da sradicare 23.
In tale contesto un ruolo di primo piano è comunque
svolto dai forni fusori degli Orsini, che intorno alla metà
del Cinquecento assorbivano una quota rilevante del flusso
di ematite elbana: il minerale arrivava via mare a Palo, nel
territorio del Ducato di Bracciano; nel Seicento l’attività
siderurgica era stata elevata a vera e propria impresa, con
un sostanzioso impegno economico riversato nelle ferriere
di Cerveteri e Bracciano, grazie al matrimonio di Isabella
Appiano con Paolo Giordano Orsini 24.
L’ematite elbana è stata adoperata anche nella fase conclusiva della siderurgia tolfetana, alla metà dell’Ottocento,
per incrementare il tenore metallico della limonite estratta a
Pian Ceraso e trattata nell’altoforno di Cibona, sottostante
l’abitato di Tolfa 25.
In ogni caso, la sollecitazione indotta sul bacino tolfetano
dalle numerose imprese estrattive e soprattutto metallurgiche del ferro e del piombo (a partire dalla seconda metà
del Cinquecento, fino a circa la fine del Settecento) è stata
fortissima: quasi tutte con esito negativo, tali imprese si sono
indirizzate da una parte alla coltivazione della limonite locale,
dall’altra alla coltivazione dei solfuri misti (in particolare la
galena argentifera). Una discussione sul significato storico di
questo fallimento si è aperta di recente: i resti monumentali
delle attività metallurgiche (ferriere come quella alla caduta
del fosso del Caldano, portata da poco all’attenzione degli
studiosi, tramogge per la pesta del minerale alimentate ad
acqua e forni per la fusione del piombo, come gli edifici
collocati alla base del Monte Casalavio e presso il Poggio
Ombricolo), costituiscono esempi di archeologia industriale
di eccezionale interesse per lo studio della tecnologia di Età
Moderna 26(fig. 7).
3. IL BACINO MINERARIO DEI MONTI
DELLA TOLFA COME PARCO DELLE TECNICHE
A fronte delle potenzialità del bacino minerario, i dati
disponibili sotto il profilo dell’archeologia industriale, dell’archeologia mineraria e dell’archeometallurgia sono gravemente
lacunosi: una recente analisi dell’archeologia industriale in
area ha ancora una volta perso l’occasione per ricucire una
materia eterogenea, ricca di chiavi di lettura diverse 27.
Ciò che emerge è soprattutto l’incapacità di considerare i
luoghi e i laboratori della produzione in relazione ai processi
della storia: l’archeologia industriale diventa così un metodo
d’indagine mirato più al rilievo e alla documentazione dei
contenitori che al paesaggio minerario nella sua complessità
tecnologica e ambientale.
Il paesaggio delle cave e delle miniere conferisce tuttora
una forte impronta alla parte più elevata dell’acrocoro tolfetano: questo settore, interessato dall’estrazione dei solfuri di
ferro ancora nella seconda guerra mondiale, è stato oggetto
di una precatalogazione da parte dell’Istituto Centrale per
il Catalogo e la Documentazione, mentre alcune ricerche
mirate ne hanno indagato la topografia archeomineraria, in
rapporto con l’impianto di nuove cave e miniere e il mantenimento o l’abbandono di quelle esistenti 28.
Manca in ogni caso una lettura complessiva del paesaggio
minerario, fatto di sopraterra e sottosuolo e di relazioni tra i
luoghi di lavorazione in superficie e quelli sotterranei: nello
schema di sintesi che si propone, emerge la necessità per la
ricerca archeologica (ma anche storica), di restituire un’im-
23
Si veda al proposito Brunori, Mela 1990, seguito da Berardozzi,
Cola, Galimberti 1998, pp. 18 s., dove l’ematite è confusa con la pirite. Per il
rapporto, tutto da verificare, tra le scorie siderurgiche (anche di forgia) dall’area
urbana di Cerveteri e i giacimenti tolfetani di ferro, cfr. ora Guidi, Troisi 2002.
24
Alcune osservazioni sul flusso dell’ematite elbana nel Ducato di Bracciano
in Zifferero 1990. Per gli aspetti produttivi delle ferriere locali, cfr. Toscano,
Prezioso 1996; manca tuttora una trattazione esaustiva di questi opifici,
situati in particolare nell’area di Cerveteri: sul tema vedi Cavallini 2006, con
bibliografia.
25
Sull’impiego di ematite elbana, accanto alla limonite locale, nell’altoforno di Cibona, cfr. Giordano 1864, p. 328; molti aspetti (anche storici) della
siderurgia ottocentesca promossa dalla “Società Romana delle Miniere di Ferro
e sue lavorazioni” sono raccolti in Klitsche de La Grange 1882; cfr. anche
Zifferero 1991, nota 30.
26
I resti monumentali delle attività metallurgiche sono ancora mal conosciuti, ad eccezione forse della settecentesca fonderia (Edificio del Piombo), posta
presso il Poggio Ombricolo: Di Carlo et al. 1984, pp. 95-101; Cavallini 2000;
Felicioni 2000; sulla ferriera alla caduta del fosso Caldano, cfr. ora Berardozzi,
Cola, Galimberti 1998, pp. 81-95; Cavallini 2006.
27
Per una visione complessiva su questi temi si rimanda a Francovich
1993; Preite, Francovich 2009; alcuni aspetti dell’archeologia industriale
nel Lazio e in particolare nel bacino minerario tolfetano sono ora trattati
parzialmente in Natoli 1999.
28
Cavagnaro, Foschi 1990; Zifferero 1996b, 1996c.
101
A. Zifferero
fig. 9 – Elaborazione cartografica dell’itinerario “Archeologia in Miniera”, con le principali cave e miniere dell’area circostante Allumiere. Simbologia:
1 = estensione dei centri abitati; 2 = cava a cielo aperto; 3 = miniera in galleria o pozzo; 4 = centro visita; 5 = punto di partenza dell’itinerario;
6 = luogo di culto. Topografia: 1 = Allumiere; 2 = La Bianca; 3 = Miniera Provvidenza; 4 = Cava Rotella; 5 = Cava della Castellina; 6 = Cavetta;
7 = Cava Gregoriana; 8 = Cappella di Santa Maria delle Grazie; 9 = Cava della Paura; 10 = Parcheggio del Faggeto di Allumiere; 11 = Cava
del Moro; 12 = Pozzo Gustavo; 13 = Miniera di Santa Barbara; 14 = Centro Visita di Poggio Elceto; 15 = Cappella Grande di Agostino Chigi;
16 = Cava della Bianca; 17 = Cappella nella Selva di Cibona; 18 = Chiesa di Santa Maria di Cibona (fonte: Zifferero 1996b).
102
Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma)
fig. 10 – L’analisi di un
paesaggio minerario: le
fasi della ricerca.
fig. 11 – La sintesi di un
paesaggio minerario: le
fasi della valorizzazione.
magine del paesaggio in una prospettiva di lunga durata, che
si ricostruisce per mezzo di una scomposizione e poi di una
reinterpretazione del suo assetto odierno, fino a definire il
“paesaggio minerario” come uno degli esiti dell’interazione
tra comunità e risorse 29 (fig. 8).
È evidente come le aree di lavorazione del minerale e
gli impianti di metallurgia estrattiva debbano essere letti in
connessione con le attività minerarie, in un’opposizione superficie/sottosuolo che è peculiare dei distretti italiani ricchi
di giacimenti: una considerazione globale di tali fenomeni ha
portato alla ricostruzione e alla valorizzazione di tali aspetti
nel Parco Archeominerario di San Silvestro (Campiglia
Marittima, LI), che ha tentato di “ricucire” il paesaggio minerario, ponendosi l’obiettivo di esaltarne il tessuto connettivo,
29
Uno studio di grande valore sulla ricostruzione del paesaggio antropico
nel bacino minerario è Passigli 2000.
103
A. Zifferero
con l’identificazione dei segni dell’attività estrattiva e dei
luoghi di trasformazione del minerale estratto. Questi segni
sono stati collegati da percorsi che ne hanno di volta in volta
associato e sottolineato i caratteri di omogeneità o diversità,
a seconda della tipologia e della cronologia di ciascuno 30.
Nel caso dei Monti della Tolfa, si dispone di un censimento schedografico (parziale) circa il patrimonio di superficie
architettonico e toponomastico, mentre il lavoro nel sottosuolo è da ritenersi appena avviato, attraverso l’indagine delle
tecniche estrattive; un dato che emerge invece con chiarezza
è l’eccezionale consistenza della documentazione d’archivio
(la cui analisi è iniziata da poco), sulla storia delle tenute
agricole e soprattutto sull’impiego del patrimonio boschivo:
il rapporto tra tenute, boschi, cave e miniere e opifici di lavorazione metallurgica dovrebbe rappresentare il vero obiettivo
della ricostruzione del paesaggio minerario 31.
In virtù delle considerazioni esposte, è sempre più urgente
censire in modo esaustivo i segni e la documentazione, prima di
produrre una forma di valorizzazione estesa: le esperienze condotte fino ad oggi, infatti, hanno consentito di sperimentare
le possibilità di un progetto di valorizzazione anche minimo e
fortemente selettivo: il richiamo è all’esperienza di “Archeologia
in Miniera” nell’ambito del Progetto “Archeodromo dell’Etruria Meridionale”, messo in atto negli anni Novanta, il cui scopo
dichiarato era di restituire al visitatore un’immagine sintetica
ma soddisfacente del paesaggio minerario, considerato sotto
il profilo dell’evoluzione delle tecniche estrattive 32 (fig. 9).
Il bacino minerario tolfetano è in effetti il distretto ideale
per prevedere un intervento sul modello del museo diffuso
(in parte realizzato dal Progetto Archeodromo) o del parco
archeominerario, a patto di avviare un processo conoscitivo,
al momento del tutto insufficiente. È comunque evidente il
carattere selettivo di ogni azione di valorizzazione: proprio
in ragione di ciò, è opportuno considerare in senso teorico il
significato e la portata della conservazione dal punto di vista
dell’archeologia industriale.
Il problema infatti non si limita al recupero e al riuso
dell’edificio industriale dismesso, in quanto “contenitore”:
occorrerebbe, al contrario, riflettere sul ruolo attivo che esso
può svolgere nell’ambito di un processo di rivitalizzazione di
un’area industriale dismessa. Se infatti il ripristino di edifici
industriali in ambito urbano consente di offrire alla città nuovi
e suggestivi spazi espositivi (si veda, p. es., la vicenda dell’ex
Centrale Montemartini a Roma), l’esperienza insegna come sia
rischioso il recupero dei volumi industriali nei distretti a basso
indice demografico, il caso appunto dei Monti della Tolfa.
I progetti dovrebbero infatti essere ammessi al finanziamento
soltanto se accompagnati da adeguati piani di gestione, vero
tallone d’Achille dell’archeologia industriale: la stessa gestione
dovrebbe essere pianificata nelle applicazioni della ricerca
scientifica, della sperimentazione e della fruizione. In tal senso
il distretto tolfetano potrebbe rappresentare in modo eccellente
una forma di valorizzazione, consistente in un “parco delle
tecniche”: la possibilità di disporre di resti di opifici di varie
epoche potrebbe suggerire il fatto di restaurare o ricostruire
parte di essi per riproporne caratteristiche e funzionamento al
pubblico: in altre parole, una soluzione che permetterebbe di
offrire in tempo reale una selezione di tecnologie del passato,
evitando di snaturarne la funzione e i caratteri originali 33.
La tipologia a disposizione è straordinaria: dalle mole ad
alimentazione idraulica alle fornaci di arrostimento, dalle
ferriere alle fonderie del piombo, dalle cave alle miniere con
i pozzi estrattivi, per non parlare delle abitazioni e degli uffici
amministrativi, che potrebbero ospitare i centri visita del
parco. Una cornice da laboratorio della tecnologia, tale da allineare questi interventi alla fisionomia dell’ecomuseo: il fine è,
tuttavia, riproporre forme e modi di produzione del passato,
ricostruiti con funzioni di divulgazione e comunicazione della
storia industriale, in un contesto naturale che si presta, tra
l’altro, molto bene allo scopo, per accostare in modo più consapevole il visitatore anche agli aspetti dell’ambiente. Nella
stessa prospettiva si potrebbero parimenti affrontare problemi
più generali, legati alla storia della tecnologia e della scienza,
attraverso il progredire dei processi di metallurgia estrattiva,
senza tralasciare di sottolineare l’impatto negativo di molte
attività, anche di età preindustriale, sull’ambiente, per mezzo delle modifiche antropiche tuttora visibili (fauna e flora
sviluppatesi con il microclima umido nelle cave di alunite,
flora cresciuta sulle discariche di minerali metallici ecc.).
In un contesto entro il quale il patrimonio viene consegnato alla futura memoria attraverso la conservazione, importanti
strumenti di divulgazione scientifica potrebbero scaturire
dalle pratiche ormai correnti dell’archeologia della produzione e dell’archeometallurgia, i cui tratti sperimentali possono
essere trasmessi con efficacia, sulla base di uno schema di
valorizzazione attiva del paesaggio minerario 34 (figg. 10-11).
Allo stesso modo, una lettura storica delle tenute agricole
e dell’uso delle risorse boschive potrebbe invece aprire ad una
conoscenza dell’ambiente integrata con le linee di tutela e
valorizzazione dei “paesaggi rurali di interesse storico”, in
termini di approfondimento delle origini e delle ragioni
d’essere del paesaggio contemporaneo: in questo senso si
potrebbe lavorare per la restituzione di alcune delle molte
identità storiche del comprensorio, dall’età preromana al
passato più recente 35.
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30
Sul Parco Archeominerario di San Silvestro, cfr. Bianchi et al. 1997;
Francovich, Casini 2000 e ora Dallai 2011.
31
Per la toponomastica cfr. Del Lungo 1999; sulla ricostruzione delle tenute
agricole e sull’uso del patrimonio boschivo, oltre al già citato Passigli 2000, si
rinvia a Sansa 2000 ed ora soprattutto a Passigli, Spada 2014.
32
Il percorso sperimentale di “Archeologia in Miniera” è proposto e illustrato
in Zifferero 1996b.
33
Sul progetto “Archeodromo dell’Etruria Meridionale”, cfr. Enei, Genovesi,
Zifferero 1995a, 1995b; Enei, Genovesi , Zifferero 2001.
34
Per gli aspetti relativi ai cicli produttivi e alla diffusione delle tecniche
e del sapere empirico nel mondo antico è tuttora fondamentale Mannoni,
Giannichedda 1996.
35
Passigli, Spada 2014; i paesaggi rurali di interesse storico sono discussi
in Agnoletti 2010, con riferimento ai Monti della Tolfa alle pp. 377-379.
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106
Archeologia delle miniere e dell’industria sui Monti della Tolfa (Roma)
Protohistoric and Etruscan periods), in order to gain copper and lead sulfides. Underground excavations for sulfides
have been carried out surely in Medieval period, though the
most significant open-air quarries to dig out alunite masses
date back from Renaissance period up to 18th century: the
exploitation of such ores has been developed under the direct
administrative control of the Roman Church.
Modern mining archaeology investigation has been promoted on a very small-scale, not enough to trace a precise
chronology of extraction and a detailed map of mining activities; at the same time, a huge bulk of archival documents by
the Reverenda Camera Apostolica still waits to be consistently
analyzed and published.
This work focuses on the actual “state of the art” of
archaeological and historical research on the Monti della
Tolfa district, trying to push the debate towards possible
models of investigation and enhancement of the local mining
landscapes. A future plan for detecting, maintaining and
enhancing such an articulated heritage should take in consideration the planning of a park and a careful recording of
archaeological traces and historical documents regarding
ancient mining and metallurgical techniques.
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English abstract
The Monti della Tolfa mining district, located in northern
Latium, offers one of the most interesting range of metallic
and non-metallic ore bodies in Central Italy. Massive deposits
of alunite lie beside veins of copper and lead sulfides, and deposits of iron hydroxides. Remains of pits, shafts and galleries
testify mining activities in the past (most probably even in
107
Eleonora Romanò*, Fabiana Susini**
ALLUME: ATTESTAZIONI TECNICHE DEL TERMINE
E SUE DERIVAZIONI LINGUISTICHE NELLE FONTI LETTER ARIE
DALL’ETÀ ROMANA ALL’ETÀ MODERNA
Alum: technical references and linguistic derivations of the term in literary sources
from the Roman to the Modern Age
Per ‘allume’ in chimica si intende un doppio solfato di
alluminio e potassio, ossia K2SO4 Al2(SO4)3 24H2O, chiamato ‘allume di rocca’ quando è sotto forma vetrosa (fig. 1).
Il termine, dall’etimologia incerta, deriva dal latino
ălūmĕn, ĭnis e presenta dirette diramazioni già in età antica:
per Isidoro di Siviglia questo sostantivo deriverebbe a lumine
quod lumine coloribus praestat tingendis (Isidoro di Siviglia,
Etymologiae, XVI, 2, 2) e si ritrova sia in funzione aggettivante
ălūmĭnātus, a, um e ălūmĭnōsus, a, um “contenente allume o
che sa di allume” che sostantivante aluminosa, ōrum, “miniere
di allume”.
Indicazioni greche e latine di tipo storico-geografico attestano che l’allume era usato in vari ambiti (agricoli, architettonici, artigianali, medici) per le sue proprietà astringenti,
antisettiche, conservative, lenitive allora note solo in parte (De
Majo 2007, p. 71, nota n. 4). Dall’epoca alto-medievale in
poi i ricettari tecnici lo presentano come minerale diventato
indispensabile per il settore artigianale e artistico. Dalle fonti
scritte pervenuteci emerge che la natura multiforme dell’allume
ha comportato varianti linguistiche connesse ai diversi aspetti
che esso assume nei numerosi luoghi di approvvigionamento.
I sostantivi ălūmĕn, ĭnis, e il corrispettivo greco στυπτηρία,
ίαϛ appaiono dalla tarda età repubblicana in diversi autori che
ne hanno trattato riportando informazioni di tipo ambientale, formale, geografico e d’uso, seppur con incertezze interpretative e senza distinzioni tecnico-chimiche: Varrone associa
l’allume allo zolfo come minerali spesso connessi a luoghi dal
cattivo odore (Marco Terenzio Varrone, De Lingua Latina,
V, 25) e Vitruvio a ciò aggiunge che alle pendici del Vesuvio
vi sono terre e sorgenti calde a causa della presenza sotterranea di giacimenti di zolfo, allume e bitume che alimentano
grandi fuochi (Marco Vitruvio Pollione, De Architectura,
II, VI, 1). Diodoro Siculo riferisce del monopolio di Lipari
del commercio dell’allume (Diodoro Siculo, Bibliotheca
Historica V, 10, 2) e Strabone elogia l’isola per la ricchezza di
στυπτηρίαϛ μέταλλον ’εμπρόσοδον (Strabone, Geografia, VI, 2,
10). Plinio il Vecchio definisce il minerale salsugo terrae (Gaio
Plinio Secondo, Naturalis Historia, XXXV, LII, 183-185)
e l’autore anonimo dell’Aetna lo riporta come spissus sucus
da associare allo zolfo nel generare le fiamme del vulcano
(Anonimo, Aetna, vv. 385-391). Infine Dioscoride Pedanio
si rifà al contemporaneo Plinio nella distribuzione geografica
dell’estrazione del minerale e nel suo uso in quanto ritenuto
utile per curare numerosi problemi di salute (Dioscoride
Pedanio, De materia medica, V, 106). In epoca decisamente
più tarda, Cassio Felice ne loda le proprietà curative raccomandandone l’utilizzo contro i geloni (Cassio Felice, De
medicina, X, 2-3).
Dal periodo altomedievale l’allume è oggetto di brevi
citazioni in pochi trattati e ricettari di varia natura, che riguardano per lo più il suo utilizzo in ambito domestico, artigianale
e/o artistico. Nelle Compositiones variae ad tingenda musiva
(810 ca.) 1 è suggerito l’uso dell’allume asiatico o alessandrino,
considerati i più adatti per colorare le pelli, rendere il ferro
dorato o colorare il vetro di verde (Singer 1948, p. 43). Una
fonte simile a questa è la cosiddetta Mappae Clavicula 2: delle
circa 300 ricette presentate, molte riguardano i metodi per
la preparazione di colori e per la trasformazione dei metalli.
Il termine ‘allume’ qui ricorre molto più frequentemente
che nelle Compositiones con indicazioni di varianti del suo
utilizzo: per ‘produrre’ oro è consigliato l’allume scisto 3, per
‘scrivere lettere dorate’ quello liquido 4, mentre l’asiatico è suggerito per colorare oggetti solidi quali ossi, corni e legno 5, per
rendere il ferro dorato 6, ma soprattutto per tingere le pelli 7.
Un’opera interessante per l’impiego del minerale è il
trattato dal titolo De coloribus et artibus romanorum, attribuito a Eraclio, nome probabilmente fittizio, risalente
ai secoli X-XIII: oltre a diverse ricette per la doratura del
ferro, compaiono nello scritto alcuni preparati originali in
cui l’allume viene indicato per stemperare i colori 8 e per
1
Lucca, Bibl. Capitolare, 490: manoscritto miscellaneo (con testi di storia,
agiografia, trattatistica, etc.) realizzato tra il 787 e l’816 da vari copisti. Alle carte
217r-231r è la raccolta Compositiones ad tingenda musiva, pelles et alia, ad deaurandum ferrum, ad mineralia, ad chrysographiam, ad glutina quaedam conficienda,
aliaque artium documenta, ante annos nongentos scripta, uno tra i più antichi
ricettari di ambito tecnico-artistico in lingua latina pervenutoci. Quest’opera
è costituita da procedimenti sistemati senza ordine nella quale confluiscono
diverse fonti, con alcune ricette collegabili a quelle del Papiro di Leida (ricettario
in lingua greca del III secolo d.C.) e di Stoccolma, e corrispondenze con il De
Coloribus di Eraclio e il successivo Mappae Clavicula.
2
Con Mappae Clavicula si intende un codice del XII secolo conservato
presso il Corning Museum of Glass (New York), che raccoglie la tradizione
terminale di una serie di testi: il primo, De coloribus et mixtionibus, è in versi e
ha una fortunata tradizione: lo si ritrova, infatti, allegato per intero o in parte,
in molti manuali medievali di tecniche artistiche, fra cui il De arte illuminandi; il terzo coincide sostanzialmente con il testo noto come Compositiones ad
tingenda musiva (vedi supra).
3
Mappae Clavicula, Aurum plurimum facere, I.
4
Ivi, Aureas litteras scribere, XL.
5
Ivi, Tinctio prassina ossuum, cornuum et legnorum, CCXL.
6
Ivi, De inauratione ferri, CCXLV.
7
Ivi, Qualiter pelles tingantur, CXXVIII.
8
Eraclio, De coloribus, III, 30, Alumen quomodo debet distemperari.
* Università di Pisa e Milano (romano.ele@gmail.com).
** Università di Pisa e Firenze (fabiana.susini@gmail.com).
109
E. Romanò, F. Susini
fig. 1 – Allume nelle sue forme naturali: capillare, rotondo e scisto.
Da Singer 1948, p. 235.
tingere il ‘cordovano’ 9. La ricetta successiva riguarda invece
quomodo poteris de bresilio operari, ossia la procedura per
la realizzazione del pigmento rosso dall’unione di legno di
brasile, urina e allume 10.
Per le sue proprietà fissative dei colori sui tessuti e di
inaurare i metalli, l’allume risulta l’ingrediente basilare di
molte opere di alchimia araba e latina, così come riportato da
Vannoccio Biringuccio nella sua opera De la pirotechnia libri
decem edito nel 1540: «gli alchemici e li parteliori molto se ne
serveno, anzi senza esso le loro acque acutesar non posseno»
(Biringuccio 1540, VI).
Il ruolo importante rivestito dall’allume risulta continuare
anche durante tutta l’età basso medievale, poiché essenziale
nell’arte della miniatura e massicciamente estratto in vari
territori del Mediterraneo. I libri miniati erano infatti detti
anche ‘alluminati’ o ‘illuminati’ per la loro brillantezza, dovuta
soprattutto all’uso di lacche alluminate 11 cosparse sui colori per
fissarli e proteggerli. Anche la pergamena (presumibilmente
‘conciata’ all’allume), prima della pittura, poteva essere impregnata di una soluzione di questo minerale unito a piccole
quantità di cinabro 12. Da una forte diffusione pratica si è originata la confusione etimologica sulla derivazione di ‘alluminare’
usata da Dante come verbo indicante l’arte che ‘alluminare è
fig. 2 – Lavorazione dell’alunite per ottenere allume. Da Agricola
1556, p. 571 (ed. Hoover).
chiamata in Parisi’ 13; tale imprecisione interpretativa deriva
probabilmente dal noto uso francese di decorare le pagine
miniate con punti d’oro e d’argento posti accanto ai colori.
A seguito delle difficoltà di approvvigionamento del minerale per la presenza ottomana in diversi luoghi connessi con
la sua estrazione (soprattutto greco-orientali), importante fu
la scoperta di allume di buona qualità a Volterra intorno al
1458, anche se la sua produzione locale cominciò ad esaurirsi
appena dopo un ventennio (Delumeau 1990, p. 18). La scoperta dei giacimenti della Tolfa tra il 1462 e il 1463 fu in tal
senso provvidenziale: il Papa ebbe da allora un vero e proprio
monopolio dell’allume su tutta l’Europa 14.
9
Ivi, III, 33. «Quomodo corduanum tingitur». Il cordovano è un cuoio piuttosto pregiato e prende il nome dal suo primo centro di produzione, Cordova,
che era particolarmente fiorente sotto il dominio arabo. La sua particolarità è
data dal tipo di pelle usata, quella di muflone, e dalla concia che doveva essere
necessariamente quella all’allume, poiché doveva essere «corium […] nondum
coloribus tinctum, sed purum et album».
10
Ivi, III, 34. Il brasile è una pianta di origine orientale e introdotta in
Europa nel X secolo, usata per tingere tessuti e preparare lacche alluminate. Nel
XVI secolo se ne trovò in abbondanza nelle regioni sudamericane, in particolare
in Brasile che proprio da questa prese il nome.
11
Miscele di allume, zucchero e miele, incorporate in soluzioni di gomma
arabica e chiara d’uovo.
12
Proprio nel ricettario di un autore anonimo composto nel XIV secolo
intitolato De arte illuminandi (Manoscritto XII.E.27, Bibl. Naz. Napoli),
l’allume è indicato come mordente per i colori nelle pagine da miniare. Cfr.
De Majo 2007, p. 73.
Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, XI, 81.
Papa Pio II riferisce nei suoi Commentarii (VII, 12) le parole del commerciante Giovanni da Castro, fautore del felice rinvenimento: «Oggi ti reco
la vittoria sui Turchi [… ]. E ciò perché l’allume non si trova presso i latini se
non in piccola quantità nell’isola d’Ischia, un tempo chiamata Aenaria, vicino
a Pozzuoli, e nella grotta Liparea di Vulcano, che però fu a tal punto sfruttata
dai Romani da essere quasi esaurita. Ma io ho trovato sette montagne talmente
ricche di quel minerale che basterebbero per fornire sette mondi. Se ordinerai
di far venire i lavoratori, per preparare le fornaci, di fondere le pietre, potrai
fornire allume a tutti i popoli dell’Europa e verrà meno ai Turchi ogni profitto
da questo commercio; il che, aggiunto al profitto che tu ne trarrai, sarà per loro
un doppio danno [… ]. Questa miniera darà a te la forza necessaria alla guerra,
vale a dire il denaro e la toglierà al Turco».
13
14
110
Allume: attestazioni tecniche del termine e sue derivazioni linguistiche nelle fonti letterarie
In tali circostanze storico-economiche e sociali vanno
collocate le opere di due autori contenenti approfondite
informazioni sulla lavorazione dell’allume: oltre al testo già
citato di Biringuccio che definisce l’allume sustantia terrestre
congelata (Biringuccio 1540, VI), per Giorgio Agricola
nel 1556 l’allume è un “succo congelato” (Agricola 1554,
XII) (fig. 2). In tale periodo si ebbe un ritorno in auge del
termine che assunse anche valenza impropria poiché scelto
da Giovanni Paolo Lomazzo per indicare, con l’espressione
‘maniera di allumare’, la tecnica usata da alcuni pittori per
dare la luce, finendo ingenuamente per far coincidere semanticamente allumare con illuminare 15.
Dal XVII secolo quasi nulli sono i riferimenti scritti all’allume in quanto il minerale iniziò a non essere più considerato
come indispensabile per tutte quelle produzioni artigianali
e attività artistiche che fino a quel momento lo avevano
visto protagonista. Infatti dalla fine del XIX secolo i colori
naturali non furono più utilizzati, fatta eccezione per quelli
particolarmente forti (brasile, indaco, vermiglione) e anche
l’allume non ebbe più un ruolo fondamentale nella tintoria:
i nuovi coloranti, prodotti a base di carbone e catrame, non
necessitavano di alcun mordente per fissarsi ai tessuti.
Ciusa W., Lorusso S., 1978, L’allume come ignifugo nel periodo GrecoRomano, «Studi in memoria di Federigo Melis», I, pp. 115-125.
De Majo S., 2006, Le anfore di Lipari e l’allume: le nuove ricerche sulle
Richborough 527. Tesi di Laurea inedita. Università di Pisa.
De Majo S., 2007, Il commercio dell’allume in età romana. Un monopolio
dimenticato, «Salternum», II, pp. 71-75.
Delumeau J., 1990, L’allume di Roma, XV-XIX secolo, Roma.
Forbes R.J., 1993, Alum, «Studies in Ancient Technology», III, pp.
189-191.
Heers J., 1954, Les gênois et le commerce de l’alun à la fin du Moyen
Age, «Revue d’Histoire économique et sociale», XXXII, 1, pp.
31-53.
Nenci G., 1982, L’allume di Focea, «Parola del Passato», CCIV-CCVII,
pp. 183-188.
Romano C.G. (a cura di), 1996, Eraclio, De coloribus et artibus romanorum e la composizione pseudo-eracliana. Introduzione, testo latino
e traduzione, commentario, Bologna.
Singer C., 1948, The Earliest Chemical Industry. An Essay in the
Historical Relations of Economics & Technology Illustrated from the
Alum Trade, London.
Totano L. (a cura di), 1984, Enea Silvio Piccolomini Papa Pio II, I
Commentarii, Milano.
English abstract
Alum is a term derived from latin alùmen, and has uncertain etimology. It is present in latin literary sources of Late
Repubblican Age, in Middle-Age technical recipe books from
the beginning of 8th century on, as well as in Renaissance
literature, as an ingredient selected in hand crafted and artistic
contexts. Alum was employed for preparing colours or used
to enhance their brightness.
Since the Middle Age, alum has been further used for
other scopes and different lexical expressions have been
developed for referring to it.
In this hystorical and linguistical analysis we will present
the lexical notations employed for dealing or referring to
the term alum.
BIBLIOGR AFIA
Agricola G., 1556, De re metallica, edizione a cura di H.C. Hoover,
New York 1950.
Ait I., Boisseuil D. (a cura di), 2014, Le monopole de l’alun pontifical
à la fin du Moyen Âge, «Mélanges de l’École Française de Rome.
Moyen Age» [online], 126, n. 1. https://mefrm.revues.org/1567.
Biringuccio V., 1540, De la Protechnia, Venezia, ristampa anastatica
a cura di A. Carugo, Milano, 1977.
Borgard Ph., Brun J.P., Picon M. (a cura di), 2005, L’Alun de Méditerranée, Napoli-Aix en Provence.
15
L’autore utilizza impropriamente la locuzione nelle due opere: Trattato
di pittura, scultura e architettura (1584), Idea del Tempio della Pittura (1590).
111
IL CONTESTO TOSCANO
THE TUSCAN ALUM LANDSCAPE
Luisa Dallai*
LO SCAVO DELL’ALLUMIER A DI MONTELEO.
NUOVI DATI PER LA PRODUZIONE DELL’ALLUME ALUNITICO
NEL TARDO MEDIOEVO
The excavation of the Allumiera di Monteleo. New archaeological data
for the production of alum in the Late Middle Ages
«È fatto degno di nota che, ad ogni periodo di rinascita della
vita economica e culturale della regione, ritornano quelle
attività legate alla natura del suolo, che il tempo sembrava
avesse per sempre seppellite o deviate»
(E. Fiumi 1943, L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della
Toscana nell’industria medievale, Firenze, p. 65)
1. CONTESTO E OBIETTIVI
delle priorità economiche. Lo studio archeologico del ciclo
produttivo dell’allume alunitico può contare ad oggi su un
numero relativamente modesto di dati provenienti da scavi
o ricerche di superficie 2; per questa ragione le informazioni
ottenute da progetti di scavo come quello condotto sul sito
delle Allumiere di Monteleo, così come ogni altra indicazione
desumibile da un approccio archeologico ed archeometrico al
tema, risultano essenziali per comprenderne la complessità e
valutarne l’evoluzione tecnologica e cronologica.
La ricerca effettuata sul territorio di Monterotondo
Marittimo ci ha offerto la possibilità di incrociare fonti
diverse (storico documentarie; archeologiche; geologiche;
cartografiche) per indagare una ampia diacronia dell’uso
delle risorse. A partire dalla valutazione di tali sistemi di
fonti proporremo in questa sede una rilettura diacronica
della valorizzazione delle materie prime alla luce dei dati
provenienti dalle più recenti campagne di indagine condotte
sul complesso produttivo di Monteleo (fig. 1).
Lo studio della produzione dell’allume e le indagini
sul contesto dell’Allumiera di Monteleo (Comune di
Monterotondo Marittimo, GR) hanno preso avvio nel 2008,
all’interno del progetto “Colline Metallifere”, coordinato
dall’Università di Siena 1. I caratteri complessi dell’indagine
hanno consigliato di adottare sin dall’inizio una strategia
fortemente integrata, basata sullo studio delle fonti materiali
(Dallai 2014), dei documenti (Boisseuil 2005, Boisseuil
2009, Boisseuil 2014), del contesto ambientale e delle sue
risorse (Dallai et al. 2009), con l’obiettivo di cogliere ed
interpretare tanto i segni lasciati dal ciclo produttivo sul
territorio, quanto i suoi possibili riflessi sulle dinamiche del
popolamento, sull’assetto della viabilità, sui circuiti economici (si veda a questo proposito il contributo di Ponta, in
questo stesso volume). Un approccio al tema il più possibile
“globale” insomma (Mannoni 1997), in cui il territorio, vera
e propria sintesi dei processi di trasformazione naturale ed
antropica, costituiva esso stesso “la miniera” da cui ricavare
le informazioni utili per definire la storia delle tecniche
estrattive e produttive e comprenderne al meglio il portato
economico e sociale.
La ricerca archeologica ha preso avvio con una accurata
campagna topografica che ha coperto significative porzioni
del territorio comunale di Monterotondo Marittimo; da
questa indagine, condotta fra il 2004 ed il 2007, sono emerse
preziose indicazioni relative alle dinamiche del popolamento
ed allo sfruttamento delle risorse presenti nell’area (Dallai,
Fineschi 2006; Ponta 2015); lo scavo dell’Allumiera di
Monteleo ha inoltre fornito l’eccezionale opportunità di
approfondire i diversi steps legati alla lavorazione dell’alunite
in un sito di produzione della prima Età Moderna, mettendo
in luce la versatilità di simili centri produttivi, destinati a
soddisfare differenti esigenze, a seconda delle fasi storiche e
2. ALLUME-ALLUMI: QUALCHE RIFLESSIONE
SU UNA MATERIA PRIMA DI COMPLESSA
DEFINIZIONE
«L’allume è un minerale, o più precisamente parlando,
un sale, o sugo rappreso, come dicono i chimici, che si
trova prodotto dalla Natura nel seno della terra […] A due
principali forme si possono ridurre le migliori, e più ricche
vene d’allume, che si possano lavorare. La prima, che si trova
molto sottoterra, ha forma di pietra notabilmente dura, agevolmente fendibile quasi come lavagna, inzuppata di bitume
di zolfo, e facilmente incendibile. L’altra è di forma di terra
bituminosa […] La prima, della quale sola è qui d’uopo di
trattare, diversifica molto: 1 per la quantità dell’allume nativo
imprigionatovi: 2 per la grandezza, per la figura e per il colore
delle molecule formanti l’ammasso della pietra: 3 […] per la
differente durezza e fissibilità di tutta la massa: 4 per la dose,
* Dipartimento Scienze Storiche e dei Beni Culturali, Università di Siena
(luisa.dallai@unisi.it).
1
Per un approfondimento sulle linee guida del progetto si veda in ultimo
Banchi et al. 2013, in particolare alle pp. 81-82.
2
2005.
115
Per una sintesi sulla questione si rimanda alle considerazioni in Picon
l. dallai
fig. 1 – Monteleo. Posizionamento del sito e localizzazione dei toponimi citati nel testo.
per la diversa purità, o impurità, per la differente attività o
inerzia, per la diversa grassezza o magrezza dello zolfo o bitume che vi è mescolato: 5 per le varie sostanze eterogenee che
comunemente vi sono mescolate […]» (Targioni Tozzetti
1751-1754, IV, pp. 312-315).
Così Giovanni Targioni Tozzetti alla metà del ’700
tentava un approccio sistematico alle differenti qualità di
materia prima dalle quali si poteva ottenere l’allume, dopo
averle osservate nel corso dei suoi sopralluoghi sul territorio
toscano. Con il termine allume, come noto, ci si è però nel
tempo riferiti tanto ai diversi minerali di partenza quanto
al prodotto finito, il che ha alimentato una notevole confusione terminologica che accomuna molte fonti scritte,
a partire dalle più antiche. Chiarire, per quanto possibile,
il significato attribuito al termine vuol dire affrontare con
maggiore puntualità il tema delle materie prime che entrarono in gioco, nel corso del tempo, all’interno dei diversi
processi produttivi e che vennero ritenute economicamente
utili e furono tecnologicamente trattabili con procedimenti
più o meno complessi. Se la storia delle tecniche produttive
di periodo pre-industriale, anche di quelle più ricche di
indicatori, è infatti sovente caratterizzata da ampi margini
di incertezza che nè l’archeologia, nè l’archeometria e
tanto meno le fonti scritte sono riuscite a fugare del tutto
(si pensi alla complessità del ciclo produttivo multifase
che caratterizza l’uso dei solfuri misti di rame e piombo/
argento proprio nel territorio di cui ci occupiamo in questa
sede, le Colline Metallifere; Guideri 1996; Guideri in
Bianchi, Dallai, Guideri 2009), nel caso dell’allume la
stessa definizione tradizionale del soggetto sfugge alla stretta
classificazione chimica.
Gli allumi, come noto, sono così definiti soprattutto sulla
base del loro utilizzo, e costituiscono una grande famiglia di
sostanze mordenzanti che include diversi minerali ed alcuni
vegetali o loro prodotti (Picon 2005, pp. 14-35) 3.
Essendo queste materie prime raggruppate in funzione
degli usi, è facilmente comprensibile che accanto agli allumi
veri e propri (cioè ai diversi solfati doppi idrati di alluminio
e potassio o di alluminio ed ammonio, o miscele dei due
tipi – Al2(SO4)3K2SO424H2O; Al2(SO4)3(NH4)2O424H2O
– Singer 1948, p. XVII), si trovino anche molti altri solfati
idrati, quelli che Maurice Picon definisce “allumi naturali”,
che sono il risultato dell’azione esercitata da fluidi acidi
di natura idrotermale su rocce ricche in alluminio. Essi si
incontrano prevalentemente all’interno di formazioni di
natura vulcanica, ma possono essere rinvenuti anche in
scisti argillosi che abbiano subito azioni idrotermali acide.
Gli “allumi naturali” sono caratterizzati dalla mescolanza di
diversi elementi che li rendono complessi da gestire dal punto
di vista produttivo; è ad esempio un solfato idrato di ferro
ed alluminio il ben noto “allume di piuma” (halotrichite),
un prodotto largamente utilizzato sia in epoca antica che
nel Medioevo ed importato principalmente dall’Egitto, caratterizzato da buone qualità mordenzanti ma che proprio la
3
A titolo di esempio ricordiamo il caso del cosiddetto “allume di feccia”, o
dell’allume “catina” o “catino”, il primo ottenuto dalla combustione del cremor
tartaro ricavato dalle botti dopo la fermentazione del vino, il secondo dalla
combustione delle foglie della Salsola soda, Franceschi 2014, p. 160, con biblio.
116
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo
presenza del ferro rendeva non adatto al trattamento di colori
chiari e brillanti (Evans 1936, p. 411; Picon 2005, pp. 19-20).
Gli “allumi naturali” conobbero un utilizzo lunghissimo
nel corso del tempo; le loro principali aree di approvvigionamento furono le isole egee (l’isola di Melos in particolare) e le
Eolie, oltre all’area di Pozzuoli (Singer 1948, p. 38). La loro
lavorazione, relativamente semplice, era per lo più limitata a
cernita e lisciviazione, raramente accompagnata da una fase
di arrostimento.
Con la metà del XIII secolo agli “allumi naturali” si sostituì progressivamente lo sfruttamento intensivo di un altro
tipo di materia prima, l’alunite KAl3(SO4)2(OH)6, un solfato
idrato di potassio e alluminio che allo stato naturale risulta
praticamente insolubile ma che, una volta trattato, assicura
un prodotto di ottima qualità, utilizzabile dalle manifatture di
stoffe e pellami senza il rischio di effetti cromatici indesiderati.
Per trasformare l’alunite in allume è necessario un ciclo di
lavorazione più complesso, che include come noto quattro
tappe fondamentali: arrostimento, macerazione, lisciviazione e
cristallizzazione. Questo processo è conosciuto certamente dal
Medioevo, e fu ben descritto già alla metà del XIV secolo da
Francesco Balducci Pegolotti nella sua Pratica della Mercatura 4.
I dati contenuti nel testo si riferiscono al periodo 1310-1340, gli
anni durante i quali Pegolotti svolse la sua carriera commerciale
per la compagnia dei Bardi di Firenze; eccone alcuni passaggi
salienti: «Quando allume si vuole fare di nuovo i maestri che ‘l
fanno si pigliano la pietra la quale tagliano di rocche a piccone
e a scarpello […] La quale pietra cuociono primieramente in
cammini come si fa la calcina, per ispazio di 18 ore 5, e poi
levano il fuoco del cammino e lascianlo raffreddare; e poi ch’è
freddo il cammino si mettono queste pietre cotte in piazza
ammassate e abbracciate […] e poi ogni giorno con condotti
d’acqua le bagnano una volta, spezialmente la state, ma il
verno perchè piove spesso non bisogna tanto bagnare, e così
le tengono 4 mesi 6. In capo di 4 mesi la fanno cernire e tirare,
cioè che la dura e che non è venuta tenera si gittano via, e la
tenera la ripongono in magazzini, la quale è venuta a modo
di calcina bene cotta; e poi pigliano di questa pietra cernita
bene cotta […] e mettono […] in una caldaia […], sempre
bollendo e sempre scurando il detto bagno con una cazza forata
grande di ferro, traendone fuori ogni ordura 7. E quando è bene
purgato, in capo delle 13 o 14 ore, si mettono questa acqua di
questa caldaia e d’anche 2 altre caldaie che sono bollite a uno
tempo per lo medesimo modo, e mettonlo in una pila fatta a
modo d’uno avello di rovero grande, molto bene calafatato e
bene stagnato, e poi foderato drento di piastre di piombo bene
congiunte e saldate insieme, e lascionla posare 12 o 14 dì. E
poi in capo di 14 dì truovano che questa acqua nella detta pila
è rassodata ed è fatto allume, e truovano l’allume della rocca
ch’è appiccato a modo di ghiaccio alla murrata della detta pila
intorno intorno; allume di fossa truovano al fondo della detta
pila 8; e l’acqua che non truovano tutta appresa si ne traggono
e ripongonla e chiamonla acqua forte, chè migliore a lavorare
poi con essa che non è l’acqua nuova del pozzo a far bollire poi
dell’altra pietra, sicchè sempre hanno di questa acqua forte per
fare nuovi bagni» 9 (Evans 1936, pp. 367-368).
Dalla descrizione del ciclo di produzione appena riportata si comprende chiaramente che da una stessa località e
da uno stesso minerale di partenza si ottenevano prodotti
di prima scelta, il cosiddetto “allume di rocca” (o “grosso”),
che si commerciava in forma di grandi cristalli, e prodotti
di qualità inferiore, il cosiddetto “allume di fossa”, cioè un
allume molto frammentato, ottenuto dalla raccolta dei piccoli
cristalli sul fondo delle casse di cristallizzazione, di fatto una
seconda scelta. Le due qualità di allume potevano inoltre
essere mescolate per ottenere un ulteriore tipo di prodotto, il
cosiddetto “allume di sorta della buona luminiera”; le eccellenti cave di Focea commerciavano le due qualità mescolate
nelle proporzioni di 2/5 e 3/5 (Evans 1936, pp. 411-412).
Pur essendo l’alunite presente anche sul nostro territorio,
stando alla documentazione scritta essa non appare lavorata
prima della metà del XV secolo, esattamente in linea con
quanto sappiamo degli altri importanti depositi della Penisola
(si vedano i contributi di Vallelonga, Stasolla, e Fineschi
in questo volume). Ciò però non si deve certo alla complessità
tecnologica del ciclo produttivo, verosimilmente già noto in
occidente almeno dal XIV secolo, grazie alla circolazione delle
informazioni che dai luoghi di produzione raggiungevano i
centri di consumo, come prova la descrizione di Pegolotti.
Le cause di questa apparente mancata valorizzazione devono
dunque essere ricercate altrove, e l’imponente letteratura
sull’argomento evidenzia come forti interessi economici e commerciali siano alla base del grandissimo sviluppo dell’industria
dell’allume orientale (Lopez 1996; Fleet 1999; Jacoby 2005).
Ricchissimi giacimenti di alunite erano infatti dislocati in
varie regioni dell’Asia Minore e nelle isole dell’Egeo (Picon
2005, pp. 14-20), ed è proprio da qui che, fino alla metà del
XV secolo, quando si sviluppò la grande industria estrattiva
del bacino tolfetano e la solfatara napoletana conobbe una
fase di più intenso sfruttamento, provenne la stragrande
maggioranza di sali di allume 10. Commerciato in sacchi o
botti (Fleet 1999, p. 158), l’allume raggiungeva le Fiandre,
la Francia, l’Inghilterra e le principali piazze commerciali
d’Europa (Dumolyn, Lambert 2018).
Come noto, dalla metà del XIII e fino alla metà del XVI
secolo il commercio e per un certo periodo anche la produzione di questa importante materia prima furono saldamente
detenuti da importanti famiglie dell’aristocrazia genovese
(Basso 2014, pp. 182-185). Dalle zone di produzione la
merce giungeva in occidente seguendo rotte commerciali
marittime che attraversavano il Mediterraneo, all’interno
di navi per le quali essa costituiva anche una valida zavorra
(Fleet 1999, p. 80).
4
Per la trascrizione si fa riferimento all’edizione della Pratica della Mercatura
curata da Evans 1936.
5
Questa è la descrizione della prima delle quattro fasi del ciclo produttivo,
cioè la calcinazione.
6
Questo è il riferimento alla seconda fase del ciclo produttivo, cioè la
macerazione.
7
Il passaggio descrive la terza fase della lavorazione, cioè la lisciviazione.
8
La descrizione si riferisce all’ultima fase del ciclo produttivo, cioè la
cristallizzazione.
9
Così è infine descritto il riutilizzo delle acque di scarto, assai ricche di
allume, ossia gli spurghi che erano reinseriti nel ciclo produttivo per arricchire
la liscia.
10
Delumeau 1962; Lopez 1996; Ait 2014, pp. 187-200; Feniello 2005,
pp. 97-103.
117
l. dallai
fig. 2 – Localizzazione dei fronti di cava, delle gallerie e degli impianti di produzione dell’allume individuati nel comprensorio delle Colline
Metallifere. Ubicazione delle attestazioni di “allumi naturali” sulla base dei dati editi.
sorgenti calde, lagoni e soffioni, che costituiscono un tratto
peculiare dei paesaggi dell’allume toscani (Barazzuoli,
Salleolini 1993, in particolare pp. 227-229).
Al pari dell’alunite, la presenza di minerali riferibili alla
grande famiglia degli “allumi naturali” è documentata in diversi punti del vasto comprensorio geotermico Monterotondo
Marittimo-Castelnuovo Val di Cecina-Larderello-Montioni:
l’epsomite (solfato eptaidrato di magnesio) è menzionata in
prossimità di Monterotondo Marittimo; la melanterite, o
vetriolo di ferro (solfato eptaidrato di ferro) a Sasso Pisano,
Montioni e Niccioleta; entrambi i minerali compaiono a
Monte Cerboli; la goslarite (solfato eptaidrato di zinco)
accompagna l’alunite al giacimento del Cavone di Massa
Marittima (Inventario 1995, schede 5, 14 17, 25, 32, 58),
ma il panorama è senz’altro più articolato e ricco, come
ben evidenziato dai dati raccolti a seguito della prospezione
nell’area di Monteleo che vedremo più avanti.
L’esistenza di “allumi naturali” in zone di stretta prossimità
ai lagoni e soffioni è un fatto piuttosto comune, ed ha costituito da sempre una fonte di reddito significativa per l’area
in questione, documentariamente attestata sin dal Medioevo,
come risulta dall’inventario delle possessioni e rendite vescovili
che nel 1301 confermava al vescovo di Volterra i diritti sull’allume dei lagoni del Sasso, Vecchienna, Leccia e Montecerboli
(Fiumi 1943, p. 72). Nel 1326 il vescovo Ranuccio concesse
al Comune di Monterotondo l’uso di acque e l’affitto di terra
presso il lago di Vecchienna salvo et excepto omni sulphure et
alumine quod appareret et reperiretur in dictis rebus locatis, quod
remanere debeat ispsi domino episcopo (Fiumi 1943, p. 79).
Dal primo venticinquennio del XIV secolo, con le specifiche rubriche aggiunte nel 1328 agli Ordinamenta super
arte fossarum rameriae et argenteriae civitatis Massae (in par-
3. LE RISORSE ALLUMINIFERE
DEL COMPRENSORIO DI MONTEROTONDO
MARITTIMO
La presenza di alunite e, vedremo tra un attimo, di “allumi
naturali”, è documentata geologicamente su diverse aree del
territorio toscano ed in particolare sul comprensorio delle
Colline Metallifere dove, a cavallo fra le attuali province
di Pisa, Livorno e Grosseto, se ne localizzano i principali
depositi. È qui che la ricerca condotta dal Dipartimento di
Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena
ha permesso di individuare vari punti di estrazione, sia a cielo
aperto che in sotterraneo, oltre a localizzare i resti di alcune importanti allumiere databili al XV-XVI secolo (Paperini 2009,
pp. 49-62; Dallai 2014) (fig. 2). Nel comprensorio l’alunite
si rinviene entro rocce sedimentarie (scisti argillosi o argille
ricche in alluminio e potassio); a Montioni invece l’alunite
pura deriva dall’ossidazione delle originarie vene solfatiche
in ganga silicea (quarzi) (Thirion-Mérle, Cantin 2009).
I processi geologici che hanno determinato la formazione dei depositi alunitici sono all’origine della presenza di
altre importanti risorse del sottosuolo, i celebri giacimenti
di solfuri misti di rame, ferro, zinco e piombo/argento che
danno il nome all’area (le Colline Metallifere appunto), e che
conobbero un sistematico sfruttamento sin dall’Eneolitico. Le
mineralizzazioni filoniane della zona, di origine idrotermale,
sono il risultato dell’azione esercitata da fluidi mineralizzanti
risaliti lungo le zone di faglia e frattura durante il Miocene ed
il Pliocene, che determinarono la sostituzione dei carbonati
originari con silice e solfuri (Costantini et al. 2002, p. 172).
I giacimenti di alunite in particolare sono spesso associati
a fenomeni di vulcanismo secondario, come ad esempio
118
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo
ticolare rub. 96), il Comune di Massa Marittima si riserverà
l’esclusivo possesso pleno iure di alumen et sulfur, vitriolum et
argenteria quod et que est in districtu Montisrotundi, ubicumque
est aut antea apparebit (Panella, Casella, Rodolico 1938)
e formalizzerà il controllo su una risorsa ritenuta strategica al
pari di quelle metallifere, alla cui gestione gli Ordinamenta
erano dedicati. Nel frattempo la produzione ed il commercio dell’allume in arrivo dall’oriente, e specificamente dalle
ricchissime cave dell’Anatolia, erano finiti sotto il controllo
ottomano, cosa che negli anni ’80 del ’300 avrebbe determinato anche un sensibile incremento di prezzo ed una
restrizione della quantità di prodotto messo in commercio
(Fleet 1999, pp. 92-93). L’allume menzionato dagli Statuti
massetani include verosimilmente l’ampia gamma di solfati
che abbiamo richiamato in precedenza, anche se non è il caso
di escludere a priori la stessa alunite.
La geologia dell’area di cui ci occupiamo ha dunque offerto i migliori presupposti perché la storia dello sfruttamento
degli allumi (a questo punto senz’altro da declinare al plurale) conoscesse un avvio precoce, motivato dall’altrettanto
precoce interesse economico per queste materie prime così
ricercate, i cui molteplici impieghi erano conosciuti sin da
epoca remota, come ci ricordano le numerose fonti letterarie
antiche ed i ricettari altomedievali 11. Fra questi ultimi meritano una menzione specifica le Compositiones Lucenses, in
considerazione dello stretto legame politico ed economico
esistente fra Lucca ed il territorio di cui ci stiamo occupando,
ed in special modo il micro-comprensorio monterotondino
prossimo alla pianura del Frassine, legame ben documentato
proprio per l’epoca a cui risalgono le ricette lucchesi (VIII-IX
secolo) (Collavini 2007) (sul tema si rimanda a Bianchi,
Tomei in questo volume). Pur con le cautele dovute per la
natura della fonte, debitrice di una tradizione di saperi molto
risalente (Singer pp. 43-44), l’ipotesi di un possibile utilizzo
delle risorse locali legato ad alcuni degli usi, sia metallurgici
che più genericamente manifatturieri, richiamati dal ricettario, è da ritenersi possibile. Ovviamente, per quanto sopra
argomentato, è probabile che l’allume a cui si fa riferimento
fosse da intendersi in un senso molto ampio, ed indicasse
le diverse sostanze mordenzanti idonee per gli impieghi
descritti e reperibili nell’area, i cosiddetti “allumi naturali”.
Tuttavia la lavorazione ad alta temperatura dell’alunite
locale ed il conseguente uso di alumina almeno dai secoli
centrali del Medioevo (XIII secolo) sta emergendo grazie alle
analisi archeometriche condotte sulle scorie metallurgiche
provenienti dal comprensorio di Montieri (GR) (si veda in
particolare il contributo di Chiarantini, Volpi in questo
volume). È dunque evidente che nel territorio delle Colline
Metallifere, forse già dai secoli di stesura delle Compositiones
e certamente dal XIII secolo, vi fosse la capacità tecnica per
valorizzare sia i cosiddetti “allumi naturali” che l’alunite, ed
utilizzarne l’alumina, ottenuta dopo una fase di cottura e
lisciviazione del minerale, come scorificante all’interno di
processi metallurgici di produzione del piombo.
4. MONTELEO E LA VALLATA DEL FR ASSINE:
IL GIACIMENTO, IL CONTESTO AMBIENTALE
ED INSEDIATIVO ALLA LUCE DEI DATI
ARCHEOLOGICI
Alla metà del ’500 Vannoccio Biringuccio inseriva i
giacimenti alunitici toscani, e più specificamente le aree di
Massa Marittima e Monterotondo Marittimo, nell’elenco dei
luoghi di maggiore interesse della Penisola per lo sfruttamento
dell’alunite e dunque per la produzione di allume artificiale:
«la miniera della sua pietra si trova nei monti come laltre
miniere, ma in poche regioni […], et in Italia in più luochi,
et più quantità et più bello, et migliore che alcuni degli altri
[…] Trovasene anchora nel dominio di Siena, a Massa, et a
Monteritondo, pur del medesimo territorio, in più luochi.
[…] Et di questi detti, sol di tre sorte sonno quelli chio ho
veduto, che luno è quel di Italia bianchissimo lucido et transparente simile a gran pezzi di cristallo. Congelasi grosso di
forma squadrata con bellissimi anguli, qual altrimenti non
dimostra essere che grandi diamanti. Anchora sene produce
dunaltra sorte alquanto pendente in rosso, che si congela più
minuto chel bianco, et non è così ben purgato, et di vigore
è più potente, ma non è così vago alla vista» (Biringuccio
1540, II, c. 30-31).
Anche Giovanni Targioni Tozzetti dedica un passaggio
specifico al giacimento di Monteleo, sottolineandone la
ricchezza «Vero è però che non da per tutto si trova l’allume
in copia tale che si possa cavare con guadagno, e perciò gli
uomini hanno prescelti alcuni luoghi, dove i filoni della pietra alluminosa erano più ricchi. Uno di questi è Monteleo,
diramazione della montagna di Monterotondo» (Targioni
Tozzetti 1751-1754, IV, pp. 316-317) 12.
Posizionato al margine di un vasto campo geotermico, il
giacimento di Monteleo ha origine idrotermale-epitermale
e si inserisce all’interno del quadro geologico che è stato già
descritto in precedenza per l’area delle Colline Metallifere.
Anche in questo caso fluidi acidi, ricchi di zolfo, risaliti ad
altissima temperatura grazie ad un fitto reticolato di fratture,
hanno determinato la quasi totale silicizzazione della roccia
madre, costituita da scisti argillosi molto ricchi in potassio
ed alluminio, e la precipitazione e successiva concentrazione
di solfuri polimetallici (come ad esempio Cu, Pb, Zn, Ag)
(Dallai, Volpi 2015). Al pari degli altri circostanti, il giacimento di Monteleo è inoltre caratterizzato dalla presenza
dei cosiddetti “allumi naturali”; nel caso specifico sono
stati identificati esaidrite (solfato esaidrato di magnesio,
MgSO4.6H2O), e tamarugite (solfato idrato di sodio ed alluminio, NaAl (SO4)2.6H2O) (Thirion-Merle 2009, p. 63).
Lo sfruttamento delle risorse minerarie descritte poteva
giovarsi di un contesto ambientale particolarmente favorevole,
che rendeva disponibili in abbondanza legname ed acqua; il
torrente Risecco, affluente del fiume Cornia ed emissario del
Lago Sulfureo, responsabile della profonda incisione della valle
omonima nella quale insiste il sito di Monteleo, garantiva un
buon apporto idrico. All’intorno, vaste aree di bosco offrivano
il combustibile necessario ai diversi cicli pirotecnici; la particolare ricchezza del territorio in termini di risorsa boschiva,
11
Per un approfondimento sui diversi impieghi dell’allume come mordente
in tintoria si rimanda a Cardon 2003. Un quadro sull’uso dell’allume nell’Antichità non può prescindere dalla sintesi di Singer 1948, pp. 1-40. Riferimenti
in Halleux 2005, p. 11.
12
119
Targioni Tozzetti, Relazioni, IV, p. 317.
l. dallai
fig. 3 – Uso del suolo nel Granducato di Toscana di terraferma, sintesi degli esiti delle operazioni catastali eseguite fra il 1817 ed il 1835. Risorsa
consultabile all’indirizzo: http://www502.regione.toscana.it/geoscopio_qg/cgibin/qgis_mapserv?map=dbusosuolostorico_rt.qgs.
e quindi anche di carbone, è anzi un tratto particolarmente
significativo e duraturo del contesto. Daniele Manacorda ha
collegato l’idronimo Milia, fiume che delimita il confine meridionale del territorio di Monterotondo Marittimo ed affluente
del Cornia, al nome della potente gens Aemilia, ricordando
come il padre di Aemilius Scaurus, finanziatore alla fine del
II secolo a.C. della via Aemilia Scauri, si fosse arricchito con
il commercio del carbone prodotto col legname delle colline
populoniesi (Manacorda 2006, pp. 305-321).
Nel Medioevo la presenza del bosco è fortemente indiziata
dal toponimo Gualdo, termine con cui nel 748 si indicava un
vasto comprensorio di proprietà fiscale, localizzato nell’alta
Val di Cornia e più in particolare nell’area del Frassine
(Collavini 2007, p. 233), che si estendeva sia ad Est che
ad Ovest del fiume, «fra Monteverdi e la Sassetta» (Repetti
1833, II, pp. 556-557 s.v. Gualdo, Gualda e Gualdicciola).
L’estesissima area di bosco, posta al confine fra gli antichi
territori di Volterra e Populonia, era inoltre caratterizzata
dalla presenza dei già ricordati fenomeni geotermici (ed in
particolare di sorgenti calde), che anticamente ne costituivano
un aspetto addirittura sacrale, legato alla sfera cultuale di
Diana ed Apollo (Manacorda 2008, pp. 267-268).
La presenza di un grande polmone verde composto in buona misura da querce e cerri, essenze dall’elevato potere calorifico, rimase per secoli il tratto caratteristico dell’area, come è ben
testimoniato ancora agli inizi del XIX secolo dalla ripartizione
degli usi del suolo e della rendita catastale nel Granducato
di Toscana (1817-1835). Essa conferma la predominanza
delle aree boschive di qualità alta sulle aree aperte in tutta la
metà occidentale del territorio comunale di Monterotondo
(coperture boschive attestate fra il 40 ed il 60%) 13 (fig. 3);
l’Allumiera di Monteleo è posizionata proprio a ridosso di tale
vasto comprensorio, esattamente allo sbocco dell’angusta valle
del Risecco nella più ampia pianura del Frassine.
Le indagini topografiche hanno evidenziato come quest’area di pianura, fino alla contigua vallata del Cornia ed alle alture alle spalle del sito di Monteleo, fosse densamente abitata
sin dal periodo etrusco, e come anche nelle fasi di più marcata
crisi demografica (ad esempio la media Età Imperiale), si
registri proprio qui una sostanziale tenuta insediativa che
preluderà ad una riorganizzazione basata su centri demici
di dimensione medio-grande (villaggi), tipici del periodo
tardoantico. Questi ultimi sono inoltre caratterizzati, sino
alla prima metà del VII secolo d.C., da una significativa
presenza di merci di importazione (Ponta 2015), veicolate
attraverso una viabilità molto ramificata, la quale sfruttava
tanto le pianure quanto i percorsi di crinale. Seguendo il corso
del fiume Cornia, si metteva così in comunicazione la costa
con il primo entroterra ed il territorio Volterrano, generando
una dinamica economica virtuosa, che connetteva le aree
interne, ricche di diverse risorse del sottosuolo, di boschi, di
aree agricole, a quelle costiere ed alle produzioni specializzate
13
Il database consultato riguarda la ripartizione degli usi del suolo e della
rendita catastale nel Granducato di Toscana di terraferma (escluse le isole)
di inizio Ottocento. Esso deriva da un documento di sintesi degli esiti delle
operazioni catastali eseguite fra il 1817 ed il 1835 conservato presso l’Archivio
di Stato di Firenze. Risorsa consultabile all’indirizzo: http://www502.regione.
toscana.it/geoscopio_qg/cgibin/qgis_mapserv?map=dbusosuolostorico_rt.qgs
120
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo
delle pianure (agricoltura, allevamento, produzione del sale)
(Dallai, Fineschi 2006, p. 267).
La tenuta insediativa caratterizza l’area del Frassine e, più
in generale, il contesto di pianura e prima collina circostante
Monteleo, anche nei primi secoli del Medioevo. Il quadro
ricostruttivo può contare sia su indicatori archeologici che
attestano la frequentazione di alcuni dei siti già individuati
per il periodo immediatamente precedente, sia su un importante corpus di documenti databili all’ VIII-IX secolo, a cui
abbiamo già accennato in precedenza, che descrive la presenza di insediamenti e proprietà vescovili lucchesi localizzati
esattamente nel comprensorio di cui ci stiamo occupando
(Collavini 2007). A questa altezza cronologica e sin da
epoca longobarda il territorio era parte di una grande curtis
pubblica, quella del Cornino, che includeva sostanzialmente
l’intera val di Cornia, dalla costa fino alle colline boscose
dell’interno. In un’epoca imprecisata, ma comunque prima
della metà del X secolo, è probabile che l’area più interna, cioè
il Gualdo, venisse separata dalla grande curtis e concessa in uso
al vescovo di Lucca, come suggeriscono gli stessi documenti;
insieme ai boschi vennero naturalmente concesse anche
le risorse che l’area metteva a disposizione (Collavini in
Bianchi, Collavini 2018, pp. 225-226; Vignodelli 2012,
pp. 281-282). I documenti non fanno esplicito riferimento
a tali risorse, ma la particolare vitalità che caratterizza il tessuto insediativo di questa porzione di territorio, nel cuore
del giacimento alluminifero monterotondino, ed il duraturo
carattere pubblico della proprietà, tenacemente mantenuto
dalla tarda Antichità fino al X secolo, ne provano tutto il
peso economico ed il valore strategico. Dall’XI secolo sarà la
grande famiglia comitale degli Aldobrandeschi ad esercitare
il controllo sia sulla bassa val di Cornia (al tempo confinata
entro la curtis di Franciana), sia sull’area interna (il Gualdo
appunto), ricostituendo il contesto economico unitario
che, sin dall’antichità, aveva caratterizzato il comprensorio
e consentito la migliore valorizzazione delle sue peculiarità.
fig. 4 – I resti dell’Allumiera di Monteleo: A) posizionamento del sito su
Catasto Leopoldino, con indicazione dei toponimi rilevanti; cartografia
di base Catasto Leopoldino, Quadri di unione (1821). Progetto Castore,
Regione Toscana e Archivi di Stato Toscani; B) rilievo e posizionamento
delle strutture e dei fronti di cava su CTR.
5. IL SITO DI MONTELEO ED I SUOI CICLI
PRODUTTIVI
In questo quadro di evidenze già così ricco, lo scavo
del sito produttivo delle Allumiere di Monteleo ha offerto
l’opportunità di un affondo su un contesto produttivo ben
individuabile, grazie ai suoi resti monumentali. Il sito è stato
interessato da regolari campagne di indagine stratigrafica
condotte fra il 2008 ed il 2016, delle quali si è dato riscontro
in precedenti contributi (Dallai et al. 2009; Dallai, Poggi
2012; Dallai 2014; Dallai, Ponta, Ait 2018), ai quali si
rimanda per una descrizione puntuale delle emergenze. Le
indagini hanno permesso di comprendere molti aspetti del
ciclo produttivo dell’allume, offrendo solide basi per l’interpretazione di passaggi cruciali relativi all’organizzazione
del lavoro su un’allumiera della prima Età Moderna. Al
contempo, lo scavo ha evidenziato una diacronia altamente
significativa sul sito, che ha di molto allungato la storia
produttiva di Monteleo, articolandone anche le finalità 14.
Le strutture produttive dell’allumiera occupano il versante
SE del Poggio Sughericcio e l’area immediatamente a ridosso
del torrente Risecco; quest’ultimo costituisce l’asse centrale
del sito che si sviluppa lungo le sue due sponde. Ad Ovest
del torrente, a breve distanza dal principale fronte di cava di
Buca dei Falchi e ad una quota di poco superiore ai 130 m di
altitudine, furono costruite le fornaci da calcinazione (Area
1000); ad Est, un po’ più in basso (quota di circa 120 m),
vennero realizzate le caldaie di lisciviazione e trovarono posto
le aree aperte per la macerazione, le vasche di cristallizzazione
e le canalizzazioni di raccordo fra i diversi spazi funzionali
dell’allumiera (Area 3000). L’insieme di questo articolato
complesso di strutture supera in estensione i 2 ha (fig. 4).
L’utilizzo diacronico del sito, probabilmente legato allo
sfruttamento delle articolate risorse del sottosuolo presenti
nel giacimento, è emerso a seguito dello scavo dell’Area 1000.
Si datano al Bronzo Medio frammenti ceramici rinvenuti
in giacitura secondaria, collegati ai resti di una poderosa
14
Per le diverse finalità produttive una prima analisi in Dallai, Volpi 2015;
si veda anche il contributo di Volpi, Chiarantini in questo volume.
121
l. dallai
fig. 5 – Monteleo, posizionamento delle strutture metallurgiche antecedenti la fase di costruzione delle fornaci da calcinazione. A) resti degli
impianti produttivi legati all’affinamento/rifusione di minerali cupriferi
localizzati all’estremità Sud dell’Area 1000, con indicazione dei valori
rilevati mediante analisi pXRF. B) Il forno a chiave per la fusione di
minerali cupriferi risalente al XV secolo durante la fase di analisi pXRF.
fig. 6 – Monteleo, posizionamento delle strutture metallurgiche antecedenti la fase di costruzione delle fornaci da calcinazione. C) Prefurnio
della struttura metallurgica legata all’affinamento dei minerali cupriferi
localizzata all’estremità Nord dell’Area 1000.
contributo di Volpi, Chiarantini in questo volume). Gli
indicatori di produzione sono stati individuati in più punti,
in particolare all’estremità Sud dell’Area 1000, in associazione
a resti di possibili strutture produttive ormai distrutte (fig.
5A), ed all’estremità Nord dell’Area 1000, a ridosso di una
struttura fusoria in buona parte sviluppata al di sotto delle
successive fornaci da calcinazione di XVI secolo (fig. 6C).
Gli indicatori raccolti testimoniano l’esistenza di una fase
strutturata di attività metallurgiche condotte sul sito di
Monteleo nei secoli centrali del Medioevo, i cui rapporti con
la presenza del grande giacimento di alunite costituiscono
uno dei temi di ricerca più promettenti ed al momento in
fase di approfondimento.
L’esistenza di attività metallurgiche connesse alla fusione
o alligagione di minerali cupro-argentiferi e zinciferi caratterizza anche le cronologie immediatamente successive; lo
scavo ha infatti individuato i resti di un “forno a chiave”,
sufficientemente ben conservato per determinarne aspetto
e dimensioni, realizzato in laterizi. La camera circolare,
parzialmente interrata, ha un diametro interno di 1,5 m,
ed è preceduta da un prefurnio strombato della lunghezza
complessiva di 150 cm. La fornace fu in parte obliterata dalla
costruzione delle fornaci di XVI secolo (in particolare dal
forno 2); dagli strati di distruzione della stessa provengono
frammenti di maiolica arcaica e di zaffera databili alla prima
metà del XV secolo (fig. 5B).
La somma di queste evidenze, parzialmente o del tutto
distrutte dalla costruzione delle fornaci da calcinazione
muraglia realizzata con l’impiego di grossi blocchi di pietra
irregolari. L’individuazione di alcuni probabili percussori in
quarzoarenite ha sostenuto l’ipotesi di una finalità produttiva
anche per questa prima occupazione della collina (Dallai,
Volpi 2015).
Le tracce menzionate sono sopravvissute ad una consistente attività di regolarizzazione ed uso del versante che
due diverse datazioni 14C hanno datato alla fine del XIII
secolo 15. In questa fase l’area, sulla quale insistevano già
alcune strutture delle quali rimane traccia nelle fosse di
spoliazione, vide la realizzazione di una serie di impianti produttivi connessi a cicli distinti ma verosimilmente collegati
fra loro funzionalmente: attività di forgia e tracce del ciclo
di affinamento e rifusione di minerali cupro-argentiferi e di
zinco. Quest’ultima attività è stata individuata sia attraverso
le anomale concentrazioni elementali (in particolare Cu, Pb
ed Ag) riscontrate attraverso l’analisi chimica pXRF condotta
sui suoli in fase di scavo, sia per la presenza di colaticci e
gocce di piccole e piccolissime dimensioni, in alcuni casi aderenti a frammenti laterizi e resti di crogioli successivamente
sottoposti ad analisi archeometriche (si veda in dettaglio il
15
I campioni sono stati preparati chimicamente presso il laboratorio di
preparazione misure isotopiche del Dipartimento di Scienze e Tecnologie
Ambientali della Seconda Università di Napoli, grafitizzati e misurati con
metodologia AMS presso il laboratorio LABEC-CHNet dell’INFN presso
l’Università di Firenze.
122
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo
fig. 7 – Monteleo, Area 3000. La caldaia da lisciviazione US 3032: A)
vista dell’interno della vasca; B) rilievo fotogrammetrico della struttura.
fig. 8 – Monteleo, Area 3000. La caldaia da lisciviazione US 3016: A)
vista dell’interno della vasca; B) prospetto.
dell’allumiera, prova che il sito produttivo di Monteleo, fra
lo scorcio del XIII e la prima metà del XV secolo, conobbe
più fasi d’uso di carattere metallurgico. Gli impianti furono
collocati immediatamente a ridosso di un grande giacimento di minerali alluminiferi, in prossimità di quella che è
attualmente l’area di cava più rappresentativa della fase di
sfruttamento del minerale databile alla prima Età Moderna
(fine XV-prima metà XVI secolo), cioè Buca dei Falchi.
Nella seconda metà del XV secolo sul sito si registra un
significativo investimento finalizzato alla realizzazione di
impianti certamente destinati alla produzione di allume
alunitico (allume artificiale). In questo stesso periodo tutti i
giacimenti alluminiferi della Penisola, e fra essi anche quelli
toscani, conobbero una stagione di capillare sfruttamento.
Nel territorio delle Colline Metallifere a partire dagli anni
’70 del XV secolo, i documenti menzionano la nascita di
sette allumiere (Boisseuil 2005, p. 107); a Monterotondo
Marittimo in particolare, nel 1471 è attestata una prima
società costituitasi per produrre allume e probabilmente
per sfruttare proprio il giacimento di Monteleo. Due libri
mastri e due registri di conti del biennio 1507-08, tenuti dal
direttore dell’allumiera detta delle ‘Crocicchie’, struttura
collocata entro la curtis di Castiglion Bernardi, cioè proprio
nell’area di cui ci occupiamo, e probabilmente coincidente
con gli impianti di Monteleo, restituiscono informazioni
dettagliate su aspetti tecnici del ciclo di produzione, sui co-
sti della gestione dell’impianto, sul ritmo della produzione,
sull’impiego di manodopera, sulla necessità di restauri alle
infrastrutture, evidenziando fra l’altro il riuso nel tempo di
strutture già esistenti (Boisseuil, Chareille 2009).
Lo scavo ha individuato e proposto l’interpretazione funzionale dei differenti impianti emersi nel corso delle indagini
e riferibili a questa fase storica. A ridosso del fronte di cava
di Buca dei Falchi, sfruttando il versante ben esposto della
collina che venne regolarizzato e terrazzato per creare uno
spazio operativo, fu edificata una batteria di quattro fornaci
da calcinazione. Gli impianti, incassati lungo il fianco del
poggio e molto simili a fornaci da calce, misurano circa
2,70 m di altezza (fig. 5). Una struttura muraria massiccia,
squadrata, realizzata con l’impiego di rocce calcaree e sedimentarie legate da malta, ospita le quattro camere circolari del
diametro di 2,50 m, interamente foderate in laterizi; questi
ultimi mostrano evidenti tracce di vetrificazione dovute alle
elevatissime temperature a cui le fornaci giungevano (in
genere tra i 600° e i 700°); così si trasformava l’alunite in
solfato anidro, solubile in acqua. Di fronte agli impianti si
trovava un’area aperta, regolarizzata ed ampliata artificialmente, immediatamente prospiciente il corso del torrente
Risecco (Area 1000).
Sulla riva opposta del corso d’acqua, facilmente raggiungibile grazie ad un punto di guado che la cartografia
settecentesca mostra attrezzato di un basso ponte, su un
123
l. dallai
terrazzo fluviale pianeggiante regolarizzato e delimitato da
una possente muratura furono realizzate le piazze per la macerazione; l’individuazione dei resti di piani rivestiti in malta
e di canalizzazioni che convogliavano l’acqua dal torrente
verso l’area produttiva, sistema di cui lo scavo ha indagato
ad oggi una piccola porzione, avvalorano l’interpretazione
funzionale dell’area.
A ridosso delle piazze di macerazione furono posizionate
le caldaie da lisciviazione. Le due strutture presenti sul sito
si differenziano in parte, e ciò è dovuto al rimaneggiamento
che una delle due subì nell’ultima fase di vita del complesso
produttivo (XVIII secolo) (fig. 7). La seconda struttura (fig.
8), al contrario, risulta particolarmente interessante per la
stretta aderenza al tipo di caldaia descritto dalla trattatistica
rinascimentale. Essa è composta da una vasca troncoconica
realizzata in laterizi, al di sotto della quale si apre una camera
di combustione di forma cilindrica. La vasca, del diametro
massimo di 3 m, doveva essere originariamente foderata in
cocciopesto, così come indicato da Biringuccio nel De la
Pirotechnia (Biringuccio 1540, cap. VI) e completata con
l’inserimento di un fondo in rame ben sigillato, in cui la
soluzione doveva bollire per circa 24 ore. Il rinvenimento di
questa caldaia rappresenta la prima attestazione archeologica
di una simile tipologia di struttura produttiva nella nostra
Penisola.
6. L’ORIZZONTE FINALE DELLA PRODUZIONE
Le indagini stratigrafiche hanno fatto emergere una serie
di testimonianze ceramiche (frammenti di ingobbiate sotto
vetrina ed invetriate verdi) provenienti principalmente, ma
non esclusivamente, dalle stratigrafie dell’Area 3000 (fig. 9),
la cui cronologia rimanda costantemente ad una cronologia
di fine XVI-XVII secolo. I manufatti, rinvenuti in strati di
rimaneggiamento o accumulo/incremento di quota relativi
a fasi di ristrutturazione degli impianti produttivi, testimoniano che, dopo la fase di sfruttamento di fine XV-XVI
secolo (si veda il contributo di Ponta in questo volume), il
sito conobbe un nuovo uso, certamente a fini produttivi. A
tale proposito appaiono particolarmente significative due
fig. 9 – Monteleo, Area 3000, planimetria
generale.
124
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo
fig. 10 – Monteleo, Area 3000. A) La canalizzazione US 3549 in fase di scavo; B) restituzione
3D della struttura.
della reggenza lorenese conte di Richecourt ed incaricato
di valutare la produttività dell’allumiera e le prospettive di
sfruttamento del giacimento 17. Monteleo fu infatti oggetto
di un cospicuo investimento da parte del Richecourt, che
si concretizzò nella realizzazione di nuove fornaci, caldaie e
canalizzazioni, oltre all’apertura di diversi fronti di cava lungo
le due sponde del torrente Risecco (Dallai, Ait, Ponta 2018).
L’esito dell’iniziativa, come noto, non fu però positivo, e la
fabbrica dell’allume di Monteleo cessò definitivamente la
produzione nella stagione 1752-53 18.
Quando il Targioni visitò la fabbrica di Monteleo vide i
resti di edifici più antichi, che menzionò nella sua relazione. E
d’altra parte la presenza di precedenti attività di sfruttamento
del deposito minerario fu una vera e propria linea guida per
selezionare su quali delle risorse del Granducato valesse la
pena di puntare per nuovi investimenti.
menzioni della metà del XVII secolo (anno 1669) relative
agli appaltatori della cava dell’allume di Monterotondo
Marittimo, ai quali il Camarlengo ed i rappresentanti della
comunità erano tenuti a consegnare un certo quantitativo di
laterizi per poter provvedere all’edificazione di una cisterna 16.
Un’allumiera dunque ancora esisteva, ed anzi si provvedeva
alle necessarie opere di conserva delle acque, il che sembrerebbe indicare che essa fosse operativa. Null’altro sappiamo
al momento di questa fase di sfruttamento del deposito, che
comunque presenta volumi di estrazione tali da poter contemplare orizzonti cronologici ampi, compresi quelli a cavallo
fra l’Età Moderna e il XVII secolo (si veda il contributo di
Poggi e Buono in questo volume).
La storia finale dell’Allumiera di Monteleo è nota, oltre
che dalle evidenze ancora ben conservate e relative alle ultime strutture produttive risalenti alla metà del XVIII secolo,
per una importante memoria redatta nel 1745 da Giovanni
Targioni Tozzetti, inviato sul sito per conto del presidente
17
La descrizione è conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
(manoscritto Palatino n. 1065). Il Targioni ritenne di darne alle stampe alcune
parti nel tomo IV delle sue Relazioni, nella sezione che ha per titolo Relazione
di un viaggio fatto dal dottor Giovanni Targioni Tozzetti nella primavera dell’anno
1745, pp. 312-351.
18
Una sintesi della relazione di Targioni e delle vicende storiche del sito in
Riparbelli 1984, pp. 67-74.
16
ASS, Quattro Conservatori, 1669, ins. 219, fogli 196, 221 v.; «E dalli
Rappresentanti e Camarlengo della Comunità di consegnare alli subappaltatori
della cava dell’allume in quella corte, tutto il lavoro quadro e quadrucci che
detta comunità si ritrova già provista per farne una citerna». Ringrazio il dottor
Niccolò Malacarne per la segnalazione e la trascrizione.
125
l. dallai
A Monteleo le realizzazioni legate all’ultimo periodo di
attività sono imponenti: oltre a significativi rimaneggiamenti
delle strutture produttive più antiche, che interessarono in
particolare l’area delle caldaie da lisciviazione, si provvide alla
nuova edificazione di una serie di forni da calcinazione (oggi
in parte obliterati dalla sede stradale), due caldaie da lisciviazione coperte da un porticato, due piazze da macerazione,
un edificio detto lo “Stanzone delle Casse”, che ospitava le
vasche di cristallizzazione ed era direttamente collegato con
le caldaie dalle quali, attraverso una serie di canalizzazioni
in legno, la liscia veniva scaricata direttamente nei cassoni.
Un articolato sistema di canalizzazioni raccordava le piazze
di macerazione, le caldaie stesse e la stanza con le casse di
cristallizzazione, posta ad Est di queste ultime, dove oggi
insiste la viabilità.
Targioni descrive le due piazze di macerazione come spazi rettangolari lastricati di circa 15×5 m, delimitati sui lati
lunghi da fosse profonde circa 1,5 m e larghe poco più di un
metro, sempre piene di acqua derivata da un canale e da una
gora artificialmente distaccata dal torrente Risecco, e suddivise all’interno da cateratte e chiuse. L’acqua di risulta della
macerazione veniva raccolta in queste stesse fosse, e, poiché
carica di allume, diveniva sostanza utile al ciclo produttivo
e come tale inviata alla caldaia.
A Monteleo vi erano due caldaie che lavoravano a ciclo
continuo, così che mentre una veniva riempita con la pasta
di allume e l’acqua ed avviata alla produzione della liscia,
l’altra veniva svuotata e ripulita. La liscia, come detto, era
poi inviata, tramite una serie di condotte in legno, ad una
prima grande cassa detta “zanfone”, dove veniva lasciata a
decantare per liberarla dalle parti terrose. Successivamente
il liquido passava alle singole casse. Una volta alla settimana
lo “zanfone” veniva ripulito e lavato dal deposito terroso, e
quest’ultimo era indirizzato verso una grande canalizzazione
di raccordo fra l’allumiera e il torrente (posizionamento in
fig. 10), che è stata in parte scavata nel corso delle indagini.
La canalizzazione è realizzata in bozze di macigno locale
non regolarizzate, legate da malta. La copertura a volta si è
conservata solo parzialmente, ed era originariamente realizzata in laterizi.
Una grande massa di inerti di varia natura ne ingombrava
l’interno fino alla profondità di -2,84 m dal piano di campagna, quota a partire dalla quale è stata scavata e documentata
una sequenza ininterrotta di strati ricchissimi di alluminio e
potassio, cioè la ripulitura del cosiddetto “zanfone”. Il colore
di questi strati di consistenza talcosa, spessi mediamente una
decina di centimetri, varia dal rosa chiaro, al rosso, al bianco,
al grigio. Le analisi effettuate con XRF portatile hanno rilevato gli alti tenori in Al (Alluminio) e K (Potassio), attestati
fra il 5 e l’8%, ed in alcuni casi fino al 10% (fig. 11). Ai due
elementi si aggiunge in alcuni casi una percentuale rilevante
di Fe (Ferro) (fino al 2%), che determina una alterazione
cromatica molto netta e virata al rosa o al rosso scuro.
Da alcuni degli strati provengono piccoli frammenti di
laterizi, carbone ed alcuni frammenti ceramici, riferibili con
certezza al XVIII secolo. La rimozione della stratigrafia ha
fatto riemergere la pavimentazione originaria della canalizzazione, realizzata in grossi ciottoli legati da malta ed impostata
alla quota di -5,70 m dall’attuale piano di campagna; l’incli-
fig. 11 – Monteleo, Area 3000, canalizzazione US 3549. Strato con
elevata percentuale di Alluminio e Potassio (US 3595).
nazione registrata nella porzione indagata è di soli 2 cm per 4
m di lunghezza, che equivale ad una pendenza di 0,5 cm ogni
metro (la lunghezza totale della struttura è stimabile attorno
ai 40 m). Questa inclinazione modesta, unita ad una certa
densità del liquido in uscita, ha permesso il depositarsi degli
strati che, con la loro composizione, hanno fornito elementi
utili per ulteriori riflessioni.
Gli strati, certamente riferibili alle attività dell’allumiera
granducale della metà del XVIII secolo, risultano di estremo interesse perché documentano la qualità ed il tenore in
elementi delle acque in uscita dal ciclo di lavorazione, in
particolare al termine della cristallizzazione. La presenza
di S (Zolfo) rilevata in più occasioni induce, però, qualche
ulteriore considerazione; lo Zolfo infatti non dovrebbe essere
presente nella fase di lisciviazione, mentre può comparire
(a seguito di una calcinazione non ben riuscita) in quella
di macerazione. È dunque possibile che almeno una parte
dei residui rinvenuti siano il frutto di questo secondo step
produttivo, e che la canalizzazione sia stata al servizio di una
serie di necessità del complesso produttivo ed in particolare
rechi traccia delle ultime attività avvenute sulle piazze di
macerazione nel corso del XVIII secolo.
Lo scavo di questa singolare struttura e l’utilizzo delle
analisi pXRF ha offerto per la prima volta l’opportunità di
documentare scientificamente e descrivere chimicamente
le caratteristiche di un indicatore di produzione del ciclo
dell’allume alunitico molto significativo, ma archeologicamente invisibile.
126
Lo scavo dell’Allumiera di Monteleo
7. RIFLESSIONI FINALI
duttivi complessi, come sono quelli metallurgici attestati
nel comprensorio. E dunque all’interno di questa cornice
l’alunite di Monterotondo Marittimo (e naturalmente delle
altre aree di giacimento dislocate nel distretto) poteva essere
trattata in loco (necessariamente in fornaci, prima di essere
lisciviata) ed il suo prodotto inviato là dove la presenza
di particolari attività manifatturiere o metallurgiche ne
rendessero vantaggioso l’utilizzo (ad esempio a Montieri,
o in altre zone di trattamento metallurgico).
Si può naturalmente obiettare che gli elementi raccolti
non provano automaticamente che nel Medioevo nel
distretto delle Colline Metallifere si cuocesse e lisciviasse
l’alunite ‘anche’ per ricavarne allume, ma i dati emersi dalle
indagini archeometriche pongono con tutta evidenza una
grossa ipoteca sul punto, tanto più se si considera che il
metodo di lavorazione dell’alunite (cottura, macerazione,
lisciviazione e cristallizzazione) era noto in occidente almeno dall’inizio del XIV secolo, se vogliamo limitarci a
considerare le fonti scritte e la puntuale descrizione fornita
da Pegolotti. La scelta compiuta alla fine del XIII secolo
di installare le prime officine metallurgiche a Monteleo,
proprio in prossimità della grande cava di alunite, costituisce una prova indiziaria ulteriore dell’interesse attribuito
a questa materia prima.
Lo scavo del sito di Monteleo, oltre ad evidenziare la
presenza di attività produttive già di periodo medievale,
ha chiaramente mostrato il netto cambio di scala dell’investimento che si registra nella seconda metà del XV secolo,
con la realizzazione delle grandi fornaci dell’allumiera.
Questa è la fase storica in cui anche le fonti documentarie
evidenziano, in Toscana e nel resto della Penisola, un grande
impulso nello sfruttamento dei depositi alunitici.
Ma fu essa davvero la prima stagione di valorizzazione
di tale importante risorsa? E su quale substrato di competenze tecniche si appoggiarono gli investitori che diedero il
via alle sette allumiere (fra cui quella di Monteleo) fiorite
in un trentennio, a partire dagli anni ’70 del XV secolo,
nel territorio delle Colline Metallifere? Crediamo che gli
elementi raccolti ed illustrati sin qui gettino luce su una
storia ben più complessa, che si inserisce saldamente nella
lunga tradizione estrattiva e metallurgica del Medioevo
e fornisce una base solida per il dispiegarsi della grande
stagione dell’allume di XV secolo. In questa storia produttiva l’alunite riveste un ruolo certamente meno visibile
rispetto a quello del rame, del piombo e dell’argento,
ma non necessariamente di minore rilevanza economica.
Prendendo a prestito le parole di Tiziano Mannoni ed
Enrico Giannichedda, ricordiamo che «Un esperimento
da fare ogni volta che si constati nei reperti archeologici
la presenza di una tecnica produttiva imprevista in una
certa cultura, consiste nel controllare nei periodi precedenti se tale tecnica già esisteva nello stesso territorio, o se
esisteva comunque una tecnica dalla quale quella studiata
potrebbe facilmente derivare (…) È infatti assai raro che
un’attività produttiva comparisse solo in un certo periodo»
(Mannoni, Giannichedda 1996, pp. 17-18). Credo che
questa valutazione si adatti perfettamente al caso dell’allume alunitico, risorsa chiave, dalla visibilità intermittente.
A conclusione di questa esposizione di dati è utile qualche riflessione finale per portare a sintesi quanto illustrato.
Nel territorio delle Colline Metallifere le evidenze
archeologiche attestano la vocazione produttiva del distretto per un arco di tempo amplissimo, che inizia con
l’Eneolitico; naturalmente gli obiettivi variarono nel corso
dei secoli, in funzione delle diverse tecnologie disponibili, delle congiunture economiche, degli assetti politici. I
giacimenti polimetallici, dal canto loro, hanno consentito
l’approvvigionamento di una serie di minerali appetibili,
i solfuri misti di rame, piombo e argento, nonché reso disponibili idrossidi ed allumi. L’uso del plurale per quest’ultimo insieme di materie prime si giustifica alla luce delle
riflessioni svolte nei paragrafi precedenti, ed apre la strada
ad un ventaglio di possibili interpretazioni delle prime
menzioni che i documenti fanno del termine “allume”, in
riferimento al territorio delle Colline Metallifere ed a quello
di Monterotondo Marittimo in particolare.
Sulla base di quanto sopra esposto, è più che ragionevole ritenere che, forse già a partire dai secoli di stesura
delle Compositiones Lucenses (VIII-IX secolo) e certamente
dal XIII secolo, quando se ne fa esplicita menzione nei
documenti, nell’area fossero sfruttati i cosiddetti “allumi
naturali”, ossia i diversi solfati idrati di sodio, magnesio,
ferro e alluminio, di cui il territorio è ricco.
Le indagini archeometriche condotte su campioni di
scorie provenienti dal comprensorio di Montieri e legate al
trattamento di minerali piombo-argentiferi, hanno inoltre
evidenziato che, almeno dal XIII secolo, in presenza di
mineralizzazioni dal trattamento complesso come quelle
piombo/zinco, era maturata la competenza tecnica di
impiegare l’alumina, ottenuta dalla lavorazione a caldo
dell’alunite, con funzione di scorificante.
Dal canto suo, lo scavo di Monteleo ha mostrato la
lunga durata del sito produttivo; per limitarci al periodo
medievale ed all’Età Moderna, oggetto di questo contributo, ricordiamo come, fra la fine del XIII e la prima metà
del XV secolo, esso fosse un centro metallurgico dove
si effettuavano attività di affinamento ed alligagione di
minerali di rame e zinco (produzione di leghe bronzee), e
poi, dalla seconda metà del XV e fino alla metà del XVIII,
anche se con discontinuità, divenisse sede di una allumiera.
La topografia ha infine messo in luce la particolare
vitalità insediativa dell’area circostante il giacimento alunitifero di Monteleo per un arco cronologico lunghissimo;
alla base di questo dinamismo si sono riconosciute la
presenza di significative risorse (boschive e del sottosuolo
in particolare) ed una importante viabilità di raccordo fra
costa ed entroterra, di antica origine, sviluppata lungo le
valli fluviali di Cornia e Milia. La conseguente circolazione di merci e competenze all’interno del distretto delle
Colline Metallifere (Monterotondo Marittimo, Montieri,
Massa Marittima ed oltre), facilitata dalla unitarietà
politica ed economica del contesto che fino al X secolo
rimase di fatto un grande spazio pubblico, rende più che
realistico ipotizzare un altrettanto agile movimento delle
materie prime essenziali per il buon esito dei cicli pro-
127
l. dallai
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territory the research conducted by the University of Siena
has identified various alum mines (open casts and galleries)
and the remains of some relevant alum productive sites (the
so colled “allumiere”) dating back to the 15th-16th centuries.
The investigation of the Monterotondo Marittimo district
in particular, started in 2004 with an accurate topographic
campaign, has produced valuable indications regarding the
settlement patterns and their relation to the exploitation of
natural resources. From 2008 to 2016, the excavation of an
Early Modern Age alum production site located in the heart
of an alunite deposit, the Allumiera di Monteleo, provided an
exceptional opportunity to explore the various steps involved
in the processing of raw materials; in addition, the excavation
has highlighted the versatility of such production centers. The
research undertaken in the Monterotondo Marittimo district
has offered the possibility to cross different sources (archival;
archaeological; geological; cartographic) to investigate a wide
diachrony of the use of raw materials. Starting from the
evaluation of these systems of sources and pivoting on the
new data coming from the last archaeological campaigns
on the Allumiera di Monteleo, the paper offers a diachronic
rereading of the exploitation of local resources with a special
focus on the Medieval and Early Modern periods.
129
Vanessa Volpi*, Laura Chiarantini**
ARCHEOMETRIA DELL’ALLUME:
CICLI PRODUTTIVI A CONFRONTO FR A IL SITO DI MONTELEO
E GLI ALTRI CONTESTI PRODUTTIVI DELLE COLLINE METALLIFERE
Archaeometry of alum: a comparative analysis of the production cycles in the site
of Monteleo and in other production contexts of the Colline Metallifere
1. INTRODUZIONE
natura delle diverse produzioni fino ad ora attestate sul sito e
la loro cronologia in un contesto plurifase e multiproduttivo.
Il sito delle Allumiere di Monteleo è situato all’interno
del distretto minerario delle Colline Metallifere (Toscana
Meridionale) che si estende dalle località di Campiglia
Marittima fino a Massa Marittima, comprendendo anche le
aree pianeggianti e costiere di Scarlino e del golfo di Follonica.
I depositi minerari di questa zona si sono formati a seguito del magmatismo Pliocenico, grazie alla circolazione di
fluidi idrotermali che si sono insinuati lungo faglie normali
Plioceniche-Pleistoceniche, come nell’area di BoccheggianoMontieri (Liotta et al. 2010; Brogi, Cordoneschi 2007) e
di Massa Marittima (Marinelli 1983) dando origine ai giacimenti a solfuri misti di Fe, Cu, Pb e Zn (Tanelli 1977). La
genesi di tali depositi ha fatto sì che questo territorio venisse
sfruttato fin dall’antichità per l’estrazione di metalli e minerali
come ferro, piombo, rame, argento, carbone, pirite e allume.
La storia produttiva del sito delle Allumiere di Monteleo
è legata principalmente al ciclo produttivo dell’allume
alunitico, anche se le più recenti campagne archeologiche
hanno messo in evidenza la presenza di lavorazioni legate
al probabile trattamento di solfuri misti di rame e argento
provenienti dal distretto topografico delle Colline Metallifere
(Dallai, Volpi 2015).
Il contributo vuole illustrare come l’integrazione delle
più recenti tecniche di analisi chimica, come la fluorescenza
a raggi X portatile, insieme alle più convenzionali analisi
archeometriche condotte sugli indicatori di produzione,
possano aiutare a comprendere in modo più puntuale i
clicli produttivi che caratterizzano distretti minerari e siti
archeologici a vocazione archeometallurgica.
Verranno presentate le analisi in fluorescenza a raggi X
portatile condotte on-site su specifiche aree del sito delle
Allumiere di Monteleo, per individuare possibili zone collegate alle diverse lavorazioni metallurgiche. Questo tipo di
analisi è stata successivamente integrata con le convenzionali analisi archeometallurgiche (microscopia ottica in luce
riflessa e microscopia elettronica SEM-EDS) condotte sugli
indicatori di produzione e sulle scorie. L’integrazione delle
analisi chimiche e archeometriche, insieme con le ricerche
archeologiche, stanno apportando molti dati utili a spiegare la
2. LE ANALISI pXRF INTRA-SITU
In contemporanea alle attività di scavo, sul sito di
Monteleo sono state realizzate campagne sistematiche di
analisi in fluorescenza a raggi X portatile (pXRF) on-site. Le
analisi sono state condotte usando un analizzatore portatile
Oympus Delta-Premium, equipaggiato con un tubo a raggi
X di 40kV, un detector SDD a grande area, un accelerometro
e un barometro per la correzione della pressione atmosferica.
Le analisi si sono concentrate in particolare sui resti di due
strutture produttive (Area 1000, Saggio 1 e 2) che si localizzano
al di sotto dei forni da calcinazione del XIV secolo e distano
tra loro circa 13 m, e su una terza struttura fusoria distrutta,
situata all’estremità sud dell’area di Scavo (Area 1000, Saggio
3, US 1756) (Dallai, Volpi 2015). Le analisi realizzate sulla
prima struttura, in particolare all’interno del prefurnio e
nell’area a ridosso dell’impianto per il trattamento dell’alunite (US 1670), hanno mostrato concentrazioni elevate di
Cu (50-100 mg/Kg). Il valore più elevato è stato evidenziato
immediatamente a ridosso del primo forno da calcinazione
(forno 1), con una concentrazione di Cu pari a 400 mg/Kg.
Nella seconda fornace le misure sono state invece condotte
all’interno della camera (US 1368). Anche in questo caso si
registrano valori elevati di Cu, attestati fra 50-100 mg/Kg.
Le concentrazioni di Cu in assoluto più elevate sono
state però registrate in corrispondenza della terza struttura
fusoria, che lo scavo ha rinvenuto ormai del tutto distrutta
all’estremità sud dell’area 1000 (US 1756); qui il Cu raggiunge
il picco di 2000 mg/Kg (fig. 1).
Gli indicatori di produzione che provengono dalle tre
strutture consistono in colaticci e gocce di piccolissime
dimensioni di colore verde. In alcuni casi questi ultimi sono
aderenti a frammenti di laterizi, mentre in altri casi sono
attaccate a frammenti di materiale refrattario. Le analisi in
fluorescenza a raggi X portatile realizzate su alcuni di questi
materiali sono riportate in tab. 1.
Essi sono composti principalmente da Cu e Pb con tracce
di Sn, Zn e Ag; elementi come Si, Al e Ca sono caratteristici
del suolo sul quale sono stati rinvenuti. La presenza di Sb e S
potrebbe inoltre essere indice della materia prima utilizzata;
queste impurità sono infatti presenti nelle mineralizzazioni
a solfuri misti delle Colline Metallifere. La presenza di Sn
con percentuali superiori al 2% (campioni 1624-17; 1624-9
* Dipartimento di Biotecnologie, Chimica e Farmacia, Università di Siena
(vanessa.volpi@unisi.it).
** Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Firenze (laura.
chiarantini@unifi.it).
131
V. Volpi, L. Chiarantini
fig. 1 – Monteleo (Monterotondo Marittimo,
GR). Analisi pXRF condotte sulle strutture
produttive.
Sample Mg
1009-2 3.99
1159-5
1624-17 6.50
1624-9
1664-2
Al
0.98
2.96
1.97
1.66
4.91
Si
4.91
13.91
8.72
9.01
15.84
P
0.49
0.53
0.70
0.61
0.55
S
Cl
1.65 8.86
4.40 4.53
4.34
4.90
3.68
K
3.21
3.16
3.92
3.14
4.87
Ca
3.52
2.51
1.69
1.89
2.08
Ti
Mn Fe
Ni
Cu
Zn
Ag
0.12 0.05 0.71 0.08 53.25 0.12 0.27
0.18 0.04 0.96 0.03 56.99
0.22
0.13
1.35 0.08 53.56 2.33
0.10
1.33 0.09 43.43 3.90
0.16
1.34 0.30 52.49 0.74 0.19
Sn
0.20
0.08
4.67
2.74
1.41
Sb
1.34
1.43
0.77
0.85
1.36
Pb
5.76
8.08
9.21
11.35
7.20
tab. 1 – Analisi pXRF sulla
superficie di alcuni indicatori di produzione. I dati
sono riportati in percentuale in peso (%)
e 1664-2) potrebbe invece far presupporre un’attività metallurgica legata alla produzione di leghe in bronzo, come si
evince anche dai dati forniti dalle analisi archeometallurgiche
sui frammenti metallici (tab. 1).
Le analisi pXRF si sono inoltre rivelate utili per delimitare
la distribuzione spaziale di Cu all’interno ed all’esterno delle
strutture fusorie, oltre che per confermare la presenza di un’attività metallurgica legata all’impiego di semilavorati di Cu, che
era già stata ipotizzata sulla base dell’osservazione macroscopica
degli indicatori di produzione. La rilevazione pXRF di Sn su
questi ultimi è stata infine cruciale per capire che le lavorazioni
condotte all’interno delle strutture fusorie non erano dirette
solamente al Cu ma anche alla produzione di bronzo.
3. LE ANALISI ARCHEOMETALLURGICHE
Per tentare di ricostruire in dettaglio l’attività metallurgica che veniva condotta nelle strutture fusorie descritte al
precedente paragrafo sono stati analizzati alcuni indicatori
di produzione. In particolare dalle ricerche archeologiche è
emerso che esistono delle differenze cronologiche relative al
periodo di funzionamento dei tre impianti. Le due strutture
fusorie collocate, l’una all’estremità nord del sito all’interno
del Saggio 1 (indicatori provenienti da US 1670) e l’altra,
parzialmente distrutta, all’interno del Saggio 3 (US 1756)
sono state datate alla fine del XIII secolo, mentre la struttura
fusoria situata all’interno del Saggio 2 (US 1368), diversa sia
nelle dimensioni che nelle modalità costruttive, è stata datata
alla fine del XIV secolo (Dallai, Volpi 2015).
Il solo esame macroscopico degli indicatori di produzione
aveva evidenziato una destinazione produttiva sostanzialmente analoga per tutte e tre le strutture. Al contrario le
analisi archeometriche condotte sulle scorie associate a queste
fig. 2 – Gli indicatori di produzione (piccole scorie metalliche) rinvenuti
sul sito di Monteleo.
strutture produttive forniscono un quadro molto complesso dell’attività metallurgica relativa al trattamento del Cu,
decisamente insolito in un sito principalmente legato alla
lavorazione dell’alunite per la produzione di allume.
Gli indicatori di produzione provenienti dalle tre tipologie
di strutture fusorie sono stati suddivisi in due categorie: piccole scorie metalliche e piccoli panetti metallici senza alcuna
scoria associata (fig. 2).
Le analisi sono state condotte utilizzando i convenzionali
metodi di caratterizzazione mineralogica e petrografica in
microscopia ottica a luce riflessa e caratterizzazione chimica (se132
Archeometria dell’allume: cicli produttivi a confronto
fig. 3 – Foto al microscopio elettronico di un campione di scoria metallica proveniente dalla struttura fusoria rinvenuta nell’Area 1000, Saggio
1. A) Tessitura a grani esagonali della lega di Cu-Pb-Sb; B) Relitto di un cristallo di cassiterite.
La presenza di questi cristalli indica che lo stagno è stato
volontariamente aggiunto per produrre una lega di bronzo,
ma che il metallo non è stato opportunamente alligato
(Northover, Rehren 1992).
Altri campioni di scorie metalliche analizzate provengono
invece dalla fornace situata nel Saggio 2 (US 1368). Questi
materiali presentano delle differenze composizionali e tessiturali molto evidenti rispetto a quelli rinvenuti nel Saggio 1.
La parte metallica è composta da una lega ternaria di Cu-Sn e
Pb con tracce di Zn e risulta essere molto alterata. La microstruttura della lega, anche se solo parzialmente riconoscibile
a causa di un’alterazione molto spinta del campione, è anche
in questo caso a grani esagonali (fig. 4).
La differenza più significativa tra questi materiali e quelli
provenienti dal Saggio 1, apparentemente uguali a livello
macroscopico, è che in questo caso lo Sn, intenzionalmente
aggiunto, è entrato in lega e non sono mai stati ritrovati
cristalli di cassiterite negli interstizi tra i grani.
Le tracce di Sb, presenti in tutti i campioni, indicano che la
materia prima fosse di provenienza locale. L’antimonio infatti
è un elemento tipico dei solfuri misti (tipo tetraedrite) delle
Colline Metallifere dai quali veniva estratto il Cu.
Le analisi hanno confermato l’ipotesi che a Monteleo, alla
fine del 1200 e nella prima metà del XV secolo, venissero
svolte attività metallurgiche relative alla lavorazione del Cu;
esse hanno inoltre evidenziato le differenze composizionali
e tessiturali esistenti tra le piccole scorie metalliche appartenenti ai due orizzonti cronologici sopra indicati.
La principale attività produttiva svolta era la produzione
di leghe ternarie (Cu-Sb-Pb) e quaternarie (Cu-Sb-Pb-Sn).
Tutti i frammenti metallici rinvenuti nelle tre strutture
produttive sono simili e testimoniano un processo di alligazione di Cu e Sn per la produzione di bronzo. Un aspetto
relativo alla tecnologia produttiva molto importante è quello
dell’alligazione dello Sn. In particolare, in tutti i campioni
ritrovati nelle strutture di fine 1200, lo Sn non è mai in lega
con il Cu, probabilmente per la scarsa efficacia nel controllo
delle condizioni (atmosfera troppo ossidante) del processo
produttivo (Northover, Rehren 1992). La tecnologia di
lavorazione risulta notevolmente migliorata dall’analisi dei
fig. 4 – Foto al microscopio ottico in luce riflessa di un campione di
scoria metallica proveniente dalla fornace del Saggio 2. Si osservano
i relitti della microstruttura a grani esagonali di una lega composta
principalmente da Cu-Sn.
miquantitativa) tramite microscopia elettronica (SEM-EDS)
eseguita presso il Centro M.E.M.A. dell’Università di Firenze.
I panetti metallici provenienti dalla struttura fusoria del
Saggio 3 (US 1756) sono composti da una lega quaternaria
di Cu-Sn-Pb e Sb con tessitura dendritica non deformata.
Questo tipo di tessitura è tipica di quei materiali che vengono
solamente colati, forse in degli stampi, e non lavorati a freddo,
altrimenti le strutture dendritiche dovrebbero essere deformate.
Un altro campione, sempre appartenente alla tipologia dei
panetti metallici, risulta composto da solo Cu con qualche
impurezza di Sb e Pb con tessitura a grani esagonali. In questo
caso la tessitura indica che il materiale potrebbe aver subito
un processo di annealing; un trattamento di “ricottura” ad alta
temperatura del metallo che permetteva di rendere il materiale
più morbido per le lavorazioni successive (Scott 1991).
Dall’area antistante la fornace obliterata dal forno 1 (Area
1000, Saggio 1, US 1670) provengono principalmente piccole
scorie metalliche che sono invece composte da una parte
metallica e da una parte di scoria. Il metallo è composto da
una lega ternaria di Cu-Pb-Sb con tessitura a grani esagonali.
Tra gli interstizi dei grani sono stati osservati dei cristalli di
cassiterite (SnO2) (fig. 3).
133
V. Volpi, L. Chiarantini
campioni rinvenuti nella fornace del Saggio 2, di età più
recente (prima metà XV secolo). In questo caso, come già
descritto precedentemente lo Sn è entrato in lega con il Cu.
Tutti i campioni sono frammenti di rame e bronzo grezzi,
senza una forma ben definita, ed in nessuno sono stati rilevati
evidenti segni di lavorazione, né a caldo né a freddo, per la
produzione di oggetti finiti.
In conclusione tutti i materiali analizzati sono tipici dei
processi di lavorazione metallurgica legata alla produzione
di leghe e sono molto comuni in siti legati alla lavorazione
del bronzo (Chiarantini et al. 2010).
Sengil 2003). È pertanto possibile che queste sostanze, impiegate a Montieri per depurare il piombo argentifero dallo
zinco, siano gli scarti dell’arrostimento e della lisciviazione
dell’alunite dopo aver estratto il solfato di potassio. Se così fosse
si tratterebbe di un altro impiego dell’alunite (in senso lato),
connesso con le attività metallurgiche del territorio e che può
dare giustificazione alla apparentemente insolita associazione
fra produzione dell’allume e metallurgia.
5. CONCLUSIONI
Le analisi pXRF on-site hanno consentito di identificare,
all’interno di specifiche aree del sito di Monteleo, quale fosse
la distribuzione spaziale del Cu all’interno ed all’esterno delle
strutture fusorie oltre che confermare la presenza di un’attività
metallurgica legata all’impiego di semilavorati complessi di
Cu. Le indagini preliminari pXRF sulla composizione chimica degli indicatori di produzione hanno evidenziato inoltre
la presenza di leghe bronzee; tale dato è stato confermato
anche dalle indagini metallurgiche di dettaglio condotte sui
reperti. L’integrazione dei dati storici, archeologici, chimici e
metallurgici conferma l’ipotesi che a Monteleo, tra la fine del
1200 e la prima metà del XV secolo, venisse svolta un’attività
metallurgica relativa alla lavorazione del Cu ed in particolare alla produzione di leghe bronzee. È auspicabile che il
proseguo della ricerca archeologica in questo contesto possa
aiutare a comprendere con maggior chiarezza la funzione di
tale attività metallurgica e le sue relazioni con l’estrazione
dell’alunite documentata nel sito.
4. L’ALLUME DI MONTELEO
E LE ATTIVITÀ METALLURGICHE
DELLE COLLINE METALLIFERE
Sebbene tutti gli indicatori di produzione concordino
con una attività metallurgica incentrata sulla produzione di
leghe bronzee, l’assenza di frammenti di oggetti finiti (come
possibili utensili) non consente di chiarire la funzionalità
di tale attività in un sito che è relativamente distante dalle
possibili aree di approvvigionamento del metallo (quali le
mineralizzazioni dell’area di Montieri e Rocchette) e dove
l’attività produttiva principale è stata quella dell’estrazione e
lavorazione dell’alunite. L’uso dell’allume (in senso lato) e dei
suoi derivati (soluzioni acide di vario tipo) è menzionato nella
letteratura antica nel trattamento dei metalli, ma si tratta in
genere di operazioni di finitura e pulitura di metalli preziosi,
come l’imbiancatura (Arles, Téreygeol, Gratuze 2007;
Cope 1972). Data la scarsa concentrazione di metalli preziosi
rinvenuta in scorie e frammenti metallici di Monteleo, questo
tipo di operazioni di raffinamento sulle leghe da noi rinvenute
sembra poco plausibile, anche se non possiamo escludere
che tali attività venissero condotte nel sito e in particolare su
altri materiali di cui non è ancora stata ritrovata traccia nel
record archeologico. In alternativa possiamo supporre che ci
potesse essere uno scambio di materie prime e semilavorati
fra l’area di Monteleo e le aree metallifere del territorio. Nello
specifico l’allume e i sui derivati potevano essere esportati
verso le zone di produzione e raffinamento dei metalli dove
venivano raffinati argento, piombo e rame, mentre alcune
leghe a basso tenore di metalli preziosi (sostanzialmente rame
grezzo, ricco in Sb e Pb) venivano importati a Monteleo per
una piccola produzione locale.
In tal senso è interessante menzionare ciò che è emerso
dalle analisi di alcune scorie del XIII secolo rinvenute nell’area
di Montieri (Chiarantini et al. 2014). In molte scorie legate
all’estrazione del piombo argentifero, ed in particolare in tutti
gli scarti legati al raffinamento del “buglione di piombo grezzo”
si ritrovano grossi cristalli relitti di fasi ad alluminio (α-Al2O3)
che sembrano essere stati aggiunti con funzione di scorificante
per fissare lo zinco nelle scorie e rimuoverne le impurità nel fuso
metallico (buglione). Tale procedura doveva essere condotta
soprattutto nell’area di Montieri, dove i minerali di piombo
argentifero sono comunemente associati a minerali di zinco.
Quello che ci riporta all’alunite (e forse a Monteleo) è che
queste fasi ad alluminio (α-Al2O3) si formano per decomposizione termica dell’alunite che, se arrostita sopra i 750°C gradi,
si decompone in α-Al2O3, K2SO4 e SO3) (Özacar, Ayhan
BIBLIOGR AFIA
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used in the french Medieval minting in Congress Proceedings of 2nd
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terrains: the ore deposits of the Boccheggiano-Montieri area (southern
Tuscany, Italy), «International Journal of Earth Sciences», 99-3,
pp. 623-644.
134
Archeometria dell’allume: cicli produttivi a confronto
alunite ores. Recent archaeological campaigns highlighted
the evidence of a previous activity conducted in this area
and referred exclusively to the treatment of Cu-Sn alloys.
The paper aims to illustrate how the integration of pXRF
analysis conducted on-site and on the slags, together with
the conventional archaeometrical analysis, can help for better understanding sites like Monteleo with productive and
archaeo-metallurgical tradition. In particular, the on-site
pXRF analysis allowed us to identify, within specific areas of
the archaeological site, the pattern of copper concentration
inside and outside the productive structures, confirming
the presence of a metallurgical activity linked to the use of
semi-refined copper products. The integrations of historical,
archaeological, chemical and metallurgical data substain the
hypothesis that in Monteleo site, between the end of 1200s
and the first half of XV century, some metallurgical activities
were carried out, relating to the production of bronze alloys.
Marinelli G., 1983, Il magmatismo recente in Toscana e le sue implicazioni minerogenetiche, «Memorie della Società Geologica
Italiana», 25, pp. 111-124.
Northover J.P., Rehren Th., 1992, The oxidation of bronze, in
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Özacar M., Ayhan Sengil I., 2003, Adsorption of reactive dyes on
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Scott D.A., 1991, Metallography and microstructure of ancient and
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Tanelli G., 1977, I giacimenti a skarn della Toscana, «Rendiconti della
società italiana di mineralogia e petrografia», 33 (2), pp. 875-903.
English abstract
The history of the Allumiera di Monteleo productive
site is mainly linked to the extraction and processing of the
135
Giulio Poggi*, Mirko Buono**
LO STUDIO DI UN CONTESTO PRODUTTIVO ATTR AVERSO
LA QUANTIFICAZIONE DELLA PRODUZIONE: IL CASO
DELL’ALLUMIERA DI MONTELEO (MONTEROTONDO MARITTIMO, GR)
The study of a productive context through production quantification:
the site of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR)
1. INTRODUZIONE
determinazione del numero di strutture e di spazi che erano
necessari alla trasformazione del minerale. Per raggiungere
questo obiettivo, l’analisi si baserà sull’integrazione di dati
desunti dallo scavo archeologico, dalla lettura delle fonti e
dai calcoli volumetrici effettuati sulle strutture e sulle cave
individuate.
In particolare, il calcolo volumetrico è stato realizzato a
partire dai rilievi tridimensionali ad alta risoluzione delle
strutture, che hanno consentito di ottenere misure di precisione dei grandi ambienti, costituiti spesso da forme irregolari
e complesse. Inoltre, tramite gli strumenti di modellazione
tridimensionale è stato possibile ricostruire in ambiente
virtuale l’originaria forma delle strutture alterate o distrutte
dal corso del tempo.
Pur partendo da dati volumetrici affidabili ed ottenuti
in maniera scientificamente accurata, l’interpretazione deve
però essere molto cauta e prendere in considerazione alcune
variabili non facilmente quantificabili. Sfuggono dal calcolo,
ad esempio, gli eventuali errori commessi nel processo produttivo o i guasti alle strutture (Boisseuil, Chareille 2012),
fattori così impattanti sul ritmo produttivo dell’allumiera da
trovare ampio spazio nei documenti 1.
Lo scopo di questo articolo è dunque quello di trasformare i processi di produzione dell’allume in dati numerici
attraverso una quantificazione più attendibile possibile, e di
spiegare la relazione che esiste tra le varie fasi produttive in
funzione della ricostruzione storica ed archeologica del sito
di Monteleo.
Lo studio del sito delle Allumiere di Monteleo ha preso
avvio nel 2008, in concomitanza con la prima campagna
di scavo condotta dal laboratorio LTTM (Laboratorio di
Topografia dei Territori Minerari) del Dipartimento di
Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di
Siena. Lo scavo archeologico per la prima volta ha permesso
di indagare materialmente il ciclo produttivo dell’allume
approfondendo la relazione tra materie prime, strutture, spazi
e organizzazione del lavoro, aspetti che fino a quel momento
erano noti quasi esclusivamente tramite la letteratura (Dallai
et al. 2009). Se il tema dei metodi di sfruttamento e delle
modalità di trasformazione dei minerali è archeologicamente
già molto indagato in questo territorio per altre tipologie di
mineralizzazioni, come ad esempio i solfuri misti (Bianchi,
Bruttini, Dallai 2011), la mancanza di scavi archeologici
di confronto per l’allume, persino nel panorama europeo, ha
reso Monteleo un caso di studio unico (Dallai, Poggi 2012).
I dati emersi durante le nove campagne di scavo hanno
permesso di individuare cronologie di sfruttamento ben
definite e di assegnare, per quanto possibile, una funzione a
ciascun impianto all’interno del ciclo produttivo dell’allume
(cfr. Dallai in questo volume). Utilizzando la mole di dati
raccolta, lo scopo di questo contributo è quello di effettuare
delle stime quantitative delle materie impiegate in ogni attività che caratterizza il processo di produzione dell’allume
e di analizzare l’evoluzione di questa produzione nel tempo,
attraverso il confronto tra i diversi periodi storici in cui l’allumiera è stata sfruttata.
Se informazioni dettagliate circa i quantitativi di allume
prodotto alla fine del ciclo produttivo trovano ampio spazio nelle fonti, non altrettanto accurate sono le descrizioni
delle varie fasi del ciclo produttivo. Infatti, spesso non è
ben esplicitato il legame tra la quantità di materia prima, la
dimensione e il numero di impianti di trasformazione e la
quantità di materiale che veniva messa in circolazione in ogni
fase intermedia. Stimando la portata della produzione di un
sito pluristratificato come quello di Monteleo, tenteremo di
stabilire l’impatto che ciascun periodo di sfruttamento ha
avuto sul contesto dell’allumiera, con un’attenzione particolare per le modificazioni del paesaggio circostante e per la
2. METODOLOGIA
Per il calcolo dei dati volumetrici delle strutture produttive e della cava si è fatto ricorso al supporto di strumenti di
rilievo e di modellazione tridimensionale.
Durante le campagne di scavo archeologico, le numerose
strutture produttive messe in luce sono state documentate
usando la tecnica di rilievo Image-Based 3D Modeling, che
consente di ottenere modelli tridimensionali a partire da un
set di fotografie scattate secondo precise regole. Evoluzione
della tradizionale fotogrammetria, tale tecnica è ormai da
anni implementata con profitto in ambito archeologico
(Dellepiane et al. 2013; De Reu et al. 2014) ed a partire
dal 2012, ne è stato fatto un utilizzo sistematico sperimentale
anche sul sito delle Allumiere di Monteleo (Poggi 2016).
* Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente, Università
di Siena (giulio.poggi@unisi.it).
** Dipartimento di Scienze Storiche e dei beni Culturali, Università di
Siena (m.buono92@gmail.com).
1
137
Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, pp. 275-280.
G. Poggi, M. Buono
L’ottima adattabilità del metodo di acquisizione fotografica a contesti diversi, il relativo basso costo delle attrezzature
necessarie e la rapida elaborazione dei modelli tridimensionali, hanno fatto sì che questa tecnica fosse impiegata con
buoni risultati all’interno della stessa indagine archeologica,
arricchendo la ricerca con il supporto derivante dai dati volumetrici e spaziali (Poggi, Buono 2018). Proprio sul sito di
Monteleo uno studio specifico ha evidenziato l’importanza
delle analisi volumetriche sui crolli delle murature al fine di
ricostruire con precisione l’altezza originaria delle strutture.
Questi dati, insieme ai risultati dello scavo e ai confronti,
hanno permesso la ricostruzione delle dimensioni originarie
e della funzione di una delle strutture individuate, che ha
trovato un confronto perfetto in una fornace da mattoni
cinquecentesca, descritta nell’opera di Cipriano Piccolpasso
(Poggi, Buono 2018).
Per quanto riguarda il presente studio, l’indagine si è
concentrata solamente su quelle strutture che sono state
riconosciute attinenti ai processi produttivi dell’allume.
Tutte le strutture indagate sono ricavate all’interno di
grandi corpi di fabbrica a forma di parallelepipedo, di dimensioni variabili a seconda della cronologia e della tipologia, che
presentano una facciata di lunghezza compresa tra i 20 e i 40
m e un’altezza compresa tra 3 e 5 m. I corpi di fabbrica sono
costruiti in pietra calcarea locale sommariamente sbozzata
legata da malta, e talvolta sono incassati sul declivio di un
rilievo (si tratta in particolare delle fornaci da calcinazione).
Al loro interno erano ricavate le vere e proprie strutture
produttive, cioè i forni e le caldaie. Un’apertura verso l’esterno, detta prefurnio, consentiva l’accesso alla camera di
combustione per la gestione del fuoco e lo svuotamento del
contenuto delle camere stesse.
Per questo tipo di strutture si è scelto di utilizzare la tecnica
di rilievo Image-based 3D Modeling per la buona adattabilità
che essa presenta ad eseguire acquisizioni di forme solide
complesse, dalle numerose sfaccettature e dagli spazi spesso
molto stretti. Dal rilievo generale di tutto il corpo di fabbrica
sono state estrapolate le strutture interne, che costituiscono
l’oggetto di interesse vero e proprio per i calcoli volumetrici.
I processi sono stati eseguiti dal software di modellazione
3D Blender, attraverso cui è stato inoltre possibile rimodellare
le alterazioni della forma delle superfici, laddove piccoli crolli
avevano compromesso la forma originaria delle strutture.
Si è quindi proceduto al calcolo dei volumi delle camere di
cottura dei forni e delle caldaie.
Per quanto riguarda il calcolo del volume di roccia estratta
nella grossa cava di Buca dei Falchi, considerata la dimensione
del fronte roccioso lungo circa 70 m e alto più di 30 m, in
parte nascosto dalla vegetazione del bosco, la tecnica Imagebased 3D modeling non è stata valutata adeguata. In mancanza
di strumenti di rilievo finalizzati ad acquisire estensioni più
consistenti, come ad esempio la fotogrammetria da velivoli
UAV o il rilievo LiDAR avio-trasportato, si è scelto di utilizzare come riferimento geometrico il rilievo digitale del terreno
(DTM) a 5 m di risoluzione, nel quale è ben riconoscibile lo
scasso effettuato sul versante della collina dalle attività di cava.
Le curve di livello estrapolate dal DTM sono state la base per
la creazione di un modello tridimensionale che riproducesse
con buona approssimazione la morfologia odierna del poggio.
Il modello così ottenuto è stato poi manipolato e integrato
in Blender allo scopo di ricostruire il volume della parte di
roccia mancante.
3. IL SITO DI MONTELEO
L’allumiera di Monteleo conobbe uno sfruttamento a fasi
alterne compreso tra la fine del XIV e la metà del XVIII secolo; il lungo lasso temporale del suo sfruttamento ha fatto sì
che le tracce materiali lasciate da ciascuna fase fossero in parte
obliterate dalle fasi successive (Dallai, Poggi 2012). Sulla
base dei dati fino ad oggi ottenuti, si è cercato di mettere in
relazione le dimensioni degli spazi e l’entità della produzione
nei vari step che compongono il ciclo produttivo dell’allume e nelle diverse epoche storiche. I dati emersi da questi
calcoli possono essere utili per colmare alcune lacune nella
ricostruzione storico/archeologica del sito e per sollecitare la
riflessione sulle motivazioni che hanno portato a specifiche
scelte di sfruttamento della risorsa.
Per giungere a dati maggiormente significativi, i periodi
di attività delle allumiere di Monteleo che andremo ad analizzare per la quantificazione della produzione sono quelli
per i quali disponiamo delle informazioni più complete dal
punto di vista storico e archeologico.
4. BIENNIO 1507-1508
Il primo periodo in analisi è quello relativo allo sfruttamento dell’allumiera durante il biennio 1507-1508 ad opera
di una magona 2 senese guidata da Rinaldo Tolomei. Per
questo periodo disponiamo di una documentazione di archivio molto ricca, costituita da due libri mastri e due registri
contabili tenuti dal direttore dell’allumiera e conservati presso
l’Archivio dell’Opera Metropolitana di Siena (Boisseuil,
Chareille 2009).
Dai registri si ricava che in 18 mesi di attività continua
l’allumiera produsse circa 36 tonnellate di allume in 76 caldarate (assumiamo che il termine si riferisca all’ebollizione
continuativa della soluzione di acqua e allume durante la fase
di lisciviazione, fase svolta grazie all’ausilio di una caldaia). Si
tratta quindi di una produzione media di 477 kg di allume
per ogni cottura.
La documentazione storica indica che la fase di lisciviazione del processo era effettuata in due tempi ravvicinati e
con periodi di ferma di circa una settimana 3; ciò permette
di ipotizzare che le caldaie in funzione fossero due. La lavorazione di due strutture a giorni alterni avrebbe evitato
un arresto troppo prolungato della produzione e garantito
maggiore flessibilità in caso di guasti agli impianti e nella
generale pulizia degli stessi.
Dall’analisi dei registri si evince anche che in un anno di
lavorazione furono eseguite 204 fornaciate (questo termine si
riferisce alla cottura delle pietre in fase di calcinazione in forni
a camera cilindrica) in 12 mesi di lavoro. Considerando un
ritmo costante per tutti i 18 mesi in cui l’allumiera fu attiva,
2
Nome utilizzato nei documenti per definire un impianto di lavorazione
minerario.
3
Per il grafico che riassume la produzione in questo periodo si veda
Boisseuil, Chareille 2009, p. 21, fig. 4.
138
Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo
fig. 1 – Il sito dell’Allumiera di Monteleo. Localizzazione
degli impianti produttivi e dei luoghi estrattivi citati nel testo.
possiamo stimare un totale di 249 infornate, quasi una ogni
due giorni. Anche per questa fase del ciclo di produzione si
ipotizza la presenza di due fornaci che avrebbero lavorato
alternativamente (Boisseuil, Chareille 2009).
L’indagine archeologica ha permesso di datare le stratigrafie relative alle strutture presenti sul sito, andando a sopperire
alla difficoltà nel datare le stesse su base costruttiva/tipologica, data la sostanziale invariabilità riscontrata (Dallai,
Poggi 2012). Sono state attribuite a questo periodo le
attività produttive relative all’uso di una batteria di quattro
forni, localizzata nella prossimità della grossa cava a Nord
del torrente Risecco, e due forni da lisciviazione a Sud del
corso d’acqua, in direzione della piana del Frassine (Dallai,
Poggi 2012) (fig. 1).
La batteria menzionata è composta da quattro fornaci
in pietra a camera circolare rivestita in mattoni e prefurnio
voltato. La posizione dei forni, compatibile con le descrizioni
delle fonti, e le cronologie desunte dallo scavo archeologico,
hanno permesso di collocare l’utilizzo di queste strutture nella
fase rinascimentale (fine XV-prima metà XVI secolo). I forni,
seppur originariamente destinati alla calcinazione, nel tempo
hanno subito delle modificazioni strutturali e dei restauri che
ne hanno alterato la funzione. Di tutti questi, solamente il
forno più a Nord (Forno 1) sembra aver lavorato intensamente per la calcinazione delle pietre, come testimoniato dal
rinvenimento al suo interno di piani di carbone, materiale
di cava cotto e una diffusa scorificazione del rivestimento in
mattoni della camera di cottura. Un secondo forno (Forno
2) venne probabilmente trasformato per esigenze produttive
in un forno da lisciviazione, come emerge dal rinvenimento
di una fodera in mattoni alta circa 1,5 m che riduce il diametro interno del forno e crea una risega dello spessore di
25 cm (Dallai, Poggi 2012). Gli altri due forni (Forni 3,
4) non presentano segni consistenti di attività di fuoco al
loro interno, e per questo risulta difficile ipotizzare per essi
una funzione specifica nel processo di lavorazione, facendo
pensare che non siano stati utilizzati a lungo (fig. 2).
A Sud del torrente lo scavo archeologico ha portato alla
luce altri due forni che all’avvio delle indagini erano quasi
completamente obliterati da un consistente interro formato
da scarti di cava, da riferire al rialzamento dei piani di lavorazione eseguiti nel ’700 per proteggere le strutture più recenti
dalle piene del torrente Risecco 4. Questi livellamenti hanno
4
139
Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 273.
G. Poggi, M. Buono
140
fig. 2 – La batteria di 4 forni cinquecentesca. Ortofotopiano e sezione trasversale delle camere di cottura.
Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo
fig. 3 – Le vasche da lisciviazione. Tipologie diverse
a confronto.
permesso di stabilire cronologie relative interne al sito, in
supporto all’interpretazione archeologica.
Il forno più a Sud (Forno C) è costituito da una camera
circolare foderata in mattoni sulla quale si sviluppa una vasca
troncoconica rivestita in malta idraulica, che da un diametro
sul fondo di 2 m si allarga verso l’orlo fino a 3,5 m. Questa
struttura corrisponde per forma, materiali e dimensioni ad
una caldaia da lisciviazione, così come descritta dalle fonti
coeve 5.
Dello stesso complesso fa parte un altro forno in mattoni
(Forno B), che presenta alcuni elementi di similitudine con
la precedente caldaia da lisciviazione, ma ha una vasca dalla
forma diversa e dalle dimensioni più ridotte. In questo caso
la camera interna, a circa 70 cm dalla sommità, presenta una
risega circolare in mattoni sopra alla quale si imposta una
struttura cilindrica rivestita in malta e con orlo superiore
leggermente svasato, del diametro di 2 m. Circa 10 cm sopra
la risega, dalla parte opposta alla facciata della struttura, vi
è un’apertura circolare che attraversa il corpo in mattoni
ed esce all’esterno, con un cannello cilindrico aperto verso
una canalizzazione parzialmente conservata. Nonostante la
dimensione ridotta della struttura e la sua forma, unica tra
quelle presenti sul sito, la presenza di una valvola di scolo
sul fondo della vasca sembra essere l’elemento distintivo di
una caldaia da lisciviazione 6 (fig. 3).
Attraverso il rilievo tridimensionale di queste strutture è
stato possibile calcolare i volumi interni dei forni per cercare
di formulare ipotesi interpretative circa la loro funzione e
poter confrontare strutture diverse dal punto di vista tipologico e funzionale.
Per quanto riguarda il Forno 1, certamente una fornace
da calcinazione, si è cercato di calcolare il volume di pietre
che esso poteva contenere in ciascuna infornata, sulla base
del metodo di impilamento delle pietre ben descritto dai
documenti. È stato quindi modellato in ambiente virtuale un
5
6
solido specifico, calcolando anche che alla base della camera
di cottura era necessario prevedere uno spazio utile all’alloggiamento del combustibile. Sulla base di queste premesse si
è calcolato che il forno potesse cuocere circa 14 m³ di roccia
in una sola infornata.
Moltiplicando il volume di ogni infornata per il numero
di infornate realizzate nel periodo in esame, cioè 249, si ottiene il volume di roccia minima che doveva essere estratta
per sopperire al fabbisogno della calcinazione tra il 1507 e il
1508. Possiamo quindi ipotizzare che durante questo periodo
si siano cavati almeno 3486 m³ di roccia, ai quali è necessario
aggiungere gli scarti di cava che fisiologicamente dovevano
essere stati prodotti durante l’estrazione.
Per quanto riguarda la lisciviazione le due vasche individuate (Forni B e C) presentano, come detto, forme
e dimensioni molto diverse tra loro. Per capire l’entità di
questa differenza ai fini della produzione sono stati eseguiti
i calcoli volumetrici immaginando di chiudere la vasca con
un piano virtuale passante al livello della risega che la divide
dalla camera di cottura, nel punto in cui doveva trovarsi la
base della caldaia in rame all’interno della quale avveniva
materialmente la bollitura della soluzione di acqua ed allume
(Boisseuil, Chareille 2009). Le due vasche così calcolate
hanno la capienza rispettivamente di 0,9 m³ e 4,3 m³.
Il Forno 2 prima citato appartiene invece ad una tipologia
diversa, anche questa ampiamente descritta dalle fonti per
questo periodo (Picon 2005). La costruzione della risega
interna in mattoni doveva servire per l’appoggio del fondo
della caldaia in rame, realizzata in placche di metallo rivettate.
Il calcolo effettuato sul volume della vasca così ricostruita ha
restituito un valore attorno ai 6,3 m³ (fig. 4).
Da questa analisi possiamo vedere come al medesimo
orizzonte cronologico della prima età rinascimentale (fine
XV-prima metà XVI secolo) siano da ascrivere tre tipologie
di caldaie, ognuna con capacità diverse. Considerando che
i quantitativi di produzione di allume per ogni caldaiata
riportati sui registri contabili evidenziano una sostanziale
uniformità di produzione tra le due cotture settimanali (e
Vannoccio Biringuccio 1540, vol. X, p. 32.
Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 254.
141
G. Poggi, M. Buono
fig. 4 – Dettaglio delle strutture interpretate come forni da lisciviazione. L’area evidenziata corrisponde alla capienza della vasca da lisciviazione,
posta al di sopra della camera di cottura.
quindi anche tra le due strutture ipotizzate), rimane aperto
il problema di quale siano effettivamente le caldaie in uso
durante il biennio 1507-1508.
Se la discrepanza delle misurazioni tra i due forni più
capienti può essere dovuta ad una effettiva difficoltà di valutazione a posteriori del volume del Forno 2, in cui lo smantellamento del rivestimento interno ha alterato sicuramente
le forme originarie, i dati archeologici raccolti e le valutazioni
su base tipologica lasciano supporre che Forno 2 e Forno C
siano le strutture citate dai documenti esaminati. Il Forno
B infatti, per via delle dimensioni ridotte e per la mancata
individuazione di livelli archeologici specifici connessi con
certezza al suo utilizzo, risulta ancora al momento di difficile
inquadramento funzionale.
Possiamo quindi ipotizzare che le due caldaie più grandi
abbiano lavorato in alternanza tra loro, evitando che le
operazioni ordinarie di pulizia e manutenzione fermassero
la produzione.
Il secondo periodo preso in esame è quello relativo allo
sfruttamento dell’allumiera sotto la spinta granducale, nel
primo anno di attività a cavallo tra 1744 e 1745. Durante
l’inverno del 1745, pochi mesi dopo l’avvio dell’impresa,
l’allumiera vide la visita del naturalista Giovanni Targioni
Tozzetti che vi si fermò per tre giorni e ne descrisse con dovizia
di particolari il lavoro (Riparbelli 1984). Nella descrizione
generale del sito, l’autore fa riferimento all’insalubrità della
zona che impediva il lavoro da giugno a ottobre, costringendo
a ridurre le attività lavorative a soli 8 mesi effettivi (Targioni
Tozzetti 1774, vol. VII, pp. 280-281). Per sopperire a questa
interruzione, Targioni riferisce che l’obiettivo dell’impianto
di una caldaia è di produrre, in questi otto mesi in cui è in
funzione, tanto allume quanto ne viene prodotto in 12 mesi in
una caldaia equivalente che lavora negli impianti della Tolfa 7.
Questo risultato si poteva raggiungere mettendo in funzione
due caldaie che avrebbero lavorato a ritmo alternato, cioè
realizzando una caldaiata e mezzo al giorno. Nel periodo di
attività di 240 giorni, questo dato porta il numero di caldaiate
a 360 in un anno produttivo di 8 mesi. Considerato che la
produzione totale annua è stimata dal Targioni attorno alle
50 tonnellate, si producevano quindi in questo periodo una
media di circa 141 kg di allume per ogni caldaiata (Targioni
Tozzetti 1774, vol. VII, pp. 308-309).
Si tratta chiaramente di calcoli basati sulle intenzioni di
produzione dell’impianto; nonostante questo però, essi possono essere considerati attendibili per l’ordine di grandezza
di quella che fu la reale mole di allume in uscita, che non
doveva discostarsi troppo da questi dati. All’interno dell’allumiera settecentesca, nell’area ad Est del torrente Risecco,
sono riconoscibili due caldaie, perfettamente compatibili
con i confronti di strutture coeve (Picon 2005), con vasche
troncoconiche rovesciate della capienza di 4,7 m³, cioè un
valore perfettamente in linea per forma e capacità con la vasca
del Forno C cinquecentesco (fig. 4). Nello stesso edificio,
accanto alle due caldaie, un grosso crollo oblitera quello
che doveva essere in origine un terzo forno. Non abbiamo
la certezza se sotto questo crollo vi sia quella terza caldaia
aggiuntiva di cui si auspica la costruzione nel 1745 (Targioni
Tozzetti 1774, vol. VII, p. 311) o un altro genere di struttura
produttiva, dunque la quantificazione dei processi produttivi
per questo periodo proverà a prendere in considerazione
entrambe le ipotesi.
Secondo la prima ipotesi, il ritmo di 2 caldaiate al giorno
per i 240 giorni di lavoro avrebbe portato alla fine dell’anno
ad un totale di 480 lisciviazioni. Il dato che ci permette
di legare calcinazione e lisciviazione è stato ricavato dalla
descrizione del Targioni, il quale stima che la quantità di
pietra che viene calcinata in una sola fornace sia sufficiente
a produrre tanta pasta alluminosa da alimentare quattro
caldaie 8. Possiamo così stimare che negli 8 mesi, a fronte
di 360 caldaiate, l’impresa necessitasse di 90 infornate da
calcinazione, mentre per gli anni a seguire, a fronte di 480
caldaiate (considerando la costruzione del nuovo impianto)
si siano eseguite 120 infornate.
Non è stato possibile misurare la capienza delle due
fornaci da calcinazione di cui si fa menzione dei documenti
poiché esse sono parzialmente obliterate dalla costruzione
della viabilità di fine Ottocento, ma la misurazione delle
7
La Tolfa viene spesso utilizzata per confronto in quanto vi si trovava la
più grande e la più stabile industria dell’allume in Italia.
8
Targioni Tozzetti G. 1745, Relazioni sulle allumiere della Toscana,
Manoscritto Palatino, 1065, Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze (BCNF).
5. BIENNIO 1744-1745
142
Lo studio di un contesto produttivo attraverso la quantificazione della produzione: il caso di Monteleo
fig. 5 – Visualizzazione all’interno del programma Blender della superficie odierna del poggio da DTM a 5 m, con ben evidente la cava (sinistra);
la superficie è stata integrata con un solido che andasse a ricreare l’aspetto originario della collina. Questo solido è stato usato per il calcolo del
volume dell’escavazione (destra).
fig. 6 – Pianta e veduta della
miniera e dell’opificio dell’allume situato nel territorio
di Monterotondo, opera di
Eegat datata 1760-65; ASF,
Miscellanea di Piante, n.
29b. Edita in D. Barsanti, L. Bonelli Conenna
(a cura di), Le carte del
Granduca. La Maremma
dei Lorena attraverso la cartografia, Roccastrada 2001,
p. 64. Sono stati dettagliati
i filoni di allume visibili sul
fronte di cava di Monteleo.
superfici ancora accessibili risulta in linea con le dimensioni
delle strutture da calcinazione cinquecentesche, per cui possiamo stimare con una relativa sicurezza che anche i volumi
interni non dovessero discostarsi molto. Ipotizzando quindi
che anche queste fornaci, così come quelle cinquecentesche,
avessero una capienza di 14 m³, possiamo stimare che la roccia da calcinazione necessaria alla produzione settecentesca
avesse avuto un volume minimo complessivo di 1260 m³ per
il primo anno, mentre poteva essere aumentata a 1680 m³
er gli anni a seguire, al termine della costruzione della terza
caldaia e al conseguente incremento produttivo che ne sarebbe derivato.
Per quanto riguarda la quantificazione dell’estrazione,
Targioni afferma che al momento della sua visita si stava
cavando da una cava bassa poco sopra il livello del torrente
Risecco, dalla quale si erano già estratti in pochi mesi 1340
m³ di roccia, secondo i calcoli effettuati a partire dalle sue
misurazioni. Con questo volume di roccia si sarebbe quindi
già quasi coperto il fabbisogno del lavoro di un anno.
Questo fronte di cava oggigiorno non è praticamente
visibile, essendo nascosto dagli scarichi dei lavori successivi
e dai detriti e smottamenti del poggio. L’escavazione ancora
ben visibile sul sito odierno, invece, deve essere quella che
Targioni riferisce essere stata avviata nell’autunno del 1744 e
che si impostava su un fronte di cava più antico 9.
Questa grossa cava è stata misurata grazie al supporto
del modello digitale del terreno, sul quale è ben riconoscibile lo scasso nel versante del poggio. La modellazione ha
permesso di formulare due ipotesi ricostruttive. La prima si
basa semplicemente sull’integrazione della lacuna allo stato
odierno del versante, che risulta essere di 31525 m³ di roccia
9
Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 272. Data la vicinanza alle strutture,
si tratta probabilmente di escavazioni cinquecentesche.
143
G. Poggi, M. Buono
mancante (fig. 5). Una seconda ipotesi invece ha cercato di
tenere conto di slittamenti e crolli che sono andati nel tempo
a depositarsi sul piano adiacente alla cava e verso il corso
d’acqua sottostante. Arbitrariamente abbiamo quindi cercato
di compensare questi spostamenti di terra, abbassando di 3 m
il livello del piano adiacente e rendendo maggiormente verticali la parte bassa delle pareti della cava, come l’analisi delle
sezioni degli interri oggi visibili lascia intuire. L’integrazione
della lacuna rimodellata sui nuovi dati ha restituito un valore
di 56481 m³.
Se sottraiamo dal totale di roccia cavata negli anni quei
3500 m³ circa estratti con ogni probabilità nel biennio 15071508, rimangono tra i 28325 e i 53281 m³ di roccia. Una
mole di roccia così elevata rispetto a quella calcolata dalla
misurazione delle strutture produttive si spiega con l’analisi
dei metodi estrattivi e in parte anche per la presenza di fasi
di lavorazione che non sono state prese in considerazione in
questo contributo. Le stesse fonti parlano di strutture più
antiche della nostra fase del ’500, e lo scavo archeologico
ha riscontrato forme e impasti ceramici ascrivibili ad una
frequentazione intermedia di XVII secolo (si veda in particolare il contributo di Dallai, in questo volume). In che
misura tali fasi di sfruttamento del sito abbiano influito sui
volumi di estrazione e lavorazione dell’allume non è stato
ancora chiarito; l’estrema labilità di queste tracce, sia dal
punto vista documentario che archeologico, non permette
di fare una stima precisa. La labilità stessa, però, è forse la
spia di imprese di sfruttamento di dimensioni modeste, che
avrebbero prodotto un impatto minimo rispetto al volume
calcolato. Data anche la grandezza della forbice individuata
per il volume di roccia cavata, riteniamo comunque validi
questi dati, se non nella puntualità della stima, per lo meno
nel suo ordine di grandezza, che non deve essere stato intaccato significativamente da queste fasi minori. La stima è quindi,
per il periodo 1745-1752, di un quantitativo di estrazione che
oscilla tra i 4000 e i 7000 m³ circa di roccia all’anno. Questo
dato sostanzioso è esplicativo da un lato di una mutata tecnica
estrattiva rispetto al biennio 1507-1508, con l’introduzione
dell’uso della polvere da sparo in sostituzione dello scavo
manuale, ma anche di una certa difficoltà che l’impresa deve
aver avuto nel raggiungere i filoni più ricchi di allume, così
come più volte sottolineato dalle fonti 10.
1507-1508
1744-1745
2 Fornaci
2 Fornaci
Calcinazione
204 infornate = 2856 135 infornate = 1890 m³ di
pietra calcinata
m³ di pietra calcinata
Macerazione
/
/
2 Caldaie
2/3 Caldaie
40.000Kg in 50
Lisciviazione
75.000 kg in 540 caldaiate
caldaiate
141 kg per caldaiata
477 kg per caldaiata
2 fornaci da
2 fornaci da calcinazione:
calcinazione: 14.3 m³
14.3 m³
Volumi strutture
2 caldaie da
2/3 caldaie da lisciviazione:
lisciviazione: 6,4/4.3 m³
4.7 m³
tab.1 – Schema riassuntivo dei volumi della produzione ricavati dalle
fonti e dai calcoli volumetrici per 12 mesi di attività.
tra i dati desunti per i due periodi storici. Così, nel ’700, si
stimano 90 fornaciate da calcinazione per le 360 cotte da
lisciviazione, con una produzione di 141 kg di allume a cotta
e un totale di 50 tonnellate di allume annuo.
Nel ’500 sono invece registrate 250 fornaciate per le 76
cotte, con una produzione media di 477 kg di allume a cotta
e un totale di 36 tonnellate di allume in 18 mesi.
Nel ’500 servono circa 3 fornaciate per produrre abbastanza pasta alluminosa da alimentare la caldaia, mentre nel
’700 con 1 fornaciata si produce sufficiente materiale per 4
caldaiate (tab. 1).
Da cosa dipende la discrepanza nel ritmo produttivo se le
dimensioni delle strutture risultano analoghe? La spiegazione
potrebbe risiedere nel fatto che veniva immessa nel ciclo produttivo pietra di differente qualità. Questo potrebbe essere la
conseguenza dei diversi metodi estrattivi che non permettevano, nel ’500, il raggiungimento dei più ricchi filoni di allume,
cosa che l’uso della polvere da sparo nella fase settecentesca
consentiva di fare. Inoltre, questa interpretazione potrebbe
spiegare la causa della discrepanza tra il volume di roccia cavata,
risultante dall’analisi volumetrica della cava, ed il materiale che
dovette effettivamente essere cotto nelle fornaci, così come
evidenziato dai calcoli effettuati per il periodo settecentesco. In
questa fase infatti, la metodologia di scavo, ben descritta in altri
contributi (Dallai et al. 2009), non prevedeva che si seguisse
puntualmente il filone in profondità, ma che venisse arretrato
tutto il fronte di cava, creando quindi una grossa piazza di
lavoro alla base dell’escavazione che facilitava lo smaltimento
degli scarti. In seguito all’estrazione doveva avvenire un grosso
lavoro di cernita dei materiali, dato che i filoni più redditizi
si trovavano molto in profondità, come confermato anche da
un rilievo storico (fig. 6).
Possiamo quindi ipotizzare che nel ’500 la resa di allume
della pietra fosse minore e che servissero molte infornate
per produrre sufficiente pasta alluminosa da lisciviare nelle
caldaie. Altri fattori che potrebbero spiegare questa differenza
di ritmi produttivi per i due periodi possono essere legati ad
una minore efficienza del ciclo produttivo più antico rispetto
a quello settecentesco o a minori investimenti nelle strutture,
ma ciò al momento non trova appoggio nei dati di scavo.
In conclusione, l’utilizzo di tecniche di rilievo e di analisi
tridimensionali si è dimostrato utile per migliorare l’attendibilità dei calcoli volumetrici delle strutture, corroborando i
dati fino al momento raccolti dallo scavo archeologico e dallo
studio delle fonti. Queste nuove informazioni sono state utili
6. CONCLUSIONI
Se quella di Monteleo deve essere stata nel complesso
un’impresa di modeste dimensioni al confronto con le attività di estrazione di Tolfa-Allumiere sia nel ’500 che nel
’700 (Boisseuil, Chareille 2009; Dallai, Poggi 2012),
possiamo individuare una grossa differenza tra la produzione
dei due periodi. Considerando affidabili i dati desumibili
dalle fonti storiche, appare evidente come nel ’700 ci sia un
rapporto molto favorevole tra la quantità di pietra destinata
alla calcinazione e l’allume prodotto. Dall’analisi volumetrica
delle strutture presenti sul sito è possibile vedere come le
dimensioni delle fornaci non subiscano sostanziali modificazioni nel tempo, permettendoci di fare un confronto diretto
10
Targioni Tozzetti 1774, vol. VII, p. 273.
144
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M. Picon (eds.), L’Alun de Méditerranée, Napoli-Aix-en-Provence,
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per fornire delle stime sui quantitativi di materiale che veniva
impiegato nelle varie fasi del ciclo produttivo dell’allume,
fornendo un ulteriore elemento di valutazione per discutere
le interpretazioni emerse dalle indagini sul sito archeologico
delle Allumiere di Monteleo.
BIBLIOGR AFIA
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English abstract
The results of the archaeological excavation and the study
of the historical sources have shed light on the interpretation
of the structures and spaces of the Allumiera di Monteleo,
a Late Medieval and Early Modern period alum production
site. However, the long exploitation of the site and the minor
technical progress occurred in the alum production, have
left some uncertainties about which structures were in use
in each chronological period.
The purpose of this study is to estimate the volumes of
the quarries and the structures and to use them as a mean of
comparison of the amount of raw material processed during
each phase of the alum production. This is meant to identify
which structures were reasonably employed in each period,
in order to determine the function of those still uncertain
and to enable the comparison of the productive capabilities
of the alum factory over the time. For this purpose, the
quarries and the structures were recorded in 3D, and the
models were used to perform reliable volumetric measurements of irregular shapes. Besides, the models enable to
perform virtual reconstruction of the hypothetical shape
of collapsed surfaces, increasing accuracy and reliability of
the calculations.
145
Elisabetta Ponta*
CULTUR A MATERIALE E CONTESTI TOPOGR AFICI.
L’ALLUMIER A DI MONTELEO (MONTEROTONDO MARITTIMO, GR):
STUDIO DEI REPERTI CER AMICI E CONFRONTO CON IL TERRITORIO
Material culture and topographical contexts in the territory
of the Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR): analysis of pottery finds
and comparison with the territory
1. PREMESSA
dalle murature cinquecentesche (Dallai infra), riconducibile
all’età rinascimentale, che trovano sul sito analogia con pochi
frammenti attestati nell’area 3000. Dal saggio III provengono
infine materiali che si discostano oltre che per cronologia anche
per funzione da tutti gli altri: si tratta di ceramica di impasto
estremamente frammentata, che è stato possibile inquadrare nel
periodo del Bronzo medio 3, in associazione ad alcuni strumenti
litici, probabili percussori, databili alla medesima cronologia.
Questi materiali, evidentemente residuali, in associazione
ai grossi pezzami di pietra impiegati nelle murature delle
Allumiere cinquecentesche, rappresentano ad oggi le tracce della più antica fase di occupazione del sito (Dallai, Volpi 2015).
Come già anticipato, il materiale ceramico presenta nella
maggioranza dei casi un’alta percentuale di frammentarietà
ed uno stato conservativo estremamente compromesso, salvo alcune fortunate eccezioni; dal Forno 3, e più di preciso
lungo la risega interna della sua sommità, erano deposte tre
forme pressoché integre, quasi del tutto ricostruibili, ed un
numero ingente di frammenti di dimensioni medio-grandi
proviene da uno strato di crollo localizzato sul fondo della
medesima struttura.
I dati che si presentano in questa sede sono il risultato del
lavoro di studio sui reperti ceramici rinvenuti nelle campagne di scavo condotte sul sito delle Allumiere di Monteleo
(Monterotondo M.mo, GR) 1, letti in rapporto al territorio
monterotondino in cui il sito si inserisce (fig. 1).
Le informazioni che di consueto si ottengono dall’analisi
delle ceramiche da scavo riguardo alle caratteristiche tecniche,
stilistiche e tipologiche oltre che alla provenienza delle singole
produzioni attestate, non riguardano del tutto questo caso
specifico; infatti il quantitativo di materiale, estremamente
frammentario, rinvenuto dal 2008 al 2016 risulta piuttosto
esiguo 2 e lo stato di conservazione alquanto compromesso.
Sono poche le forme ceramiche ricostruibili nella loro interezza ed in molti casi, soprattutto per quanto riguarda le
fasi più antiche, i frammenti rivestiti conservano solo tracce
labili delle decorazioni originarie. Tuttavia, se si considera
il contesto di rinvenimento di questo materiale, cioè le
stratigrafie interne alle aree produttive, e non gli ambienti
abitativi o di servizio delle Allumiere, il punto di vista cambia
drasticamente: la presenza di questi reperti può considerarsi
un aspetto molto fortunato della ricerca che, oltre a permettere una datazione delle stratigrafie indagate, ci consente di
ricostruire almeno in parte la cultura materiale propria di un
luogo di lavoro durante le sue diverse fasi di utilizzo.
Per quanto riguarda la distribuzione dei rinvenimenti,
questi provengono in maniera pressoché uniforme da tutti e
tre i saggi interni all’Area 1000, mentre riguardo all’area 3000
la percentuale maggiore si riferisce ai settori di scavo B, E ed F.
A livello cronologico una leggera discrepanza è stata osservata nell’Area 1000 dove, all’interno del più cospicuo ed uniforme
gruppo di ceramiche riferibile all’Età Moderna, cioè in fase
con l’utilizzo delle fornaci da allume, sono emersi materiali
che si discostano da tale cronologia. In particolare, dal settore I
provengono ceramiche estremamente frammentate attribuibili
al basso Medioevo; dal saggio II sono invece emersi reperti in
fase con il piccolo forno in laterizi, parzialmente obliterato
2. I MATERIALI CER AMICI TR A SCAVO
E TERRITORIO
Il basso Medioevo
Fatta questa breve premessa, passiamo ora ad analizzare
più nel dettaglio i materiali rinvenuti.
Dal punto di vista funzionale si riconoscono manufatti
finalizzati sia all’uso della tavola che preposti alla preparazione
dei cibi; questi ultimi sono maggiormente attestati (66,25%)
e si riferiscono a diverse classi ceramiche (figg. 2 e 3).
Ad eccezione del materiale residuale di età preistorica a
cui si è fatto prima un rapido accenno, tra le ceramiche più
antiche spiccano i manufatti prodotti in maiolica arcaica.
Questa classe è presente con una percentuale poco rilevante
ma molto significativa di materiale frammentario, riferibile
alla fase centrale della sua produzione. Si tratta perlopiù di
forme chiuse, databili tra metà XIII e inizi XIV secolo. Le
caratteristiche degli impasti suggeriscono nella maggioranza
dei casi una provenienza senese, anche se non mancano
prodotti di area pisana, analogamente a quanto riscontrato
* Dipartimento di Scienze Stoiche e dei Beni Culturali, Università degli
Studi di Sena (elisabettaponta@gmail.com).
1
Le indagini sono state condotte dal 2008 al 2016 dall’Insegnamento di
Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Siena, sotto la direzione
scientifica di Giovanna Bianchi e Luisa Dallai. Per una sintesi dei dati stratigrafici
e del contesto storico in cui il sito si inserisce si vedano i contributi di Dallai e
Poggi, Buono all’interno di questo stesso volume.
2
Il totale ammonta a 1899 frammenti.
3
Si ringraziano il prof. Andrea Zifferero e il dott. Matteo Milletti per aver
visionato il materiale in questione.
147
E. Ponta
bianco all’interno (Francovich 1982, pp. 73-76; Giorgio
2013, pp. 88-91) 5. Al medesimo orizzonte cronologico si
riferiscono alcuni boccali frammentari in zaffera a rilievo,
caratterizzati da un’ottima qualità realizzativa. Gli impasti,
duri e depurati, tendenzialmente di colore rosato, alternano
un tono beige, mentre le superfici sono ricoperte da smalto
spesso e bianco su cui si riconosce la tipica decorazione a
foglia di quercia associata a raffigurazioni di vario genere, tra
cui un volto umano, visibile solo parzialmente di profilo 6. Gli
aspetti tecnico-stilistici, tra i quali il tono prevalentemente
rosso dell’impasto 7, permettono di riferire questi boccali alla
prima fase produttiva della classe, generalmente datata tra
l’ultimo trentennio del XIV ed il primo ventennio del secolo
successivo (Cora 1973, tav. 55-60; Moore Valeri 1984, pp.
477-500; Berti 2008, Caroscio 2009, p. 15), stabilendo
pertanto un rapporto di coesistenza tra questi manufatti e le
ciotole di maiolica arcaica sopra descritte.
Di contro, l’esiguità dei frammenti e lo stato conservativo
non consentono di attribuire i reperti ad uno specifico centro produttivo, ma solo di ipotizzare che questi siano stati
realizzati in una delle numerose officine dell’area valdarnese,
specializzate nella manifattura di questi prodotti di pregio e
attive tra seconda metà XIV e XV secolo (Cora 1973, pp. 5369; Vannini 2002, pp. 18-22; Caroscio 2009, pp. 39-112).
Rinvenimento estremamente interessante è quello che
riguarda alcuni frammenti di maiolica blu, che unitamente
alla zaffera rappresentano i prodotti di maggior pregio del
periodo. Si tratta di materiale estremamente frammentario,
nelle totalità dei casi riconducibile a brocche; di buona qualità realizzativa, i prodotti sono attribuibili alle produzioni
senesi di pieno XIV secolo (Caroscio 2007, pp. 427; Grassi
2010, pp. 47-48).
fig. 1 – Localizzazione su scala regionale del comprensorio di Monterotondo Marittimo (GR) all’interno del quale si inserisce il sito oggetto
del contributo.
nel resto del territorio; un quantitativo piuttosto modesto
presenta invece alcuni dettagli tecnici che differiscono dai due
precedenti raggruppamenti, lasciando aperta la possibilità che
si tratti di prodotti provenienti da officine locali, localizzate
a Volterra e Massa Marittima (Briano 2015, pp. 21-30).
Per quanto riguarda la diffusione nel territorio monterotondino, la maiolica arcaica è attestata in molti siti
localizzati tanto nelle vicinanze dell’attuale centro abitato
che in prossimità di Monteleo. In quest’ottica, un contesto
particolarmente esemplificativo è rappresentato da Castiglion
Bernardi, sito di lunga occupazione antropica 4, posto a circa
1 km di distanza dalle Allumiere (fig. 4); lo studio effettuato
sui reperti rinvenuti ha permesso di individuare anche per
questo insediamento le medesime tendenze appena descritte
per le Allumiere circa l’attestazione della produzione.
Secondo una tendenza nota da tempo (Francovich
1982, p. 73), nel corso del Medioevo si assiste al progressivo
incremento delle forme aperte realizzate in maiolica arcaica;
questo elemento distingue la seconda fase produttiva rispetto alla precedente, caratterizzata da forme principalmente
chiuse. Tra la seconda metà del XIV e gli inizi del XV secolo
sul sito di Monteleo sono attestate alcune piccole ciotole con
orlo indistinto e corpo emisferico (tav. I), le cui superfici
sono ricoperte da vetrina trasparente all’esterno e smalto
Tra Rinascimento ed Età Moderna
Si riconducono a questo periodo le ceramiche ingobbiate
graffite, sia a stecca che a punta, attestate a Monteleo in
percentuale significativa sebbene caratterizzate da un alto
grado di frammentarietà.
Nella maggioranza dei casi il materiale, di buona qualità realizzativa, può essere ricondotto a forme aperte,
identificabili perlopiù in piatti e scodelle tipiche di questa
produzione, dotati di orli ad ampia tesa piana e cavetto
pronunciato; l’impasto, generalmente di colore rosato,
si presenta molto depurato e duro. È interessante notare
la presenza di un solo frammento di piccole dimensioni
identificabile con parte di un versatoio, la cui superficie
esterna presenta tracce di decorazione a punta eseguita
su un fondo verde. Il frammento è riconducibile ad una
forma chiusa, decisamente poco attestata per questa classe.
5
Una variante attestata sul sito è costituita dalla decorazione in linee brune
realizzata sulla superficie interna, ricoperta da smalto bianco, mentre l’esterno
è rivestito da vetrina incolore o giallo tenue.
6
La decorazione rientra nel repertorio iconografico proprio della produzione a zaffera databile, secondo Cora, entro la prima metà del XV secolo (Cora
1973, tavv. 55-60); a questo proposito si veda anche Francovich 1989, p. 49.
7
Il colore dell’impasto è stato più volte utilizzato dagli studiosi come criterio
distintivo della cronologia dei manufatti; al colore rosso della prima produzione
si assisterebbe infatti ad una progressiva sostituzione di un tono avorio proprio
delle produzioni successive (Boldrini, Grassi 2000, p. 199; Alinari 2002,
pp. 33-41, in particolare p. 34).
4
Il sito è stato oggetto di ripetute indagini di superficie condotte dall’insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Siena (Dallai et al.
2009, pp. 29-56); citato come castello a partire dall’XI secolo, le prime forme
di occupazione del luogo risalgono all’età ellenistico-repubblicana e perdurano,
senza forti segni di soluzione di continuità, fino a tutto il Medioevo (Ponta
2015, p. 502). Tra le forme di maiolica arcaica individuate sul sito sono ricorrenti i boccali dal corpo ovoide ed allungato tipici del repertorio duecentesco
senese, affiancati da manufatti pisani ed una minore percentuale di frammenti
di più incerta provenienza.
148
Cultura materiale e contesti topografici. L’ Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR)
fig. 2 – Rappresentazione grafica del quantitativo di frammenti riferibili alle classi della ceramica da mensa attestate sul sito dell’Allumiera di Monteleo.
fig. 3 – Rappresentazione grafica del quantitativo
di frammenti riferibili alle classi della ceramica da
cucina attestate sul sito dell’Allumiera di Monteleo.
fig. 4 – Localizzazione dei siti del territorio di
Monterotondo Marittimo citati nel testo.
149
E. Ponta
tav. I – Ciotola in maiolica arcaica con orlo indistinto e corpo emisferico proveniente dal sito delle Allumiere (in alto); olla caratterizzata
da orlo arrotondato ed estroflesso, corpo globulare, superficie interna
rivestita da vetrina marrone e colature analoghe all’esterno (in basso).
tav. II – Brocchetta monoansata dotata di versatoio a cannone realizzata
in ingobbiata monocroma verde (in alto); brocchetta smaltata di forma
globulare, dotate di piede ad anello e versatoio a cannone, decorate
con il motivo a medaglione centrale (in basso).
L’alta frammentarietà del materiale riconosciuta nel suo insieme rende impossibile risalire all’apparato decorativo che,
come suggeriscono le tracce conservate, doveva essere eseguito
in verde, bruno e ferraccia, come è proprio per questi prodotti
di pregio. Le caratteristiche tecniche e cromatiche analizzate
permettono di inquadrare questi manufatti nell’orizzonte
delle produzioni regionali quattrocentesche, indicando nelle officine valdarnesi i possibili luoghi di produzione degli
stessi 8. Rispetto a quest’ultime, le produzioni ingobbiate
individuate nei siti del territorio, provenienti in particolare
da alcuni insediamenti posti nelle immediate vicinanze del
centro di Monterotondo, si distinguono per una minore qualità realizzativa, sulla base della quale è dunque ipotizzabile
una datazione successiva (inizi XVI secolo).
La forte incidenza delle ceramiche ingobbiate graffite
osservata sul sito di Monteleo e nel suo territorio, sembra
riflettere pienamente il trend noto per altri contesti regionali,
tra i quali la città di Pisa; a partire dal terzo decennio del XV
secolo le ceramiche ingobbiate si affiancano infatti con alte
percentuali alle produzioni più tarde delle maioliche arcaiche
alle quali progressivamente si andranno a sostituire (Berti,
Renzi Rizzo 2001, pp. 127-148; Alberti 2010, pp. 25-26).
Sebbene fortemente frammentarie sono inoltre attestate
diverse maioliche policrome che, sulla base delle caratteristiche cromatiche dei rivestimenti, sono inquadrabili in una
generica epoca rinascimentale, ma sulla cui provenienza non
è possibile avanzare ipotesi.
Di precisa provenienza valdarnese sono invece le ceramiche marmorizzate, tra le quali si segnala la scodella decorata in
bicromia bianca a rossa (tav. IV), dotata di largo orlo a tesa, la
cui tipologia trova stretti confronti con esemplari della prima
Età Moderna prodotti nella medesima area (Milanese 1997,
p. 373; Alberti 2013, pp. 198-200). Nonostante l’ampia
diffusione conosciuta su scala regionale di questi prodotti,
considerati di maggior pregio rispetto ad altre tipologie di
ceramiche ingobbiate, l’attestazione a Monteleo è ad ora
limitata a due esemplari, mentre risulta del tutto assente sui
siti del territorio circostante.
Si inseriscono nello stesso ambito cronologico alcune
brocchette monoansate con versatoio a cannone di ingobbiata
monocroma verde, diffuse nell’area pisana (tav. II), mentre
di poco successive vanno considerate alcune forme chiuse
ingobbiate inquadrabili nel pieno XVI secolo. Si tratta di due
fiaschette da viaggio realizzate in ingobbiata schizzata nella
bicromia del bianco e verde; in entrambi i casi la produzione
è riconducibile ad un orizzonte regionale e più probabilmente
all’area fiorentina (Baragatti, Marini, Moore Valeri 2003,
pp. 256-257).
8
La frammentarietà del materiale in questione non permette di escludere,
in alcuni casi, l’appartenenza alla produzione senese per la quale si rimanda a
Francovich 1982, pp. 151-170.
150
Cultura materiale e contesti topografici. L’ Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR)
tav. III – Olla invetriata con orlo estroflesso e bordo ingrossato, corpo
ovoidale, fondo piano e ansa a nastro larga; la vetrina è stesa limitatamente sulla parte superiore del corpo ceramico.
tav. IV – Scodella marmorizzata decorata in bicromia bianca a rossa
dotata di largo orlo a tesa.
Il quadro fin qui delineato rispecchierebbe dunque la
sostanziale appartenenza alle produzioni di ambito regionale e sub regionale sia dei manufatti ceramici utilizzati nel
territorio monterotondino, che di quelli presenti sul sito di
Monteleo, attestati tra basso Medioevo e prima Età Moderna;
tuttavia gli scavi condotti alle Allumiere hanno restituito
alcuni manufatti che suggeriscono una lieve ma significativa
diversificazione del sito, che consiste nell’attestazione anche
di merci di importazione databili al XVI secolo.
In particolare, si riconosce un piccolo gruppo di brocchette smaltate di forma globulare, dotate di piede ad anello
e versatoio a cannone, decorate con il motivo a medaglione
centrale realizzato nei colori del blu e del giallo (tav. II);
queste forme che si contraddistinguono per una sostanziale
omogeneità di tipo tecnico-stilistico, riflettono una raffinata
capacità esecutiva e richiamano fortemente le produzioni
di ambito alto laziale, ampiamente diffuse in area toscana e
romana a partire dalla metà del XV secolo e per tutto il XVI
(Manacorda 1985, p. 337, n. 578; Meneghini, Santangeli
Valenzani 2006, p. 133, fig. 6; p. 181. fig. 16) 9.
Ancora alla produzione laziale, romana nello specifico,
possiamo ricondurre numerosi frammenti di piatti e scodelle
realizzate in maiolica policroma, caratterizzati dalla presenza
della decorazione a monticelli, realizzata in corrispondenza
delle tese nella bicromia blu-arancio; tale elemento richiama
una tendenza decorativa molto diffusa tra i vasai di Roma e
alto laziali tra fine XV secolo e metà del XVI secolo 10 (Spera
1995, p. 73; Panuzzi 2002, pp. 170-171), maturata, secondo
alcuni autori, nella valle del Medio Valdarno dove allo scorcio
del XV secolo, si assiste alla creazione di nuovi motivi decorativi arricchiti da vivaci colori, quali il blu, verde ed arancio
(De Lucia Brolli, Del Lungo, Carlini 2002, p. 228).
Infine si segnala la presenza di alcuni manufatti realizzati
nella classe delle ingobbiate e dipinte, caratterizzati da un
alto indice di frammentarietà, di possibile produzione regionale, se non forse subregionale, ed inquadrabili nel corso del
XVII-XVIII secolo; questi ultimi, associati ad una scodella
in maiolica policroma con decorazione paesaggistica in stile
orientale di chiara provenienza ligure 11, costituiscono i materiali da mensa più recenti attestati sul sito, mentre risultano
assenti nel territorio.
9
Oltre ai contesti sopra citati, strettissima analogia si può notare con un
esemplare proveniente da Farnese, di produzione alto laziale (Bagnoregio), datata
alla seconda metà XVI-inizi XVII secolo (Frazzoni 2007, p. 29). Confronti
puntuali si ritrovano anche con alcuni manufatti rinvenuti nelle stratigrafie
post medievali del sito di S. Quirico di Populonia (Martinozzi, Salvadori
2016, pp. 265-267.).
10
Il motivo a monticelli ricorre diffusamente anche nella classe delle ceramiche ingobbiate come dimostra il caso della produzione di Acquapendente
(Frazzoni 2007).
11
La provenienza è stata definita sulla base delle caratteristiche tecniche, in
particolare dell’impasto e del rivestimento utilizzato.
151
E. Ponta
fig. 5 – Aree di diffusione e possibile
provenienza delle ceramiche rinvenute sul sito di Monteleo.
Accanto ai prodotti da mensa fino ad ora descritti, si affiancano i manufatti da cucina, attestati in notevole quantità,
che seguono le evoluzioni produttive e tipologiche intercorse
tra la fine del Medioevo e la prima Età Moderna; a fianco delle
maioliche arcaiche e delle zaffere a rilievo troviamo infatti
l’olla globulare, monoansata, diffusa nelle Colline Metallifere
tra il XIV e XV secolo, e le pentole ed i tegami realizzati in
slipware, che costituiscono su scala regionale, e anche sul
nostro sito, il corredo da cucina tipico dell’Età Moderna.
Per quanto riguarda il vasellame inquadrabile nella fase più
antica, lo scavo ha restituito materiale frammentario riferibile
a manufatti invetriati, tra cui si distinguono diversi esemplari
di pentole; queste sono caratterizzate da orlo arrotondato
ed estroflesso, corpo globulare, superficie interna rivestita
da vetrina marrone e colature analoghe all’esterno (tav. I).
Questo tipo di vasellame a partire dal XV secolo, insieme ai
tegami, costituisce il tipico corredo da cucina attestato su scala
regionale 12; questa tipologia di olle, la cui produzione è da
ritenersi locale, trova strette analogie con quelle circolanti, a
partire dal Trecento, in area maremmana ed in particolare, nel
comprensorio delle Colline Metallifere grossetane (fig. 5) 13.
In entrambi i casi la produzione è riconducibile ad un
orizzonte regionale, e più probabilmente all’area fiorentina,
analogalmente a quanto già osservato per molti dei manufatti
rinvenuti sul sito di Monteleo. Rientrano tra questi anche
le pentole ed i tegami realizzati con la tecnica dell’ingobbio
sotto vetrina (slip ware); la varietà tipologica riscontrata a
livello di forma, rivestimenti impiegati ed elementi stilistici
osservati, ha permesso di riconoscere per molti dei manufatti l’appartenenza alla fase più antica di questa nuova
produzione ceramica che, a partire dalla seconda metà del
XVI e per tutto il secolo successivo, in virtù dei bassi costi
realizzativi, conoscerà una rapida affermazione sui mercati
regionali (Degl’Innocenti 2007, pp. 525-527), come testimoniano i numerosi rinvenimenti effettuati nel territorio
monterotondino.
É interessante notare come nel caso di alcune suppellettili da cucina stratigraficamente associate alle ceramiche
da mensa precedentemente descritte, si possa ipotizzare il
medesimo orizzonte cronologico e produttivo; in particolare
si fa riferimento ad alcune olle invetriate, caratterizzate da
orlo estroflesso con bordo ingrossato, corpo ovoidale, fondo
piano e ansa a nastro larga (tav. III); le superfici sono rivestite da un sottile strato di vetrina di colore marrone-rosso
steso sia all’interno che all’esterno, limitatamente alla parte
superiore del corpo ceramico. Sebbene queste forme non si
discostino di molto dalle pentole invetriate di produzione
regionale circolanti nel corso del XVI secolo, alcune caratteristiche tecniche, quali la tipologia dell’orlo, il tipo di
impasto e rivestimento impiegato, avvicinano sensibilmente
tali manufatti ad alcune forme rinvenute su contesti romani
(Pannuzi 2002, pp. 173-174, e n. 1 fig. 14 p. 176; Pannuzzi,
Sante Guido 2003, pp. 139-145; Palazzo 1989, pp. 165170) 14. Questo dato supporterebbe l’ipotesi precedentemente
avanzata per le produzioni da mensa, ossia l’arrivo di merci
extra regionali sul solo sito di Monteleo e non nel territorio
di Monterotondo Marittimo (fig. 5).
12
L’estensione della tecnica dell’invetriatura a ceramiche specifiche da
cucina, atte alla preparazione dei cibi, è un fenomeno che si compie, con ogni
probabilità, tra la fine del XIII secolo ed i primi anni del successivo (Vannini
2002, p. 19).
13
I confronti più puntali provengono dalle stratigrafie del Castello di
Montemassi (Boldrini, Grassi 2000, pp. 201-203) e dalla Rocca di Campiglia
Marittima (Grassi 2003, p. 284; Ead. 2010, p. 206); esemplari simili privi di
rivestimento provengono dagli scavi condotti a Prato e sono datati alla seconda
metà del XIV secolo (Gelichi 1978, nn. 387-388, pp. 134-137, tav. XXXVIII).
14
In quest’ottica sarebbe molto interessante procedere con un confronto
diretto, attraverso analisi archeometriche, tra gli impasti di queste specifiche
ceramiche rinvenute a Monteleo e quelli di sicura produzione laziale.
152
Cultura materiale e contesti topografici. L’ Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR)
3. CONCLUSIONI
(l’area tolfetana in particolare), riconducibili molto probabilmente all’industria dell’allume. L’attestazione sul sito delle
Allumiere di ceramiche provenienti dall’alto Lazio potrebbe
costituire un utile filo rosso che lega due delle principali
aree di estrazione dell’allume dell’Età Moderna, suggerendo
forse la presenza, o semplicemente il passaggio, di maestranze
laziali sul nostro sito.
Quanto infine all’attestazione del piatto policromo con
decorazione paesaggistica, di chiaro gusto orientale e provenienza ligure, associabile ad alcuni frammenti di graffita
parzialmente conservati 15, lascia aperta la possibilità di scambi
e contatti, di seppure incerta entità, con questa regione, anch’essa fortemente legata all’industria dell’allume.
Le indagini di superficie condotte tra il 2004 e i 2007 su di
un ampio campione del comprensorio comunale (fig. 4), hanno
permesso di ricostruire con un buon grado di attendibilità
le principali dinamiche del popolamento per i periodi etrusco-romano, tardoantico-altomedievale e medievale, ed hanno
fornito molte informazioni anche sulle fasi successive.
Questi dati, incrociati con le fonti documentarie disponibili (Boisseuil 2005), consentono di contestualizzare in
maniera diacronica il sito di Allumiere, identificando per
il basso Medioevo due zone di maggiore concentrazione
insediativa; si tratta di quella prossima al paese e di quella
in cui si inserisce lo scavo, alle propaggini del rilievo su cui
ancora sorgono le rovine del già citato castello di Castiglion
Bernardi. Una leggera contrazione contraddistingue la prima
metà del XV secolo, mentre con l’Età Moderna si assiste ad
un lieve incremento insediativo, particolarmente evidente
nell’area prossima allo scavo e nella vicina piana del Frassine,
che potrebbe essere ricondotta, almeno in parte, alla fiorente
stagione dell’allume. Il significativo input dato da questa
nuova attività mineraria al territorio monterotondino dovette
comportare riflessi piuttosto incisivi anche nel settore agrario,
come testimonierebbe l’affermarsi di un nuovo assetto insediativo, costituito da poderi e case coloniche circondate da
varie ed utili coltivazioni (Repetti 1833; Rotundo 2014, pp.
109-114). La scoperta dell’acido borico, avvenuta alla fine del
XVIII secolo (Preite 2014, p. 146) ed il successivo sviluppo
della produzione del borace, incideranno ulteriormente e
positivamente sull’incremento demografico locale.
In sintesi, il quadro delineato per la prima Età Moderna
è costituito da un paesaggio agrario piuttosto spopolato,
caratterizzato da pochi poderi, abitati da nuclei familiari
dediti ad attività agricole e pastorali (Rotundo 2014, p. 109).
I corredi ceramici associati, composti da manufatti invetriati
ed ingobbiati di media qualità, di produzione regionale, che
in taluni casi è restringibile all’ambito locale, contribuisce a
rafforzare questo quadro; il territorio monterotondino che
durante il Medioevo, come dimostra il panorama ceramico
ampio e variegato appena descritto, era perfettamente inserito nei circuiti di scambio regionale attraverso un sistema
di comunicazione terrestre e fluviale ben strutturato, nella
prima Età Moderna sarebbe divenuto privo di un mercato di
riferimento per i prodotti di qualità e le merci extraregionali;
in quest’ottica la presenza di produzioni di alta qualità su un
sito produttivo come Monteleo costituisce un’interessante
anomalia.
Da un confronto effettuato tra le classi ceramiche attestate
sullo scavo e quelle circolanti nel territorio emerge come tutte
le produzioni rinvenute nella campagna siano presenti sul sito
e non viceversa; quelle attestate esclusivamente alle Allumiere
sembrano connotarsi, a partire dall’Età Rinascimentale, per
caratteristiche tecniche, o di funzione, come prodotti di
pregio rispetto a quanto riscontrato nel resto del territorio.
Una delle ipotesi plausibili è che questi prodotti siano la
prova di un flusso di competenze e conoscenze verso questi
luoghi costituito da maestranze in grado di accedere a simili
corredi. A supporto di ciò le fonti documentarie riferiscono
di intensi rapporti tra questa zona ed aree extra regionali
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15
L’alto indice di frammentarietà del materiale non consente una precisa
definizione cronologica, tuttavia le caratteristiche tecniche suggeriscono una
possibile attribuzione alla produzione graffita di area ligure.
153
E. Ponta
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English abstract
This paper presents the results of the analysis of the pottery
findings emerged during the excavation campaigns at the
site of Allumiera di Monteleo (Monterotondo Marittimo)
located in southern Tuscany, Italy. The survey conducted in
this territory from 2004 to 2007 by the University of Siena
provided a diachronic reconstruction of the socio-economical
processes, which created the conditions for the foundation
and development of the alum manufacturing. One of the
main goals of this research is to investigate the relations between the archaeological site of Monteleo and the surrounding territory, and to identify the marketplaces of the area of
Monterotondo and of the Allumiera di Monteleo. In order
to achieve this result, the pottery findings coming from the
survey and from the excavation were comparatively studied.
The sample includes kitchenware and tableware ranging from
the Late Medieval period to the Modern Age.
For the Late Medieval period, the results show a significative homogeneity between the two sets of pottery, that
highlights a substantial dynamism in trading. However, at
the beginning of the Modern Age, we can trace a change
of trend. The territory impoverishes, low-quality pottery
grows rapidly, and the manufacturing is mostly local and
sub-regional. Instead, at the Allumiera di Monteleo, the
quality of the pottery remains unaffected, exhibiting some
high-quality vessels associated with an extra-regional production. This exceptional presence could be related to a network
of specialized craftsmen who were traveling across the main
alum productions centres of central Italy at the beginning
of the Modern Age.
154
Giovanna Bianchi*, Paolo Tomei**
RISORSE E CONTESTI INSEDIATIVI
NELLE COLLINE METALLIFERE ALTOMEDIEVALI:
IL POSSIBILE RUOLO DELL’ALLUME
Natural resources and settlement contexts in the Early Medieval Colline Metallifere:
the possible role of alum
1. INTRODUZIONE
Possiamo, quindi, tentare di circoscrivere un insieme
di requisiti in base alla cui presenza sia possibile supporre
l’esistenza di un circuito di produzione e consumo di una
risorsa così ‘sensibile’ e di grande importanza, visto il suo largo
impiego in processi produttivi di notevole rilievo economico.
Proviamo a fare un sintetico elenco di questi requisiti
essenziali:
Il tema della produzione e dell’utilizzo dell’allume nella
nostra penisola in età altomedievale non è argomento semplice. Nell’introduzione a questo volume sono state ricordate
tutte le difficoltà che si possono incontrare nel percorrere un
cammino sinora raramente battuto: l’invisibilità archeologica
dell’allume e dei suoi processi di estrazione e trasformazione;
il concreto rischio che le tracce più antiche connesse alla sua
estrazione e lavorazione siano state cancellate da interventi invasivi di Età Moderna; la difficoltà a rinvenire nei documenti
chiari riferimenti a questo tipo di produzione. L’insieme di
queste circostanze ha fatto si che spesso tale esiguità di informazioni sia stata interpretata come un’assenza di simili sistemi
produttivi nella nostra penisola, a fronte di una importazione
della materia prima da altre aree del Mediterraneo. Questo
vuoto comincia a colmarsi quasi improvvisamente solo a
partire dall’Età Moderna, giustificando, di conseguenza, il
più ampio numero di studi relativamente ai nuovi impianti
di produzione pertinenti questa fase storica.
Tutto questo però si scontra con due rilevanti considerazioni: l’importanza dell’allume in molte attività proprie anche
dell’età medievale (il suo utilizzo in farmacia, nell’industria
tessile come straordinario mordente, nella concia del pellame
ma anche nella metallurgia per la purificazione dell’oro o per
l’arricchimento superficiale delle leghe d’argento, Dallai
2014); la repentina nuova presenza di strutture produttive
legate all’allume di Età Moderna che difficilmente si concilia,
in base a più generali considerazioni sulle caratteristiche dei
cicli produttivi e sulla trasmissione dei saperi empirici ad
essi connessi (Mannoni, Giannichedda 2003, pp. 3-25),
con una quasi totale assenza di conoscenze a riguardo nella
precedente età medievale.
Come allora trattare il tema del nostro contributo?
A fronte di quanto si è appena scritto è evidente, quindi,
che il problema della produzione e dell’impiego in età altomedievale dell’allume deve essere affrontato in maniera diversa
incentrando l’attenzione non tanto sugli indicatori diretti
materiali e documentari, quanto insistendo sulla presenza o
meno di condizioni essenziali affinché questo ciclo produttivo
fosse attuabile anche nella nostra penisola.
1. richiesta di questa materia prima all’interno di mercati più
o meno privilegiati
2. presenza di un ambiente tecnico sviluppato in grado di
mantenere e tramandare specifici saperi empirici necessari
alla realizzazione di questi cicli produttivi
3. presenza di attori politici forti in grado di sviluppare e
gestire una organizzazione produttiva complessa capace anche
di attrarre maestranze specializzate
4. presenza di circuiti di scambio e di relative infrastrutture
in grado di connettere luoghi di approvvigionamento, centri
di trasformazione e mercati di consumo.
Affronteremo la disamina di questi punti facendo riferimento ad uno specifico territorio, ovvero l’attuale comprensorio delle Colline Metallifere, dal momento che per
trovare delle risposte ai requisiti sopra esposti è necessario
esaminare un’area che presenti le seguenti caratteristiche:
avere, ovviamente, al suo interno importanti giacimenti
di allume; essere ben studiata dal punto di vista delle evidenze documentarie e materiali. Condizioni, queste, ben
riscontrabili nelle Colline Metallifere, una delle aree meglio
indagate archeologicamente di tutta l’Europa per quanto
riguarda l’età medievale 1, peraltro oggetto di una nuova
1
Tra le indagini archeologiche ricordiamo lo scavo di otto castelli di cui
quattro scavati in estensione: Rocca S. Silvestro, Francovich 1991; Donoratico,
Bianchi 2004a; Cugnano, Bruttini, Fichera, Grassi 2009; Rocchette
Pannocchieschi, Grassi 2013; quattro indagati nella loro area sommitale:
Campiglia, Bianchi 2004b; Suvereto, Ceglie, Paris, Venturini 2006;
Rocca degli Alberti, Bianchi et al. 2012, Bianchi, Grassi 2013; Scarlino,
Francovich 1985. Di questi otto castelli tre (Rocca San Silvestro, Rocchette
Pannocchieschi; Cugnano) sono legati allo sfruttamento dei filoni minerari a
solfuri misti. Inoltre sono stati scavati due monasteri alto e basso medievali
(S. Quirico di Populonia, Bianchi, Gelichi 2016; S. Pietro a Monteverdi,
Francovich, Bianchi 2006) ed effettuati scavi urbani nel centro di Piombino
(Berti, Bianchi 2007) e di Montieri (Aranguren, Bianchi, Bruttini 2007),
sede dell’originario castello minerario ed oggetto di un’estesa indagine in tutto
il suo territorio comprensiva anche dello scavo di un sito prossimo al castello
denominato Canonica di S. Niccolò (Bianchi, Bruttini, Grassi 2012). A
queste indagini si aggiungono quelle svolte nel sito produttivo di Monteleo, per
le quali si rimanda agli interventi in questo volume. Gli scavi sono stati affiancati
da ricognizioni di superficie che hanno riguardato sei comprensori comunali
(Campiglia, Scarlino, Populonia, Massa Marittima, Montieri, Monterotondo
M.mo (Dallai et al. 2009).
* Università di Siena, Dip. Scienze Storiche e dei Beni Culturali (giobianchi@unisi.it).
** Università di Pisa, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere (paolotom@hotmail.it).
155
G. Bianchi, P. Tomei
ricerca in corso legata ad un importante progetto europeo 2,
i cui primi risultati possono in parte supportare alcune considerazioni su cui torneremo in seguito. Al tempo stesso sarà
necessario volgere lo sguardo al centro urbano di riferimento
politico ed economico, ovvero Lucca.
Nell’ottica di una integrazione tra le fonti scritte e materiali i primi due requisiti saranno analizzati partendo da una
disamina di differenti testimonianze documentarie, mentre
per gli ultimi due si farà riferimento principalmente ai dati
raccolti nelle più o meno recenti ricerche archeologiche.
le stesse monete, come gli oggetti in oro e argento non monetato, potevano essere, è proprio il caso di dire, “regalate”
(Tomei 2018).
Per i secoli anteriori al XII il polo principale in cui confluivano e/o si producevano questi manufatti, e di conseguenza
anche le materie prime e i prodotti necessari per la loro realizzazione (metalli e fibre tessili, coloranti e mordenti ecc.),
fu la corte regia inframuranea, situata nel cuore della città fra
le odierne Piazza Napoleone e Piazza S. Giovanni. Per inciso,
qui si trovava anche l’unico mulino urbano conosciuto, che
sfruttava la presenza di una via d’acqua canalizzata: elemento
decisivo per l’impianto di attività 3. Nel corso del X secolo
la corte perse ogni funzione di rappresentanza pubblica per
conservare la sola vocazione produttiva. Re Ugo di Provenza
fece, infatti, del grande palatium suburbano dei duchi/
marchesi, posto nell’area delle attuali Via del Crocifisso e
Piazzale Verdi, la residenza unica delle autorità pubbliche
(Belli Barsali 1973; Tirelli 1980).
A corona dell’antico complesso regio, bipartito fra una
corte del re e una della regina fra loro strutturalmente legate,
si trovavano cappelle palatine con edificio sviluppato su due
piani: la chiesa di S. Maria in Palatio (dedicata anche a S.
Alò, funzionario di corte merovingio patrono di orafi, fabbri e
numismatici) e il monastero femminile di S. Pietro in Cortina
o Bellerifonsi 4. È con riferimento a quest’ultimo ente che compaiono nelle fonti, per i secoli che vanno dall’VIII all’XI, un
mercato, banchi, botteghe (banchae, stactiones) e produzioni
specializzate 5. Nei suoi pressi risiedeva un forbitore: artigiano
impegnato nella lavorazione delle armi 6. Il cenobio ospitava
poi un gineceo (pisele) per la tessitura, dove si realizzavano
manufatti tanto eccezionali da essere conosciuti, in Baviera
alla metà del secolo XI, come una tipicità lucchese: fasce di
seta per le gambe (guindangassia) riccamente ornate, abbinate
a vesti di seta e mohair 7. Su questa peculiare produzione,
che faceva di Lucca l’unico luogo dell’Occidente germanico
in cui con certezza si conservarono dall’età tardoantica i
presupposti (richiesta e conoscenze) per la lavorazione della
seta, abbiamo trattato in altra sede. Qui basti dire che si trattava di una produzione funzionale a colmare una “lacuna di
mercato”, destinata agli aristocratici che si muovevano nella
sfera pubblica: di qualità elevatissima e quantitativamente
limitata (Tomei c.s.).
Ai fini del nostro discorso è utile, piuttosto, tratteggiare alcuni passaggi fondamentali della storia del cenobio. S. Pietro
fu fra i cespiti fiscali assegnati dai re longobardi Ariperto II
G.B.
2. NATUR A E LOCALIZZAZIONE
DELLA DOMANDA. IL CONTESTO URBANO
LUCCHESE
Le ricchissime fonti lucchesi forniscono uno spaccato
eccezionale su una società altomedievale. Su di esse si è perciò puntato lo sguardo di molti storici: uno per tutti, Chris
Wickham (Wickham 1988, 1995, 2000). La straordinaria
abbondanza in quantità di questo bacino documentario fa
il paio con l’assoluta rilevanza del caso di studio: si tratta di
un contesto tutt’altro che marginale, poiché Lucca era una
delle grandi capitali del regno italico, sede di un duca poi
conte/marchese la cui influenza si estendeva su buona parte
del territorio regionale toscano.
Negli ultimi decenni, la buona messe di studi assommatasi ha mostrato che il principale motore dell’economia,
la domanda aristocratica, fino a quasi tutto il secolo XI si
concentrò a Lucca presso la corte regia e ducale. Prima dell’avvio del cosiddetto “mutamento signorile”, il corpo sociale
fu modellato dal rapporto con il palatium, che metteva in
opera un circuito di redistribuzione di ricchezze fondiarie e
mobili, capace di attrarre i segmenti eminenti della società e
costituire un legante su cui fondare il consenso politico. Era
al servitium delle autorità pubbliche, attività ricompensata
con beneficia, che si poteva accrescere il proprio prestigio
politico, sociale ed economico: oltre alla terra, si acquisivano
anche indicatori di status simbolici, le cariche (honores), e
materiali con cui ostentare pubblicamente una condizione
di distinzione (Fiore 2017; Tomei 2019).
I luoghi di produzione e approvvigionamento degli oggetti
di lusso che connotavano l’habitus aristocratico (vesti e armi
preziose, gioielli e suppellettili da mensa) si situavano a Lucca
presso i luoghi del potere pubblico: attività produttive specializzate nella tessitura e nella lavorazione dei metalli, mercati e
banchi di cambiatori. E qui si trovava anche la zecca: Lucca
ne ospitò la principale di tutta l’Italia centrale, seppure con
volumi di attività nel corso dei secoli fortemente differenziati
(Rovelli 2010). Il circuito mosso dai meccanismi di corte
secondo la diade maussiana dono-controdono, s’intrecciava,
dunque, a uno più propriamente commerciale: d’altra parte,
3
Archivio Storico Diocesano di Lucca, Archivio Arcivescovile di Lucca,
Diplomatico (d’ora in poi ASDL, AAL, D), * G 22 (ed. Chartae Latinae
Antiquiores, v. 81, n. 39), a. 862. Sull’ubicazione del mulino vd. Belli Barsali
1973, p. 504.
4
Belli Barsali 1973, pp. 506-509, 540; Seidel, Silva 2007, p. 212.
La registrazione nel Breve de multis pensionibus, elenco dei livelli concessi dal
vescovo Gherardo I (869-895), della carta riguardante S. Pietro Bellerifonsi, fa
riferimento a un solario: ASDL, AAL, D, †† N 65 (ed. Tomei 2012, p. 601;
Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 18).
5
Collectio canonum: III, 191; Registrum Petri Diaconi, n. 449.
6
ASDL, AAL, D, * F 16, †† S 24 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 86,
nn. 8-9), a. 890; †† N 65 (ed. Tomei 2012, p. 590; Chartae Latinae Antiquiores,
v. 117, n. 18).
7
ASDL, AAL, D, †† O 1 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 79, n. 50),
a. 846; †† F 21 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 82, n. 40), a. 870; †† N 65
(ed. Tomei 2012, p. 601; Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 18); Collectio
canonum: III, 191; Ruodlieb: X, 113-122.
2
Si tratta di un progetto ERC-Advanced Grant 2014 dal titolo Origins of
a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region Grant agreement n° 670792. www.neu-med@
unisi.it, condotto in collaborazione tra chi scrive ed il PI del progetto, Richard
Hodges, con ente ospitante Università degli Studi di Siena. Bianchi, Hodges
2018; Bianchi, Hodges 2020.
156
Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume
e Liutprando al papato nel primo VIII secolo 8. Il monastero
passò poi in mano del vescovato lucchese dopo la conquista
carolingia: nella temperie in cui i fratelli Giovanni e Iacopo,
che successero uno dopo l’altro sulla cattedra episcopale nei
decenni di passaggio fra i secoli VIII e IX, provarono a Lucca
a occupare la sfera pubblica a discapito delle autorità civili,
muovendosi con abilità come figure di intermediazione nella
delicata dialettica fra Carlo e il papato.
Come hanno mostrato le ricerche di Simone Collavini,
i due vescovi estesero notevolmente il patrimonio vescovile
anche in aree in precedenza marginali e attrassero a sé la
società urbana (Collavini 2007a). Iacopo fu responsabile
della “pubblicizzazione” del monastero suburbano di SS.
Iacopo e Filippo, poi detto di S. Ponziano, da lui fondato e
affidato al papato prima di salire in cattedra, che ricevette dal
fisco molti complessi patrimoniali (Collavini, Tomei 2017).
Riuscì, inoltre, a esercitare un forte controllo su un’altra
grande riserva di beni pubblici: la chiesa sedale suburbana
di S. Frediano, di cui era stato nominato rettore dal fratello
Giovanni (Stoffella 2013; Tomei 2014). In questa fase, con
il beneplacito papale e imperiale, giunse al vescovato anche
S. Pietro in Cortina/Bellerifonsi. Il passaggio deve essere posto senz’altro prima della redazione di un breve non datato,
paleograficamente compatibile con l’ultimo terzo del secolo
IX, conservato oggi nell’archivio vescovile, che elenca gli
enti cittadini dipendenti da Roma: in testa, S. Pietro e le sue
pertinenze. L’inventario fu verosimilmente prodotto al momento di una successione sulla cattedra episcopale lucchese 9.
L’originale appellativo con cui per la prima volta proprio nel breve si fa riferimento al monastero, que dicitur
Bellerifonsi, epiteto che fu utilizzato durante i secoli IX e X
per essere poi soppiantato dall’indicazione toponomastica
in Cortina, costituisce un’utile spia per ricostruire la cornice
in cui avvenne il passaggio di consegne 10. Bellerifonso è un
antroponimo particolarissimo: una versione solo un poco
“germanizzata” di Bellerofonte, il cui mito giunse all’alto
Medioevo tramite Isidoro 11. In ragione della sua inusualità,
senza troppo timore di sbagliare è possibile collegare tracce
fra loro distanti e delineare il seguente profilo.
Attestato fra 769 e 807 12, Bellerifonso appartenne al
segmento più alto della società lucchese che aveva accesso
al circuito di redistribuzione della terra fiscale, da Collavini
chiamato “élite regionale”: gruppo nel quale erano scelti i
duchi in età longobarda (Collavini 2007b). Già strettamente legato a re Desiderio, che prima di essere incoronato
era stato duca plenipotenziario in Tuscia (Bellerifonso nel
771 compare come antepor, membro del seguito della regina
Ansa 13), con il duca Allone fu uno dei personaggi che favorirono una transizione “morbida” a Lucca fra Longobardi e
Franchi, grazie all’interlocuzione con il papato (Collavini
2009): entrambi sono ricordati nelle lettere di papa Adriano I
tramandate nel Codex Carolinus. Nello specifico, Bellerifonso
portò delle lettere di Adriano I da Roma in Spagna al vescovo
Egila, su sollecitazione di Carlo Magno 14. Giova ricordare che
lo stesso duca Allone fondò a Lucca una diretta dipendenza
del monastero regio di S. Salvatore di Brescia, istituzione
promossa da Desiderio e Ansa 15.
È, dunque, probabile che Bellerifonso, morto senza
discendenza conosciuta, abbia tenuto S. Pietro in beneficio
poco prima dell’attribuzione al vescovo Iacopo, anch’egli
in buoni rapporti con la corte di Carlo e con quella papale
(Stoffella 2013), lasciando così la sua chiara impronta
onomastica. Con il tramonto a Lucca di questa stagione di
protagonismo vescovile, l’emergere di una dinastia di conti/
marchesi e l’instaurarsi sotto Lotario I di un nuovo assetto
di potere, al pari delle curtes fiscali di S. Frediano, anche S.
Pietro Bellerifonsi non fu più gestito direttamente dai vescovi,
ma prese a essere da loro concesso mediante carte di livello
a esponenti della buona società lucchese (Tomei 2017; c.s.).
Si può identificare con sicurezza solo un altro luogo entro
le mura in cui sono note attività commerciali prima del secolo
XII. Nel 1060 esse sono attestate in relazione con la chiesa di
S. Matteo, situata nel quadrante nord-occidentale della città
murata presso il canale detto fossa Natali, nelle mani di una
delle famiglie di spicco alla corte canossana: i Rolandinghi,
che possedevano allora anche S. Maria in Palatio, mercati e
banchi presso l’antica corte regia 16. Tutto ciò, con il beneplacito marchionale, costituì parte della ricca dotazione del
monastero urbano di S. Giorgio, affidato dalla famiglia a
Montecassino (Tomei 2019, pp. 105-112). A conferma del
fatto che queste produzioni e attività riguardavano nell’alto
Latinae Antiquiores, v. 38, n. 1098): B. compare fra i lociservatores et arimanni
che presero parte, nell’agosto 785, al primo placito conservato a Lucca, co-presieduto dal duca Allone e dal vescovo Giovanni. ASDL, AAL, D, † Q 13 (ed.
Chartae Latinae Antiquiores, v. 73, n. 9): B. figura come precedente possessore
di una casa a Quarrata di Capannoli, che il 14 aprile 807 giunse in permuta al
chierico Alperto Aldobrandeschi.
13
Ed. Codice Diplomatico Longobardo, n. 257; vd. La Rocca 1998, pp.
274-275.
14
Codex Carolinus, nn. 95-97, a. 786ca. A portare con lui le lettere, trascritte
dai registri pontifici, fu il chierico Giovanni. Sulla loro datazione vd. Bullough
1962. Allone compare in due missive: Adriano I si lamentò con Carlo delle
resistenze che il duca opponeva alla repressione del commercio di schiavi sulle
coste toscane, condotto da pirati bizantini con connivenze longobarde (Codex
Carolinus, n. 59, a 776), vd. McCormick 2001, pp. 516, 630; e del suo tentativo
di eliminare l’abate Gumfridi, altro grande personaggio toscano che agiva allora
come figura d’intermediazione fra Carlo e il papato, membro della famiglia
fondatrice dell’abbazia di S. Pietro di Monteverdi, posta sotto la protezione
regia e “gemellata” con Reichenau (Codex Carolinus, nn. 50-51, a. 775ca.), vd.
Collavini 2009, pp. 271-272.
15
MGH, DLI., n. 115, a. 851; DLII., n. 34, a. 861. Tale dipendenza lucchese
fu nota prima come S. Salvatore Brisciano, poi prese il nome di S. Giustina.
16
Registrum Petri Diaconi, nn. 390-391, 449 (cfr. Chronica monasterii
Casinensis, p. 442). Su S. Matteo e la fossa Natali vd. Belli Barsali 1973, pp.
502-505.
8
Collectio canonum: III, 191. Sulla datazione della fonte, rotoli di papiro
conservati nel Chartularium pontificio che furono trascritti alla fine del secolo
XI dal cardinale Deusdedit, vd. Tomei c.s.
9
ASDL, AAL, D, * O 26 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 19, riteniamo più probabile si tratti della successione episcopale da Geremia a Gherardo
I, fra 867 e 869). Per la precedente proposta di datazione, vd. Barsocchini
1837, n. 293; Nanni 1948, pp. 32-33.
10
L’ultima menzione della denominazione Bellerifonsi è in Archivio di
Stato di Lucca, Diplomatico, S. Ponziano, 995 maggio 23 (ed. Degli Azzi
Vitelleschi 1903, n. 18).
11
Si prenda, ad esempio, Libri Carolini, p. 443.
12
Archivio di Stato di Pisa, Diplomatico, Roncioni, 770 dicembre 30 (ed.
Codice Diplomatico Longobardo, n. 236): B. è ricordato quale possessore di
terra nel padule di Bientina, sulle cui rive giaceva l’abbazia regia di S. Salvatore
di Sesto, a latere di un appezzamento di pertinenza della chiesa di S. Frediano
permutato dal vescovo Peredeo con Allone, poi duca di Lucca. A differenza
dell’editore, non colmiamo con p(res)b(ite)r la lacuna dopo Bellerfuns: l’unico
segno visibile è l’asta discendente della prima lettera che potrebbe rimandare
anche a una q. Alla luce del testo seguente, dov’è espressa in moggi e scaffili
l’estensione del terreno, e dei formulari lucchesi, il guasto di circa tre lettere
potrebbe essere restituito con pl(us) m(inus), cfr. ASDL, AAL, D, * L 75 (ed.
Chartae Latinae Antiquiores, v. 30, n. 895). ASDL, AAL, D, †† O 66 (ed. Chartae
157
G. Bianchi, P. Tomei
Medioevo in prima battuta, sul versante sia della domanda
che dell’offerta, l’aristocrazia laica ed ecclesiastica gravitante
attorno alle corti, ricordiamo che S. Matteo, documentata
dalla fine del secolo IX, era la cella con curtis cittadina posseduta da una delle maggiori abbazie regie della Toscana,
situata nell’entroterra maremmano: S. Pietro di Monteverdi 17.
Recenti ricerche hanno rivalutato il ruolo di questo corpus
nella trasmissione delle conoscenze artistiche tardoantiche
nell’Europa carolingia (Baroni 2016; Brun 2017). Esso non
costituisce un “relitto fossile”, fissato con finalità didattiche ed
erudite non senza sviste e incomprensioni nel manoscritto-biblioteca di Giovanni e Iacopo. Con la collezione di ricette
metallurgiche nota come Mappae clavicula, esso fu uno dei
prontuari di carattere tecnico-pratico che furono raccolti alla
corte di Carlo e cominciarono a circolare nelle grandi abbazie
imperiali saldamente inserite nella sfera pubblica, laddove si
concentravano la domanda e l’offerta di manufatti preziosi:
Lorsch, Reichenau, S. Gallo. Qui, nel corso del IX e del X
secolo, gruppi di ricette si collegarono con il De architectura
di Vitruvio, riscoperto grazie a un esemplare portato a palazzo
da Alcuino 19. Solo in relazione al testo vitruviano un piccolo
estratto delle Compositiones si fissò nell’alto Medioevo in un
testo “canonizzato”: andò altrimenti a formare un duttile conglomerato di istruzioni, soggetto ad aggiunte, riordinamenti
e selezioni che rispondevano, con tutta evidenza, a esigenze
pratiche (Brun 2017).
Alla luce della storia delle manifatture lucchesi è possibile
precisare tempi e modi con cui il ricettario giunse nelle mani
del vescovo Iacopo, per poi prendere velocemente la strada
d’Oltralpe. La maggior parte delle prescrizioni riguarda il lavoro di orafi e tintori. Tali attività si radunavano a Lucca presso il complesso regio e il monastero di S. Pietro Bellerifonsi:
cenobio che dovette passare al vescovato appunto negli anni
di Iacopo. Il breve che inventaria il patrimonio monastico
poi assegnato al vescovato, ricorda il possesso di tre libri 20. Il
personaggio eminente che prestò il suo nome al monastero,
Bellerifonso, si mosse sulla stessa rete di relazioni (Roma,
Lucca, la corte imperiale, la Spagna) cui fa tacitamente riferimento il ms. 490 (Petrucci 1992): nel codice troviamo mani
spagnole e romane; il ricettario fu trascritto a breve distanza
dalla vita di Adriano I, appena giunta da Roma, e da Lucca
prese la via della corte. È, dunque, altamente probabile che
l’antigrafo da cui furono tratte le Compositiones fosse uno dei
codici in dotazione al cenobio. Iacopo lo fece copiare nella
fase in cui volle essere protagonista nella sfera pubblica e poté
controllare, con S. Pietro, parte di queste produzioni: tale
stagione passò però velocemente. Così come non abbiamo
3. TR ASMISSIONE E DIFFUSIONE
DELLE CONOSCENZE
Una fonte consente di farsi un’idea precisa circa i saperi
tecnici che si coltivavano a Lucca nell’alto Medioevo. Si tratta
di un ricettario ricopiato nel celebre ms. 490 della Biblioteca
Capitolare lucchese: codice miscellaneo che è stato felicemente definito da Armando Petrucci un “vero e proprio antilibro”,
poiché assume le vesti, per dirla con Luigi Schiaparelli, di
una “biblioteca in un piccolo volume” (Schiaparelli 1924,
p. 24; Petrucci 1992, p. 91). Esso costituisce, infatti, una
raccolta di lunga gestazione, realizzata fra 787 e l’inizio del
secolo IX (con qualche aggiunta che supera il primo quarto
del secolo), che include opere di carattere variegato, vergate
con tempi e ritmi di lavoro diversi in maniera non consecutiva da moltissime mani; in qualche caso anche da individui
di passaggio che ricopiarono testi in loro possesso (Unfer
Verre 2013). Il codice, prodotto del vivace ambiente che
circondava i vescovi fratelli Giovanni e Iacopo, rappresenta
una testimonianza privilegiata per studiare il progetto politico-culturale dei due presuli e, più latamente, i fermenti che
animavano la prima età carolingia.
Il ricettario, le cosiddette Compositiones Lucenses, fu copiato da scriventi lucchesi in due tempi ravvicinati, collocabili
nel primo secolo IX, durante il pontificato di Iacopo. Due
mani scrissero una ricetta ciascuna, De fabrica in aqua e De
malta, su un foglio bianco dopo la vita di Adriano I (f. 211v),
con cui nel codice si chiude il Liber Pontificalis. Il restante
corpus di istruzioni tecniche, destinate soprattutto a orafi e
tintori, fu vergato in continuo da altre due mani nella quarta e ultima sezione del manoscritto (ff. 217r-231r): la più
variegata. Il secondo scrivente è stato identificato, ma non
c’è unanime consenso sulla proposta, con il prete Daniele:
personaggio di spicco della cerchia di Giovanni e Iacopo. Il
quarto, ignoto, con certezza partecipò alla frettolosa copiatura della citata vita di Adriano I, giunta di gran carriera da
Roma (Schiaparelli 1924, pp. 45-48; Unfer Verre 2013,
pp. 54, 56-57). La raccolta, che doveva forse già avere un
aspetto disomogeneo e disordinato, non fu trascritta integralmente. Gli scribi operarono una selezione delle rubriche,
come suggeriscono la copiatura in due riprese distinte e la
numerazione romana che si accompagna alle registrazioni
apposte dalle prime tre mani 18.
anteporre una numerazione. Per una trascrizione e traduzione, non sempre
accurate, del testo delle Compositiones trasmesso dal ms. 490 con relative fotoriproduzioni, vd. Caffaro 2003.
19
Bischoff 1971; Pagliara 1986. Questi i testimoni più antichi:
Klosterneuburg, Stiftsbibliothek, Fragm. s.n. (fine del secolo IX, area salisburghese, vd. Bischoff 1980, p. 48); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica
Vaticana, Pal. lat. 1449 (prima metà del secolo IX, Lorsch; alla fine del X fu
apposta sul f. IVr la ricetta Cementum maltę, copiandola dal f. IIIr dove era
stata vergata da una mano più antica, parzialmente cancellata, vd. Bischoff
1989, p. 93); London, British Library, Harley 2767 (secoli VIII ex./IX in. ; più
antico manoscritto del De architectura, prodotto nello scriptorium di palazzo
al tempo di Alcuino da un antigrafo perduto copiato nelle isole britanniche,
cfr. Bischoff 1971, pp. 272-274; una mano successiva in carolina aggiunse
sul f. 162v la ricetta De fusuris); Oxford, Bodleian Library, Rawlinson D893
(i ff. 135r-136v, estratti dal ms. precedente, sono la continuazione della
stessa selezione di ricette, cfr. Bischoff 1942, p. 504); Sélestat, Bibliothèque
Humaniste, 17 (inizio del X secolo, S. Gallo; cfr. Bischoff 1971, p. 278);
Leiden, Rijksuniversiteit Bibliotheek, VLF 88 (X secolo, Hildesheim); Madrid,
Real Biblioteca de Escorial, f.III.19 (X secolo, Soissons). Il breve che elenca i
libri posseduti dall’abbazia di Reichenau nell’822 ca. include De architectura
e Mappae clavicula de efficiendo auro.
20
ASDL, AAL, D, * O 26 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 117, n. 19).
17
MGH, DHII., n. 285, a. 1014; DHIII., n. 41, a. 1040. La prima menzione
di S. Matteo è in ASDL, AAL, D, * A 85 (ed. Chartae Latinae Antiquiores, v. 87,
n. 27), a. 899. La chiesa non compare nell’atto di fondazione del cenobio del
luglio 754 (ed. Molitor 1991). Per un’indagine storico-archeologica sull’abbazia
maremmana vd. Francovich, Bianchi 2006.
18
Sul foglio 211v il primo scrivente appose la ricetta contrassegnata dal
numero I (De fabrica in aqua); il secondo, la numero III (De malta). Il testo
riprende dal foglio 217r, anche se doveva cominciare dai due fogli mancanti
del quaderno precedente: il terzo scrivente copiò le ricette XVIIII (De conpositio
cathmiae), XX (De tinctio vitri prasini), XXI (De alia lactis coloris), poi cessò di
158
Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume
notizia di tali lavorazioni in ambiente vescovile, le ricette
del ms. 490 non mostrano evidenti segni (aggiunte, glosse,
correzioni) di un loro impiego successivo.
Caliamoci ora dentro il ricettario. Scorrendo le rubriche, un dato attira la nostra attenzione: la frequenza delle
menzioni di allume e l’apparente dimestichezza con questo
gruppo di agenti mordenzanti. Gli allumi (haluminationes)
sono un ingrediente indispensabile per la preparazione di
molti pigmenti e smalti e compaiono in numerose lavorazioni
metallurgiche, in particolare per la doratura del rame e del
ferro. Le ricette non ricordano solo le loro proprietà e modi
di utilizzo, ma anche il loro aspetto in natura. Alla voce De
alumen se ne dà una generica definizione come terra floriens:
sta a dire, terra rilucente per la presenza di efflorescenze
cristalline (f. 220r). Nelle Compositiones sono citati diversi
mordenti: un allume Aegyptium; un allume Asianum; un
allume “semplice”, privo cioè d’indicazione di provenienza 21. Ciò potrebbe schiudere la possibilità che non tutto
l’allume usato a Lucca fosse importato dall’Oriente. Senza
l’edizione critica di un corpus così complesso, che contiene
traslitterazioni dal greco e influenze linguistiche molteplici,
è, tuttavia, rischioso usare tali specificazioni come elementi
su cui fondare dei solidi ragionamenti.
Altri indizi, tuttavia, sembrano condurre nella stessa direzione. Quello che sarà uno dei principali luoghi di estrazione
e lavorazione dell’allume toscano, il sito di Monteleo, si
trovava al centro di due grandi comprensori controllati dal
publicum al tempo di Bellerifonso e per tutto l’alto Medioevo:
Bagno e Gualdo del re. Lì vicino era anche la citata abbazia
regia di Monteverdi. Più in generale, tutto il territorio maremmano solcato dai fiumi Cornia e Pecora si caratterizza
per l’essere stato fra VIII e XI secolo di stretta afferenza alla
sfera pubblica e in forte collegamento con Lucca; e per aver
ospitato risorse di primaria importanza sul cui sfruttamento
in età medievale il progetto europeo in corso sta facendo
chiarezza: su tutte, sale, mineralizzazioni a solfuri misti (Cu,
Fe, Pb, Ag) e, appunto, alunite (KAl3(SO4)2(OH)6) 22. Non
si può, dunque, escludere che, così come si conservarono
specifiche conoscenze tecniche per lo sfruttamento di altri
filoni minerari, per provvedere alla richiesta di un ambiente
tecnico sviluppato dove si concentravano produzioni “di
nicchia”, le manifatture di corte lucchesi, potessero essere già
in corso nelle Colline Metallifere anche attività di estrazione
e trasformazione dell’alunite in sali d’allume.
4. ATTORI POLITICI E AMBIENTE TECNICO
NELLE COLLINE METALLIFERE
Nei precedenti paragrafi analizzando il contesto lucchese
si sono evidenziati in maniera chiara due aspetti:
– la richiesta nell’alto Medioevo di prodotti di pregio per la
cui realizzazione in molti casi era necessario l’allume, a fronte
di una costante domanda generata da un contesto sociale
variegato e di alto livello facente riferimento alla principale
città della Tuscia.
– L’esistenza di centri produttivi interni al centro urbano
lucchese in cui circolavano saperi complessi riguardanti anche
il possibile impiego di allume, forse proveniente da zone più
vicine geograficamente rispetto a quelle note, presenti in area
nord-africana e medio orientale.
Spostando, quindi, la nostra attenzione dall’area urbana
a quella rurale e delle Colline Metallifere, è necessario ora
definire il generale quadro politico-economico che potrebbe
aver reso possibile una strategia di precoce sfruttamento
dell’allume.
Così come già accennato nel precedente paragrafo l’area
con presenza di giacimenti di allume, dove in seguito fu
impiantato il complesso delle allumiere di Età Moderna di
Monteleo, si localizza all’interno di importanti domini regi
o di pertinenza di rilevanti attori politici.
In un documento del 779 si riporta la menzione di un
balneo regis (Farinelli 2007, p. 63). Così come evidenziato
in occasione di recenti survey archeologici, il Bagno del Re
citato dal documento altomedievale doveva far parte di un
più ampio ed interconnesso sistema di proprietà regie. La loro
localizzazione è ipotizzabile nella pianura solcata dal fiume
Cornia e nei primi rilievi collinari adiacenti, oggi all’interno
del territorio del comune di Monterotondo M.mo, in una
delle cui propaggini è situato l’odierno abitato del Frassine
(fig. 1). La laconicità delle fonti documentarie è supportata
dall’attuale toponomastica che nomina Bagnaccio/Bagno
del Re i ruderi di un grande edificio posto in pianura;
Cantinacce o Cisterna del Re i resti di un antico luogo di
raccolta delle acque sito a poca distanza; Casone o Casone
del Re un’area posta sui primi rilievi a poca distanza dell’odierno Frassine, dove il Targioni Tozzetti in occasione del
suo viaggio in Maremma descrive la presenza di edifici di
rilievo (Dallai, Fineschi 2006; Dallai, Fineschi, Ponta
2009). I dati dei recenti survey hanno consentito di datare ad
un periodo sicuramente non anteriore al XV secolo i ruderi
del Bagnaccio, mentre la ricognizione in corrispondenza del
toponimo Casone ha evidenziato alcuni allineamenti murari
di non definibile cronologia (Ponta 2015). L’osservazione
delle tecniche costruttive dell’antica cisterna ancora ben
conservata, la riportano, invece, ad un orizzonte cronologico di età pre medievale, confermando così la sua antichità
(Dallai, Fineschi 2006). L’individuazione di varie Unità
Topografiche nell’area di pianura, caratterizzate da una lunga
continuità di vita compresa tra l’età repubblica e il primo alto
Medioevo, attestano il permanere di un’occupazione legata
a due importanti risorse naturali: le acque termali e le selve
presenti in tutta l’area (Ponta 2015). Il legame con le proprietà regie è anche ribadito dalla menzione documentarie di
P.T.
21
Su 160 voci, sono 28 quelle nel cui testo si fa menzione di allume: Alia
cathmia; Alia tinctio (a. Aegyptium); De pelle alithinae tinguere (a. Asianum); De
tinctio pellis prasinis (a. Asianum); Tertia tinctio; Quarta tinctio; De prima pandii
tinctio; De porfiro melino; Tertius pandius; Tictio ossuorum et omnium conuorum
et omnium lignorum (a. Asianum); De II tinctio veniti; De tictio melina; De
calcetis; De alumen; Herbarum autem, terrae et lignorum; De ferrum deaurare (a.
Asianum); De coloratio petali argenti (a. Asianum); Alia crisografia; Quomodo
eramen in colore auri transmutetur (a. Asianum); Licaomnia (a. Aegyptium);
De lazuri (a. Aegyptium); Conpositio lulacin (a. Aegyptium); De alia crisocollon;
De calcucecaumenum (a. Asianum); De cemcausis; De lulax (a. Aegyptium); De
confectio ficarim; De terra que vocatur Limnia.
22
Sul sito di Monteleo vd. Dallai, Poggi 2012; Dallai 2014. Più in
generale sullo sfruttamento delle risorse minerarie nelle Colline Metallifere
vd. Bianchi, Dallai, Guideri 2012; Benvenuti et al. 2014; Bianchi 2015.
Sull’afferenza al publicum di vasti e compatti ambiti di questo territorio e il
loro nesso con Lucca vd. Vignodelli 2012, pp. 281-282; Collavini 2016;
Tomei c.s.
159
G. Bianchi, P. Tomei
fig. 1 – Il territorio indagato con evidenziati i siti citati nel testo.
un Gualdo regio al cui interno si formò la curtis di S. Regolo
(Collavini 2007a, p. 233). Questa curtis, localizzata tramite
il survey in corrispondenza di uno dei primi rilievi collinari
a ridosso della pianura sopra descritta (Dallai, Fineschi
2006; Ponta 2015), nell’inoltrato VIII secolo fu enucleata
da un grande complesso del fisco per giungere nelle mani dei
vescovi di Lucca. Il cuore del Gualdo dovette, comunque,
rimanere fino all’XI secolo nella disponibilità del fisco regio.
Sempre i vescovi lucchesi ed in parte il potente monastero di S. Pietro in Palazzuolo di Monteverdi (Francovich,
Bianchi 2006) detennero nell’alto Medioevo il controllo
a fasi alterne di un altro sito cruciale, Castiglion Bernardi,
ancora legato con probabilità al fisco regio, sovrastante e
collegato alla cava di alunite di Buca dei Falchi. La ceramica
rinvenuta nel sito posto su di un rilievo collinare durante i
recenti survey conferma la sua lunga frequentazione dall’età
ellenistica ai secoli centrali del Medioevo quando, a partire
dall’XI secolo, fu definitivamente rilevato dal vescovo di
Lucca e divenne un castello con relativo abitato (Ponta 2015).
Avvicinandosi verso le aree costiere, le menzioni di
Monte del Re presso Massa Marittima o di Mulini del Re
presso l’acqua del Re (Teupascio) oggi identificabile con il
fiume Pecora che solcava l’omonima vallata sfociando nella
originaria palude costiera prima della sua bonifica in Età
Moderna, attestano una diffusa presenza di altre proprietà
regie. Presenza ulteriormente testimoniata dalla menzione
delle curtes del Cornino e di Valli citate nel noto dotario
del 937 assegnato dai re Ugo e Lotario alle rispettive mogli
Berta e Adelaide (Vignodelli 2012). La locazione di questi
due possessi è da tempo stata individuata rispettivamente
nel comprensorio in prossimità dell’originario stagno di
Piombino, dove sfociava il fiume Cornia e nella parte terminale della valle del fiume Pecora sopra citato.
È in quest’ultimi due territori che dal 2015 si sono concentrate le indagini archeologiche interne al progetto europeo
nEU-Med, che, nella prima fase di questa ricerca, hanno
comportato lo studio interdisciplinare di questo territorio
costiero tra alto e basso Medioevo e del suo immediato entroterra a partire dallo scavo di un sito chiave, la Vetricella,
posto in origine ai margini della palude dove sfociava il fiume
Pecora, l’originario Teupascio citato dalle fonti altomedievali.
Riassumendo in maniera sintetica i risultati di queste ricerche (per una trattazione più esaustiva si rimanda ai contributi
raccolti in Bianchi, Hodges 2018; Bianchi, Hodges 2020)
è possibile circoscrivere i seguenti punti salienti (fig. 2):
1. Vetricella potrebbe essere interpretata con un buon margine
di certezza, come il possibile centro direzionale della curtis
regia di Valli, citata nel dotario di Ugo di Arles (Bianchi,
Collavini 2018). Il suo scavo in estensione costituisce,
quindi, la prima occasione nella nostra penisola di analizzare
in dettaglio le caratteristiche materiali di un possesso regio
o marchionale rurale osservando, al contempo, le modalità
con cui le autorità pubbliche intervenivano sul comprensorio
circostante.
160
Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume
fig. 2 – Il sito della Vetricella (Scarlino, GR): a. prima dello scavo; b e c alla fine della campagna 2018; c. pianta di fase del Periodo IV.1 corrispondente alla seconda metà del X secolo.
un alto numero di piccoli insediamenti nucleati, evidenziati
dai più o meno recenti survey così come dalle nuove indagini
diagnostiche (Marasco 2013; Marasco et al. 2018; Dallai,
Carli, Volpi 2020). È possibile che da questi abitati provenisse la forza lavoro impiegata nella Vetricella.
5. Il sito conobbe una intensa attività nella seconda metà del
X secolo per poi essere definitivamente abbandonato intorno
alla metà di quello successivo.
6. Contemporanea al momento di maggiore attività della
Vetricella, è un’importante trasformazione del paesaggio non
lontano dal sito, presente nella pianura sottostante l’attuale
Massa Marittima. Nel corso del IX-X secolo, infatti, furono
provocati numerosi incendi probabilmente per creare nuovi
spazi aperti e/o coltivabili, mentre lo stesso corso del fiume
Pecora fu sottoposto a pesanti modifiche che comportarono una nuova regimentazione di parte del suo paleoalveo
(Pieruccini et al. 2018).
2. Il sito a partire dalla sua fase di massima espansione,
coincidente con la seconda metà del IX ed in particolare
con la seconda metà del secolo successivo ed i primi decenni
dell’XI secolo, si caratterizzava per la presenza di un unico
edificio centrale turriforme inizialmente circondato e difeso
da tre fossati concentrici, di cui il più interno fu colmato
proprio nel corso della seconda metà del X secolo (Marasco,
Briano 2020).
3. I dati sinora raccolti orientano ad interpretare il sito come
un luogo dove erano in contemporanea stoccate merci (sulla
cui natura ci riserviamo di attendere le nuove analisi) e lavorati e stoccati oggetti in ferro come coltelli, punteruoli, speroni,
ferri da cavallo, fibbie, chiodi da ferratura (Agostini 2020).
L’altissimo numero di reperti ritrovati, fa della Vetricella
un centro specializzato destinato alla produzione di oggetti
probabilmente destinati ad un mercato extra territoriale,
ancora da definire geograficamente. Il minerale proveniva
sia dai giacimenti delle Colline Metallifere, sia da quelli
della prospiciente Isola d’Elba (Bianchi, Collavini 2018)
grazie ad un ampio e ben strutturato sistema di sfruttamento
di queste risorse che per l’interno delle Colline Metallifere
faceva riferimento, sin dall’VIII secolo, a piccoli villaggi
come, quelli indagati in passato, di Cugnano e Rocchette
Pannocchieschi (Grassi 2013).
4. Il sito di Vetricella non era isolato ma era circondato da
L’insieme di questi dati dimostra come perlomeno nel
corso del X secolo, fosse in atto un programma di trasformazione dei paesaggi e di controllo e sfruttamento delle risorse
minerarie (con particolare riferimento al ferro) la cui altissima scala di attuazione fuga ogni dubbio sulla committenza
di tali operazioni, identificabile con i poteri pubblici, regi o
marchionali. Con probabilità gli stessi poteri agirono con
pervasività anche per lo sfruttamento delle saline interne
161
G. Bianchi, P. Tomei
alla curtis del Cornino, presenti nello stagno di Piombino,
attestate già in età altomedievale e di cui, con lo scavo in
località Carlappiano, sono state trovate tracce riferibili ai
secoli centrali del Medioevo (Dallai et al. 2018). Questi
stessi dati consentono, inoltre, di riconoscere con maggiore chiarezza ed evidenza rispetto al passato, il peso che in
questo territorio ebbero le strategie economiche attuate
da questa committenza. Esse riguardarono evidentemente
non solo l’area costiera ma anche le vallate retrostanti: dei
veri e propri corridoi verso l’entroterra caratterizzato, come
abbiamo scritto, da numerose attestazioni di possessi regi.
Simili azioni collegate a numerosi e diversi processi produttivi richiamarono in questo ampio territorio un probabile elevato numero di maestranze specializzate, creando sicuramente le condizioni per un arricchimento esponenziale
dell’ambiente tecnico. All’interno di quest’ultimo parrebbe
davvero singolare, pertanto, che non trovassero spazio le attività connesse all’estrazione e prima trasformazione dell’allume (vista anche la richiesta dall’ambito urbano lucchese)
le cui cave si trovavano, come abbiamo scritto, in un’area
fortemente collegata geograficamente e istituzionalmente
ai domini regi. Tale considerazione potrebbe estendersi
anche ad altri giacimenti di questa materia prima (sempre
sfruttati in maniera sistematica a partire dalla seconda
metà del XV secolo) ugualmente presenti in prossimità
di aree soggette al fisco regio poco sopra rammentate (fig.
1): quelle in località Pietra prossima a Massa Marittima; le
cave di Montioni poste a relativa distanza sia dall’areale di
pertinenza della curtis regia del Cornino, sia di quella di
Valli, il cui possibile centro oggi potrebbe essere identificato
con il sito della Vetricella.
Una simile precocità di sfruttamento dell’allume in età
altomedievale, in forme e modalità che purtroppo non
hanno lasciato evidenze materiali e documentarie, era già
stata supposta in passato (Dallai, Fineschi 2006). I risultati delle recentissime ricerche legate al progetto nEU-Med
forniscono validi elementi per supportare ulteriormente
queste ipotesi.
A queste caratteristiche, nel comprensorio delle Colline
Metallifere al momento corrispondono due siti: quello in
località Torre di Donoratico, dove si registra una produzione in loco o limitrofa di ingenti quantità di ceramica
a vetrina sparsa databile alla metà del IX secolo (Briano,
Sibilia 2018); Rocca degli Alberti a Monterotondo M.mo
la cui area sommitale in questa fase divenne un importante
centro di raccolta dei cereali ed in particolare del grano
(Bianchi, Collavini 2018). Nel caso del primo sito, sinora
si è supposto un suo legame con il monastero di S. Pietro in
Palazzuolo di Monteverdi, nell’ottica però che quest’ultimo
potesse far parte di beni pubblici confluiti nel patrimonio
monastico ma comunque, così come per altri casi rimasti
a disposizione del fisco regio (Lazzari 2012). Per Rocca
degli Alberti la menzione saltuaria e solo tarda di un suo
legame con lo stesso cenobio fa ipotizzare, comunque, una
dinamica simile a quella di Donoratico, considerando che
Monterotondo M.mo si trova ai margini della grande area
comprensiva del Frassine, caratterizzata dai possessi regi che
abbiamo descritto nel precedente paragrafo.
Al momento, quindi, possibili corti pubbliche o con
la medesima fisionomia si collegherebbero alla gestione
di queste produzioni: agricole/cerealicole; sale; ceramica;
oggetti in ferro.
Considerando la varietà delle risorse presenti in questo
territorio è questa una visione ancora parziale, ma sufficiente
per rimarcare ancora una volta la notevole circolazione,
in questo periodo (considerando anche l’attivazione di
importanti cantieri da costruzione) di saperi specializzati.
In recenti contributi questo panorama è stato confrontato
con quanto è possibile desumere dalle fonti documentarie ed
archeologiche per le corti pubbliche della Tuscia del Nord,
in particolare per l’area pistoiese, del Valdarno e dei Monti
Pisani (Bianchi, Collavini 2018) ma anche per quelle
dell’Italia settentrionale (Bianchi 2020; Fiore 2020).
Il quadro che emerge consente di ipotizzare che anche
in questi luoghi fossero presenti produzioni specializzate:
agricole; ceramiche; relative all’estrazione di pietra da
costruzione e produzione di manufatti lapidei; oggetti in
steatite. Non disponendo di informazioni dettagliate al pari
di quelle desumibili per l’area delle Colline Metallifere, tale
ipotesi hanno un minore supporto soprattutto del dato materiale e per alcune di queste produzioni risulta più difficile
determinarne l’entità della scala.
L’insieme però dei dati, collegato a recenti ipotesi sulla
trasmissione e la gestione degli stessi beni fiscali (Collavini
c.s.; Collavini, Tomei 2017) consente di cominciare a
tratteggiare, perlomeno nella Tuscia di IX e X secolo, un
possibile scenario di sistemi economici pubblici integrati,
facenti capo a specifici siti, gestiti direttamente o indirettamente dalle autorità regie o marchionali, destinati a sfruttare
specifiche risorse e produrre beni di diversa natura (Bianchi
2018a; Bianchi, Collavini 2018; Bianchi 2020).
Proprio lo studio di Vetricella e del territorio delle
Colline Metallifere, supportato dalla notevole massa di dati
archeologici raccolti in più di un trentennio di indagini,
dimostrano come, perlomeno in quest’area, simili produzioni non fossero indirizzate nella loro maggioranza verso
i territori limitrofi a questi centri. Ciò è confermato, ad
5. POSSIBILI CIRCUITI DI SCAMBI
NELLE COLLINE METALLIFERE
L’insieme delle informazioni sopra esposte, nella fase
più avanzata della ricerca interna al progetto nEU-Med
hanno spinto ad allargare lo sguardo dalle aree oggetto di
indagine a territori limitrofi e finanche esterni alla Tuscia,
per rileggere dati pregressi o di nuova acquisizione. Questo
nell’ottica di individuare un possibile sistema di siti legati
a produzioni e relativi scambi tra grandi corti rurali pubbliche, perlomeno nella fase corrispondente al massimo
ampliamento e funzionamento di Vetricella, ovvero seconda
metà IX, inizi XI secolo.
A tale proposito, partendo dal caso della Vetricella, sono
stati definiti dei parametri di confronto così individuabili:
presenza di consistenti cambi di assetto dei siti nel periodo
considerato (costruzioni di mura, di recinti, di torri, di
strutture produttive o di raccolta); vocazioni che comportarono un forte legame con produzioni specializzate a
grande scala.
162
Risorse e contesti insediativi nelle Colline Metallifere altomedievali: il possibile ruolo dell’allume
esempio, dalla quasi totale assenza di reperti in ferro nelle
sequenze dei villaggi di altura anteriori all’XI secolo, oppure
dalla scarsa presenza di frammenti di ceramica a vetrina
sparsa nei livelli di vita dei medesimi contesti abitativi.
Dove, quindi, fosse indirizzata questa produzione è uno
dei temi di ricerca del progetto nEU-Med. Preliminarmente
si può supporre che la sua circolazione riguardasse
spostamenti da corte a corte, oppure dalle corti verso il
centro urbano lucchese.
Nel caso del territorio qui esaminato, supponendo
che le corti regie costiere del Cornino e di Valli/Vetricella
fossero i punti di arrivo e di smistamento di produzioni
locate anche nelle aree interne, il collegamento con il nord
della Tuscia e con Lucca poteva essere garantito sia da vie
terrestri, come l’Aurelia, ancora attiva in questo periodo
pur con modifiche del suo tracciato, sia marittime. Se,
infatti, solo le fonti documentarie altomedievali, attestano
la vitalità di un porto, Falesia, ormai non più individuabile
materialmente e originariamente locato nella laguna di
Piombino, recenti studi sui materiali ceramici rinvenuti in
prossimità dello scalo di portus Scabris, locato poco distante
da Vetricella, confermano la sua funzione ancora per tutto
l’alto Medioevo (Vaccaro 2018).
Tornando, quindi, al tema del precoce sfruttamento
dell’allume nelle Colline Metallifere, anche il quarto
requisito indicato all’inizio di questo contributo come
necessario a creare le condizioni ideali per lo sfruttamento
di una risorsa così importante, ovvero presenza di circuiti
di scambio, di infrastrutture in grado di connettere luoghi
di produzione con i centri di trasformazione e consumo,
sembrerebbe essere presente.
forze politiche, alcune delle quali già partecipanti al sistema
politico ed economico di carattere pubblico (Collavini
1998; Ceccarelli Lemut 2004; Farinelli 2007; Bianchi
2015). Da tempo è stato, infatti, sottolineato come il processo di affermazione di diritti signorili nella Tuscia si accelerò
proprio a partire da questo momento (Wickham 1996).
Il venir meno della struttura di coordinamento marchionale comportò la frantumazione del territorio da noi
esaminato in un mosaico di distretti signorili. Le indagini
archeologiche e l’esame delle fonti documentarie hanno
dimostrato che questa nuova condizione non comportò,
tuttavia, l’interruzione dei processi produttivi inerenti lo
sfruttamento delle diverse risorse di questo comprensorio
(in particolare quelle minerarie), ma solo una loro localizzazione. Tale localizzazione si legò al mutato raggio di
azione degli attori politici operanti sul territorio: non più
gravitanti attorno ai poli di redistribuzione pubblica di
terra e honores, ma più decisamente imperniati sui castelli
rurali e dediti all’intensificazione dello sfruttamento delle
risorse locali (Bianchi 2018b). Le signorie laiche ed ecclesiastiche attive in questa regione dovettero altresì fare i
conti con una competizione più accesa, confrontandosi ed
entrando in relazione con le forze di caratura maggiore (su
tutte, le città di Siena e Pisa) che, a partire dal XII secolo,
condussero progetti di ricomposizione territoriale (Bianchi,
Collavini 2017).
A livello di conoscenze si registra, poi, una continuità di
ambiente tecnico dimostrata, in campo metallurgico, dalle
attività svolte all’interno dei castelli minerari per tutto il
basso Medioevo le cui evidenze sono state registrate archeologicamente per i casi di Rocca San Silvestro, Rocchette
Pannocchieschi, Cugnano, Montieri, al cui interno tra XII
e XIII secolo fu attiva anche una zecca (per una sintesi dei
casi citati Bianchi, Dallai, Guideri 2009; Benvenuti et
al. 2014; Bianchi, Cicali 2019).
A questi contesti è poi da aggiungere lo sviluppo del
distretto dipendente da Massa Marittima, a cui si legò, in
particolare tra XIII e XIV secolo, un intenso programma
di sfruttamento delle risorse del sottosuolo, in relazione al
quale conoscenze ed organizzazione del lavoro furono codificate nel noto e cosiddetto Codice Minerario Massetano
(Panella, Casella, Rodolico 1938).
Alla fine, quindi, di questa sintetica panoramica risulta
davvero difficile non ipotizzare un precoce sfruttamento
dell’allume, seppur originariamente confinato in un ambito di produzione specifico e in quantità che dovettero
restare a lungo limitate, entro questo comprensorio. L’alto
Medioevo può aver costituito una importante e fondamentale premessa in cui prese avvio un processo di sfruttamento
che probabilmente continuò nei secoli successivi, sino alle
consistenti attività di Età Moderna. Proprio l’invasività di
quest’ultime potrebbe avere cancellato le più deboli tracce
di quelle precedenti, impedendoci di supportare con chiare
evidenze materiali le ipotesi formulate. Si spera, però, che
il quadro costruito mediante il confronto e l’integrazione
di dati storici e archeologici possa fornire validi spunti di
riflessione e di metodo per il futuro studio di questa risorsa
e del suo contesto.
G.B.
6. CONCLUSIONI
L’insieme delle considerazioni formulate nei precedenti
paragrafi, basate su dati materiali e documentari riguardanti sia l’ambito urbano lucchese, sia l’area rurale delle
Colline Metallifere, evidenziano come l’idea di un precoce
sfruttamento dei giacimenti di allume in quest’ultimo
comprensorio abbia acquisito una maggiore solidità rispetto
alle ipotesi formulate in passato, precedenti allo svolgimento
del progetto nEU-Med.
La presenza di un sistema economico di gestione delle
locali ed importanti risorse di questo territorio, ben organizzato dai poteri centrali e collegato alle loro sedi, che si
attuava all’interno di rilevanti ed estesi beni pubblici era
in grado di soddisfare i requisiti alla base dell’attivazione
di un processo produttivo riguardante l’allume. Ciò anche
a fronte sia di una domanda di tale materia prima da parte
di Lucca, sia della presenza di specifici saperi circolanti in
ambito urbano e rurale in maniera continuativa per tutto
l’alto Medioevo.
Il tessuto connettivo costituito dalle corti poste nella
sfera pubblica (urbane e rurali; gestite direttamente mediante actores o affidate a monasteri sotto la protezione regia)
sembra perdere buona parte della sua efficacia dalla metà
dell’XI secolo, nel momento in cui la marca di Tuscia si
disgregò lasciando campo libero all’azione di tante e diverse
G.B., P.T.
163
G. Bianchi, P. Tomei
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165
G. Bianchi, P. Tomei
the material remains of its production cycle and the difficulty in finding clear references to this type of production
in documents.
In this article this theme is therefore addressed by focusing
attention not so much on direct material and documentary
indicators, but by insisting on the presence or absence of
essential conditions for this production cycle to be viable. The
subject of investigation is the area of the Colline Metallifere
(southern Tuscany) and its political and economic urban
centre of reference, Lucca.
In the first and second paragraph, different kinds of documentary sources are analysed in order to circumscribe in
Lucca the possible commission related to the demand for this
raw material and the technical environment able to transmit
specific knowledge related to the use of alum.
The Colline Metallifere and their alum deposits are at
the centre of the third paragraph in which an attempt is
made to reconstruct the political-economic framework and
the technical environment that may have made possible the
implementation of the alum production cycle, thanks to
the most recent data acquired from archaeological research.
In the conclusions of the contribution, the set of data
exposed leads to the hypothesis of an early exploitation of
alum, although originally confined to a specific production
area with limited quantities for a long time. The Early Middle
Ages, at least for the geographical areas analysed, may, therefore, have constituted an important and fundamental premise in which a process of exploitation began and probably
continued in the following centuries, up to the substantial
activities of the Early Modern period.
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English abstract
Dealing with alum as a resource in the Early Middle Ages
is not easy because of both the archaeological invisibility of
166
Lorna Anguilano*, Vittorio Fronza**, Vasco La Salvia***, Alessandra Nardini**
PAESAGGI MINERARI ALTOMEDIEVALI DELL’ALTA VAL DI MERSE.
IL CASO DI MIR ANDUOLO (CHIUSDINO, SI)
Early Medieval mining landscapes of Alta Val di Merse.
The case of Miranduolo (Chiusdino, SI)
1. MIR ANDUOLO: IL SITO
E LO SFRUTTAMENTO MINER ARIO
Con la trasformazione in centro curtense, nel IX secolo,
non si hanno più evidenze di attività di lavorazione del
minerale: nell’area sommitale, all’interno della palizzata che
cinge il dominico, è però attiva una bottega, articolata e ben
organizzata, nella quale si forgiano prodotti finiti utilizzando
barre di ferro ormai importate.
La collina sulla quale nei primi anni del Mille sorgerà il
castello di Miranduolo (Chiusdino-SI), dal 2001 al 2016 oggetto di scavo da parte dell’Università di Siena (dir. scientifica:
M. Valenti; fig. 1), ha mostrato una continuità insediativa
dal VII secolo fino alla metà del XIV secolo: costituisce
pertanto un modello che possiamo definire paradigmatico
per lo sviluppo dell’insediamento rurale toscano, soprattutto
rispetto ai suoi processi di formazione e trasformazione nel
corso dell’alto Medioevo (Valenti 2008).
Nel VII secolo, si afferma sul sito un primo nucleo
abitativo e produttivo che recenti dati di scavo hanno
permesso di definire sia dal punto di vista topografico che
socio-economico: le attività di estrazione e lavorazione del
ferro sembrano essere il motore economico primario per
l’occupazione di questi spazi che, per il contesto economico
e cronologico in cui si verifica, è da collegarsi ad un’iniziativa
pubblica. In questa fase, il villaggio non appare ancora del
tutto strutturato ma sembra seguire le dinamiche legate allo
sfruttamento intensivo del potenziale estrattivo, a partire
dalla cavatura del minerale fino alle prime fasi di produzione.
Verso la fine del secolo, l’esaurimento dei filoni o la scelta
di aree di maggior potenziale determina l’allentamento del
controllo esterno e un radicale cambio di strategia produttiva verso una vocazione prettamente agricola che si lega alla
costituzione di un potere locale (Nardini 2015). Nell’VIII
secolo quindi si definisce un centro rurale nel quale emergono elementi di stratificazione sociale che si esprimono
attraverso il controllo di ampie aree di insilaggio: uno di
questi nuclei è rappresentato da un vero e proprio quartiere
abitativo-produttivo, facente capo ad un “contadino-fabbro”,
che attraverso il suo lavoro progressivamente arriva a detenere
un forte potere economico. La presenza di questa figura e
la complessità della sua bottega, ricostruibile in maniera
dettagliata grazie alle restituzioni materiali, permette di cogliere il ruolo strategico che l’attività metallurgica continua
a mantenere nell’economia del sito: peraltro, altri indicatori
di fusione e forgiatura sono presenti anche nell’altro nucleo
di stoccaggio, testimoniando attività di lavorazione, seppure
meno strutturate (Fronza 2015).
A.N.
2. UN VILLAGGIO DI MINATORI
E FONDITORI DI ETÀ LONGOBARDA
(VII SECOLO D.C.)
Tutte le fasi di frequentazione altomedievale hanno
evidenziato tracce evidenti di produzione e lavorazione del
ferro. Seguendo una strada tracciata ormai molti anni fa
dalla scuola senese di archeologia medievale (cfr. Farinelli,
Francovich 1994), sono stati prodotti dati rilevanti per la
comprensione delle dinamiche economiche e di potere legate
alle attività minerarie e metallurgiche di questo periodo.
In particolare, come accennato, la fase più antica del sito,
collocabile cronologicamente nel corso del VII secolo d.C.,
si distingue per una specializzazione economica esclusiva,
interamente incentrata sullo sfruttamento delle mineralizzazioni ferrose e sulla conseguente produzione metallurgica.
Sul versante Nord del poggio, è stato individuato un vero e
proprio sistema minerario connotato da metodi di coltivazione in galleria, pesantemente intercettato e sezionato in orizzontale dalle successive opere di terrazzamento della collina
effettuate a scopo insediativo (Fronza et al. 2012; fig. 2). Una
galleria “scoperchiata” si estende in senso Est-Ovest lungo il
dirupo settentrionale della collina (fig. 2.1, 2.5, 2.6), dove è
stata riconosciuta per una lunghezza di ca. 35 m (fig. 3). Per
la sua collocazione è possibile che si tratti di un passaggio di
servizio, come sembra confermare anche la presenza lungo il
suo percorso di un pozzo (figg. 2.2, 2.3; fig. 4) dotato di un
sistema di risalita del minerale (fig. 2.4). Immediatamente
accanto a queste evidenze si colloca uno slargo semiellittico
a formare una camera mineraria (dimensioni: ca. 3,5-4×1,5-2
m) (fig. 2.7; fig, 5), parzialmente riempita dal crollo della
sua stessa volta (fig. 2.8; fig. 5). Da questa camera si accedeva ad almeno un diverticolo della galleria principale che si
sviluppava in direzione SW (fig. 2.9). Diverse buche di palo
(figg. 2.9, 2.10) lungo i suoi limiti sono riferibili a strutture
lignee di sostegno della volta della galleria. Anche questo
cunicolo secondario è stato intercettato dai terrazzamenti;
tuttavia, in corrispondenza della parete verticale che forma
il limite a monte del terrazzo, il taglio della miniera e il suo
* ETC Brunel University, London (lorna.anguilano@brunel.ac.uk).
** Università degli Studi di Siena (scarpazi@gmail.com; anardini05@
gmail.com).
*** Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara (vascolasalvia@
gmail.com).
167
L. Anguilano, V. Fronza, V. La Salvia, A. Nardini
fig. 1 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Foto aerea del sito (ottobre 2014).
fig. 3 – Miranduolo (Chiusdino, SI). La galleria di servizio principale
e il pozzo di risalita del sistema minerario di VII secolo d.C., con il
riempimento in posto.
fig. 2 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Parte centrale
del sistema minerario di
VII secolo d.C. rinvenuto sul versante nord del
poggio: 1, 5, 6. la galleria
di servizio principale; 2. il
pozzo minerario; 3. l’entrata del pozzo dal dirupo;
4. il terrazzo e il sistema
di risalita del minerale;
7. la camera mineraria;
8. tracce di crollo della
volta della miniera; 9, 10.
diverticolo minerario 11,
12, 13. proseguimento
del diverticolo minerario
in galleria.
168
fig. 6 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Sezione sud del diverticolo minerario che si diparte dalla camera riferibile al sistema estrattivo di VII
secolo d.C.; si coglie chiaramente come, pur non avendo raggiunto il
fondo, una persona doveva poter percorrere la galleria in posizione eretta.
fig. 4 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Particolare del pozzo minerario
di risalita riferibile al sistema estrattivo di VII secolo d.C.
Almeno altri due diverticoli, solo individuati ma non
scavati, si collocano più ad Ovest, mentre un’ulteriore camera
mineraria in pessimo stato di conservazione doveva trovarsi
sul lato opposto dell’area indagata, verso Est.
Considerando anche la presenza di numerose altre tracce
riferibili ad attività estrattive sparse su tutto il poggio e, soprattutto, di un’estesa area produttiva sul versante Sud (fig.
7), dalla quale provengono numerosi e significativi indicatori
di produzione, l’insediamento si configura come un vero e
proprio villaggio-fabbrica di minatori e fonditori, posizionato
esplicitamente al centro di un territorio ad alto potenziale
minerario. L’impresa, certamente complessa da un punto di
vista organizzativo e gestionale, fa pensare ad una collocazione
in zone a carattere fiscale, gestite dal potere pubblico e da esso
conformate nella loro urbanistica e specializzazione economica.
fig. 5 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Particolare della camera mineraria
riferibile al sistema estrattivo di VII secolo d.C., con parte del crollo
della volta ancora in posto.
V.F.
3. IL CONTRIBUTO DELLE ANALISI
ARCHEOMETRICHE E DELLA GEOLOGIA
riempimento, anziché interrompersi, si inoltrano all’interno
del banco roccioso, prefigurando la presenza di un tratto di
galleria perfettamente conservata (fig. 2.13). La sua altezza
massima, non inferiore ad 1,60 m all’imposta della volta (fig.
2.12), doveva consentire alle persone che vi lavoravano di
percorrerla a piedi in posizione eretta (fig. 6).
All’interno del sito sono stati già messi in evidenza i principali indicatori della produzione siderurgica di VII-inizi VIII
secolo d.C., individuando diverse classi di materiali, quali
frammenti di fornace frammisti a scorie, provenienti dall’Area
169
fig. 8 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Bottega di contadino-fabbro in
uso nel corso dell’VIII secolo d.C.: a) forno da riduzione a pozzetto
(freccia verde: canale di insufflazione dell’aria attraverso mantice; freccia
gialla: rivestimento di argilla concotta sul fondo del forno; freccia rossa:
residui di lavorazione, terra magnetizzata e scorie); b) scoria a calotta
proveniente da un fornetto di riduzione.
Metallifere, ricco di diversi minerali quali ferro, rame, pirite
e galena argentifera. Inoltre, numerosi documenti del basso
Medioevo riportano di cessioni di parti di Miranduolo, nelle
quali si fa esplicita menzione di argento e di altri metalli
in generale. Più in particolare, in prossimità del sito, sono
presenti mineralizzazioni a solfuri misti associati ad idrossidi
di ferro, nella zona di ossidazione superficiale o cappellaccio,
mentre la roccia incassante è calcare cavernoso (Valenti
2008, pp. 41 e sgg.). Una preliminare valutazione della
carta geologica dell’area e alcune ricognizioni geologiche di
campagna mirate (dirette dal Dr. G. Rosatelli dell’Università
di Chieti) hanno messo in luce la presenza di letti di sabbia
e brecce, formazioni non inconsuete per la Val di Merse, e
un andamento delle escavazioni minerarie sovrapponibile a
quello delle faglie naturali, per cui le operazioni artigianali
‘approfittano’ delle predisposizioni del sostrato geologico.
Per ottenere informazioni su qualità e tipo di minerale
utilizzato a Miranduolo nell’alto Medioevo, si è iniziata
una campagna di analisi archeometriche sulle scorie che
rappresentano uno dei più importanti reperti per la storia
della tecnologia siderurgica. L’analisi della loro morfologia,
microstruttura e composizione chimica fornisce dati essenziali
per la ricostruzione dei cicli produttivi antichi ed è potenzialmente utile per il riconoscimento delle zone di estrazione
del ferro prodotto con il metodo diretto (Charlton et al.
2013, pp. 421-422; Roberts, Thornton 2014, pp. 95;
Antonelli et al. 2013). In questa sede si presenteranno
solo alcuni dati preliminari, relativi a 6 campioni da scorie
e altri scarti di lavorazione, sottoposti ad analisi chimiche e
mineralogiche, nel laboratorio dell’ETC Brunel University
di Londra in collaborazione con la Dr.ssa L. Anguilano (si
veda anche La Salvia, Anguilano 2015). Le analisi sono
state effettuate con un Zeiss Supra V35 in vacuum a 20kV. I
campioni, montati in resina epossidica, sono stati lucidati a
specchio attraverso una sequenza di fasi con carta al carburo
di silicio e pasta diamantata, fino ad una granulometria di
1/4 di micron; infine, sono stati ricoperti con carbonio per
problemi di conduttività. I suddetti campioni, in ultimo,
fig. 7 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Area di produzione del ferro di
VII secolo d.C.: a) rivestimento in argilla concotta individuato sul
fondo di un piccolo forno da riduzione a pozzetto; b) area di forgia;
c) scorie da forgiatura di piccole dimensioni.
11 (localizzata sul versante occidentale del poggio) e i residui
dei forni tagliati all’interno dei piani relativi alle Aree 1 e 3 (la
sommità collinare nella parte orientale della collina; fig. 7).
La fase più antica della produzione altomedievale si presenta
come un sistema organizzato e diversificato i cui resti materiali
hanno permesso di ben comprendere i differenti momenti
del ciclo di lavorazione del ferro, che vanno dalle operazioni
di arrostimento, pestaggio e riduzione del minerale alla forgiatura. L’insieme delle evidenze archeometallurgiche sembra
perimetrare un’area artigianale di grandi dimensioni, con più
fasi di utilizzo e una complessa articolazione degli spazi la cui
funzione pare, in alcuni casi, variare nel corso del tempo, pur
mantenendo ferma la sequenza operativa (La Salvia 2012).
Per la fase immediatamente successiva, le ultime campagne
di scavo hanno definito un ampio spazio sul versante NE
(Area 14) dall’aspetto notevolmente unitario, pertinente ad un
contadino-fabbro. Al suo interno si trova una zona adibita alla
produzione siderurgica (fig. 8), con almeno due fasi stratigraficamente distinte che, sulla base della sequenza stratigrafica e
della ceramica, possono essere datate al secolo VIII. La prima
fase, piuttosto estesa, ma in cattivo stato di conservazione, ha
restituito importanti indicatori metallurgici principalmente
legati alla attività di forgiatura. La riduzione di minerale è,
invece, attestata in quella immediatamente successiva, con
almeno 10 forni a pozzetto, riutilizzati e destrutturati più
volte (Fronza 2015).
Dal punto di vista geologico, il sito di Miranduolo si trova
all’interno di un bacino minerario, al limite delle Colline
170
hanno ricevuto ciascuno un identificativo di laboratorio,
ETC, seguito da un nr. seriale corrispondente, mantenendo
anche il loro originario riconoscimento di scavo per settore/
area, anno e US. I pezzi selezionati sono i seguenti: ETC S1
(MD07, A8/A2, US 402), ETC S2 (MD08, A3/C1, US 368,
polvere di ferro), ETC S3 (MD08, A3/C1, US 360, polvere
di ferro), ETC S4 (MD, MD08, A3/C1, US 368), ETC S5
(MD11, A14, US 193), ETC S6 (MD11, A14, US 188).
La concentrazione degli elementi maggiori è stata misurata
attraverso la media su tre aree di circa 1 mm² con SEM-EDS.
I campioni si dividono in 2 differenti categorie: 1) ETC 1, 5
e 6 che sono ricchi di ossidi di ferro (fra il 67 e il 78% con
il diossido di Silicio fra il 14 e il 20%); ETC 2, 3 e 4, invece,
molto ricchi in diossido di silicio (circa 50%) e alluminio
(intorno al 20%). Per quanto riguarda ETC 1, esso si presenta
fratturato e mostra cristalli larghi ed una matrice massiva (tav.
1a). In dettaglio (tav. 1b), si notano fayalite, potassio, feldspato
di calcio e ossidi di ferro. Questi ultimi presentano una certa
percentuale di cobalto (CoO circa 2%) mentre il feldspato di
calcio contiene una piccola percentuale di ossido di titanio
(approssimativamente 0,5%). ETC 2, mostra una tessitura a
grani sottili (tav. 1c) e, nel dettaglio (tav. 1d), aggregati di ossidi
di ferro, particelle di carbonato di calcio, calcio, magnesio e una
matrice allumino-silicatica. ETC 3, presenta una matrice completamente cristallina con diffusione di metallo che contiene
aggregati (tav. 1e). In particolare (tav. 2a), il campione mostra
grandi particelle di diossido di silicio associate con ossidi di
ferro. Questa associazione sembra derivare direttamente dalla
mineralizzazione originaria; l’ossido di ferro è l’alterazione
parziale creatasi durante il processo. Titanio e manganese sono
presenti nella matrice fina che è anche ricca in ferro, ma non
mostra alcuna traccia di cobalto. ETC 4 possiede una tessitura
ancora più fina e, al suo interno, aree arricchite in metallo
visibili come strutture di scorrimento (bianche nella tav. 2b).
La composizione mineralogica nel dettaglio risulta essere ossido
di ferro, diossido di silicio, feldspato di potassio e silicato di
ferro. Titanio e manganese sono presenti nella fase dell’ossido
di ferro (tav. 2c). ETC 5, ha una tessitura dendritica e questi
dendriti rappresentano ossidi di ferro (tav. 2d); le aree bianco
brillanti sono ferro metallico, mentre la matrice è formata da
potassio, calcio e silicato di alluminio. ETC 6 presenta una
tessitura dendritica, ovvero ossidi di ferro, con rare particelle
visibili di ferro metallico (in bianco, tav. 2e).
I dati desunti dalle analisi, per quanto ancora preliminari, consentono di abbozzare alcune conclusioni generali in
merito alle possibili fonti di approvvigionamento minerarie. Per prima cosa, emerge che la mineralizzazione doveva
contenere cobalto; inoltre, i feldspati presenti nel fondente
contengono titanio. Tuttavia, parte del fondente è costituito
da quarzo all’interno del quale non sono state rinvenute tracce
di titanio; almeno una mineralizzazione utilizzata potrebbe,
dunque, essere stata una vena per cui la stessa ganga funge
da fondente. In sintesi: due diversi minerali dovettero essere
utilizzati, uno ricco in cobalto e l’altro in titanio; tuttavia,
dal momento che quest’ultimo è stato rinvenuto anche nella
ganga degli altri campioni dove anche il cobalto era stato individuato, è probabile che siano stati usati minerali estratti da
vene differenti ma originatisi all’interno di uno stesso bacino.
tav. 1 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Analisi chimiche e mineralogiche
su campioni di scorie metallurgiche ed altri scarti di lavorazione: a, b)
campione ETC 1; c, d) campione ETC 2; e) campione ETC 3.
tav. 2 – Miranduolo (Chiusdino, SI). Analisi chimiche e mineralogiche
su campioni di scorie metallurgiche ed altri scarti di lavorazione: a)
campione ETC 3; b, c) campione ETC 4; d) campione ETC 5; e)
campione ETC 6.
L.A., V.L.S.
171
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English abstract
The castle of Miranduolo (Municipality of Chiusdino,
Province of Siena, Italy) is a long-term medieval settlement,
starting in the 7th century and definitively abandoned around
the mid 14th century. Excavations led by the University of
Siena between 2001 and 2016, yielded important information
for a better understanding of the postclassical settlement
network formation processes in rural Tuscany. Metallurgy
represents a constant economic factor for the whole lifespan
of the site. In fact, Miranduolo was founded during the 7th
century with an exclusive economic specialization, entirely
centred on the exploitation of the local iron ores. A complex
mining system has been identified on the northern part of
the hill, while a large and composite metallurgic area, with
several structures involving the whole production cycle, was
uncovered on the southern slopes. Evidence of iron reduction continues also in the 8th century, when the settlement’s
economic focus changes drastically towards an agricultural
enterprise led by emerging local elites.
A first set of archaeometric analyses, using SEM-EDS
techniques on a sample of slags, has been carried out in order
to explore quality and composition of the exploited iron ores.
The preliminary results are presented in this paper, showing
that at least two different types of mineral, both pertaining
to a local basin, were used in the site’s Early Medieval production areas.
172
L’ ALLUME MEDITERRANEO
THE MEDITERRANEAN ALUM CONTEXTS
Çiğdem Özkan Aygün*
THE FLESH EATING STONE:
ALUM MINING AND TR ADE IN ASIA MINOR
La pietra che divora la carne:
estrazione e commercio di allume in Asia Minore
1. INTRODUCTION
Alum mines in Asia Minor have always been operated via
“open-cast mining” throughout history. The mine in Kütahya
(Cotiaeion) Gedos-Şaphane or Şap Madeni was in operation
when the well-known Turkish traveler Evliya Çelebi visited the
region in 1680’s. The most striking part of the works described
by Çelebi were the pits or tunnels (lagım) that had been dug
in the ground to extract alum-bearing rocks. This record in
Çelebi’s book Seyahatname, may be considered a proof for the
open cast mining techniques applied at that time.
On the other hand, we know that mining in Asia Minor
date to a remote past.
There are more than 1000 recorded underground mining sites only in Northern Turkey. The oldest underground
mining site is located at Tokat (Comana Pontica) and dates
to the 5th millennium BC. Those mining galleries reach up
to 50 m below the surface.
The second oldest finding related to underground mining
is at Kütahya (Cotiaeion), Gümüşköy (Silver Village) Aktepe
(white Hill). It is a complex of galleries which had been
illuminated with kindling instead of oil lamps; 14C applied
to the burnt kindling traces dates to 2500 BC.
The first known and dated tool for ore enrichment in Asia
Minor was also found in the same area. This tool was used
for medium-fine crushing and grinding (medium-fine degree
is around 1-2 cm of diameter in modern metallurgy), and it
is dated to the 2nd century (Kaptan 1990, p. 181). Aktepe is
the well known area for silver and lead mining, but it is not
far away from the alum mines in Gedos which is a village of
Cotiaeion-Kütahya, as mentioned before.
Today, the alum production is still going on in the same
place with the yearly capacity of 20.000 tones. The operation
technique is still based on surface open cast mining, with
addition of a more modern use of explosives.
In Asia Minor, mining and metallurgical activities had
continued from ancient times up to the modern era; the mining had only been interrupted by wars and natural disasters,
like earthquakes. Although we haven’t got the remnants of the
tools and techniques that had been used in the oldest alum
mines, we can judge that the techniques were up to their date.
In modern Turkey there are more than 40 villages bearing
the word “Şap-Alum” in their names. Şap is also referred as
“White-Bead”, “Beyaz Boncuk”, in Turkish. However salt
which today receives the name of alum was not the same
material used by the ancients. From its description, we can
infer that the Alumen of the Romans was a sulphate of iron,
or at least contained a considerable amount of that metal.
Alum is a double salt of potassium and aluminium
(Pakucs 2007, p. 97) which can appear in its native state in
warm areas like the Middle East. Where alum was not readily
available, it had to be manufactured from alunite (alum rock
or alum stone) and alum shale (alum ore or alum schist).
Alum occurs naturally in more than one form; it was utilized in various fields such as medicine, cosmetics, metal and
glass finishing, tanning and thawing of leather, fixing of the
dye or even for ballasting the ships. Alum stone (alunite) was
the preferred material for the production of the millstones; according to Al-Razi (9th century Persian physician), alchemists,
mixing alum with mastic, would create a kind of cement to
fill dental cavities. The use of alum for medical purposes was
mentioned in the Hacı Paşa’s Medical book, Edviye-i Müfrede,
which was written in 14th century (Larrañaga et al. 2016,
p. 59). Although above mentioned purposes do not require
great quantities of alum, the demand of alum dramatically
increased after it began to be used in the textile industry, to
cleanse fibers and to allow a better adherence of the dyes 1. In
dyeing and printing cloth, the gelatinous precipitate helps the
dye to adhere to the clothing fibers by rendering the pigment
insoluble. The European textile industry begun to require it
in large quantities since the beginning of 12th century.
2. ARCHAEOLOGICAL FACTS ABOUT MINING
AND ALUM MINES IN ASIA MINOR
Although the consistent historical background related
to alum production and use, it’s surprising to find out that
there are no archaeological researches about the alum mines
in Turkey. The historical data concerning the production
techniques and practical uses of this ore was scarce, despite
the abundancy of the sources about the financial and legal
arrangements.
All of the archaeological researches related to the history of
mining in Turkey concern the underground mining sites. The
vulnerability of surface open cast mining areas determined
the lack of related research; therefore even the tools used in
this kind of works could not have been traced.
* Istanbul Technical University, Department of Humanities and Social
Sciences/Department of Fine Arts (ozkanci@itu.edu.tr).
1
When dissolved in a large amount of neutral or slightly-alkaline water,
aluminum sulfate produces a gelatinous precipitate of aluminum hydroxide,
Al(OH)3; http://www.artistsupplysource.com/product/53717/aluminumsulfate-500g/ retrived on 28.09.2016.
175
Ç. Özkan Aygün
The art of extracting and preparing alum was brought into
Europe from the Levant. The most ancient of the alum-works
known which exploited a particular variety of this salt, is that
of Rocca in Syria. Today it is called Edessa; hence the name
of Rock alum (Brewster 1830, p. 590).
The technology for the production of textiles as well as the
raw material seems to be exported from the Eastern World
through Asia Minor; for example, the so colled “fulling”
which is also known as tucking or walking, is a step in wool
clothmaking which involves the cleansing of cloth (particularly wool) to eliminate the oils, dirt, and other impurities,
and making it thicker. The fulling of the cloth was often
undertaken in a water mill, known as a fulling mill, a walk
mill, or a tuck mill since the medieval period.
The first references to the fulling mills in Persia were
reported from the 10th century. By the time of the Crusades,
in the late 11th century, fulling mills were active throughout
the medieval Islamic world, from Islamic Spain and North
Africa in the west to the Central Asia in the east. They seem to
have originated in the 9th or 10th century in the Islamic world,
either in the Middle East or North Africa. Mechanical fulling
was subsequently disseminated into Western Europe through
Islamic Spain and Italy in the 11th and 12th centuries (Lucas
2006, p. 278). Unfortunately, we are not sure whether those
techniques were effectively applied in Asia Minor because of
the lack of archaeological surveys.
Egypt has been the major source of alum in the 12th century, before the Italians gained a guaranteed access to the
Anatolian territory. However, the conditions to import alum
from Egypt became tougher; the increasing taxes over alum
imposed by the Egyptian authorities (the scale was two-thirds
in alum compared to one-third in gold) (Miller et al. 1987,
p. 150) caused a shift of trade from Egypt to Anatolia via the
Italian merchants, and Asia Minor became the main source
of alum for the European consumption from the 13th to the
second half of the 15th centuries.
Italian city states have the major role in the history of the
trade of alum in Asia Minor. No matter the sovereignty of the
Byzantines, Turks or Ottomans, the trade was in the hands
of Genoese, Venetians, Florentines and so forth.
Alum in Asia Minor was exported mostly through the ports
in Aegean Sea, Black Sea and Mediterranean. It is known that
the Black Sea and the Aegean Sea in particular had formed a
closely knit economic entity from the antiquity and that the
Byzantine political and economic control of the Black Sea –
Aegean entity had collapsed by 1204. While Venice imposed
her supremacy in the west of the Aegean Sea and Istanbul in
the 13th century, its rival Genoa conquered the eastern AegeanMytilene, Chios, the two Phocaeas and built a colonial empire
in the Black Sea. Genoa made Pera (Galata) its hub, facing the
imperial city across the Golden Horn (İnalcık 1994, p. 272).
The Byzantine Empire lost all of its overseas territories to
the Italian city-states and became economically dependent
on them. The Empire had to give full exemption from tariffs
and the free run in the region in return for grain supplies
for Constantinople (not only the trans-continental trade
was monopolized by the Latins in the 13th century, but also
the foodstuffs and raw materials taken from Black Sea were
under their control).
Despite being political rivals, the merchants from different
city states endeavored to reduce or to eliminate competition
in the ‘inner’ area by forming monopolistic compacts and cartels. In 1255, a Genoese and a Venetian jointly controlled the
production of alum in Seljuk Anatolia and were even able to
provoke an artificial rise of price (Miller et al. 1987, p. 375).
By the second quarter of the 13th century, the Seljuks had
become an export nation, although they still imported more
than they exported; they also had developed many local
industries and traded their own goods among the cities of
the Empire; these industries included the alum production
as well. Parallel to this inland mercantile activity, there was
an extensive shipping trade based in the ports of Antalya
(Attaleia) and Alanya (Alaiyye) on the Mediterranean and
in Sinop (Sinope) on the Black Sea. The capture of Antalya
in 1207 had signaled a major triumph for the Seljuks, as it
opened trade with Europe. The conquest of Alanya in 1221
by Alaeddin Keykubad was an even greater asset, as the natural harbor provided the opportunity to set up a naval base
in addition to the establishment of commercial activities,
notably with Venice, Florence and France.
3. A BRIEF OVERVIEW THROUGH HISTORICAL
SOURCES
Alum was one of the most important commodities that
was subject to trade agreements. Pegolotti mentions agreements about export and trade of alum between Turcoman
emirs and Italian mercantile states. In 15th century Western
Anatolia was widely settled by Turcomans and, thanks to
integration with Europe through export of wheat, raisin and
alum, the area became prosperous.
According to Genoese capitulations renewed on June 8
1387, Murad I exempted the Genoese from custom dues.
By the time of the conquest of Istanbul and the important
ports on the Black Sea, Aegean and Mediterranean along
the coasts of Asia Minor, the policy of the Ottomans got
tougher, in particular toward the Genoese colonies, with
the decision to abolish sovereignty rights over the territories
which originally belonged to the pre-Ottoman states and to
pull down fortifications.
Ottomans were careful not to repeat the mistake of the earlier weaker governments, and did not allow Italian maritime
states to gain territorial sovereignty or erect fortifications in
the areas where they were permitted to settle trade colonies.
Despite the regulations, the conditions seem to have
not been changed from the aspect of trade making (the
capitulations granted to christian states were the principal
instruments regulating trade with European countries).
Ottomans had complete political control of the place and
integrated it into their imperial economy; alum was one of
the commodities under strict control. An edict of Sultan
Bayezid on 1488 was declared against smuggling of alum in
Gedos-Şaphane-Kütahya (it will be mentioned later).
The 2.5 or 2 percent customs duty had been established as
the basic regular tax in the Mediterranean lands since Roman
times. The 2 percent rate was the norm in commercial treaties
of 1220 between the Anatolian Seljukid Sultanate and Venice;
of 1403 between the Menteşe Principality and Venice; of
176
1429 between Byzantium and Florence, and of 1454 between
Venice and the Ottoman State. The Byzantine government
imposed the rates of 3 percent for the Catalans and 4 percent
for the Provencals, while it maintained 2 percent for the
Venetians and Genoese; eventually, the latter two obtained
full exemption. Until the reign of Mehmed II the Ottomans
adhered to the 2 percent rate, although they never granted
any nation full exemption.
After the 15th century, Ottoman tax system became more
complicated because the customs rates varied according to
the type of the commodity, the legal status of the importer or
exporter and the customs zone. Customs dues were computed
ad valorem, that is on the basis of the value of the commodity
estimated by the government agent or tax farmer.
No merchant could load, unload or leave a port, caravanserai or public station (kapan) without receiving a permit from
the tax farmer and the simsar – that is an agent in charge of
the place – which meant that they had to pay taxes in every
stopover. Various forms of fraud took place, such as taking
the goods through routes other than the usual ones, using
city gates and places of unloading other than the officially
assigned ones or unloading wares at landings on the seashore,
outside the ports where customs houses were established
(İnalcık 1996, pp. 95-97).
Regarding the above-mentioned circumstances, although
the trade links continued for a time between Islamic Asia
Minor and the West, eventually the trade volume decreased
devastatingly and brought about the migration of especially
non-Muslim skilled dyers and alum workers from east to
west.
Ottomans also restricted and regulated the consumption
of alum in their territory. For example the alum from ŞebinKarahisar (Colonea) would be consumed at the territories
at the east of Tokat and Aleppo, alum from Gedos would
be consumed at Central and Western Anatolia including
Aegean islands and Mora, and alum from Maruniye would
be consumed at Istanbul, Macedonia and Mediterranean
parts of Asia Minor (Altunbay 2002, p. 798).
Alum mining was one of the main sources of prosperity
in Western Anatolia where Turcoman nomads lived. They
have generated prosperity not only mining the alum, but also
using it for the well-known carpets of Asia Minor. Along with
wheat and cotton, the export of carpets became the subject
of an international trade and made a tremendous impact on
the Turcoman economy and society in Western Anatolia. In
the 1330s, Ibn Battuta, speaking of Aksaray near Konya, says:
«The rugs of sheep wool called after the place were manufactured, which have no equal in any country and are exported
from there». Later on, particularly the Uşak-Gördes-Kula
basin in the upper Gediz (Gedos) river became an internationally known center of carpet manufacturing. This unique
development was associated with various factors; geography
of the region with the high pasture lands on the surrounding
mountains densely settled by the Turcoman pastoralists supplied wool in abundance, and cheap as well as skilled labor.
Best quality madder and alum for dyeing, the fast running
streams for washing the raw wool and finishing the carpets
and the Gediz river for transport to the sea offered the ideal
conditions (İnalcık 1994, p. 38).
In the 16th century, the Turcoman nomads were replaced
with the peasant population who needed larger arable lands
(ibid. p. 40), after the Ottoman invasion of the area in the
mid-15th-century. A theory may be generated depending on
the parallelism between the evacuation of Turcoman nomads
from Western Anatolia and decrease of alum mining in
Western Anatolia; in fact, we must remember that also in
Egypt the alum was being manufactured by Bedouin nomads.
In 1460, an Italian trader and lawyer by the name of
Giovanni da Castro, who also happened to be a godson of
the pope Pius II, recognized large quantities of alunite in the
vicinity of Tolfa, a small town about 25 miles north of Rome
and within the Papal States (see Stasolla in this volume).
He had experience of the dyeing and alum industries in and
around Constantinople (Bruscoli 2007, p. 167).
His first detection of alum in Tolfa was depending on his
observation of «similar herbs grew on the mountains of Asia».
This discovery also coincides with the Ottoman control
over much of Anatolia, including Phocaea and the surrounding islands, such as Chios, which were vital for alum
trade. Findings at Tolfa cannot be a simple coincidence but
a pro-action for the changing political circumstances.
4. THE PROCESS OF ALUM PRODUCTION
(fig. 1, fig. 2)
Francesco Balducci Pegolotti, in his La pratica della mercatura written in 14th century, describes the production of
alum from alum rock (Evans 1936, pp. 368-369):
«When there was the need to prepare new alum the “masters” took the rocks and they worked with pick and chisel.
The rock was spongy and had holes in which it was possible
to find a resin similar to flour for color and substance. In the
beginning these rocks were cooked for 18 hours in specific
fireplaces, taken off, and amassed on a square to let them
cool down. They were wetted once per day with water pipes.
Because the rains were more frequent during the winter, they
didn’t wet the rocks and stored them for 4 months. After this
process the rocks were selected and the ones that were still
solid rather than soft were discarded. Then the rocks were
placed in 24 sacks. One by one they were inserted in a boiler
with a capacity of 3 “cogna” (1 cogno = 10 barrels/450 lt).
After 12 hours the water was sifted with a big iron pierced
box to remove impurities. The remaining water was poured
into a well-encased box which stand there for 12 to 14 days.
After this period, the mixture firmed and the alum was
ready. After being stored in different trunks, 3 buckets of
water were poured over the alum and then it was left to dry.
At sunset, the alum was weighed and stored as a finished
good. One of the piles weighed from 35 to 40 “cantara”
(following the Genovese system of measure – late middle
ages 47,6 kg. Ottoman kantar-around 57 kg). Alum was a
merchandise that was never spoiled provided it was stored
in a non-humid climate».
Another description is given by 14th century Byzantine
historian Doukas about how the Genoese processed it.
According to this description, the alum is produced from the
rocks of the mountain ridge which dissolve into sand when
brought into contact with fire and then with water. This
177
Ç. Özkan Aygün
fig. 1 – Ore enrichment, crushing and grinding for alum production – Adapted from The Edinburgh Encyclopædia of Sir David Brewster and De
Re Metallica of Georgius Agricola (graphic design by Cansın Caner Keskin).
fig. 2 – Phases of alum production – Adapted from The Edinburgh Encyclopædia of Sir David Brewster and De Re Metallica of Georgius Agricola
(graphic design by Cansın Caner Keskin).
sand, derived from rock, is poured into cauldron of water,
and the solution brought to a light boil. The sand is further
broken down and its dense mass remains in the solution like
cheesy milk, while the hard and earthy elements are thrown
out as worthless. The solution is emptied into vats to settle
for four days; it solidifies around the edges of the receptacle
and sparkles like crystal. The bottom of the receptacle is
also covered with crystalline particles. After four days, the
excess solution is drawn off and poured into the cauldron,
adding more water. More sand is thrown in; the compound
178
fig. 3 – Alum production points, transport routes and exporting ports over Asia Minor (drawn by Cansın Caner Keskin).
is brought to a boil, and once again poured into the vats.
The alum is then removed and stored in the warehouses
(Ducas 1958, p. 205).
Even though ore enrichment processes which were used
to produce alum can change according to the composition
of the rocks, general processes can be summarized as follows.
The ore is separated from the pieces of the rock; simple
ore enrichment processes, such as crushing and grinding,
are applied to the alum rocks in order to reduce their size.
Then medium-sized alum is heated in specific fireplaces, that
is brick kilns, until the white smug appears. This process is
also called calcination and it approximately takes seven to
eight hours; heating time can be longer or shorter according
to the chemical composition of the alum. When the ore is
sufficiently calcined and friable, it is taken out and laid on
long shaped pavements, which are surrounded with walled
trenches. These ore masses are irrigated with water regularly
almost forty days. After the irrigation, decomposed ore which
becomes softer is taken to the boiler and boiled at high temperature for long hours. When the water is saturated to the
right point, it is poured into the crystallizing pans. After it
is cold, clear alum crystals are obtained from the solution.
Georgius Agricola in his book De Re Metallica published
in 1556, gives three detailed descriptions of the alum manufacturing process, explaining the production from alum
shales and alum rock (alunite) (Hoover 1912, pp. 568-569).
Sir David Brewster, who was a Scottish physicist and
historian of science, in his Edinburgh Encyclopedia which
was published between 1808-1830, explains different manufacturing processes according to the different chemical compositions of alunite and gives detailed explanations about the
chemical reactions occurring during those processes (David
Brewster 1830, p. 590). Heating and watering are the main
factors to create the reactions.
The title of this article “Flesh eating Stone” can be explained through this chemical reaction. Pliny says that a peculiar stone, found in the territory of Assos 2 a very close town
to Phocaea, has the property of wasting the bodies entombed
in it; hence the term sarcophagus, meaning ‘flesh-eating’ sarksarc (flesh) + phagein to eat: «It is established that the corpses
buried in it with exception of the teeth, are consumed within
a period of 40 days» The special stone rock of the Assos area
is called andesite; this kind of rock can produce alunite under
special hydro thermal alterations. Alunite formations which
are found in andesite deposits can show acidic characteristic
which can explain the consumption of the buried bodies in
the sarcophagi made of andesite.
Being famous with their property to decompose corpses
quickly, the sarcophagi which were produced from the andesite in Assos were highly demanded in the ancient world.
The sarcophagi produced in this area were being exported to
Lebanon, Syria, Greece and Rome at that time. An underwater relict has been found at South of Greece full of sarcophagi
cargo from Assos destined to arrive in Rome.
According to the unpublished information given by the
ex-director of the Assos excavations, pieces of alum were
found in some of the sarcophagi. A village in the vicinity of
Assos which had alum mines is named Şapköy (the Alum
Village). This information indicates the existence of alum in
the rock formation of the area.
5. EXTR ACTION AREAS
There are plenty of major and minor mine sources that
are mentioned in the trade of alum in Asia Minor (fig. 3).
The main ones of those are:
2
179
Pliny, pp. 357, 358.
Ç. Özkan Aygün
5.1 Colonna – Koloneıa – Şebinkarahisar
Pegolotti explains the difference between various qualities
of alum. Rock alum (“allume di rocca”) was the best quality,
“allume di sorta della buona luminiera” was second-quality
alum and “allume corda” or “allume di fossa” was poor
quality product.
The most ancient and cited manufacturing area of
alum in Asia Minor is Koloneia (Κολώνεια) (Bryer 1982,
p. 133; Matschke 2002), in Northern Asia Minor, which
was famous for “allume di rocca”. Koloneia is 11th century Mavrokastron (Black Fortress); a Turkish toponym of
Karahisar appeared in 14th century. The town was later called
Şapkarahisar (“Black Fortress of Alum”), which was transformed into modern name of Şebinkarahisar. Although alum
mining around Koloneia probably existed from Pliny’s time,
large-scale trade was set by Turks and Italians.
Niketas Magistros wrote about the Koloneian alum in the
10th century (Magistros 1973, p. 65). It is also mentioned
that alum arrived in Cappadocia from the area of Koloneia
in Late Antiquity (Decker, Cooper 2012, p. 69).
In 1289 there is the first mention of a Genoese shipment
of “allume di rocca di Colonna”: Koloneia was an inland town
and the alum from these mines was transported from the
port of Kerasount (modern Giresun) which was a region of
Pontos, 40 km away, to the Constantinopolitan workshops of
textiles in the 11th century (fig. 4). Flax grown in the western
Peloponnese and along the Asiatic coasts of the Aegean was
made up into finished cloth in Constantinople with the help
of Peloponnesian dyes and alum from Koloneia as a mordant
(Postan 1966, p. 143).
The road from Koloneia to Kerasount crossed a hilly
and uncomfortable land. There are even evidences that
some of the Koloneian alum had being transported to Tokat
(Komano) or Sivas (Sebasteia), which were important hubs
for caravans, and finally to Phocaea to be exported.
Another itinerary for exporting alum of Koloneia was the
way to Trabizond port through Sebasteia; Koloneian alum
even arrived to the port of Aleppo through the inland road
passing from Sebateia. In the 13th century Vincent of Beauvais
mentions high quality alum found near Sivas (Sebasteia)
(Bryer 1988, p. 41), but since there are no alum reserves in
Sebasteia, this product was probably coming from Kuğuniya
and Kütahya (Kotiaeion) (Cahen 2014, p. 90).
Koloneia was in relation with the Kervan (caravan) road
of Konya (Ikonion) – Kayseri (Caesarea) – Sivas (Sebasteia)
– Erzincan (Eriza) – Erzurum (Karin).
Genoese Zaccaria family managed by political intrigue to
keep all exports from Koloneia off the market, while they were
developing Phocaea’s mines, and then exported Koloneia’s
alum as well as their own (Miller et al. 1987, p. 375).
According to Faroqi, still in the 16th century the alum
works were operated by local Christians. The mine workers
were remunerated by a very generous tax exemption, which
even excused them from payment of the head-tax imposed
to all non-Muslims (Faroqi 1979, p. 5).
The quality of alum rock in Koloneia was the highest in
Asia Minor. Percentage of alum ore in the alum rock was
80% in Koloneia, 75% in Phocaea on the western coast of
Anatolia and 60% in Kütahya (Kotiaeion, Cotyaeum) in the
fig. 4 – Ancient road for transporting alum from Koloneia (Şebinkarahisar) to Kerasount (Giresun) port.
central western Anatolia, which were the other important
alum mine areas in Asia Minor (Evans 1936, p. 43). High
quality of alum rock in Koloneia must have been influential
for the lower cost of manufacturing.
5.2 Phocaea-Phokeia (modern Foça)
and Foglia Nuova (modern Yeni Foça)
Another important centre for alum production in Anatolia
was Phocaea. Phocaea alum was used particularly for dye
making and was exported to the Syrian, Egyptian, Arab,
Italian, English, German and French dye makers.
The Genoese established themselves as operators after
the alum mines were granted by Michael VIII to Benedetto
Zaccaria and his brother Manuel around 1275. Benedetto
Zaccaria, the Genoan commander and ambassador to
Byzantium, received the town as a hereditary lordship;
Zaccaria family was also controlling the port of Smyrna.
«Zaccaria used his own ships to distribute the alum in
different countries, and employed all his diplomatic and
military skill to enlarge his markets. In one recorded instance,
Zaccaria sold 33 tons of processed alum in Bruges. In Genoa,
his home town, he owned a dyeing house and financed a
Florentine cloth maker» (Postan 1966, p. 378; see also Lopez
1933 and Sinclair 2020).
Cahen argues that Zaccaria is the one who discovers the
alum in Phocea, depending on the lack of anterior evidence
of exportation before that period (Cahen 2014, p. 239).
Genoese controlled the alum trade from Phocaea; untill the
15th century they had the monopoly on Anatolian alum and
Ottomans also granted them the monopoly of trade from
Manisa.
Venetian trade with Ottoman state grew later than
Genoese one, in late 14th and 15th centuries, after Ottoman
conquest of Aydın and Menteşe, the Turkish emirates, where
Venetians have already traded through the ports of Ephesos
and Miletos (Friedman, Figg 2013, pp. 464-465; also see
Jacoby 2005).
After the Zaccaria family, the control of the alum mines
in Phocaea passed to the Cattaneo della Volta family. In 1307
Ramon Muntaner, the author of the chronicle of the Catalan
expedition in the East, mentioned that there was a Byzantine
town with its castle where alum was produced by its 3000
180
fig. 5 – The traces of the mine which is still visible on the hill called
Şap Tepesi (Alum Hill) at Foglia Nuova (Yeni Foça) and the port.
inhabitants. It is known that three alum mines were operative
in those years and according to Pegolotti they produced an
amount of 14000 Genoese kantars per annum.
After 1346, the Maona (the “association of investors”) of
Chios was controlling Phocaea and nearby islands; at that
time, Phocaea and Chios mines were auctioned approximately every ten years (Pistarino 1996).
In 1356 the Gatillusio family established in Lesbos; from
Lesbos they controlled the alum production in the area of
northern Aegean.
Foglia Nuova (Yeni Foça), which is at the periphery of
Phocaea, was set around an harbour; it is predicted that the
area was established by Andreolo Cattaneo. The alum deposits of Foglia Nuova are low grade alunite ores and several
alum mines were located on the hills around.
Phocaea alum (“allume di sorte della buona luminiera”)
was a mixture of two-fifths of alum rock, which was coming
from Şebinkarahisar, and three fifths of allume corda, produced in Phocaea; this last was very similar to second-quality
alum. As well as being traded locally, this alum was sent to
Constantinople, Pera and Chios.
Phocaea remained a Genoese colony until it was conquered by the Turks, in 1455 (Pistarino 1996). Although
there have not been any archaeological surveys about the
alum mines, it is still possible to observe the traces of the
ancient open cast mines on the hill which is still called Şap
Tepesi (Alum Hill) at Yeni Foça (fig. 5). Phocaea used the
advantage of its geographical location, being on the coast,
versus Koloneia and was a preferred export point by the
Italian merchants. Alum production and export were sometimes carried out with the partnership of western merchants
and Ottoman Empire, as it was in 1437 in Phocaea, during
the period of Murad II. By this time, there was apparently a
problem of over production and falling prices (Faroqi 1979,
p. 171). These partnerships can be considered as an attempt
to control the situation.
fig. 6 – “Ferman”-edict of Sultan Bayezid II which is declared in 1488
against the smuggling of alum.
system was used. The workers were exempted from some of
the customary taxes;. this exemption was abolished in the
second half of the 19th century, causing to some extent a decrease on the wages of the workers, who were paid according
to the amount they produced from the mine. Smuggling of
alum was noted in the Ottoman archival documents. Most
probably smuggling was the outcome of both low wages
and the Ottoman regulation of monopoly on alum. Sultan
Bayezid II has declared a “Ferman” edict in 1488, against the
smuggling of alum (fig. 6). Through this edict Sultan gives
directions for the depositing all of the production of the area
in a guarded safe place and recording and reporting every
piece of alum which would be found in the city, no matter
if it was alum of Gediz or if it was alum which was brought
from Şebin Karahisar to be sold.
Administration of Şaphane is bounded directly to the
Ottoman court with the name of Şaphaneyi-İdare Amire
Müdürlüğü (Administrative Management of Şaphane).
The prosperity of the village was so famous that it became a
target for the bandits. It is recorded that the Ottoman court
supported the establishment of a bigger settlement declaring
an edict for invitation of the people to settle there, granting
the exemption from taxes and military duties.
The settlement became an attraction for the people from
different nationalities. Ethnologists mention the existence of
the local families with the nicknames of Çinizliler referring to
the Cenevizliler and Tönüsler (Tunusians), who had settled
in the area in 15th century.
5.3 Kütahya (Kotiaeion – Coltai) – Gediz (Gedos) –
Şaphane (place of alum)
As was mentioned before, Kütahya region was known
for the silver and lead mining activities dating back to the
2500 BC. Pegolotti describes Kütahya alum close to Phokea
alum in quality.
The production of alum was continued after the conquest
of the area by the Ottomans and the iltizam (tax farming)
181
Ç. Özkan Aygün
During the Ottoman Imperial era the alum of Gedos was
transported with the camels or through the Gedos river to
the port of Smyrna to be sold to the Europeans. Sugar and
textile was bought in return; in Smyrna the Boulevard of
Şaphane (Şaphane Caddesi) still exists. Gedos alum was also
exported from the ports of Theologos (Altoluogo), Balat and
Antalya (Fleet 1999, p. 87).
It is the only mine which nowadays continues the production of alum in Turkey.
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6. OTHER MINOR LOCAL PRODUCTIONS
6.1 Cappadocia
Kaolin deposits in Cappadocia region contain significant
amounts of alunit formations, which are commonly seen in the
form of yellow, vitreous crystals. The archaeometrical analysis
of the dye, especially the red colour of the Cappadocian frescos, show the presence of aluminum, potassium and sulphur.
This findings indicates the use of alum for the production of
the dyes for the frescos (Ousterhout 2005, p. 194).
It must be remembered that kaolin has been also used for
the production of the terra-cotta works manufactured in the
Cappadocia zone, which are still being produced. It is probable
that alum had been used in the dyes to paint those ceramics.
6.2 Cumali (Camalı) and Scorpiata
Cumali, located at the south of Gelibolu, where Genoese
merchants actively carried out their trade, was known for
its high-quality rock alums (Balard 1978, vol. 2, p. 774).
Camalı and Scorpiata were free ports, as it is indicated by a
Genoese document dated to 1408, in which sale of alum is described as being free from all expenses and anaris, that is taxes.
6.3 Uluabat (Lopadion) and Kapıdağ (Cyzicus)
Pegolotti describes the alum from Kapıdağ as «poco e
molto laida» (small and foul), one of the three worst sorts
of the product (Fleet 1999, p. 88). The alum produced in
Kapıdağ was used for tanning leather.
Uluabat alum “allume lupai” was sold in Constantinople
and Pera (ibid., p. 89). It was “allume grossetto” and larger
than “allume Coltai” and it was exported through Triglia
(modern Zeytinbağı or Tirilye). Annual production was
10.000 cantara (Evans 1936, p. 369).
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English abstract
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Although alum was already used in various fields, such as
medicine, cosmetics, glass and metal processing (finishing),
leather tanning, or even as ballast for ships, the need for this
raw material increased after it started to be used in the textile
industry, to clean fibres and to allow better colour adhesion.
Asia Minor was the main source of alum used in Europe from
the 13th century to the second half of the 15th. Italian cities
have played an important role in the history of alum trade in
Asia Minor. Koloneia (today’s Şebinkarahisar) in Northern
Anatolia, Gedos (today’s Gediz) in Western Anatolia and
Phokaea-Nea Phokaea on the west coast of Anatolia were
the main centres of production and trade in Asia Minor.
182
María Martínez Alcalde*
EL PATRIMONIO CULTUR AL DEL ALUMBRE EN ESPAÑA.
LAS REFERENCIAS DE MAZARRÓN
The cultural heritage of alum in Spain. The testimonies of Mazarrón
1. INTRODUCCIÓN
arqueológicamente de la explotación del alumbre que sean
anteriores al siglo XV, tampoco se puede negar la existencia
de alguna actividad relacionada con la piedra alunita, teniendo en cuenta la gran localización de estos depósitos de
piedra en el sureste de la península ibérica y el conocimiento
confirmado de la alunita en época romana como mineral
relacionado con la producción de alumbre, según revelan
las investigaciones en el taller de preparación de alunita
localizado en Lesbos (Archontidou 2005).
Según Picon (Picon 2000, p. 527), también las grandes
producciones de Focea de la antigüedad indican quizás una
probabilidad de su fabricación y no solo de su hallazgo en
estado natural. Herodoto (Historia, II, 180) hace referencia
a la gran cantidad de este elemento ofrecida por el faraón
Amasis para la reconstrucción del templo de Delfos, volumen
demasiado grande como para que fuera factible la probabilidad de ser encontrado en estado natural. Por otro lado, en
España la literatura árabe realiza ciertas alusiones al alumbre
por parte de Al-Údri, Ibn Galib, Him-yari y Al-Qazwini
(Terés Sadaba 1986), como en el caso del alumbre de Niebla
(Huelva) como lugar probable donde se extrajese, además
del alumbre en Calahonda (Granada) (Igual Luis 2014) y
de cierta posible producción en el Cabo de Gata (Almeria)
(Puche Riart 2005, p. 91) aunque por lo general parece que
en el periodo de la ocupación árabe las minas de alumbre
(Jebe) eran numerosas en España.
En mitad del siglo XII se hacen ya las primeras menciones
al «alumbre de Castilla» que mantiene ciertas referencias hasta
el Trescientos 3. Aunque no se conocen sus localizaciones,
Alfonso X el Sabio, Rey de Castilla, menciona el alumbre
«… de la piedra a que dicen axep y en latín alumbre [… ]»
en su Lapidario. Libro de las piedras según los grados de los
signos del zodíaco 4.
En diferentes lugares de España ha habido producciones
del alumbre en ciertos periodos de la historia, pero según
la zona geográfica las minas de alumbre son de diferentes
características geológicas. Como ha quedado dicho, en la
zona de Aragón tienen relación con la minería del carbón
(Lignitos Piritosos), mientras que aquel alumbre procedente
de los criaderos de alumbre del sureste de España es de origen
volcánico y tiene como protagonista a la piedra alunita, una
roca magmática, denominada Traquita Alunífera, que es el
resultado de alteraciones de rocas ricas en feldespato potásico como la Traquita, que se suelen producir por medio de
circulación de aguas ricas en sulfatos.
El alumbre era un elemento imprescindible en las antiguas
industrias textiles que actuaba como sustancia intermedia
entre el colorante y el tejido debido a sus propiedades fijadoras
y estabilizadoras. Su empleo como mordiente en el proceso
de tintado de los paños propiciaba el desgrase de las fibras
del tejido, al mismo tiempo que la fijación de los colorantes
para conseguir un teñido estable de las telas.
En el proceso del teñido, al introducir las fibras limpias y
sin grasa en un baño de colorante disuelto y sometidas a cocción, se producen en los textiles una serie de cambios físicos,
como el aumento del tamaño de los poros de los tejidos, al
mismo tiempo que se produce un intercambio por osmosis
entre el agua de los espacios libres de las cadenas moleculares
de las fibras y el tinte, con aumento de las vibraciones moleculares que conlleva el debilitamiento de ciertos enlaces de
su estructura. El mordiente se aplica en las teñidos de tejidos
porque el último paso podría revertir y el tinte perderse al
lavar la prenda o al exponerse al sol, a la luz, a lo largo del
tiempo, si no se ha utilizado un producto mediador en el
proceso, es decir, un “fijador”, como es el caso del alumbre,
elemento que produce esa reacción química rompiendo los
enlaces hidrogenados para que las moléculas de tinte puedan
unirse a ellas formando nuevos enlaces de manera irreversible 1. El alumbre era ese elemento que favorecía esta reacción
química, por lo que era muy cotizado y ya conocido desde
época antigua. Además, tenía otras utilidades como curtido
de pieles, iluminación de códices, elaboración de vidrieras,
tratamiento de pergaminos, incluso en medicina, aplicándolo
como antihemostático.
2. EL ALUMBRE EN ESPAÑA
Y SUS REFERENCIAS HISTÓRICAS
Plinio, en su Historia Natural, hacía referencia al término
“alumen” englobando en él varios elementos distintos y con
diferentes funciones utilizados en la industria de los tintes.
Además, menciona a “Hispania” 2 como uno de los lugares
donde conseguir alumbre. Si bien y hasta el momento en
España todavía no hay testimonios materiales documentados
* Arqueóloga Municipal del Ayuntamiento de Mazarrón (Murcia), Museo
de Mazarrón. Factoría Romana de Salazones (martinezalcaldemaria@gmail.com).
1
Descripción completa del tema de la tintorería en la antigüedad en
Roquero 2002.
2
Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 52, 183-184 «Los lugares que lo producen son España, Egipto, Armenia, Macedonia, el Ponto, África, las islas de
Cerdeña, Melos, Lipari y Strongyle».
3
4
183
Igual Luis 2014, citas bibliográficas en nota 11.
Disponible en http://habilis.udg.edu/media/astro/files/lapidario.pdf.
m. Martínez Alcalde
3. EL ALUMBRE ESPAÑOL DE LA CORONA
DE AR AGÓN: UN ALUMBRE PRODUCIDO
A TR AVÉS DE LIGNITOS PIRITOSOS
En territorios de la Corona de Aragón, se constatan inicios
y arranque de incipiente actividad en torno a los años 146162 en un área de la ribera baja del río Jiloca, Paracuellos de
Jiloca, en las cercanías de la ciudad de Calatayud (Zaragoza),
con unas técnicas casi desconocidas en la región a fines de la
Edad Media y que posteriormente fueron más desarrolladas
en el Bajo Aragón, si bien las minas del bajo Jiloca, debían
ser en realidad explotaciones de carácter modesto (Morales
Gómez 2016: pp. 543, 561). Las experiencias posteriores del
alumbre español de la Corona de Aragón se centraron geográficamente en el área de Teruel, siendo obtenido mediante
la transformación de los lignitos piritosos y no de la piedra
alunita, lo que le hacía diferente del italiano y del murciano
por su distinta materia prima.
Estas capas de lignitos se formaron en el periodo mesozoico a través de la estratificación de restos vegetales que
fueron sepultados por aportes fluviales y donde posteriores
plegamientos y relieves sucedieron factores erosivos del terciario que acabaron configurando, modelando y conformando
un territorio donde afloraron de manera intermitente los
plegamientos de las capas de lignito localizados en diferentes
e importantes puntos y que se convirtieron en posteriores
recursos mineros.
Estos alumbres estaban localizados fundamentalmente en
la Comarca de Andorra-Sierra de Arcos y del Bajo Aragón, en
las poblaciones de Alcañiz, Alloza, Ariño, Estercuel, Cañizar
y Crivillén, además de en algunas otras, vinculando esta
actividad a las necesidades de alumbre en la producción de
la industria textil aragonesa durante el siglo XVI.
Este alumbre de Aragón, fabricado a partir de esas capas de
lignitos denominados “tierra alumbrosa o de alumbre”, está
formado por lignitos arcillosos que contienen pirita de hierro
y azufre. En origen, el compuesto carecía de sulfato potásico
creándose éste través de diferentes operaciones y añadiéndose
como parte de las operaciones necesarias hasta completar la
formula del alumbre (doble sulfato de alúmina y potasio).
Este proceso de obtención del alumbre aragonés podría
resumirse de la siguiente manera; los lignitos, que tienen la
textura de la tierra y el color negro del carbón, se extraían
mediante la técnica de galerías. Una vez extraída la tierra de
la mina, se depositaba en superficies exteriores denominadas
“plazas” que es el lugar donde se producía una fase, de una
duración entre 6 meses a 1 año, de autocombustión espontanea en contacto con el oxígeno exterior.
La tierra ya calcinada estaba constituida por una mezcla
de sulfato alumínico soluble, sulfato ferroso soluble y sulfato
férrico básico insoluble. Posteriormente, la tierra quemada
era trasladada a unos pozos o balsas donde se le añadía agua.
El líquido de esa disolución se conducía a través de un canal
hasta una caldera y en este proceso de lixiviación se obtenía
la separación de los dos elementos solubles y se eliminaba el
sulfato ferroso por repetidas evaporaciones y cristalizaciones,
hasta aislar el sulfato alumínico. A este último elemento era
necesario añadirle luego una “lejía” (sulfato potásico) que era
fabricada a partir de las cenizas de la tierra; y con este último
fig. 1 – Restos de una fábrica de alumbres en Val de Ariño (foto:
Josefina Lerma).
aditivo se obtenía el producto deseado: doble sulfato de aluminio y potasio. El producto resultante era posteriormente
sometido a varios procesos de cristalizaciones sucesivas hasta
completar su calidad.
Apenas quedan restos de las industrias de alumbre en la
provincia de Teruel (fig. 1) ya que, como hemos dicho, las
explotaciones de carbón del siglo XX destruyeron aquellas
antiguas instalaciones. La zona más activa fue una cuenca
denominada Val de Ariño, situada entre los pueblos de Ariño,
Andorra y Alloza. A esta última localidad es a la que se refiere Pascual Madoz, en 1845, mencionando que en Alloza
(Teruel) «[… ] se benefician muchas minas de alumbre cuya
clarificación deja a los vecinos crecidas utilidades[… ]»
También la elaboración artificial del alumbre a través de
lignitos piritosos hacía factible la obtención de un segundo
producto denominado “caparros” o “caparrosa”, compuesto
de sulfato de hierro, que también tenía ciertas propiedades
fijadoras en los tejidos, aunque de mucha menor calidad que
el alumbre (Lerma Loscos 2005).
En el siglo XVIII se continúa la fabricación del alumbre
en la Comarca de Sierra de Arcos, de Teruel, con ciertas
mejoras en las técnicas de fabricación; y en el archivo de la
Real Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País se
conservan documentos al respecto y un plano de una fábrica
de alumbre (fig. 2), diseño de Joaquín Garay 5.
Dentro de la denominación de alumbre de Aragón
también se encuentra el caso del alumbre de Casa Carrillo,
próxima a los municipios de Igea y Cornago (La Rioja), que,
según E. Cooper, su momento de mayor auge estuvo en los
años sesenta del siglo XV y fue anterior al descubrimiento
de los alumbres murcianos, ya que indica que en 1465 se
tienen noticias de que se extraía alumbre en Casa Carrillo
(Cooper 2008).
También, según Cooper, su producción está relacionada
con un mineral denominado jarosita (Cooper 2008, p.
316). Aunque a nivel mineralógico puede existir cierta confusión con ese mineral (que en ocasiones se denomina piedra
5
Forma parte del expediente “Garay de Oca, de Alloza, sobre minas de
alumbre y caparroso”, con Nº de registro 1782-17/* del archivo de la Real y
Excma. Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País.
184
El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón
fig. 2 – Plano fabrica diseño Joaquín Garay. Expediente “Garay de Oca, de Alloza, sobre minas de alumbre y caparroso”, con N. de registro 178217/* del archivo de la Real y Excma. Sociedad Económica Aragonesa de Amigos del País.
y la calinita, que es otra forma de sulfato doble de aluminio
y potasio pero con otra cristalización y menos hidratado.
En Cornago, donde estaban los edificios construidos para la
explotación de alumbre, parece que en la actualidad solo quedan los restos de cimentación de una antigua torre, propiedad
del arzobispo Carrillo, titular de la alumbrera de Cornago 7.
Este yacimiento de Casa Carrillo y la mayoría de estos
yacimientos no fueron muy duraderos en el tiempo y parece
que su rendimiento económico fue escaso, aunque sí fueron
más duraderos los de las producciones del siglo XVI (Lerma
Loscos 2005) de la zona de Andorra y Sierra de Arcos, en la
actual provincia de Teruel (Pizarro Losilla 2007).
De la actividad del alumbre de la Corona de Aragón
quedan muy pocos restos de fábricas, pero sí algún ejemplo
de torre relacionada con el control de las instalaciones del
alumbre, como en el caso de la población de Ademuz, que
actualmente pertenece administrativamente a la comunidad
autónoma de Valencia, donde se conserva una torre denominada “Torrealta de Ademuz” (fig. 3), perteneciente a la
antigua propiedad de la familia Garcés de Marcilla.
fig. 3 – Torre Alta de Ademuz (Valencia). Vista del torreón de los Garcés
de Marcilla desde la calle del Remedio (foto: Alfredo Sánchez Garzón,
disponible en https://www.desdeelrincondeademuz.com/2011/10/
el-torreon-de-torrealta-torrebaja.html.
alumbre) y la alunita, lo cierto es que la jarosita es un sulfato
doble de hierro y potasio (KFe33+(SO4)2(OH)6), y la alunita
es sulfato doble de aluminio y potasio. Esto quiere decir que
son minerales análogos, aunque se diferencian por la presencia de aluminio o hierro, siendo la jarosita de características
insolubles en agua. Por otro lado, la jarosita es un mineral
muy escaso en la naturaleza y debido a esa escasez y a sus
características mineralógicas no se considera que, en realidad,
haya sido utilizado para ningún uso industrial. En relación
a esto, consultas realizadas a ingenieros de minas 6 sugieren
que tal vez pudiera haber casos de confusión con la jarosita
El Alumbre de Castilla, tiene como materia prima para
su producción la piedra alunita (traquitas aluníferas) y sus
criaderos se han localizado históricamente en el sureste de
la península ibérica. Los centros españoles de producción
Agradecemos el asesoramiento e información al ingeniero de Minas
Ignacio Urcelay Verdugo
7
Ovejas M. (s.f.), La casa carrillo en casa de Cornago. Disponible en
http://www.google.es/search?hl=&q=donde+se+construyo+la+casa+carrillo&sourceid=navclient-ff&rlz=1B3GPCK_esES429ES430&ie=UTF-8.
4. EL ALUMBRE ESPAÑOL DE CASTILLA:
ALUMBRE DE PIEDR A ALUNITA.
REFERENCIAS GENER ALES DEL ALUMBRE
EN ESPAÑA Y ALGUNOS DATOS ANTERIORES
AL SIGLO XV EN MAZARRÓN
6
185
m. Martínez Alcalde
5. MAZARRÓN (MURCIA) Y LA MINERÍA.
RESEÑA HISTÓRICA
Históricamente, la población de Mazarrón se ha visto
favorecida, por su proximidad a la costa, con una bahía
muy protegida y buenas condiciones geográficas naturales
siendo, junto a La Unión y Cartagena, el foco minero más
importante de la Región de Murcia desde la antigüedad
(Martínez Alcalde 2005), aportando documentación
sobre importantes yacimientos metalíferos (cobre, hierro,
plata, plomo) que fueron motivo de actividades extractivas
de una larga tradición, con precedentes que se remontan ya
a la Edad del Bronce (Ayala Juan 1980).
En época ibérica, se hipotetizó con el posible abandono
de los núcleos costeros de los ss. IV-III a.C., debido a una
presión de los cartagineses sobre las poblaciones del litoral
para emplearlos como mano de obra en las minas (Lillo
Carpio 1980). Aunque no hay datos arqueológicos exactos
que aporten información sobre esa posible explotación minera del área en época bárquida, es posible imaginar el gran
interés de Cartago en Mazarrón, al tratarse de una zona
muy rica en minerales y cercana a Cartagena, gran centro
neurálgico de la época, como atestiguan algunos aportes de
la historiografía arqueológica, como es la publicación del tesorillo hispano-cartaginés del Saladillo, a mediados del s. XIX
(Zobel De Zangroniz 1863), y también las afirmaciones
de Boeck, en 1889, que menciona en sus trabajos el hallazgo
en el Coto Fortuna (Boeck 1889, pp. 17-19) de monedas
hispano-cartaginesas.
Así mismo, Diodoro, en su Biblioteca Historica (V-36, 37)
menciona la zona de Cartagena con minas que fueron abiertas
por los cartagineses, pudiendo ser extensivo a su hinterlang
en el que se integraría Mazarrón.
La actividad minera ya llega a su gran expresión en época
romana cuando desde la primera mitad del siglo II a.C.
diversas fuentes escritas y arqueológicas aportan datos sobre
el laboreo minero en la zona de Mazarrón, vinculado a su
riqueza mineral, y añadido a sus excelentes características
geológicas, fácil acceso por el mar y a su gran proximidad a
Carthago Nova, centro de distribución de las materias primas
manufacturadas. Así mismo, se considera al subsuelo mazarronero como foco de atracción de gentes itálicas, a través de
referencias y determinadas inscripciones, alguna hallada en
el Coto Fortuna de Mazarrón 8. Mazarrón cuenta, además,
con la presencia de bastantes yacimientos arqueológicos vinculados con la minería o la metalurgia que están reflejados
actualmente en la Carta Arqueológica regional.
Existe incluso una mina a cielo abierto denominada
“Corta Romana”, una mina de difícil análisis cronológico,
porque por un lado está considerada tradicionalmente
asociada a la cultura romana pero, al mismo tiempo, se la
relaciona con procesos productivos del alumbre del siglo
XVI y posteriores. Teniendo en cuenta que la minera es una
fig. 4 – Torre de los alumbres de Rodalquilar (Almería) Disponible
en: https://www.ideal.es/almeria/provincia-almeria/fortificacion-llego-poner-20180325002620-ntvo.html).
de este alumbre han tenido como máximo representante a
la zona de Mazarrón (Murcia), aunque en el sureste español
también existieron otros menores focos de obtención de
alumbre mediante la extracción de alunita que también están
históricamente documentados.
En Xiquena, dentro del término de Lorca (Murcia), el
marqués de Villena ya desarrolló una pequeña explotación
de alumbre entre 1459 a 1460 y desde 1469 a 1471 (Cooper,
Mirete Mayo 2001, p. 104), pero, aunque luego también
allí se intentaron reactivar las labores del alumbre en los años
noventa del XV, no se obtuvo demasiado éxito.
Otra mina del sureste español estaba localizada en
Rodalquilar (Almería) y fue descubierta en 1509, aunque parece que su existencia fue más efímera que Mazarrón porque
ya en 1537 la explotación cerró tras el arriendo del marques de
los Vélez a Gaspar Rotulo para evitar competencias internas
y con el interés de controlar el monopolio de la exportación
del alumbre murciano en Mazarrón.
De estas minas, en Rodalquilar queda como vestigio una
imponente torre fuerte de control de las instalaciones del
alumbre almeriense (fig. 4).
Respecto a las minas de Lorca y Cartagena, en esta última se descubrió un yacimiento de alumbre en el Cabezo
Roche, en las cercanías de la actual población de Alumbres,
topónimo que se mantiene a día de hoy y que evidencia
su pasado como foco minero. También existen noticias de
minas en Lorca en documentos desde el siglo XIV, aunque
formalmente son descubiertas en 1525 teniendo como
propietario a Francisco de los Cobos, secretario de Carlos
V. Esta presencia de Francisco de los Cobos en el negocio
del alumbre produce incomodidad ya que pone en peligro
la exclusividad y el monopolio de Mazarrón por lo que en
1528 los propietarios de Mazarrón llegan a un acuerdo para
mantener su exclusividad comprando la propiedad de Lorca
y Cartagena a Francisco de los Cobos, con el compromiso
de éste a la renuncia a la explotación.
La fábrica de Cartagena es de nuevo clausurada en 1551 por
idénticos motivos (evitar competencias con Mazarrón) tras
los acuerdos de los herederos de la compañía Grimaldi que
en ese momento eran gestores de la exportación del alumbre
murciano (Franco Silva 1980).
8
Ramallo Asensio 1980, p. 296; Rostovtzeff 1937; Menéndez Pidal
1960, ELH 1, pp. LIX-LXVIII); Gabba 1954, han indicado esta cuestión
siguiendo a Diodoro sobre las migraciones itálicas y su incidencia en las zonas
mineras peninsulares. También relacionada con concesiones mineras el caso
C.VTI.C.F.MENEN que aparece en dos lingotes de plomo hallados en una finca
del municipio de Mazarrón según Ramallo Asensio, Arana Castillo 1985.
186
El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón
Mazarrón, que más tarde sería el centro y foco más importante
de producción del alumbre de Castilla, existen alusiones en la
documentación aragonesa como la donación de las minas de
axeb o alumbre de Mazarrón (Calentín) 9 y, también de la zona
de Cartagena, por Enrique II a don Juan Sánchez Manuel, en
1373 (Pascual Martínez 1983, pp. 192-193).
6. INICIOS DE LA EXPLOTACIÓN
DEL ALUMBRE DE CASTILLA
DE LOS SIGLOS XV Y XVI. LOS ALUMBRES
DE ALMAZARRÓN (MAZARRÓN, MURCIA)
En la segunda mitad del siglo XV se produce oficialmente
el descubrimiento de las canteras de alunita en Mazarrón y
el rey Enrique IV concede la explotación de todo el alumbre
murciano, en 1462, a Juan Pacheco, Marqués de Villena, que
comparte la mitad con Pedro Fajardo, familia de los futuros
marqueses de los Vélez, siendo ambas familias las dueñas de
las explotaciones del alumbre murciano durante los siglos
XV y XVI.
A final del siglo XV, en una zona localizada a unos 7
kilómetros de la costa de Mazarrón, en un territorio inhóspito, deshabitado, vulnerable y expuesto continuamente a
la piratería de la frontera marítima con el norte de África
se instalan las primeras fábricas de alumbre. Junto a ellas
comienza a crecer una pequeña población a la sombra y en
función de las instalaciones productoras de alumbre castellano. Al principio, eran pequeños núcleos diseminados y se
llamaron “Casas de los Alumbres de Almazarrón” y dependían
administrativamente del Concejo de Lorca, hasta que en el
año 1572 el rey Felipe II les concedió la independencia y se
produjo la segregación de Lorca.
No se sabe exactamente en qué año se realizó la primera
producción de alumbre en estas fábricas, pero sí consta
que en 1486-1487 un navío español desembarcó alumbre
de Mazarrón en el puerto de la Esclusa (Amberes) (Ruiz
Martín 2005, p. 52) lo que sugiere que las fábricas en 1485
ya debían estar en funcionamiento y produciendo cantidades
importantes; y además, a comienzos del siglo XVI parecen
llegar cantidades importantes de alumbre de Mazarrón a los
Países Bajos, mercado natural del alumbre español, así como
a Inglaterra y Francia, como clientes importantes.
Hasta 1568 el alumbre de Castilla fue un excelente negocio y de gran rentabilidad, pero a partir de esa fecha Felipe
II prohibió su exportación a Inglaterra y también la venta a
Flandes y Francia debido las guerras de religión, circunstancias que abocaron al inicio de la ruina del alumbre murciano,
cuestión que finalmente se produjo más acusadamente a
partir de 1572, cuando ya existía en Mazarrón una población
establecida de 479 personas y un núcleo urbano consolidado.
Con la caída de las producciones por la falta de ventas y los
elevados impuestos de Felipe II, se desencadena el abandono
de las fábricas y el almacenamiento de grandes cantidades
de producto sin posibilidad de venta, y a finales de 1592 las
arruinadas fábricas de Mazarrón cierran definitivamente.
fig. 5 – Galería en la corta romana (foto: María Martínez Alcalde)
actividad de carácter extractivo y que todos los trabajos mineros trasforman y destruyen los restos de las labores mineras
anteriores, es difícil cualquier análisis y reconocimiento de sus
diferentes etapas cronológicas ya que muy frecuentemente se
pierden las huellas de las actividades anteriores por la incidencia en los mismos frentes y depósitos de minerales hasta
su agotamiento, rutinas que suelen conllevar los métodos
de laboreo minero y es por ello que quizás sea factible que
sí se hubiesen utilizado estas canteras de alunita en diversos
momentos de la historia.
La “Corta romana”, también denominada “cantera del
Charco de la Aguja” (o “cantera del Charco de las Pedreras
Nuevas”) tiene grandes dimensiones y conserva un frente
extractivo de una longitud aproximada de unos 400 metros
y una gran profundidad, hoy en día parcialmente oculta por
escombreras y sedimentos de minería contemporánea.
Descripciones de algunos autores del siglo XIX, como
Botella y Hornos y Gonzáles Simancas, hablan de haber
comprobado allí obras mineras que son modelos perfectos
de minas de época romana, y así Gonzáles Simancas, en su
obra Catálogo Monumental de la Provincia de Murcia, aporta
datos en relación a esta cantera cuando escribe: «… abiertas,
sin duda para el ataque de los de los afloramientos y aprovechamiento del alumbre, las más notables son las de la mina Jabalina,
y la del Charco de las Pedreras, corte este último que tiene una
profundidad de 60 metros por unos 400 metros de longitud y
100 metros de anchura con galería de desagüe en la parte SO,
constituyendo modelo perfecto de minas de época romana …»
(González Simancas, I, p. 382.).
De esta cantera, investigadores contemporáneos también
indican que aunque la actividad más intensa en época romana
(fig. 5) era la extracción del plomo y la plata, una parte también se podría dedicar a la producción del alumbre (Manteca
Martinez, Guillen 2005, pp. 99-102), pero esto último hasta
la fecha no está probado arqueológicamente.
En época árabe, las primeras menciones del lugar de
Mazarrón datan de los ss. XII y XIII, ya que las fuentes árabes
hablan de la zona con el nombre de “Susaña” (Mazarrón =
Susaña). A esto se añade, además, que la antigua denominación
de Mazarrón, “Almazarrón”, parece proceder de la voz árabe
al-mezer (ocre o rojo) vinculada a las coloraciones del subproducto de la tierra roja de la producción de alumbre de alunita
(almagra o almagre). En el siglo XIV con respecto a la zona de
9
Se constata en el XIV la posible existencia de minas de alumbre bajo
control cristiano en las zonas de Mazarrón y Cartagena en: Ferrer I Mallol
2005, pp. 173-174; Munuera Navarro 2011, p 149 nota 13.
187
m. Martínez Alcalde
7. PATRIMONIO HISTÓRICO DE LA EMPRESA
DEL ALUMBRE DE LOS SIGLOS XV Y XVI
EN MAZARRÓN. LA FÁBRICA VIEJA
DE ALUMBRES
de sus componentes. Estos líquidos resultantes de la decantación se recogían mediante un sistema de canales, también
conectados con unos vasos, dirigidos a un receptáculo en el
interior del edificio de la fábrica.
El líquido se canalizaba hacia un depósito general de
aguas madre, donde se decantaba otra vez y se separaban del
resto de impurezas existentes. El siguiente paso era la evaporación del agua para obtener un producto que cristalizase,
fase ésta que se realizaba sometiendo el agua madre al calor
de unos hornos, dotados de chimeneas individuales para
la extracción de humos, que calentaban las calderas donde
se cocía y evaporaba el líquido. Tras estas fases de cocción
y evaporación, con incorporaciones de aguas limpias que
purificasen el producto, se dejaba reposar en la batería de
pequeños y numerosos contenedores interconectados por
un sistema de canales de conducción, donde finalmente se
solidificaba cristalizándose. Una vez desmoldado el producto
se trasladaba al secadero donde ya seco concluía el proceso y
se preparaba para su trasporte y posterior venta.
Las fábricas de alumbres respondían a un esquema de
características comunes para realizar trabajos en dos zonas
bien diferenciadas, una al aire libre y otra interior. En la
primera se realizaba la cocción de la piedra alunita, con dos
tipos de estanques o balsas, unos de mayor tamaño donde
realizar las fases iniciales de decantación de componentes, y
otros más pequeños para recoger el líquido en un posterior
paso del proceso.
Este ámbito exterior donde estaban los hornos de calcinación y las balsas, se solía ubicar próximo a las canteras de
extracción denominadas “pedreras”.
Las canteras de la extracción de la alunita forman parte
del paisaje de la zona de Mazarrón, donde se conservan varias y de las que de alguna de ellas existen documentos de su
explotación en el siglo XVI, como la pedrera del Portichuelo
y la cantera de Pedreras Viejas (fig. 9).
En la Fábrica Vieja de Alumbres, los hornos de calcinación
de piedra alunita conservados mantienen en alzado un conjunto de dos hornos de unas medidas de diámetro interior
en torno a 2,25 m y 3 m de profundidad 12. Junto a estos
hornos, se localiza una serie de piletas de diferentes tamaños
y capacidades para la lixiviación del producto, decantaciones
sucesivas y recogida de aguas madre. Unas de ellas forman
un conjunto compartimentado en cuatro elementos de unas
dimensiones de unos 2,50 m de ancho por 4 m de longitud,
aproximadamente, y en torno a 1,50 m de profundidad.
La instalación, obviamente, necesitaba estar próxima a
recursos acuíferos (riachuelo o rambla) por la necesidad de un
sistema de suministro de aguas, mediante una aceña o noria,
un pozo y una red de canales. Esa red de canales disponía de
un sistema de conducciones mayores y otro que conducía las
lejías a otro depósito general, donde éstas se reunían antes
de ser guiadas al interior del edificio de la fábrica, donde
se realizaban las mencionadas restantes y últimas partes del
proceso. El sistema de los hornos se configuraba en una línea
o batería de estos elementos en número diferente.
Hoy en día en Mazarrón se conservan algunas ruinas de
fábricas de alumbres aunque la más significativa se la conoce
como la “Fábrica Vieja de Alumbres” 10(fig. 6). Esta fábrica,
aunque de cronología indeterminada y en espera de alguna
investigación arqueológica que aclare sus diferentes momentos de uso, tiene posiblemente distintas fases, reformas
y remodelaciones realizadas en diferentes momentos de su
historia, pero globalmente parece ajustarse al esquema básico
de los tipos de las instalaciones de alumbres antiguas, tanto
en su estructura y organización como en su probable sistema
de funcionamiento.
La fábrica conserva (figg. 7 y 8) los hornos de calcinación
de piedra alunita, las piletas de diferentes tamaños y capacidades, además de la base de una antigua noria que abastecía
de agua al conjunto y restos de un edificio donde de realizaba
la última parte del proceso de la fabricación del alumbre.
El edificio mantiene todavía algo de su alzado, aunque
en muy malas condiciones, siendo una obra de cal, piedra y
ladrillo, en la que se distingue una nave central, posiblemente
relacionada con la antigua sala de calderas, sobre la que se
conservan restos de una cubierta construida por bóveda de
aristas confeccionada en ladrillo.
Esta fábrica está situada junto al coto minero de “San
Cristóbal y los Perules”, que es la zona donde estaban, en
los siglos XV y XVI, las primeras fábricas situadas en la falda
noroeste del cabezo de San Cristóbal (Alonso Navarro
1974, p. 131).
Resumiendo brevemente, la elaboración del alumbre 11 de
alunita se inicia a partir de la piedra ya extraída y cocida en
hornos de calcinación. Una piedra que debe humedecerse
hasta su descomposición en un polvo fino que más tarde se
lixivia con agua y se decanta, entre otros procesos, terminando
por cristalizar el alumbre.
Más detenidamente, podríamos empezar describiendo
estas labores con la calcinación de la alunita en hornos, tras
lo cual era necesario regarla con agua dos veces al día, mañana
y tarde, facilitando su disgregación para posteriores fases de
separación de componentes y decantación. El riego de la piedra se realizaba introduciéndola en unas estructuras de forma
rectangular denominadas balsas o piletas, aunque también es
posible que previamente se triturara para agilizar el proceso
de segregación de sus componentes. Este paso posterior tras
la cocción de la piedra y trituración opcional del producto era
una lixiviación obligada, en la que se sometía al contacto con
agua abundante para obtener entonces la primera disolución
10
Fabrica integrada en la Declaración de Bien de Interés Cultural con
categoría de “Sitio Histórico de la zona minera de San Cristóbal-Los Perules”
en Mazarrón (Murcia). Decreto nº 297/2008 de 26 de septiembre del Consejo
de Gobierno de la Comunidad Autónoma de la Región de Murcia,. BORM
nº 240, fecha 15 de octubre de 2008.
11
Una descripción del las fases de fabricación del alumbre a partir de piedra
alunita donde se describe el funcionamiento y componentes de una fábrica de
alumbres renacentista según un documento del siglo XVI de autor anónimo
denominado Los veintiún libros de los ingenios y las máquinas, atribuido a Juanelo
Turriano, se puede encontrar en Martinez Alcalde 2006.
12
Existe una diferencia de tamaño entre los hornos de Mazarrón y los horno
de la alumbrera de Monteleo en Monterrotondo Marittimo (en Dallai, en este
volumen), siendo parece ser de mayores dimensiones los españoles
188
El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón
fig. 6 – Fabrica Vieja de Alumbres. Detalle del edificio (foto: María Martínez
Alcalde).
fig. 7 – Vista aérea de los restos de estructuras conservados de la Fabrica Vieja de
Alumbres. En la parte superior derecha
de la imagen hornos y conjunto de cuatro
grandes piletas. En el centro de la imagen planta del interior del edificio de la
fabrica y junto a ella, a la izquierda de la
imagen, conjunto de decantadores (foto:
Fundación Integra-Digital. Comunidad
Autónoma de la Región de Murcia).
fig. 8 – Vista frontal de los hornos de la Fabrica Vieja de Alumbres
(foto: María Martínez Alcalde).
fig. 9 – Canteras y hornos del conjunto en el Coto Minero de las
Pedreras Viejas (foto: María Martínez Alcalde).
189
m. Martínez Alcalde
En el área de la Fábrica Vieja de Alumbres se ha realizado
una única intervención arqueológica con motivo del programa
de corrección y valoración de impacto medio-ambiental del
proyecto de obras de la autopista de peaje Cartagena-Vera 13,
ejecutado en la parte afectada donde las estructuras resultaron
dañadas a consecuencia de las obras de construcción de la
rotonda “salida de Mazarrón” y, básicamente, se centró en
el conjunto de balsas de decantación de la zona noreste de
la Fábrica Vieja de Alumbres. La intervención arqueológica,
realizada en 2007, documentó la existencia de siete balsas de
poca profundidad, cuyo suelo está realizado en argamasa y cal,
y en algunos casos mezclados también con pequeñas piedras.
Tomando como ejemplo el caso de la denominada “Balsa
1”, sus dimensiones eran de 7,40 m de largo y 6,06 m de
ancho, con unos muros cuyo grosor era de entre 0,36 m y
0,39 m, y un alzado medio de 0,22 m, lo que indica que la
escasa profundidad de este conjunto de balsas (documentadas
en la intervención de 2007) podría estar asociada a la fase
final de los procesos de decantacion. La estratigrafía aportó
escaso material arqueológico, limitado a cerámica moderna
correspondiente a fragmentos de contenedores, lo que indica
que la amortizacion del conjunto se vincula con procesos
productivos de finales del siglo XIX.
están confeccionados mediante la disposición concéntrica de
tres o cuatro hiladas de ladrillo macizo, siendo este acceso
superior, posiblemente, el lugar de carga del mineral.
Abajo, en el nivel inferior del monte, están los accesos
frontales, las bocas de fuego para suministro de la madera
como combustible; aquí se accede al interior de los pozos por
unos vanos rematados en arco de medio punto muy rebajado;
esta sería también la probable zona de descarga y salida del
material una vez calcinado.
Las dimensiones oscilan en torno a diámetros inferiores
de 2,15 m y 2,55 m para el brocal superior; la altura del
conjunto de la estructura es de 4,55 m. y los mencionados
vanos frontales para el suministro de combustible y posterior
descarga miden 1,70×1,67 m. Uno de esos vanos sufrió una
remodelación y su altura se encuentra rebajada, pues originalmente era igual que las otras tres.
El interior de los hornos está revestido de ladrillo refractario
en sus tres terceras partes; la parte más alta, cercana al brocal de
la terraza superior, es de piedra. Los hornos se encuentran hoy
en día visiblemente detenidos en diferentes partes del proceso:
uno de ellos muestra el material sin calcinar; en el siguiente
se encuentra detenido a mitad del proceso de calcinación y el
material ha adquirido un tono amarillento; en el tercero, con la
coloración roja, ya se ha completado el proceso de combustión,
y por último, el cuarto pozo ha sido vaciado.
Otro ejemplo de hornos son los del conjunto concesión
“Mina San Francisco”, del coto minero de las “Pedreras
Viejas”, que también son de gran capacidad, aunque en la
zona baja de este mismo coto existen otros de menores dimensiones. Están localizados al pie de la cantera de alunita
y se conservan cinco, realizados sobre el recorte del monte
en una terraza, a la que se le adosa la obra, en tres frentes
angulados, de unas dimensiones de 6 m, 12,60 m y 8,90 m.
A la parte elevada de la estructura se accede por la terraza
superior, cuyo diámetro interior, de forma elíptica, es de
una medida en torno a 3,32 m en sentido este-oeste, y 3,72
m en sentido norte-sur, con una profundidad de 2,08 m.
A la boca del horno se accede por la zona baja del terreno.
La boca del horno mide 2,40 m de alto×1,70 m de ancho,
con forma de arco de medio punto un tanto irregular. En el
interior del horno, en la zona inferior, se dispone una parrilla
realizada con hiladas de ladrillo macizo. El resto de la obra
está construido con piedra de alunita, con unos muros en
talud, más marcados en la zona inferior y que adquieren una
anchura de 0,90 m. Algunos de estos hornos están cargados
de piedra alunita que fue sometida a calor y con la coloración
roja característica.
Otros de los hornos del coto de las “Pedreras Viejas” se encuentran en la parte suroeste, en la falda del coto, y conservan
además algunos otros restos de estructuras de la alumbrera,
como balsas o piletas y restos de un edificio.
8. RESTOS DE OTR AS FÁBRICAS DE
ALUMBRES
Otro conjunto es el de la fábrica Vista Alegre, ubicada
en la parte noroeste del coto minero de “San Cristóbal y los
Perules”, que conserva una serie de hornos.
En las fábricas de Mazarrón, los hornos suelen ser, la
mayoría, de gran capacidad pero de variables formas y dimensiones, aunque estos hornos de calcinación de alunita
de Vista Alegre son de los mejores conservados y los que
registran mayor tamaño. Se localizan junto a un grupo de
estructuras semiderruidas para el servicio de una cantera de
alunita (cantera de “El Portichuelo”) que se conserva en buen
estado. Estos hornos se hallan unidos y distribuidos mediante
una disposición en forma de “L”, con dos frentes de 13 m
y 11,50 m, y que se encuentra adosada al monte que se ha
recortado y aterrazado para tal fin.
Los hornos del conjunto de Vista Alegre 14 son cuatro y
están situados, por parejas, en cada uno de los lados de la
estructura; están hechos de piedra y cal, y son de tendencia
troncocónica invertida, donde la parte inferior es más estrecha
que la superior. El acceso a su interior se realiza de dos modos: por la parte superior, a través de una terraza en la que se
disponen unas perforaciones a modo de pozos que conservan
alguna de ellas el anillo de delimitación o brocal. Los anillos
13
Informe excavación de urgencia disponible en “Servicio de Patrimonio
Histórico de la Dirección General de Bienes Culturales de la Comunidad
Autónoma de la Región de Murcia”, numero de Expdiente del Servicio de
Patrimonio Histrorico 186/2007, redactado por Alejandro Paredero Pérez
(Arqueotec Arqueología Técnica Y De Gestión), Memoria arqueológica fábrica
vieja de alumbres (Mazarrón) autopista Cartagena-Vera tramo III Ploder S.A.-FCC
Construccion S.A UTE.
14
Datos extraídos de las fichas de catalogación de estos conjuntos mineros
en Martinez Alcalde 2004, Catálogo del Coto minero de las Pedreras Viejas.
Documento disponible en el Servicio de Patrimonio Histórico. Dirección
General de Bienes Culturales de la Comunidad Autónoma de la Región de
Murcia.
9. LOS YACIMIENTOS ARQUEOLÓGICOS DEL
ENTORNO DE LA FÁBRICA VIEJA DE ALUMBRES
Próximo al conjunto conocido como Fábrica Vieja de
Alumbres y al noroeste del pueblo de Mazarrón, al pie del
coto minero de “San Cristóbal y Los Perules” y en la delimitación del yacimiento arqueológico “Cantarranas”, existen
190
El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón
restos de otro posible conjunto donde todo su entorno
también muestra restos de la tierra roja (almagra) como
sedimento o subproducto de las producciones de alumbre.
Las instalaciones se localizan al pie de un pequeño cerro
denominado “Cantarranas”, cerca de las inmediaciones de la
rambla de las Yeseras en el que existe la cimentación de una
torre adscrita culturalmente en la Carta Arqueológica Regional
al mundo medieval cristiano. En su entorno arqueológico
existe un extenso almagral que se extiende hasta la rambla y
ocupa una superficie de terreno de aproximadamente 1.500
m². Se hace difícil precisar, hasta el momento, la cronología de
esa instalación 15, en la que se localiza la planta del conjunto 16
definida por espacios cuadrangulares de muros de mampostería mediana trabada con yeso. Estos son cinco espacios de unas
dimensiones aproximadas de 3,50 m de lado, que conservan
algunos tramos de un pequeño canal que discurre por encima de los muros. También en la zona noroeste del conjunto
existen restos de una balsa de agua de planta semicircular.
El conjunto parece corresponder a una instalación de
tipo industrial con espacios cuadrangulares cerrados por
todos sus lados, con trazado planificado y homogéneo de las
estructuras, muros con restos internos de almagra, canalizaciones e, incluso, pequeñas piletas interiores en algunos de
los habitáculos que definen un carácter industrial con balsas
o estructuras hidráulicas de decantación relacionadas con
procesos de obtención de alumbre y almagra.
También en ese mismo entorno, existe otro yacimiento
arqueológico denominado “El explosivo” 17, localizado en el
paraje de “El Roble”, a 900 m al suroeste del núcleo urbano
de Mazarrón (sobre un llano aluvial en la margen izquierda
de la rambla de “Las Moreras”) que, según los datos recogidos en prospecciones superficiales de la década de los años
setenta del s. XX, el yacimiento presentaría un origen medieval islámico para el establecimiento de una necrópolis (ss.
XII-XIII), con posterioridad asociado a materiales cerámicos
de producciones y tipos datados en los alfares de Murcia,
que se encuadran entre los ss. XVI-XVII. Actualmente, el
yacimiento está oculto por la implantación de un basurero
en los años setenta del siglo XX.
Marqués de los Vélez data del siglo XV-XVI, y fue construida
con un evidente objetivo defensivo, pero también como símbolo que representaba a uno de los dos grandes propietarios
del alumbre (el Marqués de los Velez).
La Torre del Molinete, es una torre de vigilancia intermedia entre el castillo y la costa, y se la asocia a la antigua y
desaparecida Casa-Fuerte del Marqués de Villena. Las dos
iglesias son la de San Andrés y la de San Antonio de Padua,
ambas del s. XVI. La primera de ellas posiblemente cumplía
una doble función, como edificio para el culto y además para
refugio de la población en caso de piratería. La segunda de las
iglesias, la de San Antonio, actualmente ofrece una imagen
desvirtuada, resultado de unas inadecuadas reformas en el
siglo XX, aunque todavía mantiene el escudo de su constructor, el Marqués de los Vélez. De ambos templos también se
conservan las campanas originales que son de extraordinario
valor histórico, y en las que destacan inscripciones relativas
a patronazgo y año de fundición (Maximo Garcia 2006,
pp. 74-87) 18.
En la costa de Mazarrón se conservan varias torres de
vigilancia del mar, como son La torre de los Caballos de
Bolnuevo, La torre de Santa Isabel (o Torre de la Cumbre) y
La Torre de la Azohía.
11. LA GRAN PRESENCIA ITALIANA
EN LA PRODUCCIÓN DE ALUMBRE MURCIANO
Unido al negocio del alumbre español, hubo una importante presencia italiana favorecida por su gran experiencia
en los mercados y con importantes intereses económicos
en la península ibérica. Relevantes personajes italianos eran
dueños de negocios en el sur peninsular como en Sevilla, y
también en la Región de Murcia donde, desde el siglo XIII,
los mercaderes italianos se habían establecido en la ciudad de
Murcia y en Cartagena, cuyo puerto se convirtió en centro
de desembarco y tránsito, mercado, etapa de viajes y depósito
general de las mercancías para su distribución hacia el interior
de Castilla (Molina Molina 2014, p. 101).
Los primeros genoveses fueron los hermanos Rey (Baltasar,
Domingo y Juan Rey) que, entre 1483 y 1486, tuvieron contratos de arriendo en las minas de Mazarrón con las familias
de los marqueses de Villena y Los Vélez (Franco Silva). En
1537 aparecen otros personajes italianos responsables de las
producciones: Gaspar Rotulo (que se encargó de la operación
del cierre de las minas de Rodalquilar, en Almería); Esteban
Doria, Pantaleón de Negro o Jerónimo Italiano (Franco
Silva, Martinez Alcalde 2006, pp. 43-44) que durante el
s. XVI dinamizaron y optimizaron el mercado consiguiendo
el apogeo del comercio del alumbre murciano.
Existe igualmente constancia de contratos fechados en
1542 con la rica compañía de Ansaldo de Grimaldi (Ansaldo,
Lucca y Giovanni Batista Grimaldi), un convenio que supuso
luego el cierre de la fábrica de Cartagena a partir de 1551, por
los herederos de la compañía para así obtener el monopolio
de la exportación del alumbre murciano.
10. EDIFICIOS CIVILES, MILITARES
Y RELIGIOSOS RELACIONADOS
CON LAS INSTALACIONES DEL ALUMBRE
EN MAZARRÓN
En lo que respecta al núcleo urbano de Mazarrón y a los
edificios construidos en el siglo XVI por los dueños de las
empresas productoras de alumbre, sobreviven dos iglesias, un
castillo y algunas torres de vigilancia del mar. La fortaleza del
15
Se ha propuesto también su posible vinculación con el despoblado
correspondiente a una alquería musulmana, tal vez la “Susaña” de los textos
medievales.
16
Datos del Yacimiento de Cantarranas de la Carta Arqueológica Región
de Murcia. Servicio de Patrimonio Histórico. Dirección General de Bienes
Culturales. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia (Mazarrón); http://
arqueomurcia.carm.es/carta.
17
Datos del Yacimiento del Explosivo de la Carta Arqueológica Región
de Murcia. Servicio de Patrimonio Histórico. Dirección General de Bienes
Culturales. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia (Mazarrón). http://
arqueomurcia.carm.es/carta
18
«..esta canpana la mando hazer el noble senor governador destos alvmbres del
senor marques de villena ano dxxx+»; y la inscripción «… don lvis fajardo marqves
de los velez conde de lvna adelantado i capitan general del reino de mvrcia mando
hazer esta campana *ano * 1609***[… ]».
191
m. Martínez Alcalde
fig. 10 – Vista aérea general de la Fábrica Vieja de Alumbres de Mazarrón rodeada de sedimentos de color rojo de “almagra” o “almagre” (foto:
Fundación Integra-Digital. Comunidad Autónoma de la Región de Murcia).
colorado”, aunque también era utilizada en la fabricación de
pinturas y otras pequeñas utilidades como teñido de redes
de pesca para dar flexibilidad, etc.
Del abundante uso de la almagra derivó su escasez, de tal
modo que se llegó a prohibir su exportación al extranjero,
legislando su estancación en 1774, mediante Real Orden de
22 de marzo, para que no faltase en las elaboraciones de la
Real Fábrica de Tabacos de Sevilla. En 1815, ante su inminente
agotamiento y escasez, se propuso fabricar nuevas cantidades
de almagra pero, tras varios siglos utilizando el sobrante que
existía abandonado en los campos, se olvidó su origen y el
método de fabricación hasta tal punto que existía la duda de
si era un elemento natural o artificial.
Investigaciones de Agustín Juan de Poveda, Catedrático
de Botánica en el Real Jardín de Cartagena e Inspector de
Medicinas de la Real Armada, llegaron a la conclusión de que
la almagra era un residuo del alumbre, y por ello se volvieron
a edificar en Mazarrón nuevas fábricas para producir en este
caso almagra (Madoz 1850, p. 322), y no alumbre como el
en los siglos XV-XVI.
En 1840, con esta información de que era posible la fabricación artificial de la almagra, se redactó otra ley 19 para el
desestancamiento de la almagra y se volvieron a abrir algu-
En 1565 se realizaron contratos con otra compañía de
genoveses formada por Negron de Negro, Agustín Sauri y
Alberto Penello y su agente en Amberes, Giovanni Batista
Spinola (Franco Silva, Martinez Alcalde 2006, p. 45). Las
intervenciones arqueológicas realizadas en el año 2005 y 2006
en el castillo de los Vélez de Mazarrón detectan cerámica de
importación, de los siglos XV y XVI, relacionada con esa presencia italiana en Mazarrón, que también se observa en varias
excavaciones arqueológicas realizadas en la ciudad de Murcia.
12. LA ACTIVIDAD RESIDUAL
DE LA PRODUCCIÓN DEL ALUMBRE
EN EL SURESTE DE ESPAÑA:
LA COMERCIALIZACIÓN DE LAS ALMAGR AS
Algunas zonas del paisaje de Mazarrón todavía están coloreadas de rojo por las almagras (o “almagres”) (fig. 10), que
son el desecho de la producción del alumbre a través de la
calcinación de la piedra alunita. Esta piedra al ser quemada
en los hornos adquiere una fuerte coloración roja, con la que
es posteriormente llevada a las balsas de decantación. Allí, al
añadir el agua se produce una separación de componentes.
En la parte líquida queda en disolución el producto del que
más tarde se extraerá el alumbre, pasando por otras distintas
y sucesivas fases. Y finalmente, en el fondo de las balsas queda
depositada, debido a su mayor peso, la tierra roja sobrante.
Esta tierra roja subproducto y deshecho de la fabricación
del alumbre quedó amontonada y abandonada en los campos
tras el cierre de las fábricas de alumbre, en 1592. Más tarde,
en los siglos XVII y XVIII, se descubrió su utilidad y se comercializó como producto independiente, siendo empleada
en la Real Fábrica de Tabacos de Sevilla, como aditivo porque, según Madoz, aportaba “frescura y suavidad al tabaco
19
Diario de las sesiones del Congreso de diputados en la legislatura de 1840,
4-5, Congreso de los Diputados, Impr. Nacional, 1840. «… Numero 6.Proyecto
de ley para el desestanco de la almagra».
Art. 1. «Se suprime el estanco de la almagra».
Art. 2. «Será libre la circulación interior y exterior de la tierra aluminosa,
y los productos químicos que procedan de ella, observándose las formulas, y
pagándose los impuestos y derechos á que deban estar sujetas por las disposiciones de rentas generales y provinciales … Se había creído que la almagra la
portaba la naturaleza tal la cual se aplica á la fabricación del tabaco colorado
en Sevilla y carenar y dar color á los buque; pero ya se ha conocido que es el
resultado de una operación química …».
192
El patrimonio cultural del alumbre en España. Las referencias de Mazarrón
nas nuevas fábricas de alumbre, en este caso para producir
y comercializar los dos productos: el alumbre y la almagra
(Villar Ramírez, Egea Bruno 1985).
El tema de la fabricación vinculada al alumbre y la almagra, retomada en el ámbito murciano ochocentista, favoreció
que en este último marco cronológico acudieran algunos
inversionistas que pusieron en explotación diez pequeños
yacimientos situados en los parajes de las “Pedreras Viejas”
y en las “Pedreras Nuevas”, con sus correspondientes hornos,
pero dado el caso de que ninguno de los criaderos ofrecía un
volumen de mineral para que cada una de las empresas fuese
autosuficiente, se decidió establecer una fábrica única. En
1847, ya existía un establecimiento unificado que funcionaba con siete calderas grandes, cuya finalidad, según Pascual
Madoz era la de ir «surtiendo de alumbre a las fábricas de
tintes finos de la península» (Madoz 1850).
En estas condiciones el negocio se reveló productivo y se
estableció una segunda fábrica por una compañía de Cataluña
(la conocida como “Fábrica de los Catalanes”). En ese momento funcionaban hasta seis instalaciones simultáneamente,
pero el agotamiento de los veneros y la baja de los precios
a partir de 1840, causaron la decadencia de los alumbres en
Mazarrón. Tras esta fase, los trabajos se referían a rebuscas y
a que la actividad, en términos generales, se concentrara entonces en el aprovechamiento de los escombros de anteriores
excavaciones convertidos en materias beneficiables.
Esta experiencia del siglo XIX fue muy intermitente y
realizada con pocos medios y tecnología poco adecuada, por
lo que la última clausura fue en 1930.
En 1939 también volvió de nuevo la industria y se crearon
algunas nuevas fábricas en Mazarrón, cuyas producciones se
prolongaron hasta 1953, produciéndose el cese de la actividad
en 1954. Esta tercera experiencia solo tuvo carácter reducido. De estas últimas experiencias también quedan algunos
pequeños restos de fábricas en no muy buenas condiciones y
todavía importantes depósitos de esta tierra roja subproducto
de la fabricación del alumbre murciano que inundan algunas
zonas del entorno local.
Esas últimas producciones de alumbre en España, que
constan en el “Anuario Minero” en 1953, no ofrecen ya nuevos
datos posteriormente.
miento y cronología, y que a su vez se impulsen y consideren
iniciativas relacionadas con intervenciones de restauración y
consolidación de los frágiles restos que todavía se mantienen
de las alumbreras y que son los pocos y únicos testimonios
de la importante empresa del alumbre español.
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13. CONCLUSIONES
En España ha existido producción de alumbre en ciertos
periodos de la historia, actividad de la que nos queda una
pequeña parte del patrimonio relacionada con aquellas industrias. El tema del alumbre en España ha sido años atrás
estudiado desde el punto de vista documental de lo que hay
una importante información, como demuestran las importantes investigaciones de Alfonso Franco Silva y Felipe Ruiz,
fundamentalmente, que son los grandes estudiosos españoles
de la documentación del alumbre español del periodo moderno de la historia española.
A nivel investigación arqueológica, no se han acometido
todavía significativas intervenciones que impulsen y muestren
resultados clarificadores. En el sureste de España aún quedan
algunos restos de instalaciones de alumbres que convendría
fueran objeto de estudios arqueológicos sobre su funciona193
m. Martínez Alcalde
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English abstract
At different times in history, over the Iberian Peninsula
there was alum production. Depending on the location of
the extraction area, this alum had diverse origins. Thus, if the
alum was extracted around the Crown of Aragón, it derives
from coal mining (lignitos piritosos). Instead if it was taken
from south east areas of Spain it originates in volcanic materials, being alunite the most relevant among those (Traquitas
Aluníferas). Due to this diversity of sources, the production
processes were consequently unlike.
Little remains of the production and extraction alum
sites around Aragon, as they were destroyed during the XX
century to build coal mines. On the other hand, the south
east of Spain does preserve some old factories and buildings
related to alum production.
194
Ioanna P. Arvanitidou*
ALUM MINES IN MEDIEVAL GREECE
Le miniere di allume nella Grecia medievale
1. ALUM THROUGH PRIMARY SOURCES
famous from classical antiquity to post-medieval times as an
antidote to snake bites or any poison taken internally 6. Also,
according to Galen, Dioscorides and Pliny, it cures ulcers,
dysentery and protects against the plague (Hall, PhotoJones 2008, p. 1034).
Unfortunately, there is little evidence about the mining
and the trade of alum in ancient Greece. Scarce as well are the
available data about the mining and the trade in the medieval
era, but even the little existing information is enough to lead
us to reliable conclusions about the usefulness of the material
and the importance of alum trade at that time 7.
The first to mention the styptēria is Dioscorides 1, who
reports a natural material found in Egypt, the island Melos,
Macedonia, Liparais, Sardinia, Hierapolis in Phrygia,
Armenia and other places. In the 3rd c. B.C., Dioscorides
distinguishes three types of styptēria: the schiston (σχιστόν),
which is white and astringent, the stroggylē (στρογγυλή),
which is chalky and astringent, and the liquid, which is
transparent and milky. Styptēria is used for the treatment
of diseases, such as sarcomas, rashes, leprosy and also as a
deodorant of the human body.
In the 1st c. AD, Pliny the Elder names the material alumen
and gives a detailed description about it 2. Pliny provides
exactly the same distinction as Dioscorides and talks about
the schiston, the stroggylē and the liquid alumen. Furthermore,
he expands the list of the production sites by adding Spain,
Pontus, Africa and Cyprus. Additionally, apart from the
medical use of alum, Pliny the Elder also adds the styptic
use of the material for dyeing wool. Alum was used as a
mordant, a chemical that fastens the dye on wool or linen
fiber (Photo-Jones et al. 1999, p. 378), since its use was the
safest, the easiest, and lower-cost solution 3.
Clearly, Dioscorides and Pliny the Elder describe the same
material with a different name. However, it seems that there
is confusion with respect to the modern terminology. In
the ancient times, the terms “styptēria” and “alumen” had a
wider meaning and were used to describe insoluble astringent
substances, including mineral alunite. Nowadays, the mineral
alunite or styptērian stone is distinguished from the alum or
styptēria which can be produced by it. Modern science calls
styptēries/alums the mixed sulphates, most of which are easily
crystallized providing sizable and often clear crystals 4. In
modern terminology, alum is a sulphate salt, which can be
found in all volcanic islands, such as Mēlos, Lēmnos, Lesvos
and Nisyros (Μελφος 2013, p. 53).
The use of alum in the Greek area starts in antiquity; in
the island of Melos, the extraction of alum started in the 5th c.
B.C. They used to convert styptērian stone to styptēria, which
was used to dye fabrics 5. Lemnian Earth was a medicine
2. THE MELIAN EARTH
According to Theophrastus, the Melian earth, namely
alum, was prized as the best white pigment of antiquity, one
of the four main ingredients of the classical painters (PhotoJones et al. 1999, p. 397). Moreover, in the Roman Empire
the alum from the island of Mēlos was considered as the best
and Rome was absorbing the largest quantities (Πασσα 2007,
pp. 24-25). There were two big mines in the southeast part
of the island 8. The mine close to Kastriane region is an open
type mine covering an area of 200 acres; ancient tunnels of
extracting sulfur and alum are still visible inside. A little bit
southern, close to Demenagaki region, there are more ancient
and Roman sulfur and alum mines 9.
The main point here is that in close distance, approximately 10 km SW of the mines, in the Hagia Kyriakē region,
industrial waste deriving from the conversion of alunite to
alum was discovered and this could be a chemical fingerprint
of alum production (Photo-Jones et al. 1999, p. 395). This
hypothesis is supported by the fact that the Hagia Kyriakē
region is a natural harbor; therefore, it could be assumed that
the alunite was extracted in the two nearby mines, transport6
Plinius, Naturalis Historia, 29.33 and 35.14.
According to the project of the company “Χρυσωρυχεία Θράκης ΑΜΒΕ”
(Thrace Goldmines AMVE), alum is discovered also in Thrace, in the region
of Perama. However, there is no information about the quantity and the quality
of the alum and if ever alum was extracted in the region, see Αρικας 2012.
There is some information about alum deposits in Nisyros Island. Also, Galen
records a visit to a locality in Cyprus which was engaged in the production of
what seems most probably to have been copper sulphate, see Pittinger 1975,
p. 192. Additionally, according to a document, in 1488, Dorinos II Gattilusio
assigned his rights about the mines in Mytilēnē, in Nea Phōkaia and in Thasos to
Marco Doria, but he kept those in Palaia Phōkaia, in Aino and in Samothrace.
8
J. Pittinger has another theory about the identification, according to
which the alumen of Pliny should be identified as the mined today bentonite,
and thus it is not pure alum, see Pittinger 1975, p. 193.
9
https://www.miloterranean.gr/geowalks/route-3-sulfur-mines/ (last visit:
10/02/2020).
7
* Università La Sapienza, Roma (io.arvanitidou@gmail.com).
1
Dioscorides, De materia medica, 5, 123.
2
Plinius, Naturalis Historia, 35, 52.
3
Stypteria is the safest of the mordants, the easier to use and at the lowest
cost, see Ζαρκογιαννη 2008, p. 35.
4
http://www.chem.uoa.gr/chemicals/chem_Al2O3.htm (last visit:
10/02/2020).
5
https://www.milosminingmuseum.com/en/milos/history-of-milos/ (last
visit: 10/02/2020).
195
Ioanna P. Arvanitidou
fig. 1 – Melos Island (modified from Pittinger
1975, p. 191).
fig. 2 – Lemnos Island (modified from Hall 2008,
p. 1035).
ed to the Hagia Kyriakē region, where the conversion to alum
took place, and was immediately loaded onto ships, which
arrived at this port for this very purpose (fig. 1).
The trade of alum was an important part of the island’s
economy and it continued after the fist fall of Constantinople
in 1204 AD, during the Venetian period and beyond. In the
16th c. AD, after the raids of Barbarossa in the Aegean Sea,
Melos, along with agricultural products, sulfur and salt, used
to export also styptēria, supporting substantially its economic
development through the exploitation of its mineral wealth
(Πασσα 2007, pp. 24-25).
3. THE LEMNIAN EARTH
The Lemnian Earth gained widespread reputation for its
medical properties. The spring waters of the island gush from
underground alunite rocks 10 and were absorbed by the clay,
enriching it in alum; this was the “secret” of the lemnian clay
(Hall, Photo-Jones 2008, p. 1038). According to Galen
(XIII. 252), the Lemnian Earth was the most powerful thanks
10
According to modern mineralogical data, the land of Lemnos consists of
40% montmorillonite, 30% kaolinite, 20% alunite and 10% quartz and iron
oxides-hydroxides, see Photos-Jones 2008, p. 623.
196
Alum Mines in Medieval Greece
fig. 3 – Lesvos Island (modified from
Κουμαρελας 1998, p. 124).
and the 15th c. AD ships used to carry large quantities 12 of
alum from Kallonē bay, the final destination being Flanders 13.
More information can be found in the notarial documents
from the State Archive of Genoa, which provide valuable
historical data for the alum mines and the trade of the island.
These contracts, which were written and signed by notaries,
used to describe the basic purchase, sell and transport terms.
There were individual contracts in which a one-trip transfer
of a specified amount of alum was described 14 or contracts
that describe transactions that lasted years 15. In some cases,
ships made more than one loadings from different ports in
order to travel to the West with the maximum cargo they
could carry. A typical example is a contract signed on August
21st, 1413 AD, according to which Battista Pessagno rented
the ship of Theramo Centurione, which departed from
Chios to arrive in Lesvos, in the harbor Marasiorum, where
approximately 285,5 tones (6000 kantars) of alum were
loaded. Immediately, the ship departed to Phokaia, where the
cargo reached its maximum capacity, and returned to Chios,
stayed there for ten days and finally left for Messina in Sicily
to alum («… τούτων δ’ ἀπασών ἡ Λημνία δύναμιν ἰσχυροτέραν
έχει, προσέστι γαρ αὐτή τί καί στύψεως…»). The most wellknown alum source in the island is the Agiochōma region,
between the villages Repanidio and Kotsinas, with rocks rich
in alunite (ibid., p. 630). The mine is located very close to
the natural harbor of Kotsinas, but there is no information
about the depth of the waters and the winds that blow in
the region (fig. 2).
4. LESVOS ISLAND
Nevertheless, it seems that the largest quantity of alum
was extracted from the mines of Lesvos Island, which was a
huge production centre. The beginning of the history of the
lesbian alum is not known, but it seems that the extraction of
alum did not start before the mid-14th c. AD. The systematic
exploitation of the rich alum deposits began in the years of
the Genoese domination (1355-1462 AD) and continued in
the first century of the Turkish domination (Κουμαρελας
1998, p. 126). In fact, there were two types of alum on the
island: «di Rocca» and «minuto» (ibid., p. 127). Since the 16th
c. AD, there are no references about alum trade on the island,
while there is evidence about alum commerce from Turkey.
However, the mining on the island may have continued, but
channeled to the West via Turkey keeping its original name
alum from Mytilēnē 11.
The main source of information are the commercial
contracts of that time, which state that in the late 14th c. AD
12
The weight measured in kantars. 1 Genovese kantar = 47,6 kg, see
Giagnacovo 2014, p. 143.
13
Παπουτσανης 1996, pp. 41-42; Balard 1978, I, p. 172; ibid., II, p. 774.
14
In March 24th, 1404 AD, Paolo Lercanio, a Genoese captain and ship
owner, and Michele Lomellini signed a contract in front of the notary, Gregorio
Panissaro. The ship was chartered by M. Lomellini in order to travel from Chios
to Lesvos Island and loaded approximately 143 tones (3.000 kantars) of alum
from the Kallonē bay with final destination Flanders. The payment of Lercanio
was approximately 47,5 tones (1000 kantars) of alum or its value in money,
approximately 1875 Genoese pounds. See Balleto 1996, p. 309.
15
In December 22nd, 1412 AD, in front of the notary, Giovani Balbi,
Theodēgēs Kolyvas sold to Michele Lomellini approximately 1000 tones (21.000
kantars) of alum, de rocca quality. The duration of the contract was 3 years.
The merchandise would be delivered every 6 months at the Parachile port. See
Wright 2014, p. 176.
11
According to Belon (1553 AD), in the city Ipsala the processing of the
mineral was made in the alum mine and as a result the cost was very low. The
mineral was exported to Italy, where it was known as styptēria from Mytilēnē,
see Φιλοπουλου-Δεσυλλα 1987, p. 183.
197
Ioanna P. Arvanitidou
and after that for Naples, with final destination Genova and
Ecluse (Κουμαρελας 1998, p. 113; Wright 2014, p. 176).
In the island of Lesvos, three important alum mines were
discovered (Parachile mine, Condicie mine, Marassi mine),
confirming the extraction of alum, and probably in two of
them the processing of the mineral took place there (Parachile
mine, Condicie mine) (Miller 1966, p. 84). The Parachile
mine is located in the NW coast of the Kallonē Gulf, close
to the modern villages of Parakoila (Κουμαρελας 1998, p.
118). The byzantine settlement Parakella and the medieval
castle Kastrelli were discovered a little bit southern of the
modern village (Μουτζουρης 1962, p. 64). The processed
alum was loaded on the ships, which used to dock at the
nearby ports, Parachile and Apothika. The Parachile port was
3 km away, however the water in Parachile bay was shallow
and the ships could not drop anchor, so probably the ships
anchored off the bay. The Apothika bay, which was the best
harbor of the island, is located 8 km southwest of the Parachile
mine. Therefore, they had to choose the shallow water or the
longer distance, which meant increase of the transportation
cost (Κουμαρελας 1998, pp. 118-119). We could assume
that both of them were used for the alum trade from the
Parachile mines (fig. 3).
The Condicie mine is located in the modern region
Kontisia, SW of the Kallonēs bay, close to the villages Agra
and Mesotopos and 500 m south of the byzantine settlement
and the medieval castle (Μουτζουρης 1962, p. 68). The
area is surrounded by the hills of Siderias, Gidarēs, Pachys,
Megalos Kaikos, Aetos and Chalikas. At the side of the hills
there are significant deposits of styptērian rocks 16. The most
important mine with the largest deposits is located in the
NE slope of the Sideria, which means Iron. From the hill
there was direct contact with the Apothika port and Kallonēs
bay and port in order to ensure the safety of the ships. The
Apothika port was 5 km away from the mine (Κουμαρελας
1998, pp. 119-120), however, also the Podaras port was close
by and the route was shorter and above all easier, because it
was only downhill (ibid., p. 122).
The Marassi mine is known from two notarial contracts,
showing that the loading of the alum was performed at the
Marassi port, thus it can be assumed that the mines should
not be too far away from that port. Vasilis Koumarelas, after
his field research in the area and some discussions with the
locals, identified the Marassi area with Asōmatos mountain
(and the neighboring hills Gidaris and Pachys), where extensive remains of an old alum mine was discovered and
also a byzantine settlement close to the mine. The Marassi
port was 2 km away from the sea, but it seems that there
was another option. Vasilis Koumarelas found an old path,
made of stone, coming from Condicie mine and ending at
the Podara harbor. Therefore, it is easy to assume that the
cargo from the Condicie Mine was enriched with material
from Marassi and all of them ended up to Podaras beach in
order to be loaded to a ship (ibid., pp. 124-125).
The Marassi bay had deep waters and it was protected
from the north winds. From March until October in Lesvos
there are north winds and the ships can safely go to the
Kallonēs gulf and on the southwest coast. Probably that’s why
the contract of Th. Kolyva specifies that the deliveries had
to be done every April and October. In addition, another
contract was made between A. Aurigo de Portu, burgher of
Mytilēnē, on behalf of Jacobo Gattilusio, lord of Mytilēnē,
and G. Lomellini defines that the loading from Marassi port
would be done in March and September (ibid., pp. 112-113).
There is information about three more mines in the
island with large amount of alum but there is no documented evidence to affirm that extraction of alum took place
there. Remarkable alum deposits exist also in the side Aspra
Chōmata (village Chydēra) and in the neighboring Myroudies
and Gavras-Phterountas, but it is not known if the deposits
were ever extracted there. However, the fact that they are far
from the sea, rather eliminates this hypothesis. Additionally,
significant mineral deposits were discovered in the site
Trapeza (close to Stypsē village; the name of the village refers
to styptēria), but there is no relevant historical evidence,
although the port of Petra is nearby. Also, small deposits
of alum were found in the site Magaras (Vafeios village; the
name of the village refers to dyeing fabrics) (ibid., p. 129).
While there is enough information about the location of
the alum mines on Lesvos and the paths followed to load the
cargo on the ships, there is almost no data about the mineral
processing sites. W. Miller assumed that in the Parachile and
Condicie mines alum was also processed (Miller 1966, p.
84), but this is only a hypothesis. The only archaeological
remains from the mineral processing were found in Apothika
region. There are four frustoconical structures (two tanks
with 5,80 m diameter and two tanks with 4,65 m diameter),
which fit in a space surrounded by walls. Only one of the
four tanks has been fully excavated; its height reaches 2,14
m, the big base has 6,20 m diameter, the small base has 2,3
m diameter and its capacitance reaches 32,5 m³. The tank
is built with small tracheal rocks, ceramics and binder mortar (Κουμαρελας 1998, pp. 130-131, footnote 39). In the
bottom of the structure alum was found 17 and the excavators
assumed that the four tanks were used for washing the mineral with water. This assumption is further corroborated by the
fact that a conduit starting from the tanks and ended to the
sea was unearthed (1,20 m width; 14 m length). According
to the excavators, the tanks are connected with the Roman
remains found in the same area, along with a furnace close
to the coast (Αχειλαρα 1998, pp. 778-779) 18.
The dating of the excavated constructions raises many
questions. According to the available data it seems that the
systematic alum mining on Lesvos Island began after the
island’s occupation by the Gattilusi, 1355 AD, and reached
the peak in the first decades of the 15th c. AD. Indeed, at that
time large amounts of alum arrived in Apothika port from
the two large mines of the islands, Parachile and Condicie.
16
When V. Koumarelas visited the area, he found pouring waters gathered
in natural borings and in two old stone-made cisterns. The inhabitants of
Mesotopos village used to bath there to heal various skin diseases.
17
According to the chemical analysis, the sample contained: 29,0% SiO2;
23,1% Al2O3; 2,2% Fe2O3; 1,75% CaO; 0,23% MgO; 0,03% MnO; 6,2% K2O;
0,41% Na2O; 8,2% S; 0,32% P.
18
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10/02/2020).
198
Alum Mines in Medieval Greece
in modern Italy. The high demand and the large quantities of
alum traded to the West led to the need of a more organized
trade system. So, on April 1st, 1449 AD, the Alum Company
was established by the most important alum merchants. Main
shareholder, with 50%, was Francesco Draperio (who had a
contract with the Sultan Murad II) and the second largest shareholder was Marco Doria (representative of Dorino Gattilusio).
According to the contract, the lifetime of the Company
was 6 years and it was planning to transport more than
23.500 tones (500.000 kantars) of alum coming from the
mines of Greece and Turkey. The base was the Island Chios,
where all the loadings would be made, thus highlights its
significant role in the alum commerce. On January 24th,
1450 AD, the Court in Chios decided to interrupt the work
of Condicie and Parachile mines, which were under Dorino
Gattilusio control and awarded the payment of 5000 gold
ducats per year. However, the Company continued to operate, even with problems because of the conflicts between the
shareholders, but also because of the historical facts related
to the Turkish threat (Olgiati 1996, pp. 373-398).
The fall of Constantinople was the beginning of the end
of the interests of the Latins in the East. The Gattilusi were
forced to pay money to the Turks in order to keep their
dominions. In the end, the discovery of the rich deposits of
alum in Tolfa-Civitavecchia, 35 km NW of Rome, transferred
the alum monopoly in the West.
Despite the importance of the issue and the number of
the available written sources about the alum trade in the
Aegean region, there are not comprehensive studies on this
topic. It seems that in the late 14th c. AD, under the rule of
Gattilusi, a trading empire developed in the eastern Aegean,
which dominated for nearly half a century.
The minimum interest in the subject did not encourage
archaeologists to initiate investigations in this direction and
the unique findings – two tanks – in Apothika region (fig. 4)
were not sufficiently studied, they were dated to the roman
era and still remain unpublished. The tanks are very look
alike with a tank found in Monteleo, Grosseto (fig. 5), which
is dated in the late 14th or early 15th c. AD.
The alum mining and trade is a very interesting subject. A
surface survey of the abovementioned sites is certain to yield
significant results, as it is impossible that all the remains of
such a large industrial production have been lost. Furthermore,
the study of the tanks in Apothika region combined with a
comparative study on the processing sites in various regions in
Italy could shed light on the way of alum processing.
fig. 4 – Lesvos. Apothika region. Alum processing tank (Κουμαρελας
1998, p. 123).
fig. 5 – Allumiere di Monteleo (Grosseto, Italy). Alum processing tank
(personal archive).
Hence, in the late 14th c. AD, it was perfectly reasonable to
build furnaces for the final process of alum in the nearby area
of the port in order to load the cargo directly to the ships
anchored in the Apothika port 19.
5. STOR AGE, DISTRIBUTION AND TR ADE
Based on the data, a possible hypothesis could be that the
alum amounts were extracted from Parachile and Conticie
mines, they were initially processed in the mining area and
then they would transfer the cargo to the furnaces in Apothika
region. After the end of the final process, the cargo was
loaded quickly and easily on the ships docked at the nearby
harbor. Combining the abovementioned information with
the knowledge that Chios was one of the major centers of
storage and distribution of the mineral in the late 14th and
early 15th c. AD, along with the major port in Phokaia on
the coast of Asia Minor, one can support the hypothesis that
the Apothika port held a key position in the triangle LesvosChios-Phokaia in the trade of alum.
Clearly alum mining and trade was the heavy industry of
the era. Thousands of tons of alum were loaded annually from
the East to arrive at various urban centers of the West, especially
19
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English abstract
The use of alum in the Greek area has very ancient origins,
but to date only a few alum mines are known and most of
them are located on islands in the Aegean Sea. The case of
Lesvos is the best known, thanks to the notarial contracts
preserved. Three large alum mines have been identified in
Lesvos, connected with four ports where the product was
loaded onto ships. In the Apothika port region, four alum
production tanks have been partially excavated.
The extraction and trade of alum constituted a real “heavy
industry”: every year thousands of tons of alum were traded
from the East to the various consumption centres of the West.
The fall of Constantinople marked for the most part the end
of Latin interests in the East, and at the same time the rich
alum deposits in the area of Tolfa-Civitavecchia were started
to an intense exploitation.
200
Stefania Fineschi*
LA PRODUZIONE DI ALLUME NELL’ITALIA MERIDIONALE.
I CASI DI AGNANO – ISCHIA (NA) E LIPARI-ROCCALUMER A (ME)
The production of alum in southern Italy.
The examples of Agnano – Ischia (Naples) and Lipari-Roccalumera (Messina)
1. PREMESSA
riguardanti le zone italiane interessate dalla produzione di
allume, con voci che spaziano dall’inquadramento geografico e geologico alla materia prima lavorata, alla collocazione
cronologica. Solo in taluni casi è stato possibile arricchire
la raccolta con le descrizioni delle evidenze archeologiche
relative a tali produzioni (è questo il caso di Tolfa-Allumiere).
Un terzo database, infine, è specificatamente riservato
alle aree di produzione dell’allume identificate all’interno del
comprensorio delle Colline Metallifere della Toscana (Dallai
et al. 2009, pp. 29-56). In quest’ultimo database figurano voci
relative al contesto ambientale, geologico e archeologico; in
seguito a puntuali ricognizioni sul territorio, è stato possibile descrivere alcuni luoghi d’estrazione del minerale e resti
archeologici (seppur, talvolta, di difficile lettura). L’ultimo step
della ricerca ha previsto la realizzazione di una piattaforma
GIS in grado di raccogliere i dati così recepiti; la possibilità
di incrociare vari livelli di informazione ha permesso di ipotizzare la localizzazione di quei contesti estrattivi/produttivi
di difficile individuazione, ed ottenere conseguentemente un
quadro di distribuzione delle allumiere più completo ed un
corposo primo nucleo di dati utili (in particolare indicatori
di carattere tecnologico, sia per quanto riguarda l’estrazione
che la lavorazione della materia prima) (fig. 1).
Come accennato in premessa, da questa rassegna discuteremo in particolare dati relativi ad alcune importanti aree
di produzione dell’Italia meridionale.
Con questo contributo si intende esporre lo stato dell’arte
di un progetto di rassegna storico-bibliografica e di censimento del dato archeologico relativo alle esperienze di
produzione dell’allume nella penisola italiana, attestate in un
arco cronologico che va dall’Antichità sino all’Età Moderna.
Il progetto nasce parallelamente all’indagine archeologica
condotta sul sito delle Allumiere di Monteleo (Monterotondo
Marittimo, Grosseto), uno degli impianti di produzione
dell’allume meglio conservati e studiati nel panorama europeo, oltre che unico sito produttivo legato all’allume ad oggi
archeologicamente indagato per l’epoca basso-medievale e
moderna (Dallai 2014).
L’indagine condotta a Monteleo ha evidenziato come la
comprensione delle diverse funzioni assolte dalle strutture
indagate non fosse semplice e, con il proseguo delle indagini,
è apparsa sempre più chiara l’esigenza di inserire il sito in una
prospettiva di analisi più ampia, sia regionale che nazionale,
anche allo scopo di capire se questo sito potesse essere utilizzato come esempio di confronto nello studio dei modelli
di ciclo produttivo dell’allume alunitico, o se, al contrario,
non rappresentasse che un caso eccezionale.
È con questi presupposti che si è scelto di ampliare l’area
di interesse ed estendere il censimento all’intera Penisola,
partendo dai siti di produzione dell’allume più significativi
presenti nell’Italia meridionale (Agnano ed Ischia per la
Campania e Lipari e Roccalumera per la Sicilia). Seppur in
parte ignorate dalle ricerche storico-archeologiche, queste
esperienze produttive non sono senz’altro da considerarsi
episodi d’importanza secondaria al fine di ricostruire un quadro generale il più dettagliato possibile. Infatti, oltre a essere
siti localizzati in regioni caratterizzate da una ricca stagione
mineraria antica, la documentazione disponibile ci offre una
discreta quantità di indizi in merito ad uno sfruttamento
dell’alunite riferibile ad un’epoca precedente a quella indicata
tradizionalmente dalle fonti, ovvero all’Età Moderna.
3. LE ALLUMIERE DELLA CAMPANIA
3.1 Agnano (NA)
La conca di Agnano è situata nella parte orientale del
sistema dei Campi Flegrei (Napoli), i quali sono costituiti
da un complesso insieme di strutture geologiche generate
da eruzioni relative a più cicli vulcanici e dove sono ancora
ben visibili manifestazioni di origine vulcanica secondaria,
come l’idrotermalismo ed il bradisismo (Cole, Perrotta,
Scarpati 1994, pp. 755-799).
La conca è delimitata da una serie di emergenze vulcaniche; a causa di questa genesi le trasformazioni del paesaggio sono state davvero profonde e le eruzioni che si sono
succedute nella storia hanno cancellato la maggior parte
delle evidenze relative alle fasi di sfruttamento più antiche.
Conseguentemente, è difficile stabilire con certezza se l’utilizzo dei locali prodotti vulcanici possa essere iniziato prima
dell’Età Classica, epoca durante la quale l’uso dei prodotti
2. METODOLOGIA DELLA RICERCA
Il lavoro di ricerca si è articolato in archivi tematici; un primo database permette la consultazione bibliografica mediante
ricerche tematiche mirate; un secondo database raccoglie dati
* Università di Siena, Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali
(s.fineschi@gmail.com).
201
S. Fineschi
fig. 1 – Censimento dei siti e delle aree a potenziale archeologico: A. Cartografia GIS e database; B. Esempio di schedatura collegata; C-D.
Archivio fotografico.
fig. 2 – Veduta della Solfatara; tratto da Sieur de Rogissart, Les délices
de l’Italie, Vol. III, Leida, Pierre Vander, 1706. A. L’industria dello zolfo;
B. L’allumiera; Cl. Le stufe.
fig. 3 – Acquerello raffigurante le “Stufe” e la “Grotta del Cane”; tratto
da Sieur de Rogissart, Les délices de l’Italie, Vol. III, Leida, Pierre
Vander, 1706.
legati all’idrotermalismo rese l’area flegrea uno dei principali
centri terapeutici del mondo antico, fortunata condizione
che si confermerà sino al pieno Medioevo. Tutt’oggi, lungo il
versante della conca delimitato dal monte Spina, alcuni ruderi
segnalano la presenza di un antico impianto termale romano
(II secolo d.C.), che sfruttava le sorgenti calde scaturite dal
sottosuolo. Sappiamo dalle fonti che l’impianto doveva essere ancora in funzione nel VI secolo d.C., mentre tra il IX
e il X secolo la zona fu interessata da un fenomeno naturale
che provocò l’abbassamento del suolo e la formazione di un
lago al centro dell’antico cratere, danneggiando fortemente
le strutture termali (Amalfitano et al. 1990).
Altre memorie di un antico sfruttamento dei vapori termali
si riferiscono al versante della conca di Agnano denominato
“La Solfatara”, nel quale sono localizzate due grotte, collegate internamente in modo da formare un ferro di cavallo,
chiamate “Le stufe” (fig. 2). A partire dall’epoca romana qui
si recavano coloro che erano afflitti da malattie respiratorie o
della pelle per rigenerarsi con le esalazioni sulfuree provenienti
dall’interno dei due profondi antri. L’utilizzo di questi vapori
è proseguito senza soluzione di continuità sino al XIX secolo,
ed è ancora oggi possibile ammirare l’ingresso in muratura al
complesso, di origine ottocentesca (De Caro 2001) (fig. 3).
A partire dall’epoca greca, e sistematicamente in quella
romana, i Campi Flegrei sono stati inoltre oggetto di un’intensa attività di cava di tufo giallo e di produzione della
pulvis puteolanus, ovvero la pozzolana, materiale impiegato
nella preparazione di malta idraulica, specie nelle costruzioni
portuali (De Felice et al. 1990).
Tra i prodotti vulcanici presenti ad Agnano, lo sfruttamento maggiormente redditizio fu tuttavia quello dello zolfo e
dell’allume, tanto che quest’ultimo prodotto rappresentò una
delle principali attività economiche gestite dalla monarchia
aragonese.
Le prime attestazioni concernenti la miniera di allume
di Agnano sono conservate in alcuni atti notarili redatti nel
1248 dal Real Fisco Napolitano, raccolti nell’opera Anecdoti
istorici sulle Allumiere dei Monti Leucogei, dell’abate Cestari.
I documenti sono tuttavia controversi; alcuni autori sostengono, infatti, che la data di inizio dell’attività produttiva sia
202
da posticiparsi addirittura di alcuni secoli rispetto a quella
desunta dalla lettura degli stessi; la teoria più accreditata porta
in particolare ad attribuire l’apertura del primo impianto di
produzione di allume all’iniziativa del genovese Bartolomeo
Pernice, in data 1452 d.C. (Feniello 2005).
Questo diverso approccio alla comprensione delle documentazioni deriva probabilmente dal fatto che con il termine
“allume” si indicava un insieme di materiali accumunati da
caratteristiche chimiche simili, fra cui ad esempio i sali vetriolici (cioè solfuri di ferro e rame), e non necessariamente
l’allume “alunitico”. Da qui nasce una cautela interpretativa
che s’innesta anche sull’assunto secondo il quale è impossibile che in Italia, prima della scoperta delle cave di Tolfa, si
possedessero le conoscenze tecnologiche per lavorare l’alunite.
In ogni caso, tra le testimonianze in questione ve ne sono
alcune degne di nota. In un atto datato 1248 si trova scritto: «… regnando il Gran Federigo II nel 1248, Benvenuto
Portanova, marito di Giuliana, honesta femina, dichiara di
aver ricevuto ad pensionem l’intero Monte qui nominatur
de illa Bulla per ego [… ] da Giovanni Brancaccio e da D.
Sicelegaita dischreta femmina…» (Testi 1931, p. 442).
Dall’analisi del suddetto testo possiamo desumere che la
famiglia napoletana dei Brancaccio, allora proprietaria delle
miniere, ne abbia concesso lo sfruttamento a Benvenuto
Portanova mediante il pagamento, per i primi due anni, di
mezza oncia di oro siciliano e, nel mese di agosto degli anni
successivi, di sette tarì d’oro.
Nell’anno 1415, epoca in cui le fonti diventano più dettagliate e abbondanti, l’attività giunse in dote al signor Jacopo
Sannazzaro: «..li territori dove se dice la bolla overo munti
de Agnano, consistenteno in de li dicti munti, rivi et paludi
aquosi, sulfe et de alume, vitrioli et altri territori de ipsi terre…» dalla moglie Ciccella de Anna (Feniello 2003, p. 157).
In merito a questo documento è interessante notare come
vi compaiano sia l’allume che il vetriolo; questo ci porta ragionevolmente a escludere che si tratti di uno di quei casi in
cui con il termine “allume” ci si riferisca più genericamente
ai sali vetriolici, ed evidenzia come all’epoca fossero evidentemente chiare le diverse origini e caratteristiche dei prodotti;
di conseguenza dovettero esistere anche diverse tipologie di
strutture produttive.
La prima descrizione dettagliata dell’allumiera di Agnano
risale al 1452 e fu redatta in occasione della visita sul sito di
Ladislao d’Ungheria e di Federico III d’Asburgo. All’epoca
l’industria appariva ampia e organizzata in due settori ben
distinti. Il primo, La Solfatara, che occupava il cratere dall’omonimo nome situato nel lato Ovest della conca di Agnano,
era adibita principalmente alla produzione dello zolfo: «…
furono stupiti di veder lo gran circuito di montagne sulfuree
e per ogni banda stare molte pagliare in mezzo delle quali
una grande pagliara. Nella grande pianura erano le fornaci
ove stavano molti huomini lavoranti, delle quali alcuni affinavano et altri raffinavano li zolfi notte e dì lavorando. Et
erano pieni di passo in passo li monti di barili et carratelli di
zulfi in cannoletti e raffinati…».
Il secondo settore era invece collocato all’interno del
cratere di Agnano, al quale si giungeva mediante una lunga
strada fatta costruire dallo stesso sovrano aragonese. Qui era
localizzata la vera e propria allumiera, così descritta: «… Da
mezzo quella montagna nasce una pietra la quale biancheggia
ed è tutta venata di rossa. E quella si taglia con artiglio di
picconi di ferro, zappe, magli qual è dura e quella si coce.
(…) Da mano a mano stanno molte carcare dove quelle pietre
s’abbruciano come calce e bagnate prima diventano polvere.
Quella polvere si pone dentro certi stagnati anzi conche, overo
caccavi di rame grandissimi, e tuti stanno locati dentro certri
magazeni a filara. Sono circa dieci per magazeni molto larghi,
tutti coverti d’embrici. Poi intorno detti magazeni vi sono
molte stanze e casamenti e molte poteche di ogni arte, ferrari,
carpentarii, pizzicaroli, taverne, molti forni di panettieri.
Perchè in tale officio sono di bisogno come dissimo haverno
trovati da 600, che a vedere pareva che si fusse una piccola
città…» (De Blasiis 1908, n. 3, p. XXXIII).
Dalla lettura della descrizione si deduce come la lavorazione fosse condotta a mano, mediante la creazione di trincee
armate con ponteggi di legno per impedire eventuali frane
sul fronte di cava. Il minerale veniva poi trasportato ai magazzini, verosimilmente realizzati in muratura e con il tetto
sorretto da travi lignee; questi locali dovevano essere grandi
sufficientemente per contenere al loro interno caldaie in rame
e dovevano essere circondati da pozzi per l’acqua, necessaria
per la fase di cristallizzazione dell’alunite (Picon 2005).
In prossimità dei depositi funzionali allo stoccaggio delle
casse contenenti il prodotto finito sorgevano gli alloggi
degli operai, le botteghe di fabbri e falegnami, i locali per
la conservazione degli alimenti ed alcune taverne, essenziali
ad allietare le gravose giornate di lavoro degli operai (fig. 3).
Dalla lettura del testo si ricava un ulteriore elemento di
particolare importanza, cioè la conferma dell’uso dell’alunite
come materia prima nella produzione dell’allume di Agnano:
la descrizione della fase di calcinazione delle pietre esclude
infatti l’ipotesi dell’uso delle concrezioni vulcaniche che, al
contrario, non richiedono questo passaggio tecnologico. La
rilevanza di questa informazione è data dal fatto che anticiperebbe, seppur di pochi anni, l’introduzione delle conoscenze
tecnologiche per la produzione dell’allume alunitico nella
penisola italiana, tradizionalmente datata all’anno 1462 (data
di apertura dell’allumiera papale di Tolfa). Tale elemento va
a consolidare l’ipotesi che queste nozioni circolassero già in
epoche precedenti, e che la metà del XV secolo costituisca
piuttosto un momento di particolare fioritura dell’iniziativa
di sfruttamento della materia prima, legato a vicende storiche
contingenti, che, a seguito della caduta di Costantinopoli, impedirono l’arrivo del prezioso sale dalle aree del Mediterraneo
orientale e dell’Asia minore (Ait 2010; Delumeau 1962;
Heyd 1913; Heers 1954, pp. 31-53).
Quest’allumiera fu probabilmente abbandonata in seguito
al forte terremoto del 1456, che danneggiò pesantemente le
strutture produttive, e fu ripristinata soltanto intorno alla
metà degli anni sessanta del Quattrocento (Scherillo 1976,
pp. 9-102).
Nel 1465 la gestione dell’attività mineraria fu concessa dal
re Ferdinando I d’Aragona al suo collaboratore Guglielmo
Lo Monaco, cui fu affidato il titolo di gubernator regie artigliare, il quale fece costruire una nuova industria dell’allume
(Feniello 1998, p. 78 n. 38).
Nell’accordo si prevedeva la costruzione di due nuovi
edifici: il primo, lungo venti canne e contenente sette caldaie
203
S. Fineschi
per la fase di lisciviazione; il secondo, delle medesime dimensioni, adibito invece allo stoccaggio del prodotto finito, che
a sua volta era contenuto in casse della capacità di circa 90
chilogrammi. Era inoltre previsto tutto il necessario per la
produzione, a partire dai “ferramenti”, alla legna, ai buoi e
bufali per il traino e per l’alimentazione dei lavoratori, sino
alla manodopera (130 operai circa). La quantità di prodotto
stabilita per anno avrebbe dovuto essere di circa 2400 cantare
(equivalenti a circa 2160 tonnellate).
Il contratto prevedeva alcune clausole di vendita importanti: il socio Lo Monaco infatti non poteva vendere l’allume
nel Regno, ma solo al di fuori dei suoi confini, tranne nel
caso in cui l’allumiera non ne avesse prodotto una quantità
sufficiente e, in ogni caso, al prezzo vantaggioso di 300
ducati al mese. D’altra parte, il re si riservava, in caso di
necessità, la possibilità di comprare da Guglielmo l’allume
al prezzo di favore di un ducato in meno per ogni cantaro.
La partecipazione del sovrano all’attività appare comunque
di rilievo minore rispetto a quella di Lo Monaco, e questo
probabilmente si deve ad una sua limitata capacità economica
(Feniello 2003, pp. 160-162).
Nel 1501 Giacomo Sannazzaro, la cui famiglia risulta proprietaria delle miniere sin dal 1415, si accordò con Agostino
Chigi, appaltatore per la Camera Apostolica dell’allumiera di
Tolfa, per l’utilizzazione del giacimento di Agnano: inizialmente il banchiere senese pose un tetto di 5000 cantare di
produzione annuale di allume, salvo poi preferire versare un
compenso annuo per mantenere chiusa l’attività (Barbieri
1940, pp. 56-58). Ecco un esempio di come motivazioni
di carattere politico-economico, in questo caso la logica di
monopolio esercitata dalla Santa Sede, possano essere alla
base di blocchi produttivi, anche in presenza di ottimi presupposti, quali abbondanza di materia prima e disponibilità
di conoscenze e competenze tecnologiche.
L’archeologia ad oggi purtroppo non ha individuato evidenze riconducibili con chiarezza alle strutture produttive;
ciò va attribuito essenzialmente alla mancanza di progetti ed
indagini in tal senso, ma non possiamo non considerare che
la continua trasformazione del paesaggio potrebbe aver compromesso irrimediabilmente la leggibilità di questi contesti.
di Sant’Anna (in particolare alcuni lingotti di piombo, pezzi
di galena, ghiande missili e frammenti metallici) induce a
pensare all’esistenza di una fonderia, databile alla tarda età
repubblicana (Corretti 1990, p. 5).
Le prime testimonianze di un’attività di produzione
dell’allume sono invece molto successive, e risalgono alla
seconda metà del XII secolo: in un atto notarile del 1271,
redatto per ribadire i diritti del Regio Demanio sull’attività produttiva, due ottantenni chiamati a testimoniare ne
attestano l’esistenza sin dalla loro infanzia, esattamente sin
dal 1191, sotto il regno di Enrico VI (Testi 1931, p. 442).
La controversia sulla proprietà della miniera è ribadita
anche in alcuni atti riportati nei Registri Angioini: l’11 novembre 1271 il principe vicario del Regno, in nome del re
Carlo I d’Angiò, ordina al maestro portolano Maggio Rosso
di Napoli di rivendicare alla Regia Curia un monte di Ischia
dove si fabbrica zolfo e allume, che in tempo antico fu del
demanio, occupato da tale Guido di Castronuovo (ibid., p.
142). Verso la fine dello stesso anno viene emesso un mandato a favore dei medici ischitani Giovanni di Casamicciola
e Simone Archidiacono, per una certa somma da pagare con
i proventi dell’allume del monte di Ischia; il 4 marzo 1273 il
re ordina che nessuno osi molestare il procuratore dell’entrate
sull’allume (Filangeri 2005).
Da un documento del 1301 risulta che nel 1299 il re
Alfonso IV di Aragona concesse lo sfruttamento delle miniere
di allume e zolfo al milite Pietro Salvacossa, valoroso soldato
di una famiglia feudale dell’isola; nell’atto della concessione
Ferdinando d’Aragona ricorda come suo padre Alfonso avesse
fatto installare in precedenza una grande allumiera: «…Sane
sermus dms Alfonsus Aragonum Utriusque Sicilie etc. Rex
dive ae celestis memorie pater noster colendissimus in insula
Iscle quamdam alumedam fieri instituisset in qua continue
aluminis magna conficitur quantitas que in curie utilitatem
et comodum reducitur…» (Del Gaizo 1984, p. 12).
Non siamo a conoscenza di nessuna notizia sul proseguimento della lavorazione nel XIV secolo; non possiamo dire
con certezza che la causa di questo silenzio sia l’abbandono
della produzione ma, ipotizzando tale eventualità, è verosimile attribuirne le cause all’eruzione del Cremate, uno dei
crateri del monte Epomeo 1.
Tra gli storici che hanno parlato del cataclisma vi è il
Pontano, naturalista del XVI secolo e autore del De bello
Napolitano, che nel resoconto dei fatti di guerra aggiunse
anche informazioni importanti riguardo alla materia prima
utilizzata per la produzione dell’allume. Egli scrive: «… già
cento e sessantatrè anni avanti, che fossero queste guerre,
apertasi improvvisamente la terra, ne venne dalle sue viscere
fuori tanta fiamma di fuoco, che buona parte dell’isola arse,
ed immersevisi dentro una villa: la quale apritura menando
ed aggirando per aere con fumo e polvere mescolata, sassi di
molta grandezza, addirittura dei liti di Cuma, rovinò l’isola
quasi tutta. E questi sassi essendo cotti nelle fornaci del detto
Perdice, dileguaronsi tutti in alume; e così egli di Siria rivocò
in Italia tutta quell’arte, la quale per molti secoli scorsi vi era
stata sepolta…» (Pontano 1590, 6, pp. 264-265).
3.2 Ischia (NA)
Anche la storia dell’allumiera ischitana s’inserisce in un
quadro di sfruttamento delle risorse molto antico, di cui
numerosi aspetti rimangono ancora da comprendere con
chiarezza.
L’insediamento umano sull’isola è documentato a partire dal VII secolo a.C., quando coloni euboici vi crearono
il primo emporio commerciale greco dell’occidente. Tra
le risorse che hanno sicuramente contrassegnato la storia
produttiva dell’isola sin dall’epoca romana, vi sono le acque
minerali e le abbondanti argille, sfruttate per la produzione
di vasellame. Lo scavo del quartiere metallurgico di Mazzola
ha inoltre permesso di documentare una multiforme attività
metallurgica, peraltro già testimoniata dalle fonti, durante
tutta l’età romana (Mureddu 1972, pp. 35-47). A questo
proposito è interessante il ritrovamento, in località Santa
Restituta, di una fornace da riduzione del ferro datata al V
sec. a.C., mentre una serie di rinvenimenti presso gli scogli
1
L’eruzione avvenne nell’anno 1301 e fu talmente violenta da provocare un
disastroso incendio e un momentaneo spopolamento dell’isola.
204
fig. 4 – Via dell’Allume. Veduta di un’area d’estrazione.
fig. 5 – Ischia Ins. Orthelius A., 1589, tratto da E. Mazzetti (a cura
di), Cartografia Generale del Mezzogiorno d’Italia, 1972. Vi possiamo
leggere l’indicazione toponomastica di Aluminis Fodina.
Dando per veritiere le parole del Pontano, dovremmo
pensare che l’attività di produzione dell’allume più antica
si avvalesse di una materia prima diversa, probabilmente
delle concrezioni saline di origine vulcanica (senza dubbio
reperibili nelle zone dell’isola interessate dalle manifestazioni
idrotermali), oppure che simili eventi vulcanici più antichi
possano aver provocato i medesimi effetti metamorfici descritti da Pontano. La descrizione contiene elementi di colore,
lontani dal poter essere considerati scientifici; tuttavia, la
menzione esplicita dell’allume in un contesto simile appare
degna di rilievo.
Un’ulteriore ipotesi plausibile sui motivi dell’abbandono
dell’allumiera è forse da ricercare nella perdita di redditività
dei giacimenti ischitani a causa delle importazioni dell’allume
prodotto nei paesi del Mediterraneo orientale, abbondanti
ed a basso costo. Sappiamo infatti che alla metà del Trecento
i giacimenti dell’area anatolica producevano non meno di
60.000 cantari di allume l’anno, in gran parte commerciati
con i paesi occidentali (Evans 1936, p. 369). La conquista nel
1453 di Costantinopoli e delle aree di produzione di allume
per mano turca avrebbe reso impossibile il proseguimento
dei commerci con l’Oriente e, conseguentemente, avrebbe
determinato un rinnovato interesse per i giacimenti italiani;
in ogni caso, la fase di cui ci stiamo occupando precede di
molto questi eventi.
È anche per questa ragione, tuttavia, che, nel 1458, si torna
a parlare di produzione d’allume nel Regno di Napoli. Come
già detto, il merito della “riscoperta” dell’allume napoletano
e ischitano è attribuito dal Pontano e, dalla bibliografia nota,
al navigatore e commerciante genovese Bartolomeo Pernice;
egli infatti, commerciando tessili con i paesi dell’Anatolia,
aveva avuto la possibilità di conoscere bene il minerale e il
suo processo di lavorazione.
Su questo punto sono necessarie alcune riflessioni.
Ricordando nuovamente la già citata relazione anonima (si
veda il precedente paragrafo), risulta chiaro come l’industria
fosse nel 1452 già in piena attività, tanto da apparire ai visitatori come «… una piccola città…». Sappiamo inoltre che
l’apertura dell’allumiera di Tolfa avvenne nel 1462 e, secondo
quanto afferma lo scopritore Giovanni da Castro, già si lavorava ad Ischia «… perchè Ischia ne produce pochissimo, e le
miniere di Lipari furono esaurite dai romani…» (Lesca 1978).
Unendo le due testimonianze, la data del 1458 apparirebbe
davvero tarda, aggiungendo anche che dal 1452 sarebbe stata
in funzione anche l’allumiera di Agnano.
La relazione smentisce evidentemente le asserzioni
del Pontano per quel che riguarda la data della scoperta
dell’allume di Ischia, e probabilmente anche l’attribuire
il merito della scoperta al Pernice. Secondo alcuni autori
quest’ultimo sarebbe stato addirittura erroneamente citato
a riguardo (Pipino 2009, pp. 18-35). Sappiamo inoltre, da
una concessione del 1451 integralmente pubblicata da Lisini,
che il Pernice in quel frangente, e per i successivi dieci anni,
fu impegnato sul territorio toscano nella ricerca di minerali
al Monte Argentario e in buona parte del territorio senese
(Lisini 1935).
Se su questo argomento vi sono dunque indizi contrastanti, sappiamo invece con certezza che la produzione delle
allumiere di Ischia e Agnano dovette impensierire proprietari
e appaltatori delle miniere di Tolfa a tal punto da proporre,
da parte di questi ultimi, un accordo apparentemente più
vantaggioso per la controparte napoletana. Esso fu concluso
con durata venticinquennale tra i commissari pontifici e il
mercante Aniello Pierozzi, rappresentante di re Ferrante, l’11
giugno 1470: con questo accordo si stabiliva che l’allume
fabbricato sarebbe stato esportato e venduto per conto della
società appena costituita. Tutte le spese, così come i ricavi,
sarebbero stati suddivisi a metà e il prezzo di vendita sarebbe
stato fissato dai soci; inoltre le transazioni potevano essere
effettuate esclusivamente da due commissari, l’uno del Papa,
l’altro del Re di Napoli (Feniello 2003, p. 162).
Vi erano però delle clausole restrittive al carattere collettivo dell’impresa: la prima stabiliva che se una determinata
quantità di allume fosse risultata scadente o non vendibile
per le cause più diverse, il danno economico sarebbe ricaduto
solo sulla parte responsabile. La seconda postilla stabiliva che
se uno dei due contraenti non avesse fornito la quantità di
prodotto stabilita, l’altro sarebbe potuto intervenire completando la mancanza e traendone il proporzionale guadagno.
Proprio quest’ultima clausola spiega cosa abbia potuto
spingere il Papa, oltre alla volontà di rinsaldare i rapporti con
Ferdinando I, ad accettare condizioni a lui così poco favore205
S. Fineschi
fig. 6 – A sinistra: caldaia da lisciviazione rinvenuta lungo la Via dell’Allume, Ischia. A destra: caldaia da lisciviazione localizzata presso l’Allumiera
di Monteleo (XV sec.).
voli: era chiaro che le cave napoletane non avrebbero potuto
competere con quelle di Tolfa che, al contrario, avrebbero
facilmente preso il sopravvento.
Gli indizi desumibili dai documenti appena citati, uniti
alla permanenza di alcuni toponimi nel territorio isolano,
permettono un primo tentativo di ricostruzione della topografia dell’industria (fig. 4). Esiste ancora oggi un sentiero
chiamato “via dell’Allume”, o “via dei Carri”, che attraversa
il Monte Cito (dove ancora oggi esiste un campo fumarolico)
fino ad arrivare alla località di Catreca (entrambi nel comune di Lacco Ameno). Il sentiero con probabilità collegava i
luoghi d’estrazione con quelli di produzione. Percorrendo
tale tragitto è possibile ad oggi vedere le tracce delle antiche
estrazioni e alcune evidenze archeologiche, fra le quali sono
riconoscibili anche strutture produttive (fig. 5).
Più in specifico, è stata individuata una caldaia da lisciviazione tecnologicamente assimilabile a quella rinvenuta sul sito
di Monteleo (quest’ultima datata alla fine del XV secolo). La
sostanziale mancanza di innovazioni tecnologiche rilevanti,
condizione che caratterizza questo processo produttivo, rende
purtroppo difficile proporre una datazione certa, la quale può
basarsi esclusivamente sulle dette analogie morfologiche. Tale
datazione potrà naturalmente essere confermata solo con
un’indagine archeologica più approfondita (fig. 6).
assoluta libertà nello stabilire i prezzi di vendita, poiché, oltre
ad un’ampia disponibilità, il loro minerale risultava anche di
ottima qualità (La Greca 2007, p. 14).
Secondo gli autori che si sono occupati di questo contesto estrattivo-produttivo, l’allume si sarebbe ricavato nella
contrada denominata “Pirrera” e da questa località veniva
poi trasportato presso la località di “Parmito”, dove sarebbe
avvenuta la trasformazione in prodotto finito (Iacolino
1980, pp. 39-43). Altri autori, fra cui lo Spallanzani, dubitano
invece che le cave fossero ubicate sull’isola e presuppongono
un approvvigionamento da Vulcano, che possedeva materia
prima in abbondanza, una disponibilità attestata anche nei
secoli successivi e proseguita sino alla fine del XVIII secolo
(Spallanzani 1788).
A livello archeologico non esisteva nessuna prova di questa
importante produzione sino alla identificazione, nel 1933,
delle anfore da allume. L’identificazione del contenuto di
queste anfore non si basa sull’analisi chimica, poiché l’allume
non lascia tracce durature, ma su alcune osservazioni: da
un lato la testimonianza da parte degli autori classici della
presenza del minerale nell’arcipelago eoliano, e in special
modo a Lipari; dall’altra, i luoghi di ritrovamento di questi
reperti. Le anfore in questione si trovano, infatti, in diversi
territori dell’impero romano, in contesti artigianali, laddove
effettivamente si richiede l’uso dell’allume.
La tipologia di anfora liparota copre un arco cronologico
di circa quattro secoli (seconda metà del I secolo a.C.-inizio
IV secolo d.C.) e si suddivide in quattro tipologie denominate
“Lipari 1”, “1b”, “2a”, “2b” (Borgard 2005, pp. 159-160;
Cavalier 1994, pp. 189-196).
A conferma di quanto detto vi è anche il ritrovamento di
un’iscrizione marmorea, rinvenuta nella necropoli romana
di Lipari, dedicata al procurator Cornelius Masutus Tiberii
Caesaris Augusti et Iuliae Augustae; la sua presenza sull’isola
sembra difficilmente giustificabile con l’amministrazione di
un piccolo latifondo imperiale agricolo (metà dell’isola era
difatti non coltivabile). Più verosimilmente egli si trovava lì
per amministrare i giacimenti di allume, dei quali i romani
detenevano il monopolio (De Majo 2007, pp. 72-73). A
tal proposito è interessante notare come il termine econo-
4. LE ALLUMIERE DELLA SICILIA
4.1 Lipari (ME)
Nel caso delle Isole Eolie, e di Lipari in particolare, dobbiamo precisare che i termini “allume” ed “allume nativo” si
riferiscono al medesimo prodotto. Più esattamente parliamo
di un minerale che si presenta sotto forma di cristallizzazioni
e che, in seguito ad una semplice bollitura, necessaria all’eliminazione di eventuali impurità, diviene prodotto finito.
Lipari riveste storicamente un ruolo di primo piano nella
produzione dell’allume sin dall’Antichità; la sua origine vulcanica è evidente nei numerosi prodotti la cui esportazione è
nota sin da epoche remotissime: ossidiana, pomice e allume.
Per quanto riguarda il commercio dell’allume, i liparesi
avevano creato un vero e proprio monopolio e quindi una
206
LA PRODUZIONE DI ALLUME NELL’ITALIA MERIDIONALE. I CASI DI AGNANO – ISCHIA (NA) E LIPARI-ROCCALUMERA (ME)
mico-finanziario greco monopolion sia attestato per la prima
volta proprio con riferimento ai prezzi imposti dai Liparesi
a questo prezioso prodotto (Panessa 2003, p. 992).
Sappiamo inoltre che nell’VIII secolo d.C. i giacimenti di
allume nativo si erano oramai esauriti, a causa probabilmente
di una forte eruzione vulcanica, e che questo evento potrebbe
aver obbligato alla ricerca di nuove località di approvvigionamento (Cavalier 1994, pp. 189-196).
Purtroppo al momento mancano testimonianze archeologiche di tale attività produttiva, ed è ad oggi nota soltanto
una galleria di estrazione localizzata sull’isola di Vulcano,
detta “Grotta dell’allume”. Qui, malgrado il pessimo stato di
conservazione legato agli attacchi chimici dei fluidi vulcanici,
sono visibili i segni delle lavorazioni di epoca moderna. È
naturalmente possibile che tale giacimento sia stato sfruttato
anche anticamente, forse contemporaneamente all’allumiera
di epoca romana liparese, ma al momento non abbiamo
certezze. Nel caso di uno sfruttamento, antico sembra altamente verosimile pensare che, come detto precedentemente,
i giacimenti di Vulcano fossero compresi tra i bacini di approvvigionamento dell’allumiera romana di Lipari, dove forse
erano localizzati il centro direzionale e le strutture produttive.
Nei primi anni del XVI secolo le miniere furono concesse
ai fiorentini Rainaldi Strozzi e Leonardo Tedaldi. Questi
ultimi, coadiuvati da circa sessanta tecnici, si stabilirono nei
pressi delle miniere e realizzarono le prime abitazioni del
quartiere di San Michele, il più antico nucleo della futura
cittadina di Roccalumera (Romeo 2009).
Allo scadere della concessione la Regia Corte volle
gettarsi in prima persona nell’impresa e, con il tramite del
comendador mayor de Leon, incaricò lo studioso Giovanni
Gallego di presentare una dettagliata relazione sull’attività
mineraria e commerciale dell’allume: «… la miniera dell’allume, che si trova a 18 miglia da Messina e ad un miglio
dalla marina, è situata in alto, in una montagnola… (…).
Il filone dell’allume è costituito da terra che non è tanto
buona; al contrario di quello, formato di pietra, che si
trova nelle miniere di Mazzaronne e Civitavecchia… (…)
La materia con la quale si fà l’allume è una certa vena di
terra che si trova nella montagna. Una volta presa, la terra
deve stare al coperto; infatti viene deposta in alcuni locali
arieggiati, nei quali, da ogni lato, deve soffiare il vento;
tuttavia essa non si deve bagnare, perchè nel caso in cui si
bagnasse non servirebbe più per fare allume. Questa terra,
prima che si faccia l’allume, deve stare depositata sei mesi,
ma, se stesse di più, sarebbe meglio, perchè renderebbe di
più..» (Cascio 1995, pp. 66-67).
Questi stralci di descrizione lasciano intendere che non
fosse utilizzata l’alunite per produrre l’allume, bensì un minerale che, seppur depositato in vene sotterranee, presentava
la stessa consistenza della terra. Tale materia prima appartiene
con probabilità al gruppo degli scisti piritici, ovvero rocce
sedimentarie ricche in alluminio e zolfo, usate in numerose
allumiere d’Europa (Picon 2005, pp. 27-30).
La descrizione del processo produttivo e degli impianti
necessari alla produzione dell’allume conferma quanto sostenuto: «… questa miniera di allume dispone di 12 caldaie
piccole, da ciascuna delle quali si ricavano due quintali e
mezzo d’allume, poco più o poco meno, ogni volta, di modo
che tutte raggiungano la somma di 30 o 36 quintali, il che
è meno della metà di quanto una sola caldaia suol dare in
altre miniere. Le dodici caldaie già dette sono di pietra e sono
scavate in una roccia, e sotto di esse si trovano i loro forni fatti
con artificio alla stessa maniera; il fondo delle dette caldaie è
di piombo, perché essendo in pietra non si ammette che siano
di altro metallo. (…) In aggiunta alle caldaie costruite nella
roccia vi sono altre vasche, dove, dopo essere stata riscaldata,
l’acqua viene versata perché si coaguli e diventi allume. La
materia con la quale si fa allume è una certa vena di terra che
si trova sulla montagna. Una volta presa la terra deve stare al
coperto; infatti viene deposta in alcuni locali arieggiati, nei
quali, da ogni lato, deve soffiare il vento; tuttavia essa non si
deve bagnare, perché nel caso in cui si bagnasse non servirebbe
più a fare allume…» (Cascio 1995, p. 63).
Dagli scisti piritici era possibile ottenere anche il vetriolo,
mediante un processo produttivo simile a quello richiesto
per l’allume, sfruttando i medesimi impianti produttivi. La
documentazione ci fornisce chiara testimonianza del fatto
che venissero prodotti entrambi i sali, riferendoci i rispettivi
prezzi di vendita: nel 1545, quando l’impresa era sotto diretto
controllo del capitano Ferdinando Gonzaga, un cantaro di
4.2 Roccalumera (ME)
Nonostante manchino al momento sufficienti conoscenze
bibliografiche e archeologiche, tanto che gli unici contributi
disponibili al riguardo sono frutto del lavoro di studiosi locali, si ritiene comunque utile dare un breve accenno della
ricchezza delle evidenze archeologiche ancora riconoscibili
nell’attuale abitato di Roccalumera.
Sul fronte roccioso che domina il paese si riconoscono
ingressi di miniera, vari antri di piccole dimensioni scavati
nella pietra locale e forse utilizzati come luoghi di stoccaggio,
e resti murari antichi, inglobati in costruzioni più moderne, di
cui è difficile riconoscere le originali funzioni ma da attribuire
probabilmente all’attività produttiva. I resti sono certamente
riferibili a un orizzonte cronologico pre-industriale; una datazione più sicura degli stessi è tuttavia complessa, anche se
alcuni indizi di carattere documentario possono far supporre
che l’origine dello sfruttamento in quest’area risalga alla fine
del XIV secolo.
A tal proposito particolarmente indicativo appare un
documento datato 18 aprile 1402, dal quale si deduce che
nell’area prossima al Monte Scuderi, e più precisamente in
Fiumendisi e in Alì, vi fossero giacimenti di allume, argento,
ferro, rame e zolfo. Il documento riporta l’autorizzazione concessa dal re Martino a tali Bertu Billuni di Messina, Filippo
Aczano di Pizolo ed Andrea Carlino di Napoli, per poter «…
chircari et operari in li predetti mineri tutto chillu che ad ipsi
sirra possibili tantum di alumi quanto di argentu, di rami,
di sulfaru, di ferru, di pulviri di gamillu, quanto eciam di
omni altru mitallu terra et petra ki pozuno trovari in tutti li
territorii di li loki preditti et in la dicta muntagna di munti
Scueri exceptu minera di auro…» (Cascio 1995, p. 55).
Agli inizi del ’500 l’allumiera era certamente in attività: la
Regia Corte aragonese concesse infatti a Francesco De Fide
il diritto di sfruttarne le risorse. L’accordo prevedeva che il
concessionario versasse a titolo di pagamento la decima parte
del denaro guadagnato (ibid.).
207
S. Fineschi
allume costava cinque scudi, mentre il vetriolo tre scudi
soltanto (Cascio 1995, p. 63).
Quanto detto sopra porta ragionevolmente ad escludere
l’ipotesi di essere in presenza di uno di quei casi di confusione terminologica per cui si tendeva a denominare “allume”
qualsiasi prodotto salino con potere mordenzante.
Un auspicabile approfondito studio di questo contesto
potrebbe sicuramente giovarsi delle evidenze archeologiche
ancora sopravvissute nel paese di Roccalumera e nei suoi
dintorni.
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English abstract
In this contribution we will present a project of historical-bibliographic review of the archaeological data related to
some of the most representative areas of alum production in
the Italian Peninsula (in southern Italy Agnano and Ischia for
Campania and Lipari and Roccalumera for Sicily), attested
in a chronological span from Antiquity to the Modern Age.
The project was created in parallel with the archaeological
survey conducted on the site of the Allumiera di Monteleo
(Monterotondo Marittimo, Grosseto), the only production
site linked to artificial-alum production that has been archaeologically investigated to date in the European panorama,
for the Late Medieval and Modern Era.
Although partly ignored by historical-archaeological
research, the Agnano and Ischia productions as well as the
Lipari and Roccalumera ones should not be considered as
episodes of secondary importance in order to reconstruct a
general picture of alum production in the Italian Peninsula.
In fact, the available documentation offers us numerous
clues regarding an exploitation of alunite that can be traced
back to a period prior to that traditionally indicated by the
sources, that referes to the Modern Age.
208
Alum is an extremely versatile and precious raw material, used since
classical times in alchemy, pharmacy, leather tanning and in various fields
of metallurgy. Since the Middle Ages, the best known use of alum obtained
from the processing of alunite has been linked to dyeing; it is in fact an
excellent mordant, and even today, artisan dyestuffs make extensive use
of it. Despite the importance that the study of this raw material has for the
history of technology and more in general, for material culture, archaeology
to date has dealt little with the production of alum, particularly for the
medieval and modern era. In recent years, however, new archaeological
research conducted by the universities of Roma-La Sapienza and Siena on
two important production areas in central Italy (the Colline Metallifere district
in southern Tuscany and the Tolfa mountains in upper Latium), has made
it possible to acquire important data, which call for a renewed dialogue
between historical disciplines. The topic is also fully in line with the research
promoted by the ERC Advanced project nEUMed: Origins of a new economic
union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies
in a Mediterranean region, thanks to which since 2015 the coastal valleys
and inland areas of Colline Metallifere have experienced an intense season
of multidisciplinary investigations. The comparison between these study
contexts and the main supply areas of the Mediterranean basin (southern
Italy, Turkey, Greece, Spain) allows to draw a first balance of the research,
and to identify common investigation paths and methodologies to deepen
production methods, trade networks, strategies of resource control between
the Middle Ages and the Modern Era.
€ 42,00
BAM-29
ISSN 2035-5319
ISBN 978-88-7814-989-2
e-ISBN 978-88-7814-990-8
I paesaggi dell’allume
Alum landscapes
L’allume è una materia prima estremamente versatile e preziosa, utilizzata
sin da epoca classica in alchimia, farmacia, nella concia del pellame ed
in vari campi della metallurgia. Dal Medioevo l’utilizzo certamente più
conosciuto dell’allume ottenuto dalla lavorazione dell’alunite è legato
alla tintoria; esso è infatti un ottimo mordente, ed ancor oggi le tinture
artigianali ne fanno largo uso. Malgrado il rilievo che lo studio di questa
materia prima riveste dal punto di vista della storia della tecnologia e più
in generale della cultura materiale, l’archeologia ad oggi si è occupata
poco di produzione d’allume, in particolare per l’epoca medievale e
moderna. Negli ultimi anni tuttavia la realizzazione di nuove ricerche
archeologiche condotte dalle università di Roma-La Sapienza e Siena su
due importanti aree di produzione dell’Italia centrale, la Toscana centro
meridionale (il territorio delle Colline Metallifere) e l’alto Lazio (i monti
della Tolfa), ha permesso di acquisire dati importanti, che sollecitano un
rinnovato dialogo fra discipline storiche. L’argomento si inserisce inoltre
pienamente nelle linee di ricerca promosse dal progetto ERC Advanced
nEUMed: Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources,
landscapes and political strategies in a Mediterranean region, grazie al quale
dal 2015 le valli costiere e le aree interne delle Colline Metallifere hanno
conosciuto una intensa stagione di indagini multidisciplinari. Il confronto
fra questi contesti di studio e le principali aree di approvvigionamento
del bacino del Mediterraneo (Italia meridionale, Turchia, Grecia, Spagna)
consente di tracciare un primo bilancio della ricerca, e di individuare
percorsi e metodologie d’indagine comuni per approfondire metodi di
produzione, reti di commercio, dinamiche di controllo della risorsa fra
Medioevo ed Età Moderna.
edited by Luisa Dallai,
Giovanna Bianchi, Francesca Romana Stasolla
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