IO ME MI
UN’EDUCAZIONE A PIÙ PROSPETTIVE SUL SÉ
(COME SOGGETTO IN APPRENDIMENTO)
I.P.S.C.
“Albe
Steiner”
di
Torino
a.s.
2010/2011
SOMMARIO
UNA
PREMESSA
DESCRITTIVA
E
UN
PROBLEMA .............................................................................................................................. 2
PRONOMI
PERSONALI:
L'APPRENDIMENTO
DEL
CONTESTO ......................................................................................................... 3
L’IMMAGINE
DI
SÉ:
EMOZIONARE
TRA
MMAGINI
E
PAROLE .......................................................................................................... 4
1.
Le
tappe
del
progetto ...................................................................................................................................................... 5
2.
I
«prodotti
finiti» ............................................................................................................................................................... 7
LA
PERSONAL
TAG.................................................................................................................................................................. 7
LE
STORIE:
RISVEGLIO,
APRIRE
GLI
OCCHI
AL
MONDO ....................................................................................................11
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Le
7:00.
Apro
gli
occhi,
boccheggio
cercando
di
svegliarmi……………………………………………………
11
Bah!
Comincio
a
sognare………………………………………………………………………………………………………
11
Sono
le
sette,
è
ora
di
alzarsi…………………………………………………………………………………………………
11
Quella
notte
ho
fatto
un
sogno………………………………………………………………………………………………
12
Sta
per
suonare.
Eccola
è
suonata…………………………………………………………………………………………
12
Aaaaaha!!!
Mi
sveglio
di
scatto……………………………………………………………………………………………..
12
Lo
sento…
sì,
lo
sento,
sta
per
suonare…………………………………………………………………………………..
13
Sono
le
6:50,
suona
la
sveglia………………………………………………………………………………………………..
13
Al
mattino
apro
gli
occhi
e
sono
come
un
giocatore
di
Rugby………………………………………………...
13
Eccolo
è
lui,
quel
rumore
stridulo………………………………………………………………………………………….
14
5:00,
prima
sveglia……………………………………………………………………………………………………………….
14
Al
mattino
quando
mi
suona
la
sveglia…………………………………………………………………………………
14
Il
suono
penetrante
della
sveglia
è
cominciato……………………………………………………………………...
15
Apro
gli
occhi;
ora
5:30………………………………………………………………………………………………………...
15
Questa
mattina,
vado
a
scuola?...............................................................................................................................
15
Qualcosa
mi
sta
scuotendo
ma
non
voglio
svegliarmi…………………………………………………………....
16
Stanco
come
fossi
stanco
di
dormire……………………………………………………………………………………...16
Ogni
mattina,
la
prima
cosa
che
penso………………………………………………………………………………….
16
Mi
sono
alzato,
mamma
mia
ho
ancora
sonno………………………………………………………………………
17
Allora
per
domani….………………………………………………………………………………………………………….....
17
IL
MANIFESTO
«IO,
ME,
MI
–
IN
&
OUT» .........................................................................................................................18
•
Un
esempio
di
progettazione………………………………………………………………………………………………..
19
IL
PROGETTO
«NOI
SIAMO…»..............................................................................................................................................19
•
•
•
Le
interviste
autobiografiche
in
forma
di
storia…………………………………………………………………...
20
Le
narrazione
autobiografiche…………………………………………………………………………………………….
22
Dal
video
NOI
SIAMO…
TUTTE
LE
LINGUE
DEL
MONDO
(alcuni
fotogrammi)…………………………………..
25
A
ESPERIENZA
CONCLUSA:
ESITI
CONDIVISI...................................................................................................................................26
Bibiografia
citata............................................................................................................................................................................31
Opere
sulla
metodologia
della
ricerca-‐azione
in
ambito
scolastico ...............................................................31
1
IO ME MI
UN’EDUCAZIONE A PIÙ PROSPETTIVE SUL SÉ
(COME SOGGETTO IN APPRENDIMENTO)
Cosa
sappiamo
dell'esperienza
dell’apprendere?
E,
soprattutto,
cosa
del
soggetto
che
apprende?
È
la
do-‐
manda
al
centro
del
progetto
di
ricerca
in
una
classe
di
prima
a
indirizzo
commerciale
per
operatori
di
grafica
pubblicitaria.
Le
discipline
direttamente
coinvolte
sono
state:
Lingua
e
letteratura
italiana
(4
ore
sett.),
Tecniche
professionali:
Disegno
Grafico
(5
ore
sett.)
e
Fotografia
(2
ore
sett.
in
compresenza).
Anche
gli
insegnanti
di
Lin-‐
gua
francese,
di
Matematica
e
di
Sostegno
del
Consiglio
di
classe
hanno
partecipato
al
progetto.
UNA
PREMESSA
DESCRITTIVA
E
UN
PROBLEMA
Che
a
scuola
si
venga
«per
apprendere»,
per
i
nostri
giovani,
in
ingresso,
non
è
cosa
così
scontata.
Anzi,
la
loro
resistenza
a
vivere
una
relazione
significativa
con
l’esperienza
dell’apprendimento
e
il
proprio
ruolo
di
studente
è
di
un’evidenza
tale,
incorporata,
così
com’è,
in
espressioni
di
noia,
apatia
e
indifferenza
e
di
disaffezione
alla
di-‐
sciplina
scolastica,
da
equivalere
ormai
a
una
diffusa
forma
di
disagio.
Più
spesso,
al
di
là
dello
stillicidio
quoti-‐
diano
di
assenze
e
ritardi,
questa
loro
fragilità
si
esprime
in
un’aula
scolastica
in
forme
comunicative,
caotiche,
insistite
e
quasi
compulsive,
dalla
«battuta»
alla
chiacchiera
permanente.
Per
accorgersene,
basta
entrare
in
una
qualunque
aula
del
biennio,
in
un
qualunque
periodo
dell’anno
scolastico.
È
un'osservazione
ricorrente
di
tutti
gli
insegnanti.
Ecco
cosa
succede.
Un
insegnante
entra
in
un'aula
-‐
è
l’inizio
di
un'ora
di
lezione
-‐
e
nessuno
degli
studenti
presenti
(non
tutti
presenti,
magari
qualcuno
è
ancora
at-‐
tardato
fuori)
sembra
accorgersene.
Chi
in
piedi,
chi
seduto
al
banco,
chi
sul
banco,
schiena
alla
cattedra,
tutti
fra
i
banchi
sembrano
impegnati
in
frenetiche
conversazioni,
contatti
fisici,
manipolazioni
di
cellulari
o
altre
tecno-‐
logie
digitali.
Nessuno
sembra
avvertire
la
presenza
dell'insegnante.
E
se
non
è
così,
nessuno
accenna
ad
avviare
un
contatto,
a
disporsi
in
una
relazione
di
ascolto,
nessuno,
ma
proprio
nessuno
lo
"ca…lcola".
È
una
costatazione
quotidiana.
E
la
cosa
non
finisce
lì.
La
stessa
frenesia
per
la
parola,
orale
o
elettronica,
per
la
battuta,
può
insorgere
all'improvviso,
un
po'
più
nascosta
o
mimetizzata,
durante
la
lezione.
È
un
sintomo
evidente
di
una
crisi
d’autorità,
di
una
crisi
della
relazione
tra
insegnante
e
studente,
tra
l'adulto
e
un
giovane.
A
scuola,
quella
relazione
è
come
bloccata.
Un
insegnante,
e
cioè
un
adulto
alle
prese
con
adolescenti,
vive
una
situazione
incerta,
in
bilico
tra
la
necessità
di
stabilire
una
relazione
più
ravvicinata
e,
al
tempo
stesso,
la
perdita
di
riconoscimento
del
ruolo
sociale
che
esercita.
Un
ruolo
che,
per
un
adolescente,
non
suscita
più
alcun
rispetto,
obbedienza
o
timore
reverenziale.
Esito
ancora
possibile
da
ottenere.
Basta
il
ricorso
alla
punizione,
o,
anche
solo,
alla
sua
minaccia,
e
una
buona
dose
di
freddezza.
Ma,
in
questo
caso,
sotto
minaccia,
l'adolescente
sembra
sottrarsi
a
una
qualche
relazione
significa-‐
tiva.
Appunto,
è
una
situazione
bloccata.
Non
si
tratta
di
cosa
è
preferibile.
Se
sia
meglio
il
ricorso
all'autorità,
ispirata
al
rigore
e
alla
disciplina,
o
se
sia
meglio
l'uso
della
permissività.
Il
problema
è
come
ottenere
che
in
un’aula
scolastica
un
adolescente
ci
sia
dav-‐
vero,
e
insieme
agli
altri.
Ma
la
richiesta
di
«esserci
davvero»,
di
essere
in
un
contatto
autentico,
è
una
faccenda
complicata.
Qualcosa
che
accade
nel
qui
e
ora,
oggetto
di
un’incessante
trattativa.
Mai
che
si
riesca
a
dare
per
scontato
un
senso
condiviso
a
quello
stare
in
un’aula
scolastica.
Non
è
un’impresa
facile.
E
in
ogni
caso,
anche
quando
un
insegnante
ottiene
da
un
adolescente
il
rispetto
e
la
confidenza,
o,
ancor
più,
la
generosa
disponibilità
a
mettersi
in
gioco,
a
motivarsi
nell’accrescere
le
proprie
capa-‐
cità
espressive
e
creative,
be',
sorpresa...
gli
può
sempre
capitare
di
sentirsi
dire:
-‐
Quale
compito,
prof?
Ah,
me
ne
sono
dimenticato.
Un
bel
pasticcio.
E
non
finisce
qui.
Come
sbloccare
quella
relazione,
allora?
Per
una
relazione
che
sia
importante,
significativa.
Insomma,
non
va
da
sé
che
l’aula
possa
qualificarsi
come
un
«contesto»
o
un
«ambiente
educativo»
di
apprendimento,
e
non
solo
come
un
«luogo
di
socializzazione».
Non
è
così
scontato
che
cosa
significa
apprendere
a
scuola.
O,
forse,
è
proprio
ciò
che
c’è
di
ovvio
in
questa
espressione
che
non
funziona.
In
genere,
il
termine
di
riferimento,
condiviso
da
insegnanti
e
studenti,
per
desi-‐
gnare
quest’esperienza
è
l’acquisizione
di
un
fondo
(«bagaglio»)
di
cultura
(conoscenze,
abilità
o
competenze),
che
appartiene
a
uno
standard
sociale
di
funzionamento
della
capacità
cognitiva.
Ma
questa
competenza
com-‐
plessiva
non
è
già
un
punto
di
partenza
con
cui
funziona
la
testa
del
soggetto
che
apprende.
Appunto,
è
qualcosa
che,
a
sua
volta,
richiede
di
essere
appreso.
Si
tratta
certo
di
andare
nella
direzione,
suggerita
da
Edgar
Morin,
di
un
passaggio
da
«una
testa
ben
piena»
a
2
una
«testa
ben
fatta»1,
ma
forse
a
questa
direzione
occorre
fornire
un
processo
di
integrazione
con
l'espressione
della
vita
soggettiva
dei
giovani.
Questo
riferimento
alla
soggettività
deve
poter
entrare
a
far
parte
di
una
costru-‐
zione
progettuale
del
processo
educativo2.
È,
infatti,
indiscutibile
che
la
capacità
di
apprendere
faccia
riferimento
a
un
processo,
a
una
dinamica
di
cam-‐
biamento,
in
un
soggetto
che
in
genere,
a
scuola,
è
giovane.
La
costruzione
di
tale
processo
educativo,
che
equi-‐
vale
a
«farsi
carico»
o
a
«prendersi
cura»
del
soggetto
che
apprende,
ci
obbliga
alla
prospettiva
di
guardare
cioè
al
suo
potenziale
di
apprendimento,
alla
sua
capacità
di
apprendere
come
premessa
stessa
su
cui
ogni
educa-‐
zione
si
basa:
L’educazione
è
possibile
soltanto
là
dove
può
essere
presupposta
la
capacità
di
apprendere.
La
formula
di
contingenza
[la
capacità
di
apprendere]
esprime
il
processo
educativo
come
possibilità
di
incremento
della
propria
premessa,
come
auto-‐incremento.
La
capacità
di
apprendere
non
è
qui,
quindi,
soltanto
l”output”,
non
è
soltanto
quella
prestazione
da
re-‐
alizzare
alla
fine,
ma
la
premessa
di
funzionamento
[del
processo
educativo]
che
si
sviluppa
facendo
permanentemente
ri-‐
corso
ad
essa3.
Si
tratta
quindi
di
guardare
alla
capacità
di
apprendere,
alla
possibilità
di
promuovere
l’apprendimento,
come
alla
funzione
sociale
speciale
del
sistema
scolastico
stesso,
come
a
ciò
in
cui
consiste
la
sua
funzione
educativa.
Una
funzione
che
«non
è
un
presente
di
là
da
venire,
ma
un
futuro
di
volta
in
volta
presente»4,
che
è
la
stessa
relazione
educativa,
in
cui
«l’apprendimento
apprende
sé
stesso»5,
riceve
così
una
direzione:
a
partire
cioè
dalla
situazione
di
vita
del
soggetto,
e
in
vista
del
suo
progetto
esistenziale
(personale)
di
vita
–
e
qui
sta
tutto
il
senso
del
progetto
“IO,
ME
,
MI”.
E
non
è
poco.
La
relazione
tra
la
potenzialità
di
apprendere
e
la
sua
trasformazione
in
un
apprendere
a
poter
fare
(compe-‐
tenze)
non
è
qualcosa
che
va
da
sé,
secondo
un’espressione
lineare
della
relazione
educativa.
Richiede
‘cura’,
ap-‐
punto,
ed
è
in
base
a
questa
fondamentale
relazione
che
la
funzione
educativa
si
definisce.
La
questione
che
si
presenta
in
fondo
è
semplice:
a
quali
condizioni,
entro
quale
contesto
educativo,
non
al-‐
trimenti
dato
che
come
progetto,
è
possibile
apprendere?
L’attività
di
ricerca,
e
di
intervento
didattico,
si
è
dunque
sviluppata
attraverso
una
premessa
metodologica
di
base:
partire
dalla
situazione
dei
ragazzi
e
delle
ragazze,
«dalle
loro
premesse
ed
esperienze,
dai
loro
interessi,
come
pure
dalle
difficoltà
e
dai
bisogni
che
hanno,
nell’ambito
dei
loro
contesti
di
socializzazione
e
tenendo
conto
delle
loro
scale
di
valori,
vale
a
dire
in
ciò
che
i
giovani
considerano
importante
per
sé
stessi»6;
insomma,
un
significativo
mutamento
di
prospettiva
nel
realizzare
la
relazione
educativa.
E
ciò
nella
convinzione
che
lo
svi-‐
luppo
di
un’educazione
alla
cittadinanza
attiva
richieda
proprio
un
mutamento
di
ruolo
dei
partecipanti
nella
costruzione
del
processo
educativo,
nel
superamento
di
quella
passività
“da
studente”
conforme
alla
richiesta
di
una
modalità
passiva
di
apprendimento,
e
sufficientemente
diffusa
nella
pratica
educativa
tradizionale.
PRONOMI
PERSONALI:
L'APPRENDIMENTO
DEL
CONTESTO
Per
apprendere,
anche
in
un’aula
scolastica,
c’è
bisogno
degli
altri.
Trasformare
l’apprendimento
in
un
pro-‐
cesso
interattivo
e,
nel
suo
decorso
temporale,
circolare
comporta
una
messa
in
pratica
di
un
sistema
aperto
di
relazioni,
un
processo
comunicativo
capace
di
dare
senso
alla
realtà
che
insieme
si
contribuisce
a
creare.
Come
immaginare
questa
circolarità
comunicativa?
Il
nostro
progetto
propone
come
modello
di
intreccio
co-‐
municativo
il
comune
uso
delle
forme
pronominali
di
persona,
semplici
strumenti
linguistici
e
concettuali
con
cui
normalmente
si
apprende
ad
assimilare
e
a
padroneggiare
la
comunicazione.
La
loro
funzione
non
serve
a
espri-‐
mere
delle
entità
sostanziali
e
fisse,
quanto
piuttosto
la
posizione
relativa
di
ciascuno
individuo
rispetto
a
un
re-‐
ticolo
di
relazioni,
a
un
contesto
di
riferimento,
la
cui
espressione
come
vita
sociale,
e
quindi
della
sua
stessa
qualità,
si
realizza
per
mezzo
e
attraverso
l’apprendimento
di
questa
«messa
in
relazione»
di
ciascuno
degli
indi-‐
vidui
che
vi
partecipano7.
Il
sistema
dei
pronomi
personali
può
essere
quindi
assunto
come
modello
di
costru-‐
zione
riflessiva
dell'attività
con
cui
si
apprende
un
contesto,
a
viverlo
e
a
comprenderlo.
Il
titolo
del
progetto,
centrato
sulla
prima
persona
pronominale,
propone
un
gioco
di
prospettive
multiple
con
cui
ognuno
fa
riferimento
a
sé
stesso,
in
cui
dire
«io»
per
collocarsi
come
soggetto
di
un
discorso
rivolto
ad
altri,
dire
«me»
per
cogliersi
come
oggetto
di
un
discorso,
e
infine
dire
«mi»
nel
posizionarsi
come
termine
di
una
rela-‐
zione.
L'esperienza
della
propria
identità
in
un’aula
scolastica
non
si
sottrae
a
questa
condizione
di
reciprocità
funzionale,
di
comprendere
sé
stessi
come
esperienza
di
vedere
sé
stessi
e
di
essere
visto
in
relazione
alle
attese
1
E.
Morin,
La
testa
ben
fatta.
Riforma
dell'insegnamento
e
riforma
del
pensiero,
Raffaello
Cortina,
Milano,
2000.
2
R.
Tomba,
Ci
facciamo
una
storia?,
Bollati
Boringhieri,
Torino,
2003.
3
N.
Luhmann,
K-‐E.
Schorr,
Il
sistema
educativo.
Problemi
di
riflessività,
Armando,
Roma,
1998,
p.
96-‐97.
4
N.
Luhmann,
K-‐E.
Schorr,
Op.
cit.,
p.
97.
Ibidem
6
W.
Klafki,
La
comprensione
pedagogica,
in
(a
cura
di
Olga
Bombardelli),
Problemi
dell’educazione
alle
soglie
del
Duemila,
Trento,
1995.
7
Per
questa
problematica
in
chiave
più
ampiamente
sociologica
cfr.
N.
Elias,
La
società
degli
individui,
Il
Mulino,
Bologna
1990.
5
3
degli
altri.
Un
sistema
aperto
dunque
al
cambiamento,
a
una
dinamica
che
è
poi
criterio
di
misura
dell'apprendere,
pro-‐
dotto
dal
suo
stesso
intreccio.
È
un'esperienza
che
si
esercita
a
partire
dalla
percezione
di
sé,
e
quindi
delle
pro-‐
prie
possibilità
e
dei
propri
limiti,
come
una
costruzione
interattiva;
insomma,
non
è
altro
che
l’applicazione
di
quella
verità
semplice
per
cui
ogni
individuo
prova
la
sua
identità
soltanto
e
attraverso
il
rapporto
con
l'altro,
rapporto
le
cui
regole
di
costruzione
preesistono
sempre
all'individuo,
e
che
trovano,
ad
esempio,
espressione
proprio
nel
sistema
della
lingua
stessa.
Ma
quel
che
è
più
interessante
è
che
questo
modello
offre
la
possibilità
di
comprendere
un
contesto
–
e
ciò
vale
in
modo
speciale
per
l'aula
scolastica
–
nei
termini
di
una
struttura
di
posizioni
relative,
di
un
sistema
di
rapporti
mobile
e
mutevole.
È
rivelatore
del
modo
in
cui
si
partecipa,
si
viene
a
far
parte
di
un
ambiente
che
prende
vita
attraverso
l'attività
comunicativa
in
cui
si
esprime
la
stessa
«appartenenza».
A
ben
vedere,
ciò
significa
considerare
che
la
richiesta
scolastica
di
apprendere,
riguarda
sì
lo
sviluppo
di
fondamentali
risorse
cognitive,
ma
che
in
definitiva
queste
rappresentano
un
ordine
di
realtà
che
non
sta
sullo
stesso
piano
della
materia
di
cui
è
fatta
la
mente
-‐
«dentro
la
testa».
La
capacità
cognitiva
è
invece
sempre
espres-
sione
di
un
fondamentale
orientamento
dell'individuo:
riguardano
il
processo
d'integrazione
sociale
di
sé,
della
propria
personalità
nella
relazione
con
altri.
Riguarda
quindi
sempre
e
comunque
l’integrazione
sociale
della
vita
cognitiva,
della
mente
di
un
soggetto,
le
sue
potenzialità
di
accesso
alla
vita
sociale8.
Quel
che
è
importante
qui
focalizzare
è
il
fatto
che
l’esperienza
di
apprendere,
lo
sviluppo
cognitivo,
è
un’esperienza
il
cui
carattere
è
sempre
espressivo:
per
dare
vita
alla
propria
mente
c’è
bisogno
degli
altri,
di
un
contesto
sociale,
anzi
di
più
contesti
che
normalmente
stanno
al
di
fuori
della
scuola.
Ciò
che
si
apprende
a
scuola,
la
cultura,
è
per
eccellenza
un
fatto
sociale,
poiché
significa
apprendere
insieme
quelle
forme
e
quegli
strumenti
che
rendono
possibile
il
processo
sociale
di
regolazione
delle
capacità
di
un
individuo,
e
quindi
della
sua
autonomia,
come
condizione
di
esercizio
di
una
cittadinanza
attiva.
Il
processo
educativo
svolge
una
funzione
sociale
speciale.
Una
funzione
per
la
quale
una
tecnologia
educa-‐
tiva9,
intesa
in
senso
ampio,
è
ancora,
e
sempre,
da
mettere
alla
prova,
deve
potersi
giustificare
come
possibilità
di
apprendere
di
più
e
meglio,
come
incremento
cioè
della
capacità
stessa
di
apprendere.
Un
apprendere
che
ap-‐
prende
sé
sesso.
Altrimenti,
tanto
vale
apprendere
dalla
vita
–
o,
come
dicono
i
nostri
studenti,
«dalla
strada»,
per
i
quali,
anzi,
il
senso
di
inutilità,
non
di
venire
a
scuola,
ma
di
ciò
che
vi
si
impara
è
per
loro
più
un
stereotipo
ben
radicato.
Ora,
l’educazione
è
davvero
un
problema
delicato.
Sono,
appunto,
«le
potenzialità
umane
a
giustificare
l’istanza
dell’educazione»10,
e
non
il
contrario.
Allora,
occorre
ammettere
che
la
connessione
che
una
tecnologia
educativa
tenta
di
stabilire
con
la
capacità
di
apprendere
rimane
incerta,
anche
ignota,
soggetta
com’è
alla
con-‐
tingenza
delle
situazioni,
esposta
all’influenza
delle
condizioni
sociali
e
culturali,
e
a
come
queste
ultime
risul-‐
tano
incorporate
nella
soggettività
dei
giovani.
Si
tratta
allora
di
fare
dell’educazione,
di
tutta
l’educazione,
«un
pensiero
delle
potenzialità»,
di
continuare
cioè
a
modellare
l’intera
organizzazione
educativa
e
didattica
in
ordine
a
quel
problema,
e
a
farne
la
condizione
di
uno
suo
sviluppo
riflessivo.
L’IMMAGINE
DI
SÉ:
EMOZIONARE
TRA
MMAGINI
E
PAROLE
I
nostri
ragazzi
privilegiano
l’immaginazione
visiva.
Un’eredità
esperienziale
infantile
che
affiora
nelle
dichia-‐
razioni
delle
loro
preferenze
per
la
scelta
dell’indirizzo
grafico
del
nostro
istituto
è
il
«piacere
di
disegnare»,
spesso
l’unica
pratica
gratificante
nel
corso
della
loro
esperienza
scolastica.
È
su
questa
risorsa
che
si
è
costruito
l’intero
percorso
del
progetto
centrato
sull’Immagine
di
sé.
Un
«oggetto»
di
rappresentazione
carico
di
valenza
emotiva,
la
cui
elaborazione,
attraverso
un
percorso
di
performance
orientato
a
una
progressiva
stilizzazione
e
simbolizzazione,
sia
visiva
che
verbale,
ha
assunto
al
tempo
stesso
il
carattere
di
un
itinerario
di
educazione
emotiva.
Il
percorso
formativo
ha
puntato
dunque
a
utilizzare
l’integrazione
tra
linguaggi,
iconico
e
verbale,
per
con-‐
durre
il
soggetto
in
apprendimento
a
riconoscere
forme
e
manifestazioni
della
propria
e
altrui
situazione
cogni-‐
tiva
ed
emotiva.
«La
riflessione
su
ciò
che
è
proprio
di
sé,
personale,
sembra
di
solito
relegata
a
una
rappresenta-‐
zione
di
qualcosa
che
sta
“dentro”,
qualcosa
che
sta
all'interno,
come
separato
da
una
barriera
invisibile
rispetto
a
ciò
che
sta
“fuori”.
Questa
espressione
metaforica,
di
natura
spaziale,
che,
come
sostiene
Norbert
Elias11,
è
del
tutto
impropria,
appare
in
realtà
insensibilmente
ovvia.
Si
affida
a
un'immagine
dell'essere
umano,
a
uno
8
J.
Bruner,
La
cultura
dell’educazione,
Feltrinelli,
Milano,
1997.
In
questo
testo
fondamentale
è
il
riferimento
a
Lev
Vytgotskij,
alla
sua
teoria
dello
sviluppo
cognitivo.
9
Per
«tecnologia
educativa»
intendo
il
livello
operativo
con
cui
un
sistema
scolastico
si
attrezza
attraverso
procedure
e
prati-‐
che
(routine),
oltre
che
norme,
esplicite
o
meno,
che
le
regolano,
per
trasformare
l’oggetto
della
sua
attività.
Una
di
queste:
la
norma,
per
esempio,
che
lo
studente
viene
a
scuola
per
imparare
ciò
che
gli
viene
insegnato.
10
P.Perticari,
Pedagogia
critica
della
prassi
comunicativa
e
cognitiva,
CLUEB,
Bologna,
2004,
p.
17.
11
N.
Elias,
Op.
cit..
4
schema-‐base
profondamente
radicato
nel
linguaggio,
tanto
da
appartenere
a
un'autopercezione
condivisa
nella
nostra
società:
quella
per
cui
ogni
individuo
si
sperimenta
in
ultima
analisi
come
solo,
isolato
dagli
altri,
e
finisce
per
costruire
un
senso
interiore
di
sé
secondo
una
insistita
e
crescente
consapevolezza
della
propria
differenza
individuale.
Esperienza
che
tanta
parte
ha
nella
formazione
della
coscienza
di
sé
–
di
chi
si
è,
di
chi
sono
gli
altri
e
cosa
ci
accade
intorno»12.
Imparare
a
sperimentare
sé
stessi
nei
termini
di
un
«duplice
ruolo»,
e
cioè
in
riferimento
a
sé
stessi
e
agli
al-‐
tri,
è
parte
integrante
di
quella
crescita
mentale
attraverso
cui
impariamo
a
distinguerci
dagli
altri,
a
sperimen-‐
tare
la
nostra
unicità:
corrisponde
a
quell'esperienza
di
conoscere
sé
stessi
e
di
essere
conosciuti,
di
vivere
sé
e
gli
altri
e
di
essere
vissuti
dagli
altri,
in
quanto
«distaccati
e
indissolubilmente
coinvolti
nel
divenire
del
mon-‐
do»13.
È
una
coscienza
abbastanza
comune,
e
a
volte
acutamente
solitaria,
quella
per
cui
si
sperimenta
la
diffe-‐
renza
di
sé
imparando
a
confrontare
l'immagine
che
ci
facciamo
di
noi
stessi
con
quella
che
di
riflesso
ci
fornisco-‐
no
gli
altri
–
come
appunto
testimoniano
gli
scritti
prodotti
dagli
allievi
e
dalle
allieve.
Apprendere
l'arte
di
rappresentare
sé
stessi,
in
chiave
figurativa
o
descrittiva
e
narrativa,
mette
in
causa
quindi
proprio
quest’esperienza
di
sé
e
degli
altri.
1. Le
tappe
del
progetto
L’avventura
è
iniziata
a
ottobre
con
la
ripresa
fotografica
di
immagini
di
arte
di
strada
(Tag,
Puppets
e
Wri-‐
ters
Font)
nel
quartiere
in
cui
la
scuola
è
collocata
-‐
manufatti
estetici
vicini
alla
loro
esperienza.
E,
in
analogia,
si
è
avviato
un
percorso
di
lettura
e
di
scrittura
sul
tema
dell’identità
di
sé.
La
realizzazione
del
ritratto
fotografico
è
stato
un
punto
di
partenza.
La
costruzione
della
propria
immagine
fisiognomica,
attraverso
un
approccio
figurativo,
è
infatti
una
faccenda
problematica.
Il
problema
dell’identità
è
un
atto
in
genere
possibile
solo
con
l’aiuto
di
superfici
riflettenti,
come
lo
specchio,
che
comunque
non
restituisce
il
sé
fisionomico
ma
solo
il
riflesso
della
propria
immagine
invertita.
Insomma,
la
costruzione
dell’immagine
di
sé
richiede
una
«messa
in
prospettiva»,
l’adozione
di
un
punto
di
vista
attraverso
cui
diviene
possibile
una
consa-‐
pevolezza
di
sé,
che
come
tale
include
l’osservazione
degli
altri;
una
consapevolezza,
in
cui
si
sperimenta
quel
duplice
ruolo
di
osservatore,
si
fa
quell'esperienza
di
quel
duplice
ruolo,
in
cui
si
conosce
sé
stessi
e
al
tempo
stesso
si
è
conosciuti
dagli
altri,
si
vede
sé
stessi
e
al
tempo
stesso
si
è
visti
dagli
altri,
un
duplice
ruolo,
a
volte
in-‐
teriormente
in
conflitto,
che
si
stabilisce
tra
la
funzione
di
osservatore
e
quella
di
oggetto
osservato.
In
questa
duplice
chiave
di
«messa
in
prospettiva»
del
proprio
sé,
è
stata
realizzata
tra
novembre
e
dicem-
bre
a
partire
dalla
foto-‐ritratto
frontale
un’elaborazione
grafica
del
proprio
autoritratto,
un
Puppets
e
infine,
a
gennaio,
l’elaborazione
manuale
di
una
Personal
TAG
.
Nella
realizzazione
di
una
TAG
ogni
ragazzo
ha
fatto
riferimento
all’ideale
di
sé
che
prescinde
dal
sé
reale
fi-‐
siognomico;
questo
ha
portato
all’uso
di
segni
grafici
e
scelte
stilistiche
che
si
riferiscono
più
a
un
«come
vorrei
essere»
-‐
in
funzione
sociale
-‐
piuttosto
che
a
un
«sono
così».
I
risultati
sono
una
serie
di
simboli
identificativi
quasi
sempre
privi
di
negatività
e,
a
tratti,
«virati»
in
chiave
di
rêverie,
in
una
dimensione
onirica
del
sé.
Nello
stesso
tempo,
è
stato
avviato
un
percorso
di
lettura
narrativa
centrato
sul
soggetto
adolescenziale.
Al
ri-‐
guardo,
le
micro-‐storie,
contenute
nel
testo
Ci
facciamo
una
storia,
prodotte
da
ragazze
e
ragazzi
di
una
classe
prima
dello
nostro
Istituto,
sono
risultate
particolarmente
adatte
a
suscitare
interesse.
Sono
narrazioni
che,
per
le
modalità
espressive
del
loro
contenuto
esperienziale,
di
«storia
vera»,
risultano
mimetiche
dell’esperienza
vis-‐
suta
da
giovani
adolescenti.
L’esercizio
proposto
sul
testo,
un
trattamento
«per
sottrazione»,
richiedeva
di
ridurre
la
narrazione
soltanto
a
«ciò
che
accade»
nella
storia,
si
trattava
cioè
di
procedere
alla
«cancellazione»
di
quelle
componenti
(verbi,
nomi,
avverbi,
aggettivi)
che
rivelassero
l’esistenza
di
un
modo
di
osservare,
di
guardare
gli
eventi
della
storia
dalla
prospettiva
particolare
del
narratore,
qui,
in
prima
persona
(la
«voce»
narrante),
a
partire
dalla
quale
il
narratore
(o
l’«autore»
della
narrazione)
instaura
un
rapporto
con
«ciò
che
accade»
nella
storia.
Per
contrasto,
da
tale
ope-‐
razione
si
ottiene
il
risultato
di
portare
l’attenzione
proprio
a
ciò
che
fa
di
una
storia
una
storia
che
vale
la
pena
raccontare:
è
cioè
la
parte
cancellata,
che
reca
tracce
dell'autore
del
discorso,
a
rendersi
appunto
riconoscibile
come
«espressiva»,
a
rivelare
gli
scopi
della
sua
narrazione
e
la
sua
personale
posizione,
emotiva
e
valutativa,
di
apprezzamento
o
altro,
riguardo
alla
successione
degli
eventi
della
storia.
Ciò
rende
evidente
come
la
storia
si
svolge
su
due
piani,
due
scenari,
come
dice
Jerome
Bruner14:
lo
scenario
dell'azione,
dello
svolgimento
di
eventi
che
accadono,
di
cui
un
soggetto
è
osservatore,
e
lo
scenario
della
co-
scienza,
quello
delle
proprie
sensazioni
ed
emozioni,
dei
propri
desideri
e
pensieri,
scenario
in
cui
un
soggetto
fa
di
sé
stesso
l’oggetto
di
osservazione.
Era
questo
secondo
scenario
a
fare
la
differenza.
Differenza
che
può
risulta-‐
re
da
un'immaginazione
attiva
nell'osservare
la
propria
posizione
e
la
propria
disposizione
verso
le
cose,
verso
il
mondo;
immaginazione
che
comporta
scoprire
che
cosa
ognuno
pensa
di
essere,
che
cosa
crede
di
stare
facendo
e
a
che
fine
pensa
di
farlo,
e
se
tutto
ciò
risponde
a
un
senso
di
riuscita
o
meno
della
sua
azione,
alla
sua
felicità
o
12
R.
Tomba,
Op.
cit.,
pp.
95-‐96.
13
N.
Elias,
Op.
cit.,
p.
125
14
J.
Bruner,
La
mente
a
più
dimensioni,
Laterza,
Bari
1988,
p.
18.
5
infelicità.
Una
commedia
o
una
tragedia,
un
ridere
o
un
piangere,
all’estremo.
È
la
scoperta
del
gioco
della
finzione
narrativa,
anche
come
possibilità
di
giocare
a
essere
un
altro,
di
fingersi
altro
da
sé,
che
in
genere
garantisce
a
ciascuno
una
posizione
di
maggior
distacco
rispetto
all’esposizione,
alla
«messa
in
scena»
delle
trame
della
propria
vita.
Si
tratta
cioè
di
esplorare
la
vita
personale
in
base
alle
esigenze
del
racconto,
alle
convenzioni
narrative
con
cui
guardare
alla
realtà
della
propria
esperienza
quotidiana.
Un
modo
quindi
che
garantisce
una
«messa
al
riparo»
dell’interiorità,
della
propria
vita
intima.
Non
c’è
bisogno
di
at-‐
tenersi
alla
realtà
dei
fatti
e,
in
particolare,
di
quelli
privati
della
vita.
Non
è
questa
realtà
a
dare
forma
al
rac-‐
conto.
Semmai
il
contrario,
è
la
realtà
del
raccontare
a
dare
forma
all’esperienza
personale.
A
tal
proposito
si
è
scelto
come
tema
conduttore
un
momento
«banale»
di
vita:
il
risveglio
quotidiano.
Si
tratta
insomma
di
accettare
un
«gioco
di
finzione»
(non
di
falsità),
garantito,
come
ogni
gioco,
dal
rispetto
di
regole
formali,
di
imparare
quindi
a
modellare
la
propria
esperienza
in
base
ai
criteri
della
costruzione
narra-‐
tiva
di
una
storia.
A
«imitazione»
della
vita
reale,
come,
del
resto,
la
lettura
integrale
di
alcuni
romanzi,
assegnata
fin
da
novembre
e
continuata
nel
corso
dell’anno,
poteva
insegnare.
Alla
fine
di
febbraio
e
nel
mese
di
marzo,
si
è
avviato
un’interpretazione
grafica
dell’autoritratto
in
versione
«IN
&
OUT»,
un
sé
in
versione
positiva
e
rovesciata,
in
negativo.
In
modo
analogo,
sul
piano
narrativo,
la
micro-‐
storia
Il
risveglio
è
stata
estesa
all’esperienza
che
ognuno
fa
del
mondo
esterno,
del
«fuori»,
all’impatto
con
la
re-‐
altà
del
mondo.
Il
testo
narrativo
richiesto,
dal
titolo
Risveglio,
aprire
gli
occhi
al
mondo,
ha
assunto
la
forma
te-‐
matica
del
topos
del
viaggio.
La
rielaborazione
grafica
di
sé,
a
partire
dall’immagine
di
sé
reale,
fisionomica,
ovvero
a
partire
dall'unico
«punto
di
vista»
oggettivante
possibile,
quello
dell’altro,
tecnicamente
realizzata
dallo
scatto
fotografico
di
un
compagno,
ha
prodotto
invece
una
differenziazione
molto
più
spinta
tra
i
diversi
soggetti
coinvolti.
L’immagine
fotografica
ha
messo
in
evidenza
come
l’accettazione
del
proprio
sé
sia
un
passaggio
soggetto
a
estremizzazioni
negative
della
visione
del
sé.
È
il
caso
di
alcuni
allievi
che
si
sono
ritratti
in
eccesso
di
carne
ri-‐
spetto
alla
realtà.
Non
rari
i
casi
di
una
rappresentazione
di
sé
«esagerata»,
in
atteggiamento
di
«dominanza»,
corrispondente
a
un’effettiva
auto-‐posizione
di
sé
all’interno
del
gruppo
classe.
E,
ancora,
alcuni
interessanti
casi
di
rappresentazione
di
sé
fantastica
–
come
quella
dei
capelli-‐serpenti,
da
Medusa
-‐
in
genere
rivelatori
di
tratti
di
creatività
e
di
immaginazione.
Nel
mese
di
marzo,
proprio
in
forza
della
presenza
nella
classe
di
ragazzi
e
ragazze
di
provenienza,
nel
corso
della
loro
vita
o
per
origini
famigliari,
dai
diversi
continenti
del
mondo,
dall’America
latina,
dal
Nord
e
dal
Centro
Africa,
e
dalla
Cina,
il
racconto
del
«passaggio»
da
un
mondo
a
un
altro
è
stato
oggetto
di
una
nuova
narrazione.
Allo
scopo
di
rinforzare,
nell’esercizio
di
scrittura,
l’adozione
del
punto
di
vista
del
lettore-‐destinatario,
la
co-‐
struzione
della
storia
autobiografica
è
stata
preceduta
da
un
lavoro
a
coppie
di
intervista
narrativa,
un
tipo
di
in-‐
terazione
comunicativa
finalizzata
alla
rilevazione
di
dati
significativi:
un
ragazzo
o
ragazza
straniera
è
stato
af-‐
fiancato
da
un
compagno
o
compagna
intervistatore/trice.
L’intervista
è
stata
«istruita»
puntando
essenzial-‐
mente
al
carattere
aperto
e
informale
dello
strumento-‐intervista,
e
vincolato,
per
necessità,
a
una
durata
di
tempo
limitata
dalle
esigenze
di
trascrizione
dal
supporto
di
registrazione
digitale.
La
consegna
di
formulare
domande
in
grado
di
produrre
storie
allo
scopo
di
ottenere
risposte
dell'intervistato
sotto
forma
di
racconto,
di
una
o
più
storie,
in
chiave
di
«viaggio»,
non
ha
funzionato
bene.
Non
ce
n’era
il
tempo.
Tuttavia,
anche
da
un’analisi
degli
errori
emersi
–
domande
chiuse,
richieste
poco
stimolanti,
quasi
anagrafi-‐
che
–
si
è
deciso
di
affidare
l’esito
della
trascrizione
dell’intervista
all’intervistato
stesso,
allo
scopo
di
colmare
in
chiave
narrativa
la
sua
storia
autobiografica.
Tra
aprile
e
maggio,
l’attività
didattica
si
è
trasformata
in
attività
progettuale
orientata
al
prodotto
finito,
alla
realizzazione
di
un’opera
compiuta,
secondo
una
didattica
laboratoriale,
da
apprendistato
culturale.
In
genere,
mettere
alla
prova
la
capacità
di
produzione
dei
ragazzi
e
delle
ragazze
‘funziona’:
è
motivante,
è
un
esercizio
di
autonomia
e
di
responsabilità,
proprio
in
vista
della
presentazione
pubblica
del
prodotto
realizzato.
In
questo
caso,
la
significatività
del
«lavoro»
viene
accresciuta
dalla
loro
esigenza
di
esercitare
un
maggior
controllo
sulla
realizzazione
del
prodotto,
da
forme
di
cooperazione
di
aiuto-‐aiuto
tra
compagni
e
compagne
e,
ancora,
da
un
punto
di
vista
comunicativo:
esso
appare
infatti
come
un
«segno»
distintivo
di
appartenenza
al
gruppo-‐classe.
Nella
loro
riflessione
sulle
attività
svolte,
emerge
l’importanza
attribuita
all’esperienza
di
«lavoro»,
al
pro-‐
dotto
finito.
Un
apprezzamento
che
sembra
consistere
nella
scoperta
che
l’imparare
è
un’esperienza
complessa
che
ha
a
che
fare
con
l’attività,
la
«tecnologia»
impiegata,
relativa
al
linguaggio
in
uso,
sia
grafico
che
verbale;
un’esperienza
che
coinvolge
disposizioni
comportamentali
verso
sé
stessi
(dare
il
massimo
di
sé,
impegnarsi,
cambiare
il
proprio
modo
d’essere,
trasformare
le
proprie
idee,
esprimere
ciò
che
si
pensa,
migliorare
sé
stessi,
sen-
tirsi
realizzato,
e
anche
non
prendere
un
brutto
voto),
verso
gli
altri
(confrontarsi,
rendersi
comprensibili,
trasmet-
tere,
scambiare
o
comunicare
idee,
relazionarsi,
affezionarsi,
stare
bene)
e
verso
i
diversi
livelli
della
realtà
del
mondo
(immaginare,
fantasticare,
sognare,
tornare
alla
realtà,
rifiutarla,
cambiarla);
un’esperienza
che
può
com-‐
portare
anche
la
scoperta
del
piacere
di
fare,
e
di
fare
bene,
qualcosa.
I
prodotti
finali
realizzati
sono
stati:
a
livello
grafico,
la
creazione
del
Manifesto
(f.to
A3)
Io,
me,
mi
–
IN
&
OUT;
a
livello
fotografico,
l’animazione
fotografica
Noi
siamo;
si
è
realizzato
poi,
attraverso
un
processo
ri-‐scrittura,
la
versione
finale
delle
storie
sul
tema
del
Risveglio,
aprire
gli
occhi
al
mondo
e,
infine,
le
Interviste
autobiografiche.
La
documentazione
dei
risultati
è
confluita
in
un
book,
come
parte
integrante
del
percorso
di
apprendimento.
6
2. I
«prodotti
finiti»
LA
PERSONAL
TAG
Nel
lavoro
di
grafica
ho
fatto
un
percorso
graduale,
dalla
scelta
della
tag
alla
progettazione
del
puppet
che
mi
ha
portato
via
tanto
tempo,
perché
dovevo
rappre-‐
sentare
me
stesso
e,
nel
farlo,
ho
scelto
un
drago,
una
creatura
mitologica
che
mi
ha
sempre
affascinato
-‐
che,
secondo
me,
esprime
coraggio
nell’affrontare
le
cose.
Facendo
questo
lavoro
ho
imparato
a
trasformare
le
mie
idee
in
qualcosa
di
comprensibile
per
gli
altri.
Per
me
più
che
trasmettere
idee
ed
esprimermi
nel
disegno
in
sé
è
stato
un
lavoro
più
mentale
che
manu-‐
ale,
perché
la
fantasia
non
ha
limiti
e
l’esprimersi
è
il
punto
difficile…
(Tarik)
Ho
scelto
come
nome
TOXIC.
Perché?
Beh,
sinceramente
un
perché
non
c’è.
In
poche
parole
TOXIC
è
un
piccolo
soprannome
che
mi
sono
scelta
da
sola.
Quindi
ho
usato
TOXIC
perché
è
il
Nick
che
mi
piaceva
di
più
e
che
mi
ispirava
più
simpatia.
L’immagine?
Boh,
uno
schizzo
che
è
venuto
fuori
a
caso
e
mi
sembrava
più
appropriata
al
Nick.
Non
mi
sembrava
il
caso
di
mettere
due
cuoricini
rosa
o
un
Ponx
sopra
la
scritta
TOXIC.
E
poi
cuoricini
e
Ponx
non
sono
cose
che
mi
piace
disegnare,
niente
cose
sdolcinate,
in
questo
caso
ho
preferito
un
teschio
a
doppia
faccia.
Non
penso
di
aver
imparato
qualcosa
facendo
questo
lavoro,
per
me
era
un
semplice
lavoro
come
tutti
gli
altri,
fatto
tanto
per
non
prendere
un
3
XD.
Boh,
null’altro.
(Miriam)
Da
questo
lavoro
di
grafica,
io
ho
imparato
diverse
cose:
come
comportarsi
quando
bisogna
svolgere
o
di-‐
segnare
una
tag
o
un
graffito;
confrontarmi
con
i
miei
compagni
attraverso
disegni
e
dare
il
massimo
di
me
stesso
quando
devo
creare
un
progetto,
lavoro
o
dise-‐
gno.
Attraverso
i
miei
disegni
volevo
cercare
di
tra-‐
smettere
al
pubblico
(compagni,
professori)
quali
sono
le
mie
doti
nel
disegno.
Spero
di
esserci
riuscito,
anche
se
sono
consapevole
di
aver
commesso
degli
errori
nei
lavori
che
ho
fatto.
Alla
fine
della
tag
e
del
puppet
che
ho
creato
mi
sono
sentito
realizzato
nel
metterli
insieme
e
nel
cre-‐
are
un
disegno
unico
pieno
di
colori
e
forse
anche
di
significati
per
alcuni.
Una
cosa
che
ho
capito
è
che,
se
un
disegno
che
fai
non
ti
piace
o
non
ti
realizza,
puoi
sempre
farne
un
al-‐
tro
e
un
altro
ancora
fino
a
che
non
ti
piacerà.
È
questa
la
cosa
bella
nel
disegnare,
perché
puoi
comunicare
attraverso
i
di-‐
segni
che
fai
mille
significati
e
hai
sempre
la
libertà
nel
poter
creare
quello
che
più
ti
piace
o
ti
soddisfa.
(Matteo)
7
Ho
imparato
a
confrontarmi
con
i
miei
compagni,
a
vedere
le
differenze
di
stile
tra
il
mio
e
i
loro.
A
fare
la-‐
voro
di
gruppo,
ad
accettare
i
loro
consigli.
Sono
contento
perché
ho
fatto
un
buon
lavoro!
(Mattia)
Pequegña
in
spagnolo
vuol
dire
“piccolo”.
Ho
scelto
questo
nome,
primo
perché
mi
piace
essere
chiamata
così,
mi
fa
sentire
desiderata,
e,
secondo,
perché
mi
piace
molto
lo
spagnolo.
Il
pupazzetto
mi
piace.
Quel
fiocchetto
e
gli
occhi
grandi.
Pieni
di
sogni
e
in
cerca
di
qualcosa…
chissà
cosa!
Mi
rappresenta
per
questo,
mi
sento
io,
sogna-‐
trice
che
non
abbandona
mai
i
suoi
sogni,
che
cerca
sempre
di
raggiungerli
a
qualunque
costo.
Faccia
stupita,
forse
confusa.
Già
sono
proprio
così!
Stupita,
perché
ogni
giorno
c’è
qualcosa
che
mi
fa
rimanere
a
bocca
aperta!
Bella
brutta
che
sia,
c’è
sempre
Confusa,
perché
a
15
anni
la
mia
vita
è
un
ca-‐
sino…
perennemente
in
ansia
o
in
cerca
di
qualcosa
che
dovrebbe
arrivare
ma
non
arriva.
Piccola,
in
tutto
e
per
tutto!
Bassottina,
quasi
che
sembro
un
nanetto
da
giardino!!
Da
questo
lavoro
ho
imparato
ad
impegnarmi
su
qualcosa.
Sapevo
di
doverlo
finire
entro
un
arco
di
tempo
e
mi
sono
impegnata
per
farlo.
Forse
ciò
che
mi
ha
dato
un
po’
fastidio
è
che
non
avevo
scelto
quel
puppets,
ma
una
stellina
con
gli
occhi
stralunati
(anche
quella
mi
avrebbe
rappre-‐
sentata),
ma
ne
avevo
disegnati
di
più,
tutti
che
mi
rappresentavano
in
qualche
modo,
comunque
molto
simili.
Sono
contenta
comunque
d’aver
consegnato
questo
lavoro
in
tempo,
REALIZZATO!
(Marzia)
Facendo
la
tag
ho
imparato
a
impaginare,
a
usare
la
mia
fantasia
e
a
disegnare
in
un
certo
modo.
Ho
imparato
a
esprimere
ciò
che
penso
attra-‐
verso
il
disegno,
anche
se
devo
imparare
ancora,
per-‐
ché
non
sono
bravissima.
Per
prima
cosa
ho
pensato
al
nome
(Dragy),
poi
al
disegno
(lucertola
stilizzata),
come
fare
la
mia
scritta
(Babol).
Come
colorarli,
poi
ho
fatto
delle
prove
per
come
potevano
stare
insieme.
Dopo
che
l’ho
deciso
li
ho
fatti
in
bella
e
infine
colorati,
sul
foglio
da
layot.
Poi
ho
ritagliato
il
tutto
e
incollato.
Il
disegno
non
mi
dispiace,
però
potevo
fare
di
più.
(Sara
Pa.)
8
In
questo
progetto
di
grafica
dovevamo
scegliere
un
nome
(tag)
e
un’immagine
(puppet)
che
in
quel
momento
ci
rappre-‐
sentasse.
Io
ho
scelto
di
chiamarmi
“nera”
per
vari
motivi:
1)
perché
il
nero
è
uno
dei
miei
preferiti;
2)
perché
sono
affascinata
dalle
donne
di
colore
e
dalla
loro
bel-‐
lezza.
Riguardo
invece
all’imma-‐
gine
ho
scelto
di
utilizzare
una
faccia
di
alieno
verde
con
un
fiocco
azzurro
sulla
testa.
Ho
scelto
di
utilizzare
questo
alieno
perché
in
quel
periodo
fa-‐
cevo
sogni
strani
su
alieni
e
al-‐
lora
ho
deciso
di
inventarne
uno
per
l’occasione.
Grazie
a
questo
lavoretto
di
grafica
ho
imparato
ad
utilizzare
degli
strumenti
di
cui
non
sapevo
neanche
l’esistenza
come
il
pan-‐
tone,
o
i
fogli
da
layout.
Ho
impa-‐
rato
anche
a
osservare
meglio
il
lavoro,
un
esempio
potrebbe
es-‐
sere
quando
dovevo
incollare
il
mio
disegno
e
non
lo
incollavo.
(Angelica)
Da
questo
lavoro
ho
impara-‐
to
che
ci
sono
mille
modi
per
esprimere
una
parte
di
noi,
un
nostro
modo
di
essere,
ad
esem-‐
pio
con
il
disegno
usando
la
fan-‐
tasia.
Ho
scelto
questo
disegno
non
perché
mi
rappresentasse
ma
solo
perché
mi
piacciono
le
crea-‐
ture
piccole,
strane,
dolci…
Per
il
nome
ho
pensato
che
sarebbe
stato
carino
abbreviarlo
per
dargli
un
po’
di
“stile”.
(Jessica)
Questo
puppet
è
rappresen-‐
tato
da
un
gioco
che
mi
ha
col-‐
pito
per
il
fatto
di
questo
be-‐
stione
(big
deddy)
che,
notando
le
prove
che
ho
fatto,
è
affezio-‐
nato
ad
un
bimbo
(sister)
che
nel
gioco
difende
fino
alla
morte.
Io
mi
sono
immedesimato
in
questo
personaggio,
perché
in
questo
periodo
mi
sto
affezio-‐
nando
a
certe
persone
che
stan-‐
no
diventando
importanti
e
mi
sento
di
doverle
difendere
anche
per
le
cose
più
sciocche.
(Francesco)
Quando
disegnavo,
volevo
qualcosa
che
mi
rap-‐
presentasse,
qualcosa
di
nuovo
ma
qualcosa
in
co-‐
mune.
(Kevin)
9
(Sara
Sh.)
(Nathaly)
La
mia
TAG
è
OMILUSH.
Mi
rappresenta
perché
lo
avevo
usato
anche
come
nikname
per
un
social
network.
Come
puppet
ho
usato
un
diamante,
soggetto
che
mi
pia-‐
ceva
già
da
tanto
tempo.
Il
diamante
mi
rappresenta
per
la
mia
egocentricità.
Perché
no,
anche
per
il
mio
essere
narcisista.
La
creazione
di
tutto
il
lavoro
è
stata
una
spe-‐
cie
di
battibecco
con
la
prof,
perché
lei
non
gli
(sic)
an-‐
dava
bene…
Ma
tutto
sommato
mi
è
piaciuto
molto
il
ri-‐
sultato
finale,
anche
se
io
lo
avrei
fatto
in
un
altro
modo.
Tutto
diverso.
(Omar)
La
mia
tag
è
HAiSY.
L’ho
pensata
un
pomeriggio
men-‐
tre
guardavo
la
tv
ed
è
comparsa
una
pubblicità
con
dei
cubetti
di
ghiaccio.
Personalmente
non
è
che
mi
piaccia
o
mi
ritragga
molto.
Io
sono
tutto
il
contrario
di
HAISY,
direi
che
mi
sento
più
COUDY.
Il
freddo
non
mi
piace
per
niente…
Ferse
è
per
questo
che
l’ho
creata…
per
far
vedere
ciò
che
non
sono.
(Sara
So.)
Da
questo
lavoro
ho
imparato
un
sacco
di
cose.
La
prima,
credo
per
me
la
più
difficile,
è
inventare
il
nome.
Avevo
molte
tags
fra
cui
scegliere,
alla
fine
ho
scelto
MAWY,
non
ha
un
significato
specifico
per
me,
ma
l’ho
scelto
perché
mi
piaceva
la
pronuncia.
Come
seconda
cosa,
era
sempre
inventare
un
puppet,
sarebbe
un
disegno
vicino
alla
tag:
io
avevo
scelto
due
cappelli,
e
la
professoressa
mi
ha
detto
di
trasformarle
in
balene-‐cappello.
A
me
non
è
che
mi
piacevano
molto,
anzi
non
proprio,
però
lavorandoci
sopra
per
me
è
venuto
un
bel
lavoro,
anche
se
ho
dovuto
lavorarci
molto.
Il
passaggio
che
mi
è
piaciuto
di
più
è
stato
quello
di
colorare.
Il
disegno
è
stato
creato
fin
dall’antichità,
è
serve
per
esprimere
i
propri
concetti
senza
avere
giudizi
dalle
altre
per-‐
sone;
poter
disegnare
è
utile
per
esprimere
quello
che
abbiamo
nella
testa
e
metterlo
su
un
foglio
grazie
a
una
matita,
ed
è
così
che
il
disegno
si
è
prolungato
negli
anni
senza
aver
mai
perso
il
suo
fascino.
(Alberto)
(Ileana)
10
LE
STORIE:
RISVEGLIO,
APRIRE
GLI
OCCHI
AL
MONDO
Le
7:00.
Apro
gli
occhi,
boccheggio
cercando
di
svegliarmi
Le
7:00.
Apro
gli
occhi,
boccheggio
cercando
di
svegliarmi.
Il
corpo
è
pesante,
mi
siedo
sul
letto,
con
i
piedi
nudi
a
terra.
Dalla
cucina
rimbomba
la
televisione
con
le
bombe
che
esplodono
su
Tripoli.
L'odore
del
caffè
di
mio
padre
si
mescola
ai
rumori
forti
della
gente
in
piazza
che
protesta.
La
mente
assonnata.
Sbadiglio
con
i
pensieri
che
passano
da
un
problema
all'altro.
Quanta
gente
sta
morendo
nel
mondo?
Cazzo,
devo
consegnare
il
compito
di
matematica.
Mi
alzo
e
un
rallenty
mi
assale,
come
uno
strano
formicolio,
percorre
il
mio
corpo
che
prova
a
fare
i
movimenti
quotidiani.
Esco
dalla
camera
da
letto.
La
televisione
parla,
la
prima
immagine
è
quella
di
un
uomo
che
urla
da
un
pulpito.
Sospiro.
Chiudo
gli
occhi
e
scuoto
la
testa
lentamente,
sbuffo
ed
entro
in
bagno,
mi
guardo
allo
specchio
e
penso
pigramente
che
il
mio
problema
più
grande
non
è
quello
di
essere
promosso
o
bocciato,
ma
se
arriverò
a
vedere
me
stesso
tra
un
anno.
E
se
scoppia
la
guerra?
La
terza
guerra...
Mi
lavo
la
faccia
con
l'acqua
fredda,
sfrego
bene
l'asciugamano
sulla
pelle,
e,
mentre
mi
lavo
i
denti,
sento
già
papà
che
mi
chiama.
Cazzo!
mi
devo
dare
una
mossa.
Vado
in
cucina.
Mentre
bevo
il
caffè,
la
notizia
successiva
che
"migliora",
per
così
dire,
il
futuro
di
tutti.
Il
cibo
in
Giappone
è
contaminato.
Cazzo!
Non
si
può
iniziare
la
giornata
in
questo
modo.
Eppure
mentre
raccolgo
lo
zaino
da
terra
penso
che
per
l'uomo
sia
arrivato
il
momento
di
fare
i
conti
con
sé
stesso.
Come
dicono
gli
adulti,
di
tirare
le
somme,
su
ciò
che
siamo,
su
ciò
che
vagliamo
e
sui
disastri
che
facciamo.
Salgo
sul
autobus
e
sento
l'aria
del
mattino
di
Torino
ancora
fredda
sul
viso
e
sulle
mani.
Viaggiamo
tutti
attaccati.
Molti
leggono
il
giornale
gratuito,
altri
hanno
«La
Stampa»,
qualcuno
è
concentrato
su
un
romanzo
e
io
mi
infilo
le
cuffie
nelle
orecchie.
Alzo
il
volume
al
massimo
per
non
sentire
nessun
commento
dei
presenti,
ma
le
immagini
delle
riviste
patinate
e
dei
quotidiani
mi
si
fermano
negli
occhi.
Strano,
le
immagini
con
cui
vorrei
lavorare
un
domani,
come
grafico,
oggi
mi
innervosiscono:
sono
troppo
esplicite,
crudeli,
si
mischiano
tra
modelle
e
morti.
Mi
chiedo
che
cosa
sia
il
rispetto.
Ma
soprattutto
dove
lo
posso
trovare
in
tali
immagini?
Dov’è
il
rispetto
in
un
dittatore
che
tratta
gli
uomini
come
be-‐
stie?
Non
si
può
dare
per
scontato
il
rispetto?
Che
frase
fatta.
Non
si
deve
mai
dare
nulla
per
scontato,
ma
non
la
rende
meno
vera
purtroppo.
Sarebbe
bello
che
il
rispetto
fosse
un
atteggiamento
scontato,
invece
ce
lo
dobbiamo
guadagnare,
ottenere.
Una
frenata
brusca
interrompe
i
miei
pensieri,
guardo
l'ora
ed
è
tardi,
la
campanella
della
prima
ora
sarà
già
suonata,
cazzo!
L'ennesimo
cazziatone
appena
entrerò
in
classe.
(Alberto)
Bah!
Comincio
a
sognare
Bah!
Comincio
a
sognare
uno
dei
miei
soliti
sogni
che
cominciano
tutti
uguali…
io
che
fluttuo
in
un
tunnel
oscuro
con
voci
familiari
di
amici
e
parenti
che
mi
dicono
che
sono
cambiato
in
peggio.
Da
quando
mi
sono
tagliato
i
capelli,
tutti
i
miei
amici
mi
hanno
detto
tutti
la
stessa
frase
“Francy…
sei
cambiato
e
il
mondo
con
te”.
Comunque
comincia
il
sogno…
mi
sveglio
improvvisamente
in
autobus
stracolmo
di
gente
che
mi
spintona
e
mi
pesta
i
piedi,
stranamente
inquadro
un
posto,
strano,
di
mattina
l’autobus
è
tutto
occupato.
Comunque
mi
avvio
lo
stesso
verso
un
posto
libero
e
successivamente
mi
siedo.
Appena
tocco
la
superficie
gelida
della
sedia,
una
vecchietta
comincia
a
farsi
strada
tra
la
folla
spingendola
e
gridando
“Spazio,
spazio.
Tsz!
i
giovani
d’oggi”.
Arrivata
a
me,
mi
scruta
dalla
testa
ai
piedi
e,
guardandomi
fisso
negli
occhi,
mi
dice:
“Ehi!
tu
ragazzo,
togliti
da
questo
posto,
lo
avevo
visto
prima
io”.
Io
ribatto:
“Signora,
sono
stanchissimo,
non
le
dispiace-‐
rebbe
lasciarmi,
solo
per
un
minuto,
tranquillo?
Tanto
scendo
tra
tre
fermate”.
Lei
comincia
a
tirarmi
e
a
farmi
cadere
ma
il
sogno
finisce
prima
che
io
possa
mancarle
di
rispetto!
Perché
la
gente
pensa
solo
a
sé
stessa?
Perché
la
gente
non
si
accorge
del
male
che
ha
dentro?
Non
so
più
che
fare
o
pensare!
Eppure
ci
deve
essere
un
modo
per
cambiare
questo
mondo
assurdo,
pieno
di
ingiustizie.
Io
sono
sempre
più
sicuro
che
lo
scopriremo
insieme!
(Francesco)
Sono
le
sette,
è
ora
di
alzarsi
Sono
le
sette,
è
ora
di
alzarsi.
Quanto
vorrei
restare
ancora
a
letto
e
non
dover
faticare
a
vestirmi
per
andare
a
scuola,
eppure
eccomi
qua
sono
sceso
dal
letto
e
sto
per
andarci.
È
ancora
presto,
posso
restare
un
altro
po’
sul
divano.
Accendo
la
televisione
e
sento
parlare
di
un
dittatore,
ma
a
me
non
importa,
sto
per
girare
canale,
sento
dire
che
c’è
il
rischio
che
possa
scoppiare
una
guerra.
Dico
basta,
cambio
canale,
perché
non
ne
posso
più
di
sentire
parlare
in
negativo
del
mondo.
Eppure
ormai
se
ne
parla
pure
a
scuola.
La
mia
preoccupazione
più
grande
è
che
la
bocciatura
è
sempre
lì
che
mi
aspetta
e
se
non
riesco
a
rimediarvi
la
acco-‐
glierò
a
braccia
aperte.
Per
fortuna,
qui
a
casa
circolano
anche
notizie
positive:
i
colloqui
a
scuola
sono
andati
nel
com-‐
plesso
bene,
a
parte
che
ho
scoperto
che
la
professoressa
di
matematica
mi
ha
preso
di
punta,
ma
io
sto
cercando
di
rime-‐
diare
anche
a
questo.
Per
fortuna
ci
sono
i
miei
genitori
ad
aiutarmi
e
sono
sicuro
che
mi
aiuteranno
anche
in
futuro.
Voglio
dare
qualche
soddisfazione
ai
miei
genitori
e
non
deluderli,
come
facevo
quando
andavo
nell’altra
scuola,
dove
arrivavo
sempre
in
ritardo,
per
questo
motivo
ho
deciso
che
sarei
cambiato
per
loro
ma
anche
per
me.
Però,
che
bella
sen-‐
sazione.
Mi
è
passato
pure
il
sonno.
Che
fortuna
non
ho
più
voglia
di
tornare
a
dormire,
sarà
sicuramente
anche
perché
c’è
così
tanto
silenzio
e
così
tanta
pace
ed
è
la
cosa
più
bella.
Certo,
preferirei
svegliarmi
senza
aver
il
pensiero
di
andare
a
scuola,
ma
sia
che
ci
debba
andare,
sia
che
non
ci
debba
andare,
il
risveglio
è
la
cosa
più
bella
del
mondo,
e
questo
anche
perché
ti
svegli
da
un
mondo
creato
solo
da
te,
dove
non
c’è
nessun
altro
che
può
entrarci,
e
tu
sei
solo
con
te
stesso.
Invece,
quando
apro
gli
occhi
di
mattina
penso
sempre
agli
11
amici
a
me
più
cari
e
alle
persone
che
sento
più
vicino
e
che
magari
vorrei
vedere
alla
fine
della
settimana.
Penso
alle
belle
amicizie,
e
così
riesco
ad
alzarmi
in
quel
silenzio
del
mattino,
e
riesco
ad
affrontare
una
lunga
giornata.
(Marco)
Quella
notte
ho
fatto
un
sogno
Questa
notte
ho
fatto
un
sogno:
mi
affannavo
alla
ricerca
di
un
oggetto,
mi
perdevo
nella
smania.
Cominciavo
la
ricerca
da
un
cassetto,
perquisivo
uno
stipetto,
sollevavo
un
foglio,
un
piatto.
Cercavo
in
alto,
sull’armadio,
a
tatto.
Non
mi
arren-‐
devo
al
fatto
che
il
mio
ordine
perfetto
fosse
incrinato
da
un
microscopico
dettaglio,
quindi
scollavo
profili
e
stipiti,
spo-‐
stavo
i
mobili,
rivoltavo
zaini
e
tracciavo
dei
tragitti
che
all’origine
hanno
i
buchi
nelle
tasche
dei
vestiti.
Investigavo
i
po-‐
sti
più
improbabili,
come
le
travi
del
tetto,
i
davanzali,
i
flaconi
di
prodotti
vuoti
o
pieni,
le
pagine
dei
libri:
qualsiasi
luogo
dove
quell’oggetto
sarebbe
potuto
essere.
Avevo
quell’atteggiamento
maniacale
di
chi
non
vuole
più
pensarci,
ma
sotto
sotto
continua
a
cercare
qualcosa.
Mi
sveglio.
Resto
riversa
diversi
minuti
nel
letto
con
un
occhio
aperto
e
anche
l’altro.
Una
contrazione
dello
stomaco,
un
lieve
peso
sullo
sterno.
Ora
come
ora
so
che
la
mia
giornata
sarà
condizionata
da
questo
cazzo
di
sogno.
Somiglia
la
ricerca
della
mia
vita.
Mi
avevano
detto
che
c'era
un
modo
preciso
in
cui
dovevo
essere.
Che
c'erano
alcune
emozioni
giuste,
che
potevo
permettermi
di
sentire,
ma
solo
nel
modo
appropriato.
Che
le
emozioni
negative
avrei
dovuto
sopprimerle
e
cacciarle
sempre
più
in
fondo.
Mi
avevano
detto
specificatamente
come
dovevo
essere
e
che
cosa
era
giusto
pensare.
Mi
è
stato
insegnato
con
la
rab-‐
bia
e
la
paura
a
controllarmi
dentro,
ad
avere
la
costante
consapevolezza
che
l'occhio
vigile
degli
altri
era
su
di
me
a
guar-‐
dare
in
ogni
istante
ciò
che
facevo.
Per
anni
ho
pensato
che
esprimere
ciò
che
si
sente
dentro
è
sbagliato.
E
che
bisogna
controllarsi.
Mi
avevano
inculcato
tutto
questo
nella
mente.
Tante
volte,
infinite
volte,
ho
incanalato
la
mia
mente
in
rigidi
schemi;
i
pensieri
e
i
sentimenti
li
ho
catalogati
fino
a
farli
diventare
qualcosa
di
vuoto
e
piatto.
Era
un
mondo
grigio
e
scuro,
ricoperto
ovunque
da
un
velo
di
ghiaccio,
quello
che
ho
vissuto
in
passato.
Tante
volte
ho
provato
ad
essere
come
gli
altri,
a
vivere
senza
farmi
domande
come
loro,
a
fare
solo
il
mio
dovere
ossia
quello
che
la
so-‐
cietà
aveva
in
mente
per
me.
Mi
sono
sforzata
di
divertirmi
e
ridere
davanti
a
ciò
che
in
realtà
trovavo
noioso.
Ma
nono-‐
stante
credessi
in
tutto
ciò,
e
mi
sforzavo
vivamente
di
riuscirci,
non
mi
sentivo
mai
soddisfatta.
Se
c'era
stato
un
periodo
in
cui
mi
ero
sentita
felice,
mi
sembrava
lontano,
un
periodo
in
cui
non
conoscevo
realmente
la
vita.
Cercavo
di
rasse-‐
gnarmi
al
fatto
che
quella
era
la
vita
e
dovevo
rassegnarmi:
un
posto
strano
ed
oscuro,
con
un'aria
di
morte
e
di
aridità
che
permeava
in
ogni
cosa.
C'è
stato
un
momento
in
cui
mi
sono
stancata
ed
ho
deciso
di
provare
qualcosa
di
nuovo.
Fino
ad
allora
mi
ero
sola-‐
mente
riempita.
Di
idee,
di
schemi,
di
credenze,
di
pensieri.
Mantenevo
forte
il
mio
sé
con
tutto
questo
e
credevo
che,
se
avessi
lasciato
andare
ciò
che
pensavo,
di
me,
del
mondo,
della
vita,
non
sarei
stata
più
nulla.
Ma
ero
stanca
di
questa
vita
e
decisi
di
fare
questo
salto.
Avevo
appena
15
anni
quando
ci
provai,
ed
in
quel
periodo
cominciai
a
leggere
moltissimi
li-‐
bri
che
parlavano
del
lasciar
andare.
Ed
io
gradualmente
lasciai
andare:
smisi
di
pensare
in
maniera
ossessiva,
smisi
di
analizzare
ciò
che
provavo,
smisi
di
dirmi
che
ero
e
ciò
che
dovevo
sentire
dentro.
Lasciai
andare
tutto
ciò
in
cui
credevo:
i
paletti
in
cui
incanalavo
la
vita.
Questo
è
stato
il
mio
aprire
gli
occhi
al
mondo.
Questo
è
il
risveglio
di
una
ragazza
che
ora
come
ora
ha
quasi
17
anni
e
che
è
costretta
a
vivere
in
un
mondo
cui
lei
non
appartiene,
un
mondo
che
ormai
sta
andando
verso
un
baratro.
Un
mondo
e
una
società
che
con
la
sottoscritta
non
hanno
niente
a
che
fare.
Buongiorno
Mondo,
è
ora
di
ricominciare
la
solita
giornata
di
sempre.
(Miriam)
Sta
per
suonare.
Eccola
è
suonata
Sta
per
suonare.
Eccola
è
suonata.
Ma
non
voglio
svegliarmi,
voglio
continuare
il
mio
sogno.
I
miei
sogni
sono
sempre
sogni
contorti.
Incominciano
sempre
come
un
buco
nero,
dove
vengo
trasportato
in
una
se-‐
conda
dimensione.
Dimensione
creata
dalla
mia
fantasia.
Dove
sento
voci
comuni
chiamarmi,
giro
e
mi
rigiro
ma
non
vedo
nessuno.
Mi
ritrovo
in
una
strada
dritta,
con
una
fitta
nebbia
che
mi
impedisce
di
vedere
lontano.
Continuo
per
quella
strada,
lungo
il
percorso
vedo
cose
che
sono
già
successe
a
me.
Sono
scene
della
mia
infanzia,
scene
belle
e
anche
scene
brutte.
Quasi
tutti
i
miei
sogni
sono
all’aperto,
in
luoghi
vasti
grandi.
Continuo
il
percorso,
che
sembra
che
non
finisca
mai,
ma
eccolo
che
finisce
senza
accorgermene
sono
caduto
in
un
secondo
buco
nero
che
mi
ha
riportato
al
mondo
normale.
Mondo
normale?
No
per
niente
il
mondo,
il
mio
mondo
è
come
un
incubo.
Ormai
il
mondo
sta
cambiando
radicalmente,
come
dice
mio
padre,
non
è
più
il
mondo
di
una
volta.
Ormai
la
tecnologia
ha
invaso
l'umanità,
ha
invaso
ogni
casa,
ogni
persona,
ha
invaso
anche
me.
Io
per
connettermi
al
web
a
casa
tengo
il
computer
acceso
più
di
otto
ore
al
giorno
e
poi,
quando
sono
fuori,
con
il
telefonino
sempre
acceso.
Io
sono
un
internet-‐dipendente.
O
almeno
lo
ero.
Con
il
tempo
ho
capito
cos'è
veramente
importante:
dare
un
abbraccio,
ricevere
un
sorrido,
passare
un
pomeriggio
al
parco,
parlare
faccia
a
faccia
con
un
amico
o
una
amica
non
via
Facebook.
Però
il
web
serve
è
continuerà
a
servire
sempre,
anche
lì
posso
trovare
risposte
alle
mie
domande.
(Omar)
Aaaaaha!!!
Mi
sveglio
di
scatto
Aaaaaha!!!
Mi
sveglio
di
scatto,
ho
appena
avuto
la
sensazione
di
cadere
nel
vuoto.
Ormai
la
mia
sveglia
sono
i
miei
sogni,
sogni
che
non
finiscono
mai,
che
finiscono
sempre
sul
più
bello,
lasciandomi
sul
letto
a
pensare
a
quello
che
ho
sognato,
a
cosa
sarebbe
successo
se
fossi
ritornato
con
la
testa
sul
cuscino
a
riprendere
12
quel
sogno
che
mi
lascia
1000
domande,
ma
nessuna
risposta.
Ok
è
ora
di
alzarsi.
Eccomi
di
nuovo
qui,
seduto
sull’autobus
guardando
fuori
dal
finestrino
con
le
cuffie
a
massimo
volume.
Non
so
perché
ma
mi
piace
osservare
il
tragitto
dal
finestrino.
Mi
fa
pensare
mi
rende
la
mente
libera
da
ogni
cosa
e
come
se
in
quell’instante
non
ci
fosse
nessuno
che
mi
circonda,
osservare
il
percorso
fino
alla
destinazione,
guardando
tutto
quello
che
mi
scorre
davanti
come
fosse
un
film:
la
signora
che
porta
a
spasso
il
cane,
il
classico
automobilista
incaz-‐
zato,
il
solito
signore,
che
trovo
ogni
giorno,
che
distribuisce
la
stampa,
osservare
la
natura
e
tutto
da
un
finestrino.
Senza
accorgermene
sono
immerso
nei
miei
pensieri
e
non
faccio
caso
a
quello
che
accade
intorno.
Ecco
fra
un
po’
devo
scen-‐
dere,
ma
non
voglio
e
cosi
rilassante
stare
qui.
È
la
mia
fermata
devo
scendere,
devo
ritornare
alla
realtà,
un
passo
dopo
l’altro
verso
la
mia
destinazione.
(Ricardo)
Lo
sento…
sì,
lo
sento,
sta
per
suonare
Lo
sento…
sì,
lo
sento,
sta
per
suonare.
Però
io
voglio
rimanere
nel
mondo
dei
sogni
“a
occhi
aperti”,
dove
tutto,
dico
tutto,
è
perfetto,
tutto
va
come
tu
vuoi
che
vada,
niente,
e
dico
niente,
è
storto,
perché
i
tuoi
sogni
sono
tuoi,
nel
senso
che
puoi
immaginarti
un
discorso,
una
vicenda…
che
però
magari
non
accadrà
mai
nella
realtà.
Non
accade
perché
tu
hai
paura
di
fare
una
scelta,
di
sbagliare.
Intanto,
però,
quei
sogni
sono
una
cosa
meravigliosa.
Invece,
la
vita…
eh!
la
vita…
la
vita
non
va
quasi
mai
come
tu
l’hai
immaginata.
Ti
ritrovi
con
la
paura
addosso,
la
paura
di
sbagliare
qualcosa
e
rovinare
tutto,
la
paura
di
perdere
cose
per
te
molto
importanti,
la
paura
che
qualcosa
non
vada
nel
modo
in
cui
vorresti.
Però
allo
stesso
tempo
voglio
alzarmi,
affrontare
quelle
paure
e,
soprattutto,
andare
da
loro,
le
persone
più
importanti,
i
miei
amici
intendo,
in
particolare
da
alcuni
di
loro,
ovvio,
a
cui
voglio
un
casino
di
bene.
Non
riesco
a
vedere
un
mondo
senza
loro,
sono
la
cosa
più
importante,
la
cosa
di
cui
non
vivrei
senza.
Perché,
quando
io
sto
male,
so
che
loro
ci
sono,
come
io
ci
sarò
sempre
per
loro.
È
questo,
la
loro
presenza
a
farmi…
ddrriiinnnn!!
Eccola,
la
sveglia
è
suonata,
interrompendo
tutto
ciò
cui
pensavo.
Apro
gli
occhi
nel
buio.
Mi
tocca
sollevare
il
braccio,
che
in
quell’istante
pesa
una
tonnellata.
Spengo
la
sveglia
e,
rivado
a
miei
pensieri
di
prima,
sorrido
nel
buio.
Non
riesco
a
vedere
l’ora
sul
quadrante
dell’orologio,
prendendo
il
cellulare,
la
sua
luce
mi
acceca.
Tolgo
lentamente
le
coperte
calde
sopra
di
me
e
infilo
i
piedi
nelle
ciabatte
fredde.
Mi
alzo.
(Sara
Pa.)
Sono
le
6:50,
suona
la
sveglia
Sono
le
6:50,
suona
la
sveglia...
È
ora,
devo
svegliarmi.
Tornare
alla
realtà,
abbandonare
quel
mondo
in
cui
sto
così
bene,
dove
non
ho
paura
di
niente
e
tutti
si
trattano
bene,
dove
tutto
va
come
vorrei.
Apro
gli
occhi
e
vedo
la
luce
che
entra
dalla
finestra
con
la
serranda
sempre
alzata,
perché
il
buio
mi
mette
tristezza.
Prendo
contatto
con
la
realtà
pensando
alle
cose
da
fare
in
giornata,
non
voglio
alzarmi,
come
sempre.
Mi
trovo
meglio
in
quel
mondo.
Mi
preparo
con
calma
e
con
la
musica
nelle
orecchie
scendo
di
casa.
Prendo
il
pullman
delle
7:45,
lo
prendo
apposta
in
ritardo
per
non
incontrare
nessuno
e
stare
tranquilla
con
i
miei
pensieri,
tanto
arrivo
puntuale
a
scuola!
Mi
apposto
in
un
angolo
del
mezzo
e
mi
godo
il
viaggio,
mi
piace
a
tal
punto
che
a
volte
mi
viene
voglia
di
non
scen-‐
dere.
È
l'unico
posto
dove
mi
piace
stare
da
sola,
in
genere
non
lo
voglio
mai...
ho
paura
della
solitudine.
Ci
sono
molte
persone
diverse
a
bordo:
i
ragazzi
in
gruppo,
sono
quelli
simpaticoni,
quelli
con
lo
sguardo
pungente,
sono
quelli
sicuri
di
sé,
quelli
che
abbassano
lo
sguardo,
sono
quelli
insicuri,
e
quelli
nel
loro
mondo
che
non
gli
importa
degli
altri.
Raramente
si
sorride
sui
pullman...
mi
sento
stupida
e
goffa
lì
in
mezzo.
Gli
sguardi
degli
altri
mi
fanno
paura
e
mi
mettono
soggezione,
e
divento
una
di
quelli
che
abbassano
lo
sguardo.
Nel
tragitto
ascolto
una
musica
che
mi
dia
la
carica
e
il
coraggio
che
non
ho.
Mi
piace
pensare
che
una
volta
a
scuola
posso
trovare
persone
che
mi
sorridano,
e
ciò
mi
spinge
ad
andare...
ma
so
an-‐
che
che
troverò
quelle
che
mi
prenderanno
in
giro,
quelle
che
classifico
come
''ortiche'',
sono
sempre
pungenti,
ma
che
in-‐
vece
invidio
per
la
sicurezza.
Queste
persone
ti
servono
a
crescere,
secondo
me,
a
decidere
come
essere
con
le
persone
e
a
renderti
più
forte.
Scendo
dal
pullman
e
mi
avvio
verso
la
scuola,
ora
il
mio
risveglio
è
completo.
(Ileana)
Al
mattino
apro
gli
occhi
e
sono
come
un
giocatore
di
Rugby
Al
mattino
apro
gli
occhi
e
sono
come
un
giocatore
di
Rugby,
che
ha
davanti
la
meta.
Dalla
mia
finestra
la
luce
che
trapassa
le
tapparelle
è
abbagliante,
sento
che
anche
delle
piccole
cose
possono
cam-‐
biarmi.
Sento
scandire
l’ora
sulla
sveglia,
è
una
lotta
contro
il
tempo,
forse
perché,
nell’ultimo
anno
in
prima
superiore,
mi
sono
sentito
appassire,
mi
sono
lasciato
andare.
Eccomi
alla
fermata,
in
mezzo
a
persone
con
colore
di
pelle
diversa,
origini
e
religioni
differenti
ma
che
condividiamo
la
stessa
terra;
è
interessante
pensare
che
ognuno
ha
delle
esperienze
diverse
da
raccontare
legate
alla
propria
cultura,
e
per
questo
ho
rispetto.
Non
importa
di
che
nazionalità
sei,
ma
le
tue
idee
e
il
modo
in
cui
ti
comporti.
Arriva
il
pullman!
Salgo
e
mi
metto
a
osservare
le
persone
che
ho
intorno,
tutti
dentro
un
mezzo
ma
con
uno
scopo
di-‐
verso
e
stili
di
vita
differenti,
ad
esempio,
il
peruviano
che
va
a
vendere
la
sua
merce
al
mercato,
il
rumeno
che
si
dirige
in
cantiere,
il
signore
che
legge
il
giornale
che
va
in
ufficio
o
io
che
vado
a
scuola.
Nella
mia
testa
c’è
molta
confusione,
sarà
perché
sono
le
6:30,
la
cosa
brutta
è
che
a
sera
è
ancora
così,
non
finisce
mai.
Mi
rende
felice
sapere
di
aver
fatto
amicizie
con
persone
diverse
da
me.
Sì,
sono
contento!
Se
i
miei
pensieri
si
tramu-‐
13
tassero
in
un
film
si
intitolerebbe
di
sicuro
“Il
mondo
è
bello
perché
è
vario”.
Non
mi
lascerò
più
andare,
almeno,
ci
proverò,
perché
in
questa
vita
non
c’è
il
pullman
che
ti
aspetta.
Io
punto
a
gui-‐
darlo.
(Tarik)
Eccolo
è
lui,
quel
rumore
stridulo
Eccolo
è
lui,
quel
rumore
stridulo
che
insiste
sulle
mie
orecchie
e
mi
costringe
ad
aprire
gli
occhi.
Mi
alzo
dal
letto,
ap-‐
poggio
i
piedi
sul
solito
pavimento
freddo
del
mattino
e
mi
dirigo
verso
il
bagno.
Penso
alla
giornata
che
dovrò
trascor-‐
rere,
ma
è
meglio
che
mi
sbrighi,
il
tempo
non
aspetta
di
certo
me.
Siamo
sempre
tutti
così
di
fretta,
dobbiamo
essere
puntuali
sbrigarci,
sarebbe
più
bello
un
mondo
tranquillo
e
non
frenetico,
dove
si
godono
le
cose
che
si
fanno
e
si
vive
ogni
giorno
come
se
fosse
l’ultimo.
Bene!
sono
pronta,
mi
metto
le
scarpe,
prendo
lo
zaino
e
tutto
il
necessario
ed
esco
di
casa
salutando
calorosamente
i
miei
genitori.
Vado
verso
la
fermata
del
pullman,
e
lì
mi
trovo
circondata
da
gente,
gente
di
tutti
i
tipi:
felice,
triste,
vani-‐
tosa
e
gente
normalissima
che
tutti
i
giorni
percorre
la
stessa
strada
per
andare
da
qualche
parte.
Sono
sul
pullman
ed
ecco,
sola
in
mezzo
a
tutti
e
magari
è
normale
avere
un
po’
di
paura,
ci
sono
persone
non
molto
buone,
e
questo
è
molto
brutto,
fossi
in
me
non
farei
mai
del
male
ad
una
persona,
e
poi
per
cosa?
Il
mondo
è
molto
vio-‐
lento.
Quante
ne
sentiamo
tutti
i
giorni
nei
giornali,
alla
televisione.
Non
dovrebbe
essere
così.
Guardandomi
intorno
noto
subito
che
ognuno
di
noi
è
totalmente
diverso,
non
giudico
perché
non
conosco,
ma
solo
dagli
sguardi
capisco
un
po’
di
che
persone
si
tratta.
Eccole,
mancavano,
le
ragazze
pettegole
pronte
a
guardarti
dalla
testa
ai
piedi
per
esaminarti,
con
loro
intorno
non
si
è
mai
sé
stessi,
con
persone
che
si
divertono
solo
a
giudicare
non
ci
si
trova
bene.
La
gente
in
questo
mondo
è
molto
brava
a
giudicare
non
sapendo
le
cose,
prima
si
dovrebbe
conoscere
e
poi
giudi-‐
care.
Sarebbe
bello
vivere
avendo
conosciuto
e
provato
tutto
in
modo
da
poter
confrontare
giudicare
e
scegliere.
Le
paure
o
i
dubbi
che
mi
vengono
in
questo
momento
non
sono
molti,
desidererei
solo
un
mondo
meno
violento,
vor-‐
rei
che
si
pensasse
di
più
alle
persone
e
non
ad
agire
senza
pensare,
solo
perché
si
ha
il
potere
o
non
si
ha
niente
da
fare.
Il
mondo
che
sogno
è
semplice,
sincero
e
un
mondo
tranquillo
e
meno
rumoroso.
Il
mondo
che
desideriamo
noi
tutti
siamo
noi.
Senza
seguire
gli
altri,
semplicemente
noi
stessi,
le
nostre
idee,
i
nostri
pensieri.
NOI.
(Valeria)
5:00,
prima
sveglia
5:00,
prima
sveglia.
La
stacco
muovendo
il
dito
sul
touch
del
mio
cellulare.
Apro
gli
occhi
e
subito
gli
richiudo
iniziando
a
pensare,
a
cercare
di
continuare
il
sogno
finito
poco
prima,
spezzato
dal
suono
di
quella
tremenda
sveglia.
5:30,
ecco,
seconda
sveglia.
Rieccoci,
la
stacco
ma
questa
volta
gli
occhi
rimangono
aperti…
Con
fatica,
ma
aperti!
Mi
dico:
“Marzia,
che
si
fa?
Ci
si
alza?!”
Spesso
vorrei
rimanere
in
quel
caldo
e
morbido
letto,
inventare
qualche
stupida
scusa
con
i
miei
e
rincominciare
a
dormire,
ma
invece
no.
Con
fatica
mi
alzo
dal
letto,
mente
stracolma
di
pensieri.
“Dov’è
la
maglia?
La
mia
sciarpa,
dov’è
la
mia
sciarpa!!”
Poi
ancora
mezza
rimbambita
e
impanicata
entro
in
bagno.
Mi
trucco
e
i
pensieri
spariscono,
mi
rilasso.
Mi
faccio
bella?
Ma
no,
per
nessuno!
Mi
piace
vedermi
cosi.
Scendo
sotto,
cerco
le
calze,
le
metto
e…
6:38,
ultima
sveglia.
Ed
io
ancora
devo
ancora
finire
di
vestirmi.
“Brava
Marzia,
ennesimo
ritardo!
Sei
sveglia?
Non
sembra!
“
Esco
di
casa
sperando
di
riuscire
a
prendere
il
pullman
delle
7:05.
Incontro
Luchino,
dio
quanto
mi
piace
quel
ragazzo.
Beh,
sì,
è
proprio
un
bel
risveglio
vedere
quei
bei
capelli
biondo
cenere,
e
quel
sorriso
fantastico
che
tutte
le
volte
mi
abbaglia.
Mi
passano
per
la
testa
veloci
tutte
le
immagini
di
noi.
Baci,
carezze.
E
mi
sembra
così
strano
che
ora
non
ci
sia
più
nulla.
Uno
sguardo
ogni
tanto,
pieno
di
desiderio,
pieno
di
voglia
di
tornare
indietro,
voglia
di
quel
qualcosa
che
era
solo
nostro,
solo
di
noi
due.
E
tutto
scompare,
mentre
arriva
il
pullman.
Forse
per
lui
però.
Io
continuo
a
fantasticare,
a
farmi
tutti
quei
maledetti
“film”
in
testa.
Un
misto
tra
ricordi
e
voglia
ancora
di
fare,
voglia
di
averlo
e
possederlo.
Lo
so,
può
essere
stupido,
ma
non
sempre
lo
è
provare
un’attrazione
fisica.
Non
è
proprio
un
innamorarsi.
Forse
è
più,
come
dire,
un’ossessione
che
non
dovrebbe
stare
nella
mente
di
una
quindicenne,
l’ossessione
di
un’immagine
di
qual-‐
cuno
sempre
in
testa,
senza
esserne
veramente
innamorata.
Eppure,
a
volte
mi
piace
immaginare.
Quella
voglia
di
vedere
il
mio
corpo
che
viene
assalito
da
una
persona
dell’altro
sesso,
per
non
dire
dello
stesso,
mentre
sprizzo
dal
piacere
causato
dal
contatto
dell‘altro.
E
non
lo
so,
e
perché
no?
Perché
non
poterlo
vedere
su
uno
schermo?
Magari
solo
io.
Mi
alletta
l’idea.
Forse
me
ne
ver-‐
gognerei
un
po’,
ma
sarebbe
solo
questione
di
un
attimo,
anche
perché
non
penso
che
un
altro
nel
vedermi
se
ne
vergo-‐
gnerebbe.
Ormai,
molti
ragazzi
e
anche
ragazze
e
persone
adulte
guardano
questi
filmati,
ed
è
proprio
questo
che
mi
intriga.
Il
fatto
che
potrei
fare
un
certo
effetto,
il
fatto
di
poter
piacere,
il
fatto
di
avere
qualcuno
che
vorrebbe
avermi
ma
che
non
ne
avrà
mai
la
possibilità.
Il
fatto
di
piacere
per
ciò
che
vedono.
Mi
piacerebbe
essere
nel
“sogno”
di
qualcuno.
Non
lo
so,
è
una
strana,
ma
bella
sensazione.
Una
cosa
veramente
indescrivibile.
Finisco
questi
viaggi
mentali,
sperando
che
magari
questo
desiderio
un
giorno
si
avveri.
La
verità
è
che
non
so
neanche
io
cosa
mi
piacerebbe,
la
testa
ogni
giorno
è
più
con-‐
fusa.
E
forse
sarebbe
il
caso
di
mettere
un
po’
in
chiaro
le
cose
e
SVEGLIARSI.
(Marzia)
Al
mattino
quando
mi
suona
la
sveglia
Al
mattino
quando
mi
suona
la
sveglia,
dico
a
me
stessa:
"Ecco
si
inizia
di
nuovo",
andare
a
scuola,
un
luogo
dove
tutti
i
14
ragazzi
si
incontrano
e
per
otto
ore
restano
incollati
a
una
sedia
ad
ascoltare
ciò
che
dice
un
professore
e
a
imparare
lin-‐
gue
straniere
e
altre
materie
noiose,
per
avere
una
disciplina
e
un
diploma
in
mano,
pfff...
Però
quegli
anni,
quelle
ore
che
non
sembrano
passare
mai,
come
infinite,
sono
anche
divertenti.
Quando
finisco
di
pensare
e
di
riflettere
provo
ad
alzarmi,
così
faccio
uscire
una
gamba
e
anche
l'altra,
e
mi
alzo
as-‐
sonnata,
scombussolata
e
i
capelli
alla
pazza.
Vado
in
bagno
e
faccio
la
pipì,
in
silenzio
al
buio,
solitaria,
dove
quel
buio
in-‐
quietante
mi
circonda.
Finisco,
e
di
corsa
senza
voltarmi
vado
in
stanza
puntando
il
letto.
Mi
butto
e
mi
avvolgo
sotto
le
coperte,
con
il
pensiero
di
dormire
solo
dieci
minuti,
ma
conoscendomi
è
più
di
mezzora,
così
facendo
provo
ad
alzarmi,
mi
avvicino
al
muro,
accendo
la
luce
della
stanza
che
come
un
lampo
accecante
va
dritta
nei
miei
occhi.
Così
inizia
la
mia
giornata.
Bene,
mi
dico...
Sì,
inizia
un
altro
giorno,
anche
se
la
tentazione
di
ritornare
a
letto
è
forte,
però
mi
faccio
forza
e
senza
fare
storie
inizio
a
vestirmi,
a
mettermi
le
scarpe,
ad
andare
in
bagno
a
truccarmi,
e
a
pettinarmi,
come
tutte
le
mattine
prima
di
andare
a
scuola.
Finisco
e
guardo
l'ora...
"Ecco,
sono
in
ritardo",
mi
dico.
Così
tutto
di
corsa,
faccio
lo
zaino,
bevo
una
tazza
di
latte
e
mangio
due
o
tre
biscotti
messi
in
croce,
e
come
una
saetta
mi
scaravento
sulla
porta
salutando
i
miei.
Bene
sono
alla
fermata
ad
aspettare
lo
stesso
e
identico
pullman,
e
dove
ci
sono
le
stesse
e
identiche
persone
che,
quando
arrivi,
ti
fissano
dalla
testa
ai
piedi,
come
se
niente
fosse
e
dove
ognuno
di
noi
va
in
posti
diversi,
o
a
lavorare
o
andare
a
scuola
o
semplicemente
a
farsi
una
o
due
passeggiate.
E
dove
le
nostre
strade
si
dividono
e
dove
il
mattino
se-‐
guente
ci
ritroviamo
tutti
lì,
ammucchiati
ad
aspettare
quel
pullman
e
a
ripetere
le
stesse
cose
tutte
le
mattine.
Finalmente
è
arrivato,
e
tutti
salgono
con
indifferenza
come
se
niente
debba
succedere.
(Nathaly)
Il
suono
penetrante
della
sveglia
è
cominciato
Il
suono
penetrante
della
sveglia
è
cominciato.
Ciò
vuol
dire
che
mi
devo
svegliare.
Non
riesco,
non
ce
la
faccio,
sono
troppo
stanca,
ho
troppo
sonno
e
non
ho
voglia
di
alzarmi,
voglio
solo
rimanere
nel
letto
sotto
quelle
coperte
calde,
che
per
tutta
la
notte
mi
hanno
circondata
ma
sono
obbligata,
mi
devo
alzare.
Be’
meglio
così,
una
nuova
giornata
sta
per
co-‐
minciare,
effettivamente
non
posso
perdermela.
E
intanto
mi
rilasso.
Sono
tranquilla,
perché
sono
nel
letto
e
ho
gli
occhi
chiusi.
Come
tutte
le
mattine,
prima
di
al-‐
zarmi,
penso
a
programmarmi
la
giornata,
perché
se
non
ho
un
piano
da
seguire
non
riesco
a
vivere
bene,
se
non
ho
un
piano,
la
mia
giornata
non
può
incominciare.
Nel
programmarmi
la
giornata
mi
accorgo
che
nei
miei
pensieri
ricorre
spesso
la
parola
“devo”;
è
una
parola
che
mi
mette
ansia
e
agitazione.
Non
mi
piace
proprio
per
niente
questa
parola.
Ok,
ho
finito,
la
giornata
è
stata
programmata.
Apro
gli
occhi
ma
la
luce
che
penetra
dalla
finestra
mi
obbliga
a
socchiuderli.
Uffa!
non
ho
voglia
di
alzarmi,
voglio
tornare
a
dormire,
voglio
tornare
a
sognare,
perché
nei
sogni
la
parola
“devo”
non
esiste,
nei
sogni
sono
libera
di
fare
tutto
ciò
che
voglio.
“Libertà”
quest'altra
parola,
invece,
mi
dà
un
senso
di
benes-‐
sere,
un
senso
positivo
e
per
niente
negativo.
Mi
sono
alzata,
e
come
prima
cosa
andrò
al
bagno,
poi
mi
vestirò,
prenderò
lo
zaino
e
mi
dirigerò
a
scuola.
Oggi,
però,
ho
deciso
che
devo
divertirmi
e
quale
posto
è
più
adatto
per
divertirsi?
La
scuola,
perché
a
scuola,
dove
mi
aspettano
tutti
i
miei
amici,
tra
un’ora
e
l’altra,
ma
anche
durante,
un
sorriso
scappa
sempre.
Questa
giornata
ora
può
cominciare.
(Angelica)
Apro
gli
occhi;
ora
5:30
Apro
gli
occhi;
ora
5:30,
la
mia
stanza
è
uguale
come
sempre.
Davanti
a
me
un
orologio
che
scandisce
il
tempo.
Non
voglio
lasciare
quel
mondo
meraviglioso
e
vestirmi
per
andare
in
uno
orrendo.
Quella
cazzo
di
sveglia
è
suonata
anche
stamattina,
puntuale
come
la
morte.
La
odio.
Come
odio
quella
strada
fredda
da
percorrere
al
mattino.
Esco
di
casa;
il
solito
bar
aperto
dalle
6
e
30
del
mattino,
al
semaforo
passa
il
solito
furgone
con
gli
operai,
e
penso,
alla
loro
vita
e
a
quella
che
avrò
io:
quale
sarà
meglio?
Palazzi
tutti
uguali
ormai,
spenti.
O
il
mondo
è
davvero
piccolo
o
Torino
non
fa
per
me.
Sarà
la
politica
di
questo
paese,
saranno
le
persone,
sarà
la
storia
che
c’è
dietro,
sarà
la
mia
via
o
le
mie
co-‐
noscenze.
Sali
sul
4
e
vedi
il
gruppetto
di
uomini
sui
quarant’anni
che
ti
fissano
e
cominciano
a
fare
apprezzamenti
nella
loro
lingua.
E
lì
per
lì
potresti
diventare
razzista.
Ma
voglio
parlare
di
facebook,
il
social
network
del
millennio.
Se
c’è
una
cosa
che
mi
fa
incazzare
di
prima
mattina
è
il
pensiero
di
stare
con
persone
false
ed
ipocrite.
Se
ti
vuoi
rovinare
quel
poco
di
vita
piacevole
che
hai
ISCRIVITI
A
FACE-‐
BOOK.
La
gente
si
sta
rovinando
per
colpa
di
facebook
e
anche
netlog,
e
io
lo
vedo.
I
ragazzi
cominciano
a
uniformarsi
tutti
allo
stesso
modo,
stesso
linguaggio,
stessa
musica,
stesso
stile.
Che
fastidio,
più
nessuno
pensa
con
la
propria
testa.
Io
non
dico
di
essere
quella
diversa
o
rivoluzionaria
o
chissà
cosa,
ma
devo
dire
che
i
miei
pensieri
rimangono
sempre
gli
stessi
anche
su
un
social
network.
Ok,
ho
poi
solo
quindici
anni
e
mezzo,
non
sono
nessuno
per
giudicare.
Ma
visto
e
considerato
che
in
questa
società
tutti
giudicano
senza
sapere
niente
e
conoscere
lo
faccio
anche
io.
Ho
letto
un
articolo
su
facebook
l’altro
giorno,
dove
si
diceva
che
i
politici
davano
dei
“drogati”
ai
Metallica
e
ai
Muse
senza
sapere
un
cazzo
di
niente,
solo
perché
fanno
musica
Metal
pensano
che
quelle
band
siano
tutte
di
drogati.
Ma
io
mi
chiedo:
l’Italia
è
così
in
basso
da
andare
a
occuparsi
se
i
Metallica
o
i
Muse
si
drogano
invece
di
pensare
al
proprio
presidente
pedofilo
che
va
con
le
minorenni
e
manda
a
scatafascio
questo
paese?!
I
primi
drogati
secondo
me
sono
loro.
Senza
parole…
Ogni
giorno
mi
chiedo
sempre
di
più
perché
sono
nata
in
questo
paese.
Era
meglio
dormire.
(Chiara)
Questa
mattina,
vado
a
scuola?
Questa
mattina,
vado
a
scuola?
Posso
sempre
dire
che
non
è
suonata
la
sveglia,
no
no
devo
andare,
basta
perdere
giorni
di
scuola,
poi
ragiono,
è
grazie
a
persone
come
me
se
il
mondo
va
male,
gente
irresponsabile
che
per
un
pezzo
di
15
terra
uccidono
intere
popolazioni.
Persone
cosi
esistono
anche
nella
vita
di
tutti
i
giorni,
puoi
incontrarle
tutti
i
gironi
per
strada
mentre
vai
a
scuola,
persone
razziste,
ignoranti,
arroganti,
violente,
ipocrite
ma
a
pensarci
bene
è
della
specie
umana
essere
EGOISTA.
Per
esempio
ragazzi
maleducati
che
sul
tram
non
fanno
sedere
persone
più
anziane,
magari
le
stesse
persone
che
hanno
per-‐
messo
che
lui
abbia
la
possibilità
di
vivere
in
questo
bel
mondo.
Ma
il
mondo
va
cosi,
cosa
ci
posso
fare
io?
Io
posso
solo
guardare
e
pensare
al
mio
piccolo,
a
migliorare
me
stesso
per
non
essere
come
quei
fottuti
egoisti
che
ormai
riempiono
il
mondo.
E
mentre
penso
a
tutto
questo,
sono
a
scuola,
dove
sono
con
persone
che
per
me
darebbero
anche
un
braccio
e
allora
ripenso,
c'è
ancora
qualcuno
disposto
a
dare
qualcosa
di
suo
per
un
altro.
(Davide)
Qualcosa
mi
sta
scuotendo
ma
non
voglio
svegliarmi.
Qualcosa
mi
sta
scuotendo
ma
non
voglio
svegliarmi.
Ho
il
presentimento
che
se
aprissi
gli
occhi
potrei
vedere
un
mondo
orribile
pieno
di
pericoli
e
ostacoli.
Ho
paura
di
poter
vedere
la
mia
paura
e
questo
mi
terrorizza;
non
so,
mi
sento
strana
come
se
mi
fossi
smarrita
in
un
luogo
a
me
sconosciuto.
Un
ricordo
vago
mi
assale.
Mi
trovo
in
un
posto
senza
vege-‐
tazione,
ero
in
Africa,
non
so
cosa
fosse
esattamente
ma
era
un
luogo
stretto
e
buio
con
scale
a
chiocciola,
non
so…
Inizio
a
correre
senza
neanche
capire
il
motivo,
forse
per
la
paura
che
qualcuno
o
qualcosa
mi
sorprenda
alle
spalle,
corro,
corro
fino
alla
fine
di
quelle
maledette
scale,
ma
mi
ritrovo
allo
stesso
punto
di
prima.
Perché
mi
ritrovo
qui,
ho
sbagliato
a
fare
qualcosa!
oppure
questo
è
un
segnale!
Non
sono
ancora
riuscita
a
superare
la
mia
paura,
ma
non
importa,
continuerò
a
combattere
e
questo
è
l’unico
modo
per
poterla
superare.
Il
mondo
però
non
è
fatto
solo
di
pericoli,
ci
sono
anche
delle
belle
esperienze
da
vivere
con
la
fami-‐
glia,
gli
amici…
che
la
vita
ci
offre
e
obbiettivi
da
raggiungere,
anche
se
per
poterli
raggiungere
devi
fare
anche
dei
piccoli
sacrifici.
Devo
svegliarmi
ce
la
posso
fare
!
e…
apro
gli
occhi
ancora
appesantiti
dal
sonno.
(Jessica)
Stanco
come
fossi
stanco
di
dormire
Stanco
come
fossi
stanco
di
dormire.
Una
sensazione
inspiegabile,
sento
il
mio
corpo
che
si
svuota.
Mi
sento
leggero,
rilassato
senza
nessun
pensiero,
senza
un
rumore
fastidioso,
e
mi
metto
a
riflettere.
O
almeno
credo.
Svegliarmi,
però,
non
è
per
me.
Vorrei
restare
nel
mio
sogno
profondo,
perché
sognare
è
viaggiare,
sentirsi
il
più
forte,
il
più
grande,
il
più
potente,
non
avere
paura
di
niente.
Il
vero
problema
è
che
non
riusciamo
a
controllare
i
nostri
sogni.
E
non
solo
i
sogni,
ma
noi
stessi.
Come
se
non
riuscissi
a
mostrare
nella
realtà
qualcosa
di
me.
Quando
sto
per
svegliarmi,
è
come
quando
sono
venuto
qui
in
Italia.
Per
me
è
come
prendere
il
volo.
Mi
sento
freddo,
ansioso,
spaventato,
e
insieme
curioso
di
lasciare
il
mio
passato
indietro
in
attesa
di
un
futuro
prossimo.
Aprire
gli
occhi
è
come
salire
sull’aereo
che
mi
ha
portato
qui.
Un
po’
triste,
un
po’
però
mi
sento
contento,
perché
ve-‐
drò
i
miei
familiari.
So
che
loro
mi
vogliono
un
bene
immenso.
So
che
ho
una
nuova
porta
aperta
sul
futuro.
Alzarsi
è
come
essere
in
mezzo
all'Oceano.
Essere
nel
nulla,
nella
solitudine.
Aprire
la
finestra
e
vedere
il
primo
raggio
di
luce
è
come
vedere
il
fuso
orario,
il
tempo
che
cambia
e
passa
in
fretta.
Così
chiudo
gli
occhi
e
decido
di
restare
nel
letto,
stare
fermo
guardando
al
nulla
e
pensare
che
cosa
farò
in
questo
nuovo
giorno.
A
volte
penso
alla
mia
esistenza
in
questo
mondo.
A
volte
a
cose
banali,
o
ancora
a
cose
che
non
esistono.
Chissà,
forse
sono
immagini
del
passato
che
mi
sono
lasciato
alle
spalle
o
dei
miei
problemi
che
ho
di
fronte,
e
delle
mie
relazioni
amo-‐
rose,
soprattutto,
ancora
da
risolvere.
Quando
vado
oltre
a
miei
sogni,
proprio
quando
sto
per
trovare
una
risposta,
sento
la
voce
di
mia
madre
che
mi
dice
di
andare
a
tavola.
Non
ci
faccio
caso,
mi
rimetto
nel
mio
sogno
e
mi
dico,
Devo
trovare
una
risposta,
devo
trovare
una
risposta.
Non
ci
riesco,
sono
con
gli
occhi
chiusi
a
pensare
ancora
e
non
ci
riesco.
Di
nuovo
la
voce
di
mia
madre,
l'unica
voce
che
mi
rimette
nella
realtà.
Mi
alzo,
penso
che
la
realtà
non
si
confronta
con
il
mio
sogno.
Per
trovare
le
risposte
ai
miei
sogni
ci
vorrà
del
tempo,
l'esperienza
nel
futuro.
Vado
in
bagno,
mi
lavo
la
faccia
con
l’acqua
fredda
e
mi
guardo
allo
specchio
per
vedere
se
sono
ancora
nel
mio
sogno.
È
tutto
vero.
Mi
vengono
in
mente
frammenti
dei
miei
sogni.
Mi
sento
felice
però,
e
quando
mi
sono
già
preparato
per
uscire,
mi
sembra
di
stare
per
scendere
dall'aereo,
una
nuova
vita,
una
nuova
casa,
una
nuova
avventura.
(Kevin)
Ogni
mattina,
la
prima
cosa
che
penso
Ogni
mattina,
la
prima
cosa
che
penso
è
quanto
possa
essere
duro
il
giorno
che
devo
affrontare,
un
giorno
ancora
più
pesante
di
quelli
precedenti,
e
che
sarà
sempre
più
pesante
giorno
dopo
giorno,
sempre
pieno
di
sorprese
o
colpi
di
scena
nascosti
dietro
l’angolo.
Ed
è
proprio
questo
il
bello
di
svegliarsi
al
mattino,
o
almeno,
l’unica
cosa
bella.
Perché
purtroppo,
ahimè,
non
è
bello
svegliarsi.
Penso
che
sia
una
delle
cose
più
difficili
a
questo
mondo.
Ed
è
proprio
la
mente
il
problema,
perché
fisicamente
tutti
ce
la
farebbero.
Ma
è
proprio
il
cervello
che
lo
impedisce,
che
ci
comanda
in
ogni
nostra
azione,
in
ogni
nostro
movimento,
è
lui
il
padrone
e
noi
siamo
solo
dei
burattini
che
stanno
nelle
sue
mani.
Ci
sono
due
modi
per
svegliarsi:
bruscamente,
il
modo
che
utilizziamo
tipo
duecento
giorni
all’anno
per
andare
a
scuola,
l’altro
è
quello
tranquillo
dove
ci
si
può
alzare
anche
a
mezzogiorno.
Io
preferisco
di
gran
lunga
il
secondo.
Ecco,
sono
sveglio,
finalmente
i
miei
film
mentali
sono
finiti.
Ma
non
riesco
ad
alzarmi
dal
letto,
ma
devo
alzarmi,
devo
farlo.
Ma
ad
un
tratto
mi
faccio
forza
e
mi
alzo
di
scatto
mettendo
con
molta
calma
i
piedi
caldi
nelle
ciabatte
gelide,
sen-‐
tendomi
come
un
gladiatore,
che
sta
andando
però
a
fare
colazione.
Appena
finito
di
mangiare
i
cereali,
mi
lavo,
mi
vesto,
esco.
La
prima
cosa
che
penso
appena
metto
piede
fuori
dal
portone
di
casa
è:
ah,
che
bella
giornate,
ma
in
realtà
non
vedo
l’ora
di
ritornare
a
casa
di
pomeriggio
e
fare
pranzo.
Ma
poi
alla
fine,
mentre
sono
sul
tram
con
le
cuffie
nelle
orecchie
a
massimo
volume,
penso
che
non
è
così
terribile
andare
a
scuola,
che
ci
sono
cose
di
gran
lunga
peggiori,
e
che
anzi
poi
alla
fine
mi
diverto
pure,
quindi
è
meglio
pensare
positivo
la
mattina.
(Matteo)
16
Mi
sono
alzato,
mamma
mia
ho
ancora
sonno.
Mi
sono
alzato,
mamma
mia,
ho
ancora
sonno.
Sembra
che
mi
sia
addormentato
cinque
minuti
fa,
ma
non
è
cosi.
E
da
più
di
dieci
ore
che
dormo,
e,
ripeto,
ho
ancora
sonno.
Sembra
che
faccia
fatica
anche
la
notte:
i
pensieri,
i
sentimenti,
mi
mettono
alla
prova
con
me
stesso,
addirittura
quando
cerco
di
trovare
una
pace,
una
tregua.
Ritorno
alla
luce,
non
sono
più
nell’ombra,
la
luce
mi
ordina,
l’ombra
mi
giudica,
come
se
avessi
due
vite,
una
aperta
e
una
chiusa.
Adesso
la
vita
aperta
mi
chiama
e
mi
sveglia
con
la
sua
luce
forte
e
densa.
Mi
alzo,
mi
lavo
la
faccia
per
svegliarmi
e
per
guardare
come
sono
in
un’altra
dimensione.
Mi
vesto
e
penso
a
tutto,
non
solo
a
me
stesso.
Ho
fretta
di
aprire
la
porta
e
uscire.
Urlo
un
bel
CIAO,
contento,
affettuoso
e
mi
butto
nell’aria.
(Mattia)
Allora
per
domani…
“Allora
per
domani
dovete
fare
una
narrazione,
dove
descrivete
un
vostro
risveglio
come
un
aprire
gli
occhi
sul
mondo,
del
mondo
come
lo
vedete
voi,
insomma…”.
Le
parole
del
prof
mi
risuonano
ancora
in
testa…
Okkei,
la
sveglia
è
suonata
è
ora
di
alzarsi!
Dai!
Ancora
due
minuti
qui
nel
letto
a
riflettere
e
a
rilassarmi…
Ricordo
vagamente
qualcosa
del
sogno
fatto,
un
mondo
tutto
mio,
dove
sono
in
pace
con
me
stessa
e
tutto
va
strana-‐
mente
bene.
Dico
stranamente,
perché
nella
mia
vita
non
va
mai
tutto
bene,
ci
deve
essere
sempre
qualcosa
a
rovinarmi
le
giornate
o
a
farmi
saltare
i
nervi.
Ma
non
nel
mio
sogno,
nel
mio
mondo
no!
Lì
non
è
così,
lì
è
diverso.
Nei
sogni
tutto
è
fantastico,
a
meno
che
non
sia
in
un
incubo.
Però,
nei
sogni.
puoi
fare
ciò
che
vuoi,
rivedere
persone
care
che
magari
non
ci
sono
più,
vivere
in
un
pianeta
diverso,
combattere
per
il
bene
della
terra
accanto
ai
tuoi
eroi
prefe-‐
riti…
insomma,
fai
ciò
che
ti
pare!
Nel
mio
ultimo
sogno,
mi
ritrovo
lì,
più
grande
di
qualche
anno,
in
quella
piccola
casetta
sull’albero,
il
mio
spazio
lon-‐
tano
da
chi
non
mi
va
di
vedere
o
sentire,
i
grandi
diciamo!
Lì
posso
inventare
ciò
che
mi
va,
chiudere
gli
occhi
e
catapul-‐
tarmi
in
qualsiasi
altro
mondo
o
situazione.
E
lì,
nel
mio
sogno
chiudo
gli
occhi,
li
riapro
e
sono
una
principessa,
ma
non
come
tutte
le
altre,
tutte
rosa
e
sdolcinate,
no,
io
sono
diversa,
io
sono
una
principessa
guerriera,
una
paladina
della
giu-‐
stizia!
Improvvisamente
mi
ritrovo
a
combattere
con
degli
zombi,
delle
mummie,
degli
esseri
orrendi!
Una
voce
fuori
campo
mi
spiega
che
alla
fine
di
ogni
missione
mi
verrà
consegnato
un
oggetto
che
mi
sarà
utile
nella
realtà;
incredula
sfodero
la
mia
spada
e
facendo
straordinarie
acrobazie
inizio
a
eliminare
tutti
i
miei
nemici
ma
vengo
fe-‐
rita
dall’ultimo
soldato
zombi!
Un
dolore
così
forte
e
atroce
che
mi
sembra
di
provarlo
anche
nella
realtà,
ma
qui
siamo
in
un
sogno!
Mi
alzo
e
come
in
un
film
a
rallentatore,
salto
e
mi
catapulto
sul
nemico
uccidendolo
brutalmente!
Togliendo
la
spada
mi
sveglio
improvvisamente!
Cavolo
che
sogno!
Magari
potesse
essere
realtà,
sfoderare
la
spada
e
spaventare
quel
giusto
che
basta
per
far
cambiare
atteggiamento
a
chi
ne
avrebbe
bisogno!
Ma
ora
è
davvero
arrivato
il
momento
di
alzarsi…
però
che
stanchezza,
tutte
le
mattine
la
solita
routine,
le
solite
facce,
le
solite
cose
da
fare
e
da
non
fare.
Spesso
mi
ritrovo
a
pensare
a
cosa
fare
in
futuro,
poi
mi
fermo
e
riflettendo
un
attimo
mi
convinco
che
forse
è
meglio
aspettare,
che
sono
troppo
piccola
per
pensare
al
mio
futuro,
ma
la
realtà
ai
giorni
nostri
ti
viene
sbattuta
in
faccia
fin
da
piccoli
come
un
moscerino
che
s’infrange
su
un
parabrezza
di
un
auto.
La
cosa
non
mi
piace
affatto.
Il
nostro
mondo
oggi
non
mi
piace
affatto.
Ho
paura,
paura
che
questo
mondo
vada
lette-‐
ralmente
a
ramengo,
per
dirla
in
un
modo
un
po’
più
raffinato.
Ma
noi,
noi
“piccoli”
studenti
cosa
possiamo
fare?
Ogni
giorno
vedo
decine
e
decine
di
persone
che
stanno
peggio
di
noi,
che
non
riescono
a
cavarsela
nella
vita
e
allo
stesso
tempo
alla
televisione
ragazze
semi
nude
che
per
scuotere
i
fianchi
prendono
soldoni
su
soldoni,
o
politici
che
vengono
applauditi
quando
la
maggior
parte
di
loro
meriterebbe
solamente
il
contrario,
poiché
non
fanno
nulla
di
concreto
per
noi.
Noi
ce
ne
stiamo
qui,
con
un
misero
capitale,
mentre
loro…
vabbè
lasciamo
perdere
che
già
mi
sto
innervosendo..
Mentre
penso
queste
cose,
immagino
la
gente
sbarcata
a
Lampedusa,
dei
naufragi,
di
tutte
quelle
povere
persone
che
prendono
la
dura
decisione
di
intraprendere
rischiosissimi
viaggi
in
barconi
spesso
sovraffollati…
Per
cosa?
Perché
lo
fanno?
O
meglio
perché
ci
provano?
Perché
molti
di
loro
non
arrivano
mai
a
destinazione,
se
si
spingono
a
ciò
devono
aver
lasciato
alle
spalle
una
situazione
disastrosa,
e
la
gente
cosa
fa?
Se
ne
frega
altamente!
È
una
cosa
che
non
sopporto!
Se
solo
chi
con
i
soldi
rinunciasse
a
cambiare
“il
macchinone”
ogni
tanto,
a
non
spendere
soldi
per…
lasciamo
perdere,
non
voglio
diventare
volgare,
forse
sarebbe
meglio.
Però
la
situazione
è
questa:
gente
che
muore
di
fame
e
gente
che
invece
ha
fin
troppo…
perché
l’uomo
è
così
egoista?
Perché
c’è
così
tanta
ingiustizia
a
questo
mondo?
Vorrei
potermi
alzare
in
piedi
e
parlare
al
mondo.
Cosa
dire
non
lo
so,
anzi
un
paio
di
idee
le
avrei,
ma
chi
mai
ascolterebbe
una
sedicenne
con
tanta
voglia
di
impedire
tutti
questi
soprusi?
Credo
nessuno,
i
soldi
fanno
così
gola
alla
gente…
che
brutta
cosa…
Di
politica
non
sono
un’esperta,
credo
solo
che
ci
dovrebbero
essere
meno
parla
parla
e
molto
più
spazio
per
le
idee
dei
giovani.
Poi
si
lamentano
della
fuga
di
cervelli
all’estero…
Non
voglio
dilungarmi
molto
con
questi
pensieri
perché
ormai
è
tardi.
Sono
le
6:10,
mi
devo
alzare,
non
posso
arrivare
in
ritardo
anche
oggi,
anche
se
vorrei
chiudere
gli
occhi
e
tornare
nel
mio
mondo
dove
posso
scaricare
tutta
la
rabbia
che
ho
contro
quegli
stupidi
zoticoni
degli
zombi.
Ma
ormai
è
tardi
devo
chiudere
questa
finestra
sui
miei
sogni
e
purtroppo
aprire
quella
sulla
realtà.
Che
schifo.
(Sara
So.)
17
IL
MANIFESTO
“IO,
ME,
MI
–
IN
&
OUT”
[in
esposizione
negli
spazi
della
scuola]
18
Un
esempio
di
progettazione
IL
PROGETTO
«NOI
SIAMO…»
Ed
eccoci
qui,
23
personalità
diverse
unite
da
un
unico
obbiettivo.
Quale
obbiettivo?
Farvi
capire
che
il
colore
della
pelle,
gli
occhi
e
tutto
il
resto
non
fanno
la
persona
in
sé.
Certo,
per
quanto
uno
si
possa
ambientare
nel
tempo,
alla
fine
tra
di
noi,
tra
la
gente,
le
differenze
si
fanno
sentire.
Sta
a
noi
ricono-‐
scere
le
differenze
positive
di
ognuno,
accoglierlo,
e
farlo
sentire,
se
pur
diverso
da
noi,
a
casa,
e
accolto
in
una
comunità
di
cui
farà
parte.
Il
nostro
progetto
è
nato
da
un
duro
ma
buon
lavoro
di
gruppo
progettato
da
piccoli
gruppi
di
lavori
diversi,
di
foto-‐
grafia,
di
grafica,
delle
interviste
e
infine
di
narrativa.
Il
nostro
intento
è
quello
di
dare
un
esempio
positivo
per
far
capire
che
le
differenze
non
sono
un
male
come
molti
pensano
ma,
al
contrario,
sono
un
bene
per
scoprire
e
imparare
qualcosa
e
per
renderci
migliori,
appunto.
19
Nonostante
l'aspetto,
la
lingua,
le
abitudini
e
le
diverse
usanze,
il
sorriso
e
la
risata
sono
sempre
le
stesse.
Ci
accomu-‐
nano.
Le
interviste
autobiografiche
in
forma
di
storia
Intervista
a
Kevin
(trascrizione
dell’intervista
narrativa)
Qual
è
la
tua
data
di
nascita?
Il
23
giugno
1994.
Da
dove
vieni?
Io
vengo
dal
Perù,
bellissimo
paese
pieno
di
paesaggi
emozionanti.
Cosa
ti
hanno
detto
i
tuoi
genitori
della
tua
nascita?
Secondo
i
miei
genitori
era
una
giornata
bellissima,
ma
per
i
miei
genitori
è
stato
difficile,
perché
a
quel
tempo
il
Perù
soffriva
una
crisi
economica
e
di
terrorismo
e
i
miei
genitori
avevano
paura
che
io
venissi
ucciso
oppure
che
miei
fratelli
venissero
presi
dall’esercito
militare
e
terrorista.
Poi
dopo
tre
settimane
o
un
mese
stava
già
diminuendo
il
terrorismo
e
sono
stati
più
tranquilli.
Da
quanto
sei
qui?
Io
sono
da
tre
anni
qui
in
Italia
e
mi
trovo
benissimo
grazie
a
miei
amici.
Già
dal
primo
momento
quando
sono
sceso
da
aereo
ho
respirato
una
nuova
aria,
ho
sentito
tanta
curiosità,
un
nuovo
futuro
Con
chi
sei
venuto
in
Italia
e
per
quale
motivo
sei
venuto
qui?
Io
sono
venuto
qui
con
i
miei
due
fratelli.
È
stata
un’esperienza
molto
interessante
e
bella
prendere
l'aereo
arrivarci
qui,
in
Italia,
senza
conoscere
la
lingua,
conoscere
un'altra
cultura.
Il
motivo
di
venire
qui
in
Italia
è
stato
per
motivi
fami-‐
liari
–
mia
madre
era
da
sola
qui
–
e
anche
per
motivi
di
studio.
Sai
perché
i
tuoi
genitori
hanno
scelto
l’Italia?
E
perché
non
un
altro
paese?
I
miei
genitori
hanno
scelto
l’Italia
perché
c’erano
già
dei
miei
familiari
da
tanto
tempo
e
miei
genitori
hanno
preferito
venire
qui.
I
tuoi
genitori
hanno
trovato
in
Italia
ciò
che
si
aspettavano?
I
miei
genitori,
sì,
hanno
trovato
ciò
che
si
aspettavano,
un
lavoro,
anche
se
volevano
approfondire
le
loro
professioni.
Perché?
Perché
dovevano
fare
alcuni
studi
principali
per
forza
qui
in
Italia.
Torni
nel
tuo
paese
regolarmente?
Ad
esempio
durante
le
vacanze
estive
o
invernali?
Io
torno
a
Perù
ogni
due
anni,
perché
in
quel
tempo
i
miei
genitori
e
familiari
tornano
al
Perù.
Il
periodo
in
cui
viag-‐
giamo
sono
le
vacanze
invernali.
Per
quale
motivo?
Perché
in
quel
periodo
quasi
tutta
la
mia
famiglia
è
assieme,
e
in
Perù
il
periodo
é
di
estate.
Qual
è
la
è
prima
cosa
che
ti
viene
in
mente
appena
arrivi
nel
tuo
paese?
Racconta.
Quando
sono
appena
tornato
a
Perù
la
prima
cosa
che
mi
è
venuta
in
mente
era
di
andare
subito
subito
a
casa
a
salu-‐
tare
i
miei
fratelli
con
un
abbraccio
e
stare
con
tutta
la
mia
famiglia,
tutti
assieme,
come
nei
tempi
in
cui
sono
nato,
e
poi
buttarmi
sul
letto
e
pensare
che
tutto
è
stato
un
sogno.
Ti
piacerebbe
tornare
nel
tuo
paese
d’origine?
Perché?
A
me,
sì
mi
piacerebbe
tornare
al
mio
paese,
perché
io
vorrei
portare
avanti
il
mio
paese
con
la
professione
che
stu-‐
dierò.
Ma
se
ho
un
buon
futuro
qui
in
Italia,
perché
non
restare.
Quando
ti
manca
il
tuo
paese
a
cosa
pensi?
Racconta.
Il
mio
paese
mi
manca
tantissimo,
perché
per
adesso
ho
trascorso
più
del
tempo
della
mia
infanzia
e
poi
in
Perù
i
pae-‐
saggi
sono
immensi
grazie
alla
madre
natura.
Sono
pieni
di
emozioni.
Un
posto
dove
si
può
fare
una
bella
vacanza,
ma
quello
che
mi
manca
sono
di
più
i
familiari
che
sono
rimasti
lì.
Come
ha
influenzato
le
tue
abitudine
il
cambio
di
paese?
Le
mie
abitudini
sono
cambiate
tantissimo,
in
poche
parole
sono
migliorato,
anche
se
a
volte
faccio
un
po’
il
birichino.
Racconta
se
e
come
è
stato
difficile
imparare
l’italiano.
Per
me
l’italiano
non
è
stato
difficile
capirlo
ma
scriverlo
e
pronunciarlo.
Mi
causava
moltissimi
problemi
sia
a
casa
sia
con
gli
amici
quando
uscivo
fuori
e
principalmente
a
scuola,
ma
grazie
a
miei
amici
e
familiari
sono
riuscito
a
capirlo
me-‐
glio
e
a
scriverlo
più
o
meno,
perché
ancora
ho
alcune
difficoltà
a
scriverlo
e
a
pronunciarlo;
ma
senza
di
loro,
grazie
a
tutti,
non
sarei
mai
riuscito
a
impararlo.
Quando
ti
sei
accorto
di
essere
“diverso”?
Racconta.
Io
ero
già
grande
quando
sono
arrivato
qui.
Sono
arrivato
qui
a
tredici
anni
e
capivo
che
io
e
i
miei
amici
eravamo
di-‐
versi,
ma
loro
sempre
mi
dicevano
che
io
e
loro
siamo
uguali,
solo
che
siamo
di
diversa
cultura.
Qual
è
il
tuo
ricordo
più
bello
legato
al
tuo
paese?
E
a
quello
italiano?
Il
ricordo
più
bello
è
il
mio
sport
che
faccio,
anche
se
non
è
considerato
uno
sport.
Grazie
allo
skateboard
posso
anche
ricordare
il
mio
paese
perché
in
Perù
mi
piaceva
tantissimo
andare
sullo
skate.
Quali
tradizioni
avete?
Le
segui
anche
qui
in
Italia?
Spiega.
Io
non
ho
mai
seguito
nessuna
tradizione
finora,
ma
ho
sentito
che
in
Torino
si
fanno
alcune
feste
peruviane,
ma
io
non
vi
ho
mai
assistito.
Cosa
pensi
della
tua
religione?
La
segui?
La
mia
religione
è
quella
cattolica.
Sono
religioso
ma
non
partecipo.
Qui
come
ti
comporti
con
la
tua
famiglia
?
in
che
lingua
parlate
in
casa
?
Perché?
Qui
in
Italia
io
mi
comporto
molto
bene
con
la
mia
famiglia,
educatamente
anche
se
a
volte
faccio
un
po’
di
disordine
ma
metto
a
posto
subito,
anche
quando
faccio
un
errore.
A
casa
mia
parliamo
in
italiano,
anche
se
alcune
volte,
quando
20
vengono
a
visitarci
i
nostri
familiari,
parliamo
in
spagnolo,
perché
secondo
me
abbiamo
più
confidenza,
e
poi
la
parliamo
meglio.
Intervista
a
Miriam
(trascrizione
dell’intervista
narrativa)
Ciao.
Da
dove
vieni?
Hola,
io
vengo
dal
Marocco
(Casablanca).
Quanti
anni
hai
e
da
quanto
sei
qui?
Al
momento
ho
16
anni,
e
sono
qui
da
quando
avevo
otto
anni.
Fate
un
po’
il
conto!
Ahahah!
Con
chi
sei
venuto
in
Italia
e
per
quale
motivo
sei
venuta
qui?
In
Italia
sono
venuta
assieme
a
mia
madre
e
alle
mie
sorelle.
Mio
padre
era
già
qui
in
Italia
da
molto
tempo.
Sai
perché
i
tuoi
genitori
hanno
scelto
l'Italia?
E
perché
non
un
altro
paese?
Non
saprei
perché
mio
padre
ha
scelto
proprio
l'Italia.
Magari
era
quella
più
facile
da
raggiungere,
non
so
di
preciso
né
il
come
né
il
perché.
So
solo
che
anche
mio
padre
era
sbarcato
a
Lampedusa
come
tutti
quelli
di
adesso,
che
stanno
respin-‐
gendo
via!
I
tuoi
genitori
hanno
trovato
in
Italia
ciò
che
si
aspettavano?
Direi
di
sì.
Perché?
Perché?
Perché
hanno
una
casa,
dei
soldi
con
cui
mandar
avanti
una
famiglia,
una
macchina,
un
lavoro...
Hanno
il
ne-‐
cessario
per
sopravvivere.
Direi
che
si
dovrebbero
accontentare
e
anche
io
mi
dovrei
accontentare,
visto
che
faccio
parte
di
questa
famiglia.
Ma
sembra
che
tutto
questo
a
volte
non
basta
mai,
o
forse
solo
a
me
non
basta
mai?
Boh!!
Torni
regolarmente
nel
tuo
paese?
Ad
esempio
durante
le
vacanze
estive
o
invernali?
Fino
a
due
anni
fa
ci
andavo
regolarmente
ogni
estate.
Ora
non
più.
Per
quale
motivo?
(Facoltativa
in
base
alla
risposta
sopra)
Oltre
alla
mancanza
di
soldi
e
altre
cose,
c'è
anche
il
fatto
che
a
me
non
piace
più
andarci.
Il
perché?
Beh,
semplice-‐
mente
non
mi
trovo
più
bene
laggiù.
Mi
annoio.
Ogni
giorno
è
uguale
a
quello
precedente,
e
passare
tutta
l'estate
così
non
è
poi
il
massimo.
Ci
sono
i
miei
vecchi
amici,
però
non
è
più
la
stessa
cosa.
Non
è
come
abitare
ancora
lì.
Ora
come
ora
mi
sento
leggermente
esclusa
da
quel
mondo,
non
è
che
me
ne
freghi
più
di
tanto.
Però
andare
in
un
posto
dove
io
oramai
non
c’entro
più
niente
non
è
poi
il
massimo.
C'è
gente/amici
che
mi
parlano
solo
perché
abito
in
Italia
adesso,
chi
invece
non
mi
parla
proprio
perché
vivo
in
Italia
adesso.
E
non
è
che
la
cosa
mi
interessi
più
di
tanto
ancora
una
volta.
Io
di
gente
simile
posso
anche
farne
a
meno.
Qual
è
la
prima
cosa
che
ti
viene
in
mente
appena
arrivi
nel
tuo
paese?
Racconta
(facoltativa
in
base
alla
risposta
sopra)
La
prima
cosa
a
cui
penso?
Ma
sinceramente
non
lo
so.
Appena
sbarco,
appena
entro
in
macchina
e
comincio
a
percor-‐
rere
la
strada
in
direzione
di
Casablanca
l'unica
cosa
a
cui
penso
o
cose
simili
è:
''Quando
arriverò
a
casa?
Quando
potrò
rivedere
il
mio
vecchio
quartiere?
La
vecchia
gente?
Saranno
cambiati?
Tante
domande
a
cui
ricevo
risposta
in
meno
di
due
giorni.
E
poi
tutta
questa
curiosità
passa,
passa
tutto,
passa
l'entusiasmo.
E
così
comincio
ad
annoiarmi.
E
l'unica
cosa
a
cui
penso
dopo
è:
Quando
diamine
torno
a
casa?
Quando
partiamo
per
l'Italia?!
Ti
piacerebbe
ritornare
nel
tuo
paese
d'origine?
Perché?
No,
non
mi
piacerebbe
ritornare
nel
mio
paese
d'origine.
Oramai
io
adesso
qua
ho
degli
amici,
ho
una
vita
da
mandar
avanti,
ho
un
futuro
o
quel
che
è
da
creare
da…
da??
Da
non
lo
so!
Ahah!
ma
comunque
sia,
io
ora
come
ora
preferisco
re-‐
stare
qui.
Quando
ti
manca
il
tuo
paese
a
cosa
pensi?
Racconta.
Amm…
non
mi
manca
più
di
tanto,
e
al
momento
non
mi
viene
in
mente
niente!
Come
ha
influenzato
le
tue
abitudini
il
cambio
di
paese?
Il
cambio
di
paese?
Le
abitudini?
Direi
che
sono
un
po’
più
libera.
Ad
esempio,
qua
posso
vestirmi
come
diamine
vo-‐
glio,
posso
truccarmi
come
diamine
voglio,
posso
tenere
i
capelli
come
diamine
voglio!!
Là
è
tutta
una
cosa
strana.
Non
devi
esagerare
in
questo.
Non
devi
esagerare
in
quello!!
Ehii
lasciami
vivere
eh!
però
boh,
in
Marocco
hanno
questa
men-‐
talità
leggermente
chiusa.
Ma
forse,
certe
critiche
riguardo
a
una
ragazzina
di
16
anni
sono
accettabili.
Ma
per
una
dai
20
in
su
anche
no,
eh!
Come
hai
imparato
la
lingua?
Chi
ti
ha
aiutato?
Beh
la
lingua,
la
lingua
l'ho
imparata
grazie
alla
scuola
a
cui
i
miei
mi
hanno
iscritta
subito,
grazie
ai
libri
che
ho
sem-‐
pre
amato
leggere
da
quando
sono
arrivata
qui
in
Italia,
grazie
anche
alla
TV.
Devo
dire
che
anche
questa
mi
ha
aiutato
molto.
E
anche
grazie
a
mio
padre,
mia
sorella
che
mi
aiutava
a
leggere
e
tanto
altro.
Racconta
se
e
come
è
stato
difficile
imparare
l'italiano.
Ma
sinceramente
non
me
lo
ricordo!
Sono
passati
tanti
di
quegli
anni
diamine.
E
non
mi
ricordo
più
di
tanto
di
quando
avevo
otto
anni.
Quando
ti
sei
accorta
di
essere
"diversa"?
Racconta.
Quando
mi
sono
accorta
di
essere
'diversa'?
Allora
direi
un
po’
troppo
presto,
un
po’
troppo
piccola
ero,
a
otto
anni!
Al
mio
arrivo
in
Italia!
Alla
mia
iscrizione
nella
nuova
scuola!.
Perché?
Beh…
sapete
i
bambini?
La
loro
schifosa
mentalità?
Quella
mentalità
chiusa
e
limitata
come
quella
che
hanno
i
vecchietti
verso
gli
80
anni?
Ecco.
Con
me
erano
leggermente
cattivi.
Specialmente
le
ragazze
e
non
capivo
il
perché
e
ne-‐
anche
adesso
capisco
il
perché.
Perché
io
ero
marocchina.
Loro
pensavano
che
io
fossi
come
tutti
i
marocchini.
Quelli
sporchi,
cattivi
o
quel
che
sono.
Vi
faccio
un
piccolo
esempio
tipo…
un
marocchino
ha
i
pidocchi
o
si
sente
dire
che
questo
marocchino
ha
i
pidocchi,
allora
loro/lei/lui
pensano
che
TUTTI
i
marocchini
abbiano
i
pidocchi,
e
roba
varia.
Ma
ora
ho
16
anni,
oramai
non
mi
interessano
le
parole
delle
persone,
quelle
stupide
e
chiuse.
Ora
ho
degli
amici
e
in
mezzo
a
loro
mi
sento
diversa,
sì.
Ma
non
sono
l'unica,
per
loro
non
conta
essere
di
colore
o
cose
simili,
siamo
uniti
ed
è
questa
la
gente
che
voglio
intorno
a
me.
Non
mi
interessa
essere
'diversa',
l'importante
è
es-‐
21
sere
felice
di
esserlo
senza
farmi
tanti
problemi
al
riguardo.
Take
It
Easy!
Qual
è
il
tuo
ricordo
più
bello
legato
al
tuo
paese?
E
quello
italiano?
Il
ricordo
più
bello
legato
al
mio
paese?
Beh,
direi
mia
madre,
solo
e
unicamente
mia
madre.
Tutti
i
momenti
felici
della
mia
vita
li
ho
passati
assieme
a
questa
donna.
L'unica
donna
a
cui
io
tenga.
L'unica
che
vorrei
restasse
insieme
a
me
per
tutta
la
vita,
perché
dico
mia
madre?
Perché,
quando
non
c'era
mio
padre,
io
ero
sempre
insieme
a
mia
madre.
Mia
madre
era
il
mio
punto
di
riferimento.
Mia
madre
era,
ed
è
ancora,
la
mia
ragione
di
vita.
Un
bel
ricordo
legato
all'Italia?
Mhm…
Direi
mia
sorella
che
ora
come
ora
a
casa
è
l'unica
che
mi
aiuta
e
mi
sta
vicino
e
cerca
di
capirmi
e
fare
quel
che
può
per
me.
I
miei
amici,
i
miei
nuovi
amici.
Gente
a
dir
poco
stupenda.
Senza
gli
amici
che
vita
sarebbe?
Che
ricordi
avresti
della
tua
adolescenza?
La
scuola?
I
compiti
da
fare
a
casa?
Quali
tradizioni
avete?
Le
seguite
anche
qui
in
Italia?
Spiega.
Beh
ci
sono
troppe
cose
che
continuiamo
a
seguire
anche
qui
in
Italia..
Tipo
il
Ramadan,
conoscete?
Il
digiuno
durante
tale
mese
costituisce
il
terzo
dei
Cinque
pilastri
dell'Islam
e
chi
ne
negasse
l'obbligatorietà
sarebbe
un
peccatore,
colpevole
cioè
di
empietà
massima
e
dirimente
dalla
condizione
di
musulmano.
In
alcuni
paesi
a
maggio-‐
ranza
islamica
il
mancato
rispetto
del
digiuno
è
sanzionato
penalmente.
Nel
corso
del
mese
di
Ramadan,
infatti,
i
musulmani
praticanti
debbono
astenersi
–
dall'alba
al
tramonto
–
dal
bere,
mangiare,
fumare
e
dal
praticare
attività
sessuali.
Chi
è
impossibilitato
a
digiunare
(perché
malato
o
in
viaggio)
può
anche
essere
sollevato
dal
precetto,
ma
appena
possibile,
dovrà
recuperare
il
mese
di
digiuno
successivamente.
In
poche
parole
è
questo.
Poi
c'è
tanta
altra
roba
che
non
sto
a
elencarvi
e
a
spiegarvi!
Cosa
pensi
della
tua
religione?
La
segui?
Beh,
è
la
mia
religione,
mi
hanno
cresciuta
seguendo
questa
religione
e
non
posso
dir
altro
che
forse
è
la
migliore.
Ognuno
di
noi
crede
che
la
sua
religione
è
la
migliore
e
io
penso
ciò.
La
nostra
religione
ci
proibisce
di
far
uso
delle
so-‐
stanze
più
nocive
alla
salute
esistenti
al
mondo.
Un
esempio?
Due
esempi?
Il
fumo,
il
bere,
la
droga
e
tanto
altro.
Che
altro
dire?
Niente,
solo
che
io
credo
nella
mia
religione
come
tutti
voi
credete
nella
vostra.
E
sono
fiera
di
credere
in
ciò.
Qui
come
ti
comporti
con
la
tua
famiglia?
In
che
lingua
parlate
in
casa?
Perché?
Beh
con
la
mia
famiglia
mi
comporto
normalmente.
In
che
modo
mi
dovrei
comportare
scusate?
Non
è
che
adesso
che
sono
in
Italia
il
mio
comportamento
o
i
miei
atteggiamenti
debbano
cambiare
nei
confronti
della
mia
famiglia,
dei
miei
ge-‐
nitori
o
cose
varie.
Comunque
sia,
in
casa
parliamo
l'arabo.
Non
siamo
una
di
quelle
famiglie
marocchine
che
parlano
l'ita-‐
liano
a
casa
o
cose
varie.
Noi
parliamo
semplicemente
arabo.
Non
c'è
un
perché.
È
la
nostra
lingua
madre,
quindi
perché
cambiarla,
scusate?
E
poi
c'è
chi
sa
parlare
meglio
l'arabo
e
c'è
chi
sa
parlare
meglio
l'italiano.
Io,
ad
esempio,
non
so
più
parlare
tanto
bene
l'arabo.
Passo
la
maggior
parte
del
mio
tempo
in
mezzo
a
Italiani
e
non
faccio
altro
che
parlare
l'ita-‐
liano.
Così
anche
per
non
dimenticarmi
dell'arabo
(a
volte
mi
dimentico
anche
come
si
dice
qualche
parola
in
arabo!!)
parlo
arabo
in
casa!.
Cosa
ti
hanno
raccontato
i
tuoi
genitori
della
tua
nascita?
Sinceramente
niente,
perché
non
ho
mai
chiesto
niente
al
riguardo.
Dove
vivevano
i
tuoi?
I
miei
vivevano
a
Casablanca,
una
delle
città
più
'famose'
del
Marocco,
vivevano
in
un
semplice
quartiere
abbastanza
tranquillo.
Un
quartiere
residenziale
abitato
da
più
e
più
famiglie,
tutti
che
conoscono
te,
tu
che
conosci
tutti.
Niente
di
speciale
in
fondo.
Ciao,
mi
chiamo
Jessica
sono
nata
in
Italia,
il
7
Ottobre
1996,
all’ospedale
Sant’Anna
a
Torino.
I
miei
genitori
mi
hanno
detto
che
sono
nata
a
mezzanotte.
Al
momento
della
nascita
i
medici
hanno
detto
a
mio
padre
che
forse
avevo
qualche
problema
respiratorio
perché
dopo
il
parto
non
mi
sono
più
mossa.
Mio
padre
si
è
arrabbiato
con
i
medici
e
infuriato.
Andò
verso
la
sala
per
vedere
come
stavo
e
guardandomi
attentamente
si
accorse
che
stavo
solo
dormendo.
Già
dormigliona!
Ed
ero
appena
nata!
I
miei
genitori
sono
ghanesi
e
sono
nati
in
una
città
chiamata
Tema
che
si
trova
più
o
meno
nel
Nord
del
Ghana.
So
da
sempre
di
essere
ghanese.
Innanzitutto,
per
la
lingua
parlata
ma
anche
dal
colore
della
pelle;
poi
mi
sono
resa
conto
che
ci
sono
altre
persone
diverse
da
me
per
le
loro
caratteristiche
fisiche,
ma
alla
fine,
anche
se
ci
sono
piccole
differenze,
tra
di
noi
siamo
comunque
persone
e
perciò
uguali.
Da
quel
momento
non
mi
sono
sentita
diversa.
Mi
ricordo
che
ad
esempio
in
prima
elementare
volevo
fare
amicizia
con
una
bambina
in
particolare,
ma
lei
non
ne
voleva
sapere
e
io
non
ne
capivo
il
motivo.
Mi
sentivo
così
strana,
“diversa”!,
ma
inaspettatamente
lei
mi
ha
chiesto
di
essere
sua
amica.
Solo
in
quarta
elementare
mi
spiegò
il
motivo
per
cui
non
vo-‐
leva
essere
mia
amica:
“per
il
colore
della
pelle”.
In
quel
preciso
istante
mi
sono
sentita
malissimo
ma
non
durò
molto,
perché
lei
aggiunse
che
aveva
commesso
un
errore
stupidissimo
e
che
aveva
capito
quanto
fossero
speciali
le
persone
con
qualche
piccola
differenza
e
che
se
fosse
stata
nel
mio
paese
sarebbe
stata
lei
la
straniera.
Mi
sentii
subito
meglio.
In
questi
anni
sono
stata
sempre
in
Italia.
L’unica
volta
in
cui
sono
andata
in
Ghana
è
stato
quando
avevo
circa
tre
anni
e
vorrei
ritornarci
volentieri.
Mi
mancano
le
piccole
cose
che
ricordo
di
quel
posto.
Rispetto
a
Torino
devo
dire
che
è
completamente
diversa
a
partire
dal
paesaggio.
Ci
sono
posti
in
cui
c’è
moltissima
vegetazione
che
rende
il
luogo
stupendo,
mentre
altri
sono
privi
di
vegetazione
ma
stranamente
belli.
Quello
che
non
capisco
è
come
fanno
in
un
posto
in
cui
non
ha
mai
piovuto
crescere
piante!
Sono
sicura
che
anche
i
miei
genitori
vogliono
ritornarci
un’altra
volta
e
anche
mia
sorella
Susan
e
mio
fratello
Bryan!
(Jessica)
Ciao,
mi
chiamo
Bin
Vu,
provengo
da
un
paese
cinese
chiamato
When
Hong,
vicino
al
mare,
il
tempo
è
come
a
Torino.
Ho
diciotto
anni
e
sono
in
Italia
da
cinque
mesi.
In
realtà,
sono
venuto
qui
solo
per
studiare
e
per
motivi
familiari,
i
miei
genitori
hanno
scelto
l’Italia
probabilmente
perché
è
un
bel
paese
e
io
sono
contento
di
vivere
qui
e
spero
di
conoscere
nuove
persone
che
siano
simpatiche.
22
Le
vacanze,
sia
estive
che
invernali
le
festeggio
in
Cina
con
i
miei
amici
ma
soprattutto
con
la
mia
famiglia,
la
mia
vita
appartiene
alla
Cina.
Se
un
giorno
ritornerò
per
sempre
nel
mio
paese
d’origine
penserò
che
l’Italia
è
stata
una
bella
espe-‐
rienza.
Penso
che
per
certi
versi
la
Cina
sia
più
bella
dell’Italia,
a
me
piace
molto;
anche
se
non
è
da
molto
che
sono
qui,
mi
mancano
tutti
gli
amici
che
avevo
lì
e
anche
la
cucina
cinese,
diversa
da
quella
italiana.
Sono
cambiate
diverse
cose
ri-‐
spetto
alla
Cina,
ad
esempio
le
mie
abitudini
e
il
cibo,
ma
nonostante
tutto
mi
trovo
bene.
La
lingua
italiana
è
molto
difficile
da
imparare.
Infatti
non
la
so
ancora
bene,
parlo
con
difficoltà
ma
cerco
di
farmi
ca-‐
pire
comunque.
Qui
in
Italia
non
mi
sento
“diverso”,
secondo
me
una
persona
dimostra
di
essere
diversa
nel
carattere
e
non
in
base
alla
pelle
o
al
viso.
Uno
dei
ricordi
più
belli
che
ho
della
Cina
è
quando
sono
andato
in
montagna
con
la
mia
famiglia.
Dell’Italia
invece
ri-‐
cordo
il
giorno
in
cui
sono
arrivato
a
scuola
e
ho
conosciuto
i
miei
nuovi
compagni.
Una
bella
esperienza.
La
mia
famiglia
qui
si
è
trovata
benissimo
fin
dall’inizio.
Quando
sono
a
casa
con
i
miei
genitori
parlo
cinese,
perché
non
sappiamo
l’italiano
ancora
tanto
bene.
Mio
padre
lo
vedo
solo
la
sera,
perché
lavora
tutto
il
giorno,
mia
madre
invece
vive
in
Cina,
mi
manca.
(Bin
Vu)
Ciao
sono
Nathaly
e
vengo
dall’Ecuador
in
Sud
America,
ho
quattordici
anni
e
sono
qui
in
Italia
da
nove
anni.
Sono
ve-‐
nuta
qui
in
Italia
con
mio
padre
per
raggiungere
mia
madre
che
era
qui
da
molto
tempo,
siamo
venuti
qui
perché
avevamo
un
punto
di
riferimento,
visto
che
da
parte
di
mia
madre
c’era
sua
zia.
I
miei
genitori
sono
contenti
di
essere
qui,
perché
hanno
avuto
la
fortuna
di
inserirsi
in
un
nuovo
modo
di
vita
“per
noi”,
per
arrivare
a
quello
che
volevano.
Noi
non
andiamo
regolarmente
nel
nostro
paese,
perché
il
viaggio
da
qui
in
Ecuador
costa
molto,
anche
perché
siamo
in
quattro
in
famiglia
e
non
ce
la
faremmo,
però
mi
piacerebbe
molto
andarci
almeno
a
rivedere
i
miei
cugini,
i
miei
nonni,
le
mie
zie.
Anche
solo
un
saluto
e
per
me
significherebbe
molto.
Il
ricordo
più
bello
che
ho
del
mio
paese,
anche
se
un
po’
non
riesco
a
ricordarmelo
bene
perché
me
ne
sono
andata
quando
avevo
solo
5
anni,
è
quando
mi
alzavo
la
mattina
e
an-‐
davo
di
corsa
in
pigiama
dai
miei
vicini
a
svegliare
i
miei
amichetti
e
a
fare
colazione.
Mia
madre
tutte
le
mattine
mi
incon-‐
trava
là
a
tavola
seduta
a
mangiare
latte
e
cereali.
Ora
quei
ricordi
stanno
sparendo,
e
mi
piacerebbe
molto
tornare
in
Ecuador
a
rivivere
questi
momenti
e
a
stare
un
po’
con
i
miei
parenti
visto
che
non
mi
vedono
da
quando
avevo
5
anni.
A
dir
la
verità
mi
manca
molto
il
mio
paese,
mi
manca
tutto,
le
nostre
tradizioni,
le
nostre
lunghe
feste
che
duravano
due
giorni
o
anche
di
più.
Quando
penso
a
questo,
provo
a
pensare
ad
altro,
a
quanto
sono
fortunata
ad
avere
amici
fantastici,
amici
che
oramai
fanno
parte
di
me
e
non
riuscirei
a
lasciarli
per
niente
al
mondo.
Quando
sono
arrivata
qui,
mi
sentivo
strana
in
un
mondo
più
veloce,
macchine
che
correvano,
ambulanze
che
suona-‐
vano,
palazzi
grandi,
per
me
era
tutto
diverso,
perché
quel
poco
che
mi
ricordo
del
mio
paese
non
era
così,
era
molto
più
calmo
nel
senso
che
non
c’erano
macchine
di
qua
e
di
là,
ma
gente
che
la
vita
se
la
godevano
con
molta
più
calma;
le
case
ad
esempio
erano
piccole,
i
bambini
li
potevi
lasciare
andare
a
giocare
senza
accompagnarli
o
altro.
Però
mi
sono
abituata
molto
bene
qui
e
anche
se
là,
nel
mio
paese,
ti
godresti
la
vita
con
molta
più
calma,
per
me
la
vita
è
qui
con
i
miei
genitori
e
i
miei
amici.
Ho
imparato
la
lingua
italiana
aiutandomi
con
la
scuola,
amici
italiani
di
mia
madre
e
anche
dai
libri.
È
stato
difficile
ma
alla
fine
l’ho
imparata
e
ora
per
me
è
naturale.
Quando
per
la
prima
volta
sono
andata
a
scuola
qui
in
Italia,
mi
sentivo
strana,
diversa,
a
dir
la
verità
perché
tutti
venivano
dallo
stesso
paese
e
altri,
compresa
me,
venivano
da
un
paese
lontano
e
non
eravamo
come
loro,
quindi
avevo
paura
di
non
essere
apprezzata,
di
non
inserirmi
tra
di
loro,
di
essere
esclusa,
ma
ora
che
sono
un
po’
grandicella,
sono
fortunata
a
essere
diversa
da
loro,
perché
posso
parlare
due
lingue
diverse,
raccon-‐
tare
tradizioni
del
mio
paese
e
sono
felice
per
questo.
Le
nostre
tradizioni
sono
come
quelle
in
Italia,
non
cambia
niente,
io
sono
cattolica
e
penso
che
alcune
cose
della
Bib-‐
bia
siano
vere,
anche
se
non
credo
molto.
Con
i
miei
genitori
mi
comporto
bene
come
tutti
i
ragazzi,
credo,
per
ottenere
quello
che
vogliamo,
come
vestiti,
scarpe,
e
altre
cose.
A
casa
parliamo
lo
spagnolo
e
anche
l’italiano,
ma
io
e
mio
fratello,
che
è
nato
qui,
parliamo
solo
ita-‐
liano,
i
miei
solo
lo
spagnolo.
Credo
che
mi
sono
integrata
bene
qui
in
Italia,
compresi
anche
i
miei
genitori,
e
ovviamente
anche
mio
fratello.
(Nathaly)
Io
sono
Davide,
una
di
quelle
persone
che
molte
volte
sono
vittime
dei
pregiudizi
verso
gli
altri,
ma
poi
io,
a
differenza
di
molto,
ragiono
e
capisco
che
al
di
là
delle
apparenze
c'è
molto
di
più,
c'è
una
persona.
Io
sono
nato
a
Torino
il
18
settembre
del
1995,
sono
italiano
con
famiglia
italiana.
Ho
molti
amici
stranieri
con
loro
passo
le
mie
giornate
e
penso
che
quasi
tutti
gli
stranieri
qui
in
Italia
non
siano
brutte
persone,
anche
se
molto
volte
ho
avuto
brutte
esperienze
con
degli
stranieri.
Come
quella
volta
che
giravo
per
la
mia
zona
con
un
mio
amico,
e
tre
maroc-‐
chini
mi
hanno
rapinato
e
picchiato.
Anche
se
sul
momento
sono
diventato
razzista,
pensandoci
su,
ho
capito:
ci
sono
stranieri
bravi
e
stranieri
cattivi.
Molti
dicono
che
se
hai
la
pelle
scura
non
sei
italiano.
Io
non
la
penso
così,
se
tu
sei
cresciuto
qui
in
Italia
sei
italiano.
Hai
avuto
una
educazione
italiana?
Bene
sei
italiano.
Molti
ragazzi
che
conosco
sono
più
Italiani
di
molti
altri
che
nascono
qui.
Io
sono
molto
fiero
che
molti
stranieri
abbiano
deciso
di
vivere
in
Italia.
Mi
piace
pensare
che
molte
persone
abbiano
scelto
di
venire
nel
mio
paese
lasciando
la
loro
città
natale,
le
loro
amicizie
e
molte
volte
le
loro
famiglie
per
venire
qui.
Per
concludere
direi
che
io
penso
che
tutto
il
mondo
è
un
grande
paese
alla
fine,
i
confini
sono
creati
dall'uomo
e,
quando
noi
diciamo
ad
un
altro
che
è
diverso,
dobbiamo
sempre
ricordarci
che
lui
a
noi
potrebbe
dire
la
stessa
cosa.
(Davide)
Mi
chiamo
Sara,
ho
quattordici
anni
e
sono
nata
a
Moncalieri
(TO).
I
miei
genitori
sono
del
Marocco
e
sono
in
Italia
da
vent'anni.
23
Il
primo
ricordo
che
ho
del
Marocco
è
di
quando
avevo
5-‐6
anni.
Mi
ricordo
di
una
casetta
bianca
e
dei
bambini
di
cui
ora
non
ricordo
nemmeno
il
nome,
ero
andata
in
primavera,
saltando
la
scuola,
mi
ricordo,
che
tutte
le
mattine
vedevo
un
pulmino
giallo...
loro
che
uscivano
alle
6:00
del
mattino
per
giocare
con
me
e
poi
andare
via,
lasciandomi
poi,
per
tutta
la
giornata,
da
sola.
Pur
essendo
nata
in
Italia,
io
mi
sento
marocchina
per
il
semplice
fatto
che
amo
quel
paese,
con
i
suoi
paesaggi
e
le
persone,
così
disinvolte,
rispetto
agli
europei,
perfettini
in
tutto.
Non
mi
sono
mai
sentita
diversa,
e
poi,
perche?
Siamo
tutti
essere
umani,
nessuno
è
migliore.
Non
ho
mai
avuto
problemi
con
l'italiano,
lo
capisco
e
lo
parlo
come
il
marocchino,
li
ho
imparati
contemporanea-‐
mente.
A
parte
questo,
trovo
ancora
adesso
dei
problemi
nella
vita
quotidiana,
gente
che
insulta
gli
stranieri
dicendomi
di
ri-‐
tornarmene
al
mio
paese,
bambini
che
ti
escludono,
perché
non
sei
italiana,
o,
ancora,
adulti
che
ti
prendono
di
mira
di-‐
cendo
che
i
miei
genitori
sono
dei
ladri.
Trovo
che
tutto
ciò
sia
stupido,
io
sono
"italiana"
per
scelta,
ma
loro
lo
sono
per
caso,
per
sorte.
Chi
sono
loro
per
dirmi
dove
devo
stare?!
La
gente
crede
di
essere
furba
quando
in
realtà
è
la
prima
a
essere
stupida.
Per
questo,
se
qual-‐
cuno
mi
venisse
e
mi
chiedesse:
cosa
preferisci?
L’Italia
o
il
Marocco?
Io
risponderei:
Marocco!
Perché
là,
con
tutte
le
con-‐
trarietà
che
potrebbero
avere,
non
giudicano
mai
uno
straniero
se
viene
nel
loro
territorio,
anzi,
lo
lodano,
e
cercano
di
trasmettergli
le
proprie
tradizioni.
Tutti
gli
anni
spero
di
andare
in
Marocco,
paese
che
è
per
me
ricco
di
affetti
e
ricordi.
Ed
ogni
estate,
è
un
dolore
la-‐
sciarlo,e
chissà
quando
potrò
rivederlo.
Al
momento
di
andartene
via
ci
si
sente
come
una
strizza
al
cuore,
come
se
qualcuno
o
qualcosa
ti
soffocasse
fino
a
farti
male,
piangi,
ma
non
serve
a
niente...
la
macchina
intanto
va,
destinazione
Spagna,
poi
Francia,
e
infine,
Italia.
Ci
si
sente
impotenti,
si
piange
e
basta.
Anche
se
ti
riprometti
di
non
farlo,
i
ricordi
si
accavallano
cosi
vorticosamente,
che
è
impossibile
reggere
l'impatto.
Ti
metti
a
ricordare
la
quotidianità,
quello
che
era
normale,
diventa
un
tesoro
da
ricordare:
le
mattine,
quando
man-‐
giavo
in
fretta
per
poi
scendere
a
giocare,
o
le
sere,
passate
fino
alle
due
del
mattino
a
chiacchierare,
a
girare
coi
motorini;
le
brezze
notturne
del
mare,
la
sabbia
morbida
e
calda,
le
feste
di
paese,
dove
tutti
scendono
nella
strada
principale
per
festeggiare,
e
io,
con
le
mia
amiche,
a
passare
le
serate
ad
abbuffarci,
a
cantare
e
a
giocare
per
strada.
Il
pensiero
di
dividermi
da
quelle
persone,
da
quei
paesaggi
è
così
brutto,
che
finché
non
lo
si
prova
non
lo
si
può
ca-‐
pire.
Mi
riprometto
sempre
che,
appena
arrivata
in
Italia,
le
chiamerò,
dalla
prima
all'ultima,
ma
alla
fine
non
lo
faccio
mai,
perché
so
che
sentirle
sarebbe
ancora
peggio,
sapere
che
loro
sono
lì
tutte
insieme,
e
io
invece
manco
all'appello.
Ma
alla
fine
non
è
una
cosa
cosi
brutta
vivere
in
mezzo
a
due
culture,
due
paesi,
cosi
diversi
fra
di
loro.
Credo
sia
un
lusso
che
chi
critica
non
potrà
mai
permettersi,
e
quasi...
un
vantaggio.
(Sara
Sh.)
Tarik
è
nato
in
Italia
a
Torino,
più
precisamente
a
Venaria
Reale,
ha
sedici
anni,
di
origini
marocchine
da
parte
di
pa-‐
dre,
sua
madre
invece
è
italiana.
Il
padre
è
venuto
in
Italia
all'età
di
trent’anni
per
trovare
lavoro,
fino
a
tre
anni
fa
faceva
il
giardiniere
ma
è
stato
licen-‐
ziato
dal
datore
di
lavoro
perché
non
poteva
assicurargli
un
stipendio
regolare.
Attualmente
è
disoccupato.
Tarik
viene
da
una
situazione
famigliare
difficile,
quattro
anni
fa
i
suoi
genitori
si
separarono
e
lui
e
sua
sorella
andarono
a
vivere
con
la
madre.
Da
quando
vive
solo
con
sua
madre
e
sua
sorella
è
molto
più
tranquillo
e
sereno,
tra
lui
e
suo
padre
ci
sono
molte
incomprensioni
e
rancori,
perché
Tarik
definisce
suo
padre
un
genitore
assente,
troppo
autoritario
e
violento.
Il
suo
unico
viaggio
verso
il
proprio
paese
d'origine
è
avvenuto
a
tre
anni.
Ha
pochi
ricordi
di
quell'esperienza.
Ha
af-‐
frontato
un
viaggio
di
tre
giorni
per
arrivare
dai
propri
nonni
paterni.
All'arrivo
salì
con
suo
padre
su
un
cammello.
Que-‐
sto
è
uno
dei
suoi
ricordi
felici
del
Marocco.
Trascorso
un
mese,
lui
e
la
sua
famiglia
tornarono
in
Italia.
Non
torna
al
suo
paese
d'origine,
perché
tutti
i
suoi
amici
e
affetti
sono
in
Italia,
lui
si
sente
Italiano,
la
sua
educazione
e
cultura
è
italiana.
Difatti
non
conosce
la
lingua
marocchina,
perché
il
padre
non
è
riuscito
ad
insegnargliela,
anche
se
ci
ha
provato
più
volte.
Si
è
accorto
di
essere
“diverso”
quando
gli
chiedevano
il
nome.
Alla
sua
risposta
puntualmente
arrivava
la
domanda
“ma
sei
italiano?”
Lui
non
si
sente
diverso,
crede
che
siamo
tutti
uguali
e
che
le
differenze
di
colore
di
pelle,
di
origine
e
di
lingua
non
contino.
Invece,
crede
che
siano
importanti
le
idee
e
il
modo
in
cui
uno
si
comporta.
I
ricordi
del
suo
paese
d'origine
più
belli
sono
l'incontro
con
i
parenti
paterni;
quelli
dell'Italia
è
sicuramente
la
libertà
le
sue
amicizie
e
gli
stili
di
vita
italiani,
anche
la
musica,
adora
il
rap
italiano
più
di
ogni
cosa
e
in
generale
tutta
la
cultura
hip
hop.
Il
suo
stile
di
vita
e
le
sue
idee
sono
influenzate
profondamente
da
questa
cultura
che
per
lui
è
una
valvola
di
sfogo,
perché
grazie
a
questa
musica
è
consapevole
che
molta
gente
come
lui
ha
avuto
le
stesse
esperienze
e
le
racconta
attraverso
a
una
canzone.
Lo
rincuora
sapere
di
non
essere
l'unico
ad
aver
passato
un’infanzia
difficile.
Non
segue
nes-‐
suna
tradizione
marocchina
a
differenza
del
padre
che
è
ossessionato
dal
Ramadan.
È
stato
battezzato
ma
ha
un’idea
di
religione
propria.
(Tarik)
Ciao
mi
chiamo
Ricardo
ho
14
anni,
sono
nato
a
Lima,
la
capitale
del
Perù.
Sono
venuto
in
Italia
con
mio
padre
e
mia
sorella
ha
3-‐4
anni.
Ci
siamo
trasferiti
in
Italia
per
la
famiglia.
Molti
penserebbero
per
il
lavoro,
ma
noi
là
stavamo
bene
in
tutti
i
sensi.
Per
prima
è
venuta
mia
nonna,
come
turista,
e,
dato
che
era
già
in
pensione,
ha
deciso
di
rimanere
in
Italia.
Subito
dopo,
è
ve-‐
nuta
mia
madre
come
turista,
poi
è
ritornata
in
Perù
e,
finalmente,
siamo
venuti
tutti
insieme
per
stare
in
famiglia
e
pian
piano
sono
arrivati
gli
altri
parenti.
Il
cambio
di
paese
non
ha
influenzato
le
mie
abitudini,
per
il
fatto
che
sono
venuto
qua
da
piccolo
e
ho
vissuto
la
mia
infanzia
qua.
Anche
la
lingua
è
stata
facile
da
imparare,
diciamo
che
è
come
se
fosse
stata
la
mia
seconda
lingua
ufficiale.
Il
giorno
della
mia
nascita
i
dottori
avevano
lasciato
mia
madre
dissanguata
sul
letto,
poteva
morire
se
non
fossero
in-‐
tervenuti.
Mi
sono
accorto
di
essere
diverso
da
piccolo,
ma
siamo
tutti
diversi,
se
no
saremmo
dei
replicanti,
cioè
ognuno
è
fatto
a
modo
suo,
siamo
diversi
in
tutto,
nel
modo
di
vestire,
nel
colore
dei
capelli,
nella
musica
ecc.
24
Vorrei
tornare
in
Perù,
per
vedere
com’è
adesso,
dato
che
sono
venuto
in
Italia
da
piccolo,
ho
pochissimi
ricordi
del
Perù.
Anche
se
non
mio
manca,
trovo
il
Perù
un
paese
stupendo.
Il
ricordo
più
bello
del
mio
paese?
Bene!
questo
non
lo
so,
ma
se
ci
penso,
il
ricordo
che
mi
viene
subito
in
mente
del
mio
paese
è
una
festa
in
casa
mia.
Io
ero
piccolo,
per
sbaglio
chiudo
la
porta
di
casa,
e
così
restiamo
tutti
chiusi
fuori
di
casa.
Allora,
mio
zio
si
arrampica,
sale
ed
entra
dalla
finestra
del
secondo
piano
e
apre
la
porta
di
casa.
Invece,
il
primo
ricordo
italiano
è
questo.
Erano
appena
arrivati
i
miei
parenti
dal
Perù,
erano
a
tavola
che
parlavano,
poi
mia
madre
mi
chiede:
“Chi
è
lui?”,
e
io
rispondo
******
e
tutti
si
mettono
a
ridere,
perché
l’avevo
confuso
con
suo
fra-‐
tello.
Questi
due
ricordi
si
possono
collegare
grazie
a
una
persona,
cioè
mio
zio,
che
è
per
me
una
persona
molto
impor-‐
tante
fin
da
quanto
ero
piccolo
piccolo.
Le
tradizioni
le
seguiamo
ancora,
soprattutto
quelle
religiose,
anche
se
io
mi
sono
reso
conto
di
non
essere
cristiano
e
vorrei
seguire
la
mia
strada.
Mi
ha
sempre
affascinato
il
Buddismo.
Con
la
mia
famiglia
mi
comporto
normalmente.
A
casa
parliamo
sia
l’italiano
che
lo
spagnolo
per
non
dimenticare
le
nostre
radici.
Il
posto
in
cui
stai
non
cambia
il
modo
di
comportarti.
Dal
video
NOI
SIAMO…
TUTTE
LE
LINGUE
DEL
MONDO
(alcuni
fotogrammi)
SEQUENZA
DI
FOTO-RITRATTI
I VOLTI DI OGNI
SINGOLO/A ALLIEVO/A
25
A
ESPERIENZA
CONCLUSA:
ESITI
CONDIVISI
Il
lavoro
finale
NOI
SIAMO
riflette
l’esito
complessivo
del
progetto
didattico:
il
«senso
del
noi»,
realizzato
su
au-‐
tonoma
ideazione
dei
ragazzi
e
delle
ragazze,
a
partire
dalla
riflessione
sulle
storie
in
relazione
al
tema
«identi-‐
tà/differenza»
individuale;
tema
che,
nel
corso
della
sua
elaborazione,
è
venuto
sempre
più
a
declinarsi
come
metafora
del
«viaggio»
che,
attraverso
le
interviste
narrative,
ha
assunto
ancora
il
significato
ulteriore
di
un
sé
in
processo,
che
accade
nell’incontro
con
l’altro,
almeno
dell’altro
che
si
fa
vicino
e
a
cui
si
va
incontro.
Che
la
costruzione
della
identità
di
sé
sia
una
«composizione»,
quasi
a
collage,
è
emerso
con
forza
nel
brain-
stormig
che
ha
preceduto
la
costruzione
del
video,
un’animazione
fotografica,
costituita
da
una
sequenza
di
volti
nuovi
ottenuti
unendo
frammenti,
a
taglio
longitudinale,
di
diversi
soggetti,
dentro
cui
si
alterna
la
scritta
NOI
SIAMO,
coniugata
in
diverse
lingue
del
mondo,
e
alcune
presenti
come
lingua
madre
tra
i
compagni
e
compagne
di
classe.
Il
risultato
è
un
melange
caleidoscopico
ma
coordinato
di
più
e
diverse
porzioni
del
volto,
un
volto
che
si
compone
a
strati,
come
messa
in
relazione,
nell’incontro
con
gli
altri,
attraverso
cui
impariamo,
nel
linguaggio
appunto,
a
costruire
i
contesti
di
vita
della
nostra
esistenza.
Un
noi
siamo…,
appunto,
tutte
le
lingue
del
mondo.
Un
concetto,
questo,
la
cui
espressione
visuale
raggiunge
nel
contesto
figurativo
della
fotografia
l’espressione
finale
di
una
individualità
coniugata,
per
così
dire,
al
plurale,
di
un’immagine
di
sé
come
parte
inseparabile
dagli
altri.
Non
estranee
a
questo
esito
riflessivo,
le
molte
discussioni
svolte
in
classe
sulla
dinamica,
anche
conflittuale,
della
loro
stessa
vita
di
relazione
in
aula.
La
«relazione
con
i
compagni»,
la
loro
interdipendenza,
è
un
tema
di
cui
si
trova
traccia
consistente
nei
diversi
testi
di
restituzione
–
Cosa
ho
imparato?
–
forniti
dagli
allievi
e
dalle
allieve
a
fine
anno
scolastico.
È
l’esperienza
del
«trovarsi
bene»,
dell’«essere
accettato»,
del
«sentirsi
in
un
legame»,
dell’«aiutarsi»
del
«collaborare»,
dell’«imparare
insieme»
e,
in
fondo,
del
crescere,
del
maturare
insieme:
un
pro-‐
cesso,
dunque,
di
integrazione,
quello
della
costruzione
dell’immagine
di
sé,
un
processo
di
integrazione
emotiva,
affettiva
e
comportamentale.
Che
definisce
anche
l’esperienza
dell’apprendere.
Ma
che
processo
di
integrazione
è
il
processo
di
apprendimento?
Se
proviamo
ad
ascoltare
le
parole
dei
ragazzi
e
delle
ragazze
su
questa
esperienza
di
lavoro,
credo
si
possa
rispondere
con
tutta
evidenza
che
esso
consiste
in
una
specifica
integrazione
sociale
degli
individui
che
parteci-‐
pano
a
quel
contesto
di
sviluppo
cognitivo
e
umano,
che
appunto
è
l’aula
scolastica15.
In
questo
percorso
scolastico
ci
hanno
insegnato
nell’ambito
della
comunicazione
a
esprimerci
e
descriverci
nella
quoti-
dianità
e
nell’ambiente
che
ci
circonda.
Abbiamo
discusso
di
“eventuali”
problemi
con
un
membro
della
classe,
o
la
classe
stessa,
cercando
di
instaurare
un
rap-
porto
pacifico
e
rispettoso
[…].
Posso
ritenermi
soddisfatta,
ma
di
meno
in
ambito
dello
studio
“classico”,
in
cui
abbiamo
fatto
poco
e
niente,
qualcosa
in
storia
ma
niente
in
letteratura,
grammatica
e
antologia,
che,
dal
mio
punto
di
vista,
è
più
importante.
Abbiamo
passato
un
anno
più
a
parlare
di
noi
che
studiare
cose
normali
come
nelle
altre
scuole.
In
un
certo
punto
è
anche
meglio,
essendo
in
prima
forse
è
meglio
così.
(Sara
Sh.)
Bene…
Cosa
ho
imparato?
Be’,
secondo
me,
nessuno
ha
imparato
qualcosa…
credo.
Io
mi
sento
uguale
come
prima,
con
qualcosa
in
più.
Magari
queste
doti
noi
non
le
abbiamo,
ma
non
le
abbiamo
mai
usate
come
si
deve.
Non
sono
neanche
così
sicuro
di
avere
queste
doti.
Se
abbiamo
imparato
qualcosa,
alla
fine
dell’anno,
sarà
poco
o
niente.
Non
ci
comportiamo
da
vera
classe
uniti,
siamo
divisi
in
gruppi.
Così,
quando
succede
qualcosa,
dobbiamo
ripagare
(sic)
tutti
per
colpa
di
qualcuno.
Ma
sinceramente
per
me
è
indifferente.
Quindi
per
me
potrebbe
andare
avanti
così,
ma
mi
dispiace
per
gli
altri
che
non
fanno
niente.
Ma
alla
fine
le
conse-‐
guenze
le
pagano
anche
loro.
Bene…
riguardo
a
cosa
abbiamo
imparato,
direi
poco.
(Ricardo)
15
Il
carattere
corsivo
all’interno
dei
testi
è
mio,
per
evidenziare
le
dichiarazioni
che
indicano
come
l’esperienza
di
appren-‐
dere,
un’esperienza
cognitiva,
sia
non
di
meno
un’esperienza
di
valore
espressivo,
cioè
un’esperienza
sociale
strettamente
connessa
all’esperienza
di
sé.
26
Caro
diario,
in
quest’anno
sto
imparando
cose
molto
importanti
per
il
lavoro
che
vorrò
fare
da
grande;
ho
trovato
amici
simpatici
con
cui
ho
passato
molto
tempo
e
a
cui
ho
rivelato
segreti.
Appena
arrivato
in
classe
non
mi
è
parsa
una
bella
classe,
ma
dopo
averla
conosciuta
più
a
fondo
ho
capito
di
aver
trovato
nuovi
amici.
In
ambito
scolastico
mi
ha
fatto
molto
piacere
quando
ho
capito
di
riuscire
a
cogliere
al
volo
le
pubblicità
a
doppio
senso.
(Anonimo)
Inizio
dicendo
che
è
stato
un
anno
magnifico,
davvero
stupendo.
Mi
sono
trovata
molto
bene
sia
con
gli
insegnanti
che
con
i
compagni
di
classe
che
sono
molto
simpatici
e
amichevoli.
Grazie
al
professor
Tomba
ho
scoperto
un
nuovo
metodo
di
studio
molto
interessante
e
diverso,
e
sempre
grazie
al
prof
e
alle
sue
lezioni
sono
cambiata:
sono
riuscita
ad
affrontare
il
mio
problema
più
grande,
quello
della
timidezza.
Sono
sempre
più
convinta
che
questa
sia
la
scuola
adatta
a
me,
mi
piace
tantissimo
grafica
e
in
un
solo
anno
ho
imparato
tante
cose.
Prima
non
sapevo
cos’era
un
cerchioligrafo
e
ora
ho
anche
fatto
un
manifesto.
Concludo
dicendo
che
sono
felice
di
aver
scelto
la
scuola
Albe
Steiner.
(Angelica)
Rispetto
a
prima
non
penso
che
il
mio
linguaggio
sia
cambiato
di
molto,
perché
mi
esprimo
allo
stesso
modo
di
prima.
Anche
se
quest’anno
conosco
più
parole
che
arricchiscono
un
po’
di
più
il
mio
vocabolario.
Quello
che
so
di
certo
è
che
ri-
spetto
a
prima
ho
imparato
a
esprimermi
graficamente
lasciando
spazio
a
tutta
la
mia
immaginazione,
fantasia,
sia
in
fatto
di
scrittura
sia
in
fatto
di
grafica.
Ad
esempio,
nella
scrittura
ho
imparato
a
manifestare
il
mio
esprimermi
meglio
senza
tralasciare
nessun
dettaglio;
in
grafica
ho
imparato
a
manifestare
tutta
la
mia
creatività.
(Io
penso
che
a
volte
quello
che
noi
disegniamo
senza
che
noi
ce
ne
rendiamo
conto
ci
caratterizzi
un
sacco,
ad
es.
per
il
carattere)
Il
lavoro
che
abbiamo
fatto
con
la
prof
Iannuzzi
“IO,
ME,
MI”
a
me
è
piaciuto
un
sacco,
anche
perché
quel
lavoro
ha
ti-
rato
fuori
in
ognuno
di
noi
un
lato
della
nostra
personalità
o
magari
quello
che
noi
vorremmo
essere.
Esso
ci
ha
fatto
manife-
stare
la
nostra
creatività
sia
grafica
che
nella
scrittura.
Con
i
compagni
mi
trovo
bene.
Ovviamente
ci
sono
dei
battibecchi
ma
quello
succede
sempre.
A
volte
però
dà
fastidio
il
modo
di
comportarsi
di
alcuni,
specie
quando
fanno
battute
che
possono
anche
offendere.
Ci
sono
persone
nella
nostra
classe
che
sanno
essere
molto
infantili,
facendo
cose
stupide
come,
ad
es.,
lanciarsi
palline,
cerbottana,
sputarsi…
(Jessica)
Quest’anno
è
stato
un
anno
decisamente
faticoso:
un
po’
perché
ho
cambiato
scuola
ed
è
stato
difficile
pure
psicologicamente.
Per
fortuna
i
compagni
mi
hanno
accolto
molto
bene
ed
è
per
questo
che
sono
riuscito
subito
a
inserirmi.
Io,
quando
sono
arrivato
qua,
non
sapevo
cosa
fosse
una
tag,
invece
adesso
so
cos’è
e
so
pure
rappresentarla,
cosa
che
per
me
era
impensabile.
Io
in
questa
scuola
mi
trovo
bene,
poi
a
me
piace
soprattutto
fare
italiano,
perché
è
bello
quando
si
sta
tutti
in
cerchio
attorno
alla
cattedra
ad
ascoltare
il
prof
che
spiega
storia.
Io
ho
capito
di
essere
cambiato
perché
in
questa
scuola
mi
sento
molto
interessato
agli
argomenti,
e
sto
imparando
anche
molte
cose
e
questo
mi
piace
molto.
Quindi
il
mio
confronto
con
questa
scuola
e
la
scuola
del
passato
è
molto
positivo.
(Marco)
Quest’anno
è
stata
un’esperienza
bellissima.
Mi
sono
migliorato
me
stesso
anche
se
continuo
a
fare
il
buffone
ma
ora
rie-
sco
a
distinguere
di
più
i
miei
sentimenti.
Sono
maturato
anche
di
più
ma
non
abbastanza.
All’inizio
dell’anno
la
classe
non
era
unita
sempre,
era
divisa
in
gruppi,
anche
adesso,
ma
prima
io
mi
trovavo
male,
forse
per
la
mancanza
di
fiducia.
Co-
munque
quella
fiducia
fu
la
principale
causa
di
esperienza
con
i
miei
compagni,
anche
sulle
materie.
Dei
professori
avevo
pa-
ura,
ma
poi
ho
capito,
se
non
avevo
paura
delle
interrogazioni
sarei
diventato
più
forte
e
prendere
almeno
un
sei.
Essere
co-
raggioso
e
lottare
con
ogni
ostacolo
che
hai
davanti:
ho
avuto
tantissime
cadute
con
i
brutti
voti,
avevo
anche
litigato
con
i
compagni
ma
per
fortuna
avevo
dei
prof
che
mi
facevano
riflettere.
Così
prendendo
più
fiducia
mi
sono
migliorato
anche
me
stesso
e
ho
imparato
tantissimo
nel
linguaggio.
Mi
sono
migliorato
perché
leggo
ancora
di
più,
ma
sono
un
po’
scemino
a
consegnare
i
lavori.
Per
la
lettura
provo
diversi
tipi
di
studio:
ora
provo
a
leggere
a
voce
alta
per
migliorare
la
pronuncia.
La
mia
relazione
con
i
compagni
è
stata
senza
problemi,
amichevole.
Non
desidero
il
male
di
nessuno,
abbiamo
trascorso
momenti
brutti
e
belli
ma
comunque
insieme,
anche
se
non
si
vede,
la
cosa
più
importante
è
la
nostra
amicizia
e
fiducia.
(Kevin)
Caro
diario,
quest’anno
di
prima
superiore,
ad
essere
sincera,
a
me
non
pare
di
avere
imparato
tanto,
la
classe,
beh
che
dire
della
classe,
la
classe
è
divisa
in
gruppi
[…]
Per
il
resto
diciamo
che
mi
trovo
bene…
Della
lettura,
possiamo
dire
che
il
professore
ci
ha
fatto
leggere
tanto
e
non
mi
lamento
perché
mi
piace
leggere.
Ma
non
gli
va
mai
bene
niente…
[…]
ma
va
beh,
non
è
certo
colpa
mia
se
non
si
accontenta.
Il
lavoro
di
grafica,
stupendo
come
lavoro,
mi
è
piaciuto
un
casino,
e
poi
ovvio
è
una
scuola
di
grafica.
Se
non
ti
piace
quella
materia,
fai
prima
a
cambiare
scuola
;)
Nella
scrittura
sono
migliorata,
perché
ho
imparato
a
dire
quello
che
penso,
perciò
qualsiasi
frase
o
tema
che
dice
quello
che
penso
per
me
va
bene,
magari
al
prof
non
piace,
però
è
una
cosa
che
ho
imparato
quest’anno
e
che
amerò
sempre,
e
an-‐
che
che
non
devo
piacere
agli
altri.
Io
dico
quello
che
penso,
non
me
ne
pento
perché
è
la
verità.
(Sara
Pa.)
Sono
arrivata
in
questa
scuola
a
metà
anno,
me
l’aspettavo
più
difficile,
ma
comunque
sia
mi
sono
dovuta
impegnare
per
recuperare
ed
arrivare
al
livello
degli
altri.
Il
metodo
di
insegnamento
delle
materie
è
diverso
qui,
e
mi
piace
perché
mi
insegna
ad
aprire
la
mente,
ragionando
e
scambiando
le
mie
idee
con
quelle
dei
miei
compagni.
Il
mio
metodo
di
comunicazione
in
relazione
con
gli
altri
è
migliorato,
adesso
riuscirei
con
molta
più
facilità
a
tenere
un
piccolo
discorso,
anche
solo
un’interrogazione
orale.
27
Di
grafica,
purtroppo,
non
ho
seguito
le
prime
lezioni,
ma
ho
imparato
che
per
fare
anche
un
semplice
manifesto
biso-
gna
saper
osservare,
cercare
di
fare
tutte
le
cose
con
precisione
per
arrivare
ad
un
bel
risultato.
Qui
ho
imparato
per
l’ennesima
volta
che
bisogna,
e
serve
nella
vita,
imparare
e
studiare.
È
una
scuola
interessante
e
ho
fatto
la
scelta
giusta.
Non
smetterò
mai
di
imparare
cose
nuove.
(Valeria)
Durante
l’anno
mi
sono
sia
impegnato,
e
anche
cazzeggiato,
è
tutto
partito
dal
primo
quadrimestre,
studiato
poco
anzi
nemmeno
aperto
un
libro,
e
quindi
non
ho
imparato
niente,
forse
qualcosa
sul
linguaggio
grafico,
anche
se
comunque
lavorando
poco
non
ho
fatto
niente
e
imparato
nulla.
E
così
sono
uscito
con
otto
materie
sotto,
mi
sono
dato
una
svegliata
e
siamo
al
secondo
quadrimestre
e
sto
imparando
metodi
di
scrittura
innovativi
e
so
meglio
esprimermi.
Invece
nel
linguag-
gio
grafico
ho
imparato
a
disegnare
meglio
e
a
creare
e
usare
la
mente,
cioè
la
creatività
che
ognuno
di
noi
ha.
Durante
questi
quattro
mesi
abbiamo
fatto
un
sacco
di
lavori,
e
credo
di
aver
lavorato
bene.
Poi
grazie
ad
alcuni
professori
ci
teniamo
informati
sull’attualità
e
le
cose
che
succedono
nel
mondo,
quindi
si
parla
e
si
discute
confrontandoci
e
ampliando
le
nostre
conoscenze;
quindi
credo
di
aver
imparato
a
confrontarmi
insieme
e
a
discutere
e
a
saper
discutere,
e
a
saper
parlare.
Durante
l’anno
sono
maturato
molto
grazie
ai
miei
compagni
che
da
sconosciuti
sono
diventati
amici
e
insieme
stiamo
crescendo.
All’inizio
non
mi
piaceva
tanto
questa
scuola,
poi
con
il
passare
del
tempo
ha
iniziato
a
piacermi.
[…]
Ho
imparato
anche
a
usare
la
mia
testa,
non
facendo
più
il
cretino,
ma
il
ragazzo
serio
che
segue.
Anche
se
mi
viene
diffi-
cile,
ci
sto
provando
lo
stesso,
anche
perché,
se
una
persona
non
si
impegna
mai,
non
farà
mai
niente,
non
arriverà
mai
agli
obiettivi
che
si
propone.
Quindi
ho
capito
che
bisogna
impegnarsi
per
raggiungere
obiettivi
o
traguardi
che,
in
futuro,
aiu-‐
tano
a
trovare
un
lavoro
e
a
costruirsi
una
famiglia.
Questo
è
quello
che
ho
imparato
quest’anno.
(Alberto)
Caro
diario,
sinceramente
non
so
cosa
scrivere,
però
in
qualche
modo
ci
sto
provando
a
scrivere
qualcosa
per
scrivere
cosa
ho
im-‐
parato
(notato
il
gioco
di
parole?).
Comunque
sia,
ho
imparato
che
se
non
ci
si
impegna
davvero
non
si
riesce
mai
a
conclu-
dere
niente,
sia
in
campo
scolastico
che
lavorativo
o
altro.
Però
io
veramente
non
ne
ho
voglia,
certe
volte
preferisco
non
es-
sere
nata.,
almeno
in
quel
caso
non
avrei
niente
da
fare.
Sono
una
nulla
facente,
non
so
se
si
dice
così,
non
ricordo.
Vabbé,
che
andando
a
scuola
qualcosa
in
più
su
me
stessa
l’ho
scoperta
e
ho
scoperto
che
mi
piace
scrivere
e
la
cosa
mi
piace
molto.
È
stato
anche
grazie
al
professore
di
italiano
che
ho
cominciato
ad
amarla,
grazie
a
tutti
i
temi,
recensioni
e
cose
varie
che
ci
faceva/ci
fa
fare.
E
quindi
questa
è
una
prima
cosa
che
ho
imparato
quest’anno
a
scuola.
Una
seconda
cosa
che
ho
imparato
quest’anno
è
stato
amare
la
fotografia.
Perché
la
fotografia,
ti
chiederai
tu?
Ho
un
piccolo
pensiero
su
questa
cosa
ed
è:
con
la
fotografia
posso
cogliere
mo-‐
menti
belli
e
unici,
molti
non
si
ripeteranno
più.
Però
con
una
semplice
foto
fatta
e
sviluppata,
una
volta
che
ce
l’hai
in
mano,
ti
appare
un
unico
sorriso
bello
e
sincero
o,
magari,
una
lacrima,
dipende
dalla
foto
che
hai
in
mano
e
da
cosa
rap-‐
presenta
quella
foto
per
te.
Tutto
qui.
Poi
non
so
cosa
altro
dire,
perché
secondo
me
per
adesso
non
c’è
altro
da
dire.
(Miriam)
Cosa
ho
imparato
in
questo
anno?
Ho
imparato
ben
poco
nella
relazione
con
i
miei
compagni,
perché
penso
che
nelle
relazioni
non
c’è
nulla
da
imparare
ma
bisogna
essere
spontanei.
Riguardo
alla
scrittura
ho
imparato
molto,
soprattutto
nello
stile
della
scrittura.
Ho
capito
che
ci
sono
diversi
modi
di
scrivere.
Ho
imparato
ad
usarne
diversi.
Nella
lettura
non
sono
migliorato
molto,
anche
se
dovrei
nel
parlare
come
nella
scrittura.
Ho
imparato
molto
nel
dosare
certe
parole,
anche
se
devo
ancora
migliorare
molto
(come
molti
della
mia
età)
Nell’uso
del
linguaggio
grafico
ho
imparato
che
bisogna
fare
qualcosa
che
piaccia
a
tutti
e
che
bisogna
avere
molti
inte-‐
ressi.
(Davide)
Essendo
ripetente,
quest’anno
è
cominciato
molto
meglio
dell’anno
scorso.
Quest’anno
c’era
la
voglia
di
imparare
cose
nuove,
pur
essendo
ripetente,
perché
con
la
riforma
si
sono
introdotte
nuove
materie.
Sto
imparando
cose
fondamentali,
come
l’ascolto,
la
comunicazione
tra
di
noi.
La
comunicazione
non
solo
uditiva,
ma
an-
che
in
modo
grafico
e
visivo.
Con
la
grafico
ho
imparato
che
ogni
cosa
che
rappresentiamo
oralmente
si
può
collegare
graficamente.
Se
vuoi
una
cosa
e
ci
metti
la
buona
volontà,
si
possono
raggiungere
obiettivi
mai
aspettati.
(Omar)
In
quest’anno
ho
sicuramente
imparato
ad
esprimermi
meglio.
Nei
racconti
aggiungo
emozioni,
dettagli,
cerco
di
ren-‐
derli
interessanti
essendo
io
la
prima
criticatrice
(sic).
Nel
parlare
sono
più
fluida,
esprimo
il
mio
pensiero
liberamente,
senza
paure.
Ho
imparato
a
guardare,
a
ragionare
e
ad
ascoltare.
Scoperto
cosa
volesse
dire
lavorare
a
un
progetto,
mettere
un’idea
e
realizzarla.
Ho
usato
nuovi
materiali
(stampanti,
materiali
da
disegno,
colle
spray…),
fatto
lavori
manuali
(messo
in
ordine
disegni,
appeso
i
quadri
con
i
lavori…).
Ogni
la-‐
voro
che
ho
svolto
per
me
è
stato
una
nuova
esperienza.
La
classe
è
bella,
almeno
a
me
sembra…
per
lo
meno
non
ci
sono
conflitti
tra
noi.
Siamo
tutti
diversi
e
grazie
a
questo
nelle
ore
di
italiano
vengono
fuori
bei
discorsi.
(Ileana)
Nell’arco
dell’anno
2010/2011
ho
conosciuto
i
miei
compagni
di
classe
con
cui
ho
legato
molto.
Ho
letto
parecchi
libri
e
la
lettura
di
certi
argomenti
mi
piace
e
mi
stimola
ad
approfondire
meglio
e
ad
ampliare
la
mia
cultura.
Ho
fatto
passi
avanti
nel
comunicare,
soprattutto
nell’immedesimarmi
nel
lettore.
A
essere,
nella
scrittura,
breve
ma
effi-‐
cace.
Sapere
qual
è
il
target
è
molto
importante,
per
decidere
ad
esempio
parole
a
discapito
di
altre.
Se
avrò
un
target
anziano,
28
non
userò
uno
slang
avanzato
o
giovanile.
L’anno
scorso
ero
parecchio
chiuso
in
me
stesso,
quest’anno
invece
sto
decisamente
meglio,
sono
più
aperto.
Sono
contento
di
me
stesso,
perché
non
mi
limito
a
osservare
le
cose
solo
dal
mio
punto
di
vista
ma
anche
da
quello
degli
altri.
(Tarik)
Quest’anno
per
me
è
stato
importante.
Ho
imparato
tante
cose,
sono
maturato
grazie
ai
compagni,
alla
scuola
e
alla
fa-
miglia.
Sono
cambiato
nel
mio
modo
di
essere
e
di
fare.
Non
ho
cambiato
il
linguaggio,
al
massimo
ho
cambiato
gli
argo-‐
menti,
adesso
parlo
di
cose
un
po’
più
serie.
Quando
disegno
mi
sento
libero
di
esprimermi
al
meglio,
tiro
fuori
tutte
le
mie
emozioni,
che
non
riesco
a
tirare
fuori.
Con
i
compagni
invece
all’inizio
dell’anno
non
andavo
molto
d’accordo,
ma
cambiando
il
mio
modo
di
essere,
mi
relaziono
meglio
con
i
compagni.
Secondo
me,
i
compagni
ti
portano
affetto.
(Mattia)
All’inizio
di
quest’anno,
pensavo
che
sarebbe
stato
difficile,
che
non
avrei
avuto
una
relazione
con
i
miei
compagni,
che
non
avrei
imparato
il
linguaggio
grafico:
tutte
queste
piccole
cose
che,
secondo
te,
nella
vita
non
servono,
e
pensiamo
che
tutto
quello
che
vogliamo
ci
arrivi
in
un
piatto
d’argento.
E
invece
non
è
così,
perché
attraverso
la
scuola,
attraverso
i
com-
pagni
e
agli
insegnanti
impariamo
tutte
‘ste
cose,
e
grazie
a
loro
ho
imparato
a
relazionarmi
con
gli
altri,
ad
usare
un
lin-
guaggio
corretto,
perché
mi
ricordo
che,
prima
che
venissi
in
questa
scuola,
io
ero
molto
chiusa,
non
mi
aprivo
ai
compagni,
non
avevo
una
comunicazione
con
gli
insegnanti,
un
dialogo
ecco.
Ma
grazie
a
loro
ho
imparato
tutte
‘ste
cose,
a
parte
un
po’
la
lettura.
Tutt’ora
mi
sento
incapace,
però,
diciamo
che
me
la
cavo.
Sono
contenta
di
stare
qui,
perché
mi
trovo
molto
bene
con
i
miei
compagni
e
diciamo
la
verità,
che
grazie
a
loro
sono
un
po’
migliorata,
quindi
senza
di
loro
non
so
che
farei,
anche
perché
con
loro
dovrò
stare
ben
ancora
quattro
anni…
(Nathaly)
In
quest’anno
ho
imparato
che
il
linguaggio
è
molto
importante,
e
soprattutto
imparare
ad
usalo
nel
miglior
modo
possi-
bile,
attraverso
la
scrittura,
saper
trasmettere
emozioni.
Anche
la
lettura
facendo
delle
giuste
pause
e
dare
un
tono
ad
ogni
parola.
Nel
linguaggio
grafico,
in
specifico
nel
lavoro
“IO,
ME,
MI”,
abbiamo
stampato
una
nostra
foto
ricopiata
più
volte
e
poi
dovevamo
modificarla
nel
modo
in
cui
vogliamo
essere,
anche
nel
renderci
buffi.
A
me
è
piaciuto
molto
come
lavoro.
Ho
dato
due
immagini
di
me,
una
dove
ero
una
specie
di
gothic
lolita
con
gli
occhi
manga,
e
l’altra,
ero
super
colorata
con
linee
particolari
in
viso,
un
po’
come
voglio
essere
io
o
essere
vista,
ragazza
introversa
ma
nello
stesso
tempo
piena
di
vita
e
colore.
La
relazione
con
i
compagni
è
stata
un
po’
contrastante,
all’inizio
dell’anno
quando
sono
arrivata
in
questa
classe
avevo
paura,
come
tutti
mi
sentivo
l’ultima
arrivata,
e
invece
mi
hanno
subito
fata
sentire
della
classe.
Abbiamo
discusso
molto
sui
problemi
che
c’erano
fra
i
compagni
nella
classe
insieme
ai
professori,
sulle
prese
in
giro,
le
considerazioni
razziali,
ecc.
Ho
avuto
anche
io
da
ridire
con
alcuni
compagni,
ma
poi
si
è
risolto
tutto,
e
ora
il
rapporto
con
i
compagni
è
normale.
Avrei
voluto
imparare
di
più
in
quest’anno
scolastico,
ma
per
vari
motivi
non
è
stato
possibile,
spero
il
prossimo
anno
di
imparare
cose
nuove,
soprattutto
nel
mondo
della
grafica.
(Chiara)
Questa
scuola
quest’anno
mi
ha
insegnato
molto
riguardo
sia
al
linguaggio
grafico
che
al
confronto
con
l’ambiente
che
mi
circonda
e
i
compagni.
Essendo
arrivato
più
tardi
dei
miei
compagni,
all’inizio
ero
un
po’
spaesato,
perché
arrivavo
da
un
altro
tipo
di
scuola,
completamente
diverso
da
questo
ed
ero
ansioso
nel
sapere
che
gente
c’era,
com’erano
le
lezioni
e
molte
altre
cose,
tra
cui
anche
come
sarebbero
stati
i
professori.
Dopo
una
o
due
settimane
di
scuola
avevo
capito
già
tutto,
di
come
sarebbero
stati
i
professori
e
l’ambiente.
Ne
sono
rimasto
entusiasta,
perché
adesso
che
mi
trovo
a
fine
anno
scolastico,
facendo
queste
riflessioni,
capisco
di
aver
scelto
la
scuola
che
fa
per
me,
una
scuola
dove
non
conta
solo
sapere
a
memoria
una
cosa
ma
dove
conta
sapersi
esprimere,
avere
fan-
tasia,
dove
hai
sempre
una
seconda
chance.
Io
penso
di
aver
scelto
la
scuola
che
fa
per
me,
dove
i
compagni
sanno
saperti
aiutare
in
ogni
istante,
dove
la
collabora-
zione
è
la
prima
cosa,
dove
fare
un
disegno
vuol
dire
saper
esprimere
mille
idee
e
dove
non
conta
doversi
vestire
in
un
certo
modo
o
dover
appartenere
ad
un
gruppo.
Sono
contento
di
aver
scelto
questo
istituto,
perché
non
ha
deluso
le
mie
aspetta-‐
tive.
(Matteo)
Anzitutto,
quel
che
appare
in
evidenza,
e
i
nostri
giovani
sembrano
saperlo
meglio
di
noi
insegnanti,
è
che
il
modo
di
considerare
il
funzionamento
della
mente
non
è
mai
neutro,
o
indifferente
alla
«funzione
d'ordine»,
e
di
organizzazione,
che
in
aula
si
realizza.
Nelle
loro
parole
si
percepisce
come
l’esperienza
dell’aula
scolastica
sia
quello
di
un
sistema
interattivo,
di
una
realtà
sociale
di
comunicazione
che
dipende
dalla
tecnologia
formativa
che
vi
è
messa
in
atto.
E,
come
ac-‐
cade
per
ogni
tecnologia,
essa
crea
il
suo
proprio
contesto,
la
condizione
organizzativa
da
cui
viene
a
dipendere
a
sua
volta
l’esperienza
dell’apprendere:
ciò
che
è
la
comunicazione
in
quel
contesto,
anche
nella
sua
apparente
staticità,
ripetitività,
è
sempre
la
produzione
di
ciò
che
si
fa
con
il
linguaggio.
E
che
la
vita
dell'aula
è
un
risultato
di
tale
costruzione
comunicativa.
Insomma,
che
non
basta
stare
in
aula,
si
tratta
invece
di
fare
funzionare
l’aula.
L'aula
scolastica
non
sta
semplicemente
«lì
davanti»
—
come
più
spesso
si
presenta
nel
nostro
immaginario
educativo
—
come
una
realtà
statica,
un
contenitore
passivo;
è
pur
sempre
il
risultato
di
una
prassi
didattica,
che
rimodella
gli
stessi
soggetti
che
vi
prendono
parte,
anche
quando
li
fa
«stare
tutti
al
loro
posto»,
nei
banchi,
come
imperativo
di
normalità
per
il
funzionamento
dell’aula.
E,
proprio
per
questa
pretesa
d’ordine,
una
qua-‐
lunque
tecnologia
educativa
è
sempre
associata
a
una
particolare
forma
di
autorità,
che
qui
corrisponde
alla
ri-‐
chiesta
dell’apprendimento
disciplinare;
una
modalità,
la
cui
messa
in
gioco
può
dar
vita
a
un
contesto
nuovo,
e
spesso
inatteso,
che
a
sua
volta
può
dar
vita
a
un
diverso
intreccio
tra
l’esperienza
cognitiva
e
quella
emozio-‐
nale,
indissolubilmente
legata
all’immagine
sociale
della
propria
identità.
29
Stare
in
aula
comporta
sempre
un
processo
attivo
di
adattamento
reciproco.
È
l’esito
di
un
insieme
di
prati-‐
che
attraverso
cui
gli
individui
apprendono
a
eseguire,
con
l'aiuto
di
altri,
operazioni
sul
proprio
sviluppo
cogni-‐
tivo
ed
affettivo,
e
a
realizzare
una
trasformazione
di
sé
stessi
allo
scopo
di
raggiungere
uno
stato
soddisfacente
di
adattamento.
E
poi,
emerge
anche
una
tensione
tra
l’esperienza
di
sé
elaborata
a
livello
espressivo,
sia
grafico
che
narra-‐
tivo,
e
quella
che
riferisce
dell’attività
di
«manipolazione»,
di
elaborazione
pratica
di
questa
stessa
esperienza,
prodottasi
in
aula.
Quel
che
ne
risulta
è
che
la
prima
dà
voce
a
una
forma
di
autocoscienza
caratterizzata
da
un
«sentimento
di
sé»
improntato
a
un
senso
di
estraneità
al
mondo,
quando
non
di
solitudine,
di
isolamento,
ricer-‐
cato
o
forzatamente
indotto,
che
più
spesso
è
fonte
di
sofferenza.
Si
tratta
di
un
sentimento
che
«trova
espres-‐
sione
nel
concetto
di
individuo
che
oggi
prevale
–
l’essere
umano
individuale
come
sistema
chiuso
con
le
sue
condizioni
essenziali
riposte
“dentro”
e
nascoste
agli
altri»16,
e
che,
quindi,
trova
espressione
metaforica
nella
dicotomia
dentro/fuori
dell’esperienza
di
sé.
È
non
c’è
da
dubitare
sul
carattere
genuino
di
questa
esperienza.
Al
contrario,
la
riflessione
sull’attività
di
apprendimento
svolta
segnala
un
altro
modo
di
fare
esperienza
di
sé.
Uno
sperimentare
l’immagine
di
sé
in
una
modalità
più
realistica:
basata
cioè
sul
riconoscimento
della
dispo-‐
nibilità
elementare
ad
attaccarsi
gli
uni
agli
altri
è
onnipresente,
a
concepire
sé
stessi
come
un
«io»
individuale
interdipendente,
come
«sistema
aperto»,
le
cui
tensioni,
i
suoi
conflitti
e
i
suoi
legami
affettivi,
hanno
un
carat-‐
tere
di
gruppo,
una
fondamentale
dimensione
di
reciprocità,
e
cioè
sociale.
Il
progetto
«IO,
ME,
MI»
si
è
sviluppato
in
una
didattica
di
laboratorio
come
setting
di
gruppo.
Il
fatto
stesso
di
aver
posto
a
tema
l’esperienza
di
sé
meglio
ha
evidenziato
come
una
tecnologia
educativa,
la
sua
funzione,
si
compia
sempre
nell’intreccio
comunicativo
tra
individui
e
tra
individui
e
il
loro
ambiente,
entro
un
reciproco
processo
di
coinvolgimento:
e
questo
vale
per
tutti,
per
insegnanti
e
studenti,
in
ruoli
diversi,
ma
tutti
definiti
da
un
processo
di
interdipendenza
che
richiede
a
sua
volta
di
essere
appreso.
E,
come
per
ogni
vera
storia,
qui,
nel
contatto
comunicativo,
può
verificarsi
un
punto
di
svolta
decisivo.
Là
dove
è
reso
possibile
il
confronto
dei
punti
di
vista
dei
diversi
partecipanti
(tra
studenti
e
tra
insegnanti
e
studenti),
diviene
osservabile
come
il
cambia-‐
mento
cognitivo,
l’apprendimento,
si
configuri
entro
una
condizione
di
base:
la
sua
fondamentale
valenza
affet-‐
tiva,
che,
come
osserva
Kevin,
richiede
anche
che
si
stabilisca
una
relazione
fiduciaria
o,
come
altri
dicono,
ami-‐
chevole.
L’esperienza
di
apprendere,
e
apprendere
a
modificare
sé
stessi,
non
può
sottrarsi
al
«senso
degli
altri»,
fino
a
costituire
anche
un
problema:
che
non
sempre
il
setting
dell’aula
scolastica
è
all’altezza
di
questa
esigenza
educativa,
il
che
spesso
significa
perdere
per
strada,
fra
gli
studenti,
spesso
i
più
fragili.
In
ogni
caso,
il
processo
educativo
non
può
sottrarsi
alla
reciprocità
di
senso
con
cui
si
impara
insieme
a
costruire
questa
specifica
«comprensione»
di
sé:
nel
saper
comprendere
sé
stesso
e
nel
sapere
d’essere
compreso
come
individuo
fra
gli
altri
individui
in
divenire,
appunto.
Una
condizione
riflessiva
che
tuttavia
si
compie
come
una
faccenda
pratica,
che
riguarda
la
costruzione
cooperativa
di
quel
contesto
entro
cui
si
apprende;
è
la
condizione
sociale
fonda-‐
mentale
rispetto
a
cui
qualsiasi
tecnologia
educativa
possibile
deve
potersi
misurare,
farsi
riflessiva,
nel
guar-‐
dare
al
contesto
che
essa
stessa
contribuisce
a
costruire.
E
questa
nostra
esperienza
credo
possa
fornire,
al
ri-‐
guardo,
qualche
spunto
di
riflessione
utile.
Torino,
21
dicembre
2011
(prof.
Renato
Tomba)
16
Cfr.
N.
Elias,
Oltre
il
muro
dell’io,
Medusa,
Milano,
2011.
La
metafora
del
muro
è
utilizzata
da
Elias
per
indicare
quell’e-‐
sperienza
di
sé
tipica
della
nostra
società:
«La
nozione
di
muro
invisibile
che
separi
un
individuo
da
un
altro,
e
l’intera
famiglia
di
concetti
basati
sull’idea
che
il
sé
“essenziale”
di
un
individuo
sia
“all’interno”,
nascosto
a
tutti
gli
altri,
non
sono
af-‐
fatto
condivise
dalle
persone
di
tutte
le
società
umane;
esse
sviluppano
ovunque
tipi
di
relazioni
tra
individui,
caratteristiche
delle
condizioni
di
vita
in
società
specifiche:
I
bambini
piccoli
non
hanno
“mura”
di
questo
tipo,
o,
per
essere
più
precisi,
non
hanno
esperienza
di
tali
mura.
Né
esse
crescono
autonomamente
come
parte
della
natura
delle
persone»
(ivi,
p.38).
Vale
la
pena
interrogarsi
su
quale
parte
giochi
la
scuola
nella
trasmissione
di
questa
specifica
esperienza
di
sé
attraverso
una
pratica
didattica
orientata
a
un’educazione
«dentro
la
testa»
quale
modello
di
sviluppo
cognitivo.
30
Bibiografia
citata
BRUNER
J.,
La
mente
a
più
dimensioni,
Laterza,
Bari
1988.
BRUNER
J.,
La
cultura
dell’educazione,
Feltrinelli,
Milano,
1997.
ELIAS
N.,
La
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individui,
Il
Mulino,
Bologna
1990.
ELIAS
N.,
Oltre
il
muro
dell’io,
Medusa,
Milano,
2011.
LUHMANN
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SCHORR
K-‐E.,
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Problemi
di
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Armando,
Roma,
1998.
KLAFKI
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in
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di
Olga
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Problemi
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1995.
MORIN
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La
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Riforma
dell'insegnamento
e
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Raffaello
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Milano,
2000.
PERTICARI
P.,
Pedagogia
critica
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CLUEB,
Bologna,
2004.
TOMBA
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Ci
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Bollati
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Torino,
2003.
Opere
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metodologia
della
ricerca-‐azione
in
ambito
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LOSITO
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POZZO
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La
ricerca
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Una
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Carocci,
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2005.
STENHOUSE
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Dalla
scuola
del
programma
alla
scuola
del
curricolo,
Armando
Editore,
Roma,
1977.
31