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GUERRA AI BRIGANTI, GUERRA DEI BRIGANTI (1860-1870) Storiografia e narrazioni A cura di Nicola Labanca e Carlo Spagnolo ©UNICOPLI UNICOPLI ©UNICOPLI CENTRO INTERUNIVERSITARIO DI STUDI E RICERCHE STORICO-MILITARI 26 Andrea Addobbati (Università di Pisa), Franco Angiolini (Università di Pisa), Livio Antonielli (Università di Milano), Luca Baldissara (Pisa), Paola Bianchi (Università della Valle d’Aosta), David Burigana (Università di Padova), Giuseppe Conti (Università di Roma La Sapienza), Massimo De Leonardis (Università Cattolica, Milano), Fabio Degli Esposti (Università di Modena-Reggio Emilia), Piero Del Negro (Università di Padova), Marco Di Giovanni (Università di Torino), Virgilio Ilari (Università di Cattolica, Milano), Nicola Labanca (Università di Siena, presidente), Fortunato Minniti (Università di Roma Tre), Paolo Pezzino (Università di Pisa), Giovanna Procacci (Università di Modena), Gabriele Ranzato (Università di Pisa), Mario Rizzo (Università di Pavia), Giorgio Rochat (presidente onorario), Luigi Tomassini (Università di Bologna, Ravenna) Commissione di lettura: Livio Antonielli, Nicola Labanca, Fortunato Minniti ©UNICOPLI Comitato editoriale della collana: Volumi pubblicati: G.L. Balestra, N. Labanca (a cura di) Repertorio degli studiosi italiani di storia militare 2005 P. Del Negro, N. Labanca, A. Staderini (a cura di) Militarizzazione e nazionalizzazione nella storia d’Italia N. Labanca, G. Rochat (a cura di) Il soldato, la guerra e il rischio di morire N. Labanca (a cura di) Fare il soldato. Storie del reclutamento militare in Italia ©UNICOPLI N. Labanca, L. Tomassini (a cura di) Forze armate e beni culturali. Distruggere, costruire, valorizzare P. Del Negro (a cura di) Giuseppe Garibaldi tra guerra e pace N. Labanca, P.P. Poggio (a cura di) Storie di armi N. Labanca (a cura di) Pietre di guerra. Ricerche su monumenti e lapidi in memoria del primo conflitto mondiale P. Del Negro, E. Francia (a cura di) Guerre e culture di guerra nella storia d’Italia N. Labanca (a cura di) Storie di guerre ed eserciti. Gli studi italiani di storia militare negli ultimi venticinque anni N. Labanca, C. Zadra (a cura di) Costruire un nemico. Studi di storia della propaganda di guerra N. Labanca (a cura di) Forze armate. Cultura, società, politica N. Labanca (a cura di) Fogli in uniforme. La stampa per i militari nell'Italia liberale N. Labanca (a cura di) Guerra e disabilità. Mutilati e invalidi italiani e primo conflitto mondiale N. Labanca (a cura di) Città sotto le bombe. Per una storia delle vittime civili di guerra (1940-1945) Per i volumi successivi, si rinvia alla lista a fine volume GUERRA AI BRIGANTI, GUERRA DEI BRIGANTI (1860-1870) A cura di Nicola Labanca e Carlo Spagnolo UNICOPLI ©UNICOPLI Storiografia e narrazioni ©UNICOPLI Il presente volume è stato pubblicato con il sostegno del Consiglio di Amministrazione e della Cattedra Jean Monnet dell'Università di Bari, programma Erasmus+. ISBN: 9788840021973 In copertina: immagine di Maria Martinelli Prima edizione: ottobre 2021 Copyright © 2021 by © Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari, Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali, Università di Siena. Licenza Creative Commons - Attribuzione Non Commerciale 4.0. Nelle citazioni deve essere riportato il nome dell'autore, il titolo del saggio e del volume, il nome dei curatori, l'editore e l'anno. INDICE 7 Introduzione di Nicola Labanca e Carlo Spagnolo 21 Parte prima STORIOGRAFIE DI IERI E NARRAZIONI DI OGGI 23 Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale, di Enrico Francia 37 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo di Enzo Fimiani 65 Storiografia e uso pubblico del grande brigantaggio nell’Italia repubblicana di Carlo Spagnolo 117 L’insegnamento storico fra didattica e popular history. Il grande brigantaggio a scuola di Annastella Carrino e Claudia Villani 135 Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web di Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri 153 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio nel Mezzogiorno del nuovo millennio di Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI p. ©UNICOPLI 6 Indice 173 Parte seconda LA GUERRA AI BRIGANTI La storiografia militare sul brigantaggio 175 La storiografia militare sul brigantaggio. Una visione d’assieme di Nicola Labanca 203 Le pubblicazioni degli Uffici storici militari di Alessandro Gionfrida 219 Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio tra memorialistica e storiografia di Emilio Scaramuzza 241 Parte terza LA GUERRA DEI BRIGANTI Soggettività sociali, politiche e culturali 243 La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni di Renata De Lorenzo 261 L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 di Nunzio Mezzanotte 281 Il grande brigantaggio in Campania. Storia e storiografia di Viviana Mellone 303 Briganti perché. Profili e motivi del brigantaggio pugliese attraverso le fonti giudiziarie di Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo 321 Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata tra storia e storiografia di Alessandro Albano 339 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria. di Giuseppe Ferraro 363 Notizie sugli autori e abstract dei capitoli 373 Indice dei nomi 387 Il Centro Interuniversitario di studi e ricerche storico-militari INTRODUZIONE* Nicola Labanca, Carlo Spagnolo * L'Introduzione è frutto di un lavoro comune dei due autori. Le pagine 7-13 sono ascrivibili a C. Spagnolo, quelle 14-19 a N. Labanca. ©UNICOPLI Questo volume intende contribuire alla diffusione della conoscenza e al dibattito storiografico positivamente oggi in corso attorno alla storia di quel complesso fenomeno storico sociale, politico, culturale e militare che va sotto il nome di grande brigantaggio. Mira a farlo offrendo una rassegna storiografica di quanto, da ormai più di un secolo e mezzo, è andato scrivendosi sul brigantaggio, nei suoi caratteri unitari e nelle sue articolazioni e differenziazioni territoriali. Il “grande brigantaggio” fu un fenomeno complesso e sanguinoso, che si manifestò in coincidenza con il processo di unificazione e ne segnò la percezione. Sebbene esso si manifestasse in forme molto vaste soltanto dalla fine del 1860, in coda alla spedizione dei Mille, e fino all’incirca al 1866, le sue radici erano radicate nei decenni precedenti, e neanche i Borbone erano riusciti a sradicarlo, quando ci provarono, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, dopo averlo sfruttato nel 1799 per le variegate truppe sanfediste del Cardinale Ruffo. Tuttavia dall’autunno 1860 fino al 1864 e oltre le bande dei briganti si moltiplicano e crescono periodicamente, dimostrando capacità militari sorprendenti, sciogliendosi e ricomponendosi rapidamente. Attorno ad un nucleo fisso di capi, o di soldati retribuiti inizialmente dai sostenitori di Francesco II, erano molti briganti occasionali, come per un secondo o terzo lavoro, il che rendeva e rende difficile una seria contabilità storica. Sulle dimensioni numeriche delle bande e sui caduti disponiamo di stime, più che di cifre precise, nel tempo rivalutate dalle 5.500 tra 1861 e 1864 secondo le prime ricerche di Molfese, le 8.500 secondo Ciconte, e le 15.000 vittime circa secondo le stime successive di Ciocca. Si tratta di cifre molto lontane dalle centinaia di migliaia di recente pompate dalla pubblicistica neoborbonica, e tuttavia, come scrive Pescosolido «pur sempre di un sacrificio di sangue superiore a quello di tutte le guerre di indipendenza risorgimentali». Un fenomeno intricato, sulle cui cause gli storici non hanno mai cessato di interrogarsi, eppure soltanto in età repubblicana la ricerca ha provato seriamente a misurarvisi, e tuttora continua a farlo, con le cautele dovute a fonti frammentarie e parziali. 8 Nicola Labanca e Carlo Spagnolo I curatori e gli autori sperano con queste pagine di poter offrire alcune delle principali coordinate necessarie ad orientarsi in questa storia, e in questa storiografia, affinché insegnanti, studenti e una nuova generazione di studiosi dispongano finalmente di un repertorio da cui muovere per le proprie riflessioni e ricerche. ©UNICOPLI Un quadro vasto e lungo Il punto di partenza, oggi, è quello della presenza di nuove attenzioni verso la storia del grande brigantaggio postunitario. Nuove attenzioni e nuove pubblicazioni che hanno dietro di sé una lunga storia, senza conoscere la quale è difficile orientarsi ed è più facile cadere sotto l’influenza delle mode storiografiche se non di veri e propri interessi di parte. Nel quadro più generale di queste nuove attenzioni, le recenti pubblicazioni dichiaratamente neoborboniche, numerose ed anche di successo commerciale, rappresentano, da questo punto di vista, solo il segnale di un problema ma non la prima delle preoccupazioni degli storici. Queste nuove attenzioni si manifestano dopo una lunga fase di caduta dell’interesse verso gli studi ottocenteschi in generale e risorgimentali in particolare, soprattutto quelli dedicati al momento dell’Unificazione. Il Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia ha messo ben in evidenza queste dinamiche. La rinascita delle attenzioni all’Unificazione italiana, di cui le pubblicazioni sul brigantaggio rappresentano una parte, avviene in questo quadro più generale. Eppure gli studi sulla metà dell’Ottocento avevano avuto in precedenza un ruolo centrale negli studi storici, tanto sotto il regime fascista (Croce e Gentile si erano differenziati anche su questo) quanto nei primi quindici anni della Repubblica. Nel secondo dopoguerra la pubblicazione degli scritti di Gramsci e in genere la riflessione sui caratteri storici dell’Unificazione, una riflessione condotta fra ricostruzione e miracolo economico, avevano dato corpo e rilievo a tali studi. Poi però erano insorti problemi. A cavallo fra storia degli antichi Stati e storia dell’Italia unita, fra storia moderna e storia contemporanea, il periodo dell’Unificazione è stato infatti piuttosto trascurato per circa un trentennio. Avevano operato in tal senso spinte storiografiche, accademiche e generali. A livello più accademico, non ha aiutato certo la divisione tra la storiografia modernista attenta ai singoli Stati preunitari e quella contemporaneistica concentratasi vieppiù sul Novecento, sui moderni partiti di massa, sui sindacati e sulle grandi correnti ideologiche novecentesche. La separazione dei ‘settori scientifici disciplinari’ ha reso meno agevole ricomporre l’unitarietà di fondo della storia ottocentesca, anche a chi non voleva sottovalutare il valore della cesura della costruzione dello Stato nazionale. A livello storiografico, finalmente superato il risorgimentalismo di un tempo, screditato dalla sua prevalente attenzione alla sola storia politico-diplomatica, ma anche accantonato il dibattito sulla costruzione della nazione in rapporto a quella di un mercato economico nazionale, l’interesse degli storici verso gli anni Introduzione 9 ©UNICOPLI dell’Unità ha di recente patito anche della inevitabile diluizione dell’evento-Unificazione dentro la storia lunga dei processi culturali ottocenteschi di nazionalizzazione. Contrariamente a tutta una storiografia nazionalista precedente, l’Unificazione non era più presentata come uno sbocco inevitabile bensì come uno dei tanti possibili, l’azione delle élites liberali veniva pareggiata a quella dei democratici che li avevano criticati, chi si era battuto per l’Unità scendeva dal gradino e veniva allineato a chi l’aveva combattuta. Più in generale, qualche effetto deve aver avuto anche l’atmosfera generale, che non facilitava tali studi. Lontano ormai tanto dall’afflato unitario delle spinte nazionali e risorgimentali (e più attento alle divisioni politiche del tempo della Guerra fredda) quanto dalle preoccupazioni, forti nel post-Unificazione come nella Ricostruzione, di una integrazione delle masse nello Stato (non vista più come un obiettivo o un problema, al tempo delle società di massa, dei consumi, del welfare ecc.), il Paese portava minore interesse verso i suoi decenni di fondazione. Tutto questo ha forse scoraggiato gli studiosi italiani, lasciando ampio campo a giornalisti, pubblicisti, eruditi locali. In particolare, gli studi sulla metà dell’Ottocento meridionale avevano sofferto. Vivaci quando si era trattato di identificare le origini del divario fra nord e sud del Paese, essi si erano sviluppati nei primi decenni della Repubblica, quando una colta campagna meridionalista correva parallela alla programmazione di un’intera stagione di interventi politici ed economici a favore del sud. Alcuni decenni più tardi, tali studi avevano conosciuto una nuova stagione quando contro l’immagine che rischiava di prevalere di un unico indifferenziato Meridione essi le avevano contrapposto le tante sue articolazioni, i tanti diversi Sud. Ma alla fine anche questi studi si sono appannati o comunque hanno risentito dell’evoluzione dell’atmosfera generale, politica, extrastoriografica, con i governi che sono andati intanto riducendo l’intervento meridionalista. Paradossalmente, proprio la caduta di attenzione alla questione meridionale al tempo dell’abrogazione per referendum dell’Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno, erede della Cassa per il Mezzogiorno, e la diffusa accusa di sperpero delle risorse pubbliche di quell’intervento hanno alimentato una polemica antimeridionale cui hanno risposto, a modo loro, più che una rinnovata serie di studi, gruppi di pubblicisti ‘neosudisti’, anche attorno alle celebrazioni dell’unità d’Italia nel 2011. Da quella data, la discussione sulle ragioni del divario fra sud e nord pare essere rimasta di appannaggio esclusivo degli storici economici. È sullo sfondo di questo ampio quadro che vanno comprese tanto la rinascita degli studi ottocenteschi e risorgimentali, quanto un nuovo interesse verso la storia del Mezzogiorno nell’Unificazione, quanto infine la contemporanea diffusione di una ampia pubblicistica di argomento ‘sudista’ e non più ‘meridionalista’ e in taluni casi proprio nostalgicamente ‘neoborbonica’. Sul tema del brigantaggio, la compresenza e il divario fra le tendenze della storiografia e le parabole della pubblicistica stanno tutti qui. È in questo quadro più generale, e di più lungo periodo, che vanno intese tanto le più recenti tendenze della ricerca storiografica quanto il fatto che, sull’Unità al sud e sul 10 Nicola Labanca e Carlo Spagnolo brigantaggio, più che le ricerche degli storici, siano proliferate le opere dei pubblicisti, dei giornalisti, dei ricercatori locali, se non proprio degli arruffapopolo. È in questo quadro e per queste ragioni che una rassegna delle categorie interpretative e del lavoro storiografico svolto in più di un secolo e mezzo di storia unitaria sul brigantaggio non solo mancava ma appariva necessario. Questo volume, seppure ancora in modo parziale, ha l’obiettivo quantomeno di far rilevare l’importanza della questione e di contribuire a delineare un quadro storiografico di lungo periodo, che ha peraltro avuto evidenti riflessi sull’opinione pubblica. ©UNICOPLI 2011 e dintorni Un tema così rilevante – il Sud e l’Unificazione, e quindi anche il brigantaggio – non solleva questioni solo storiografiche ma anche, da parte della Repubblica, di memoria pubblica e quindi di politiche della memoria. In generale ci sarebbe da chiedersi se la Repubblica, dalla sua costituzione, abbia mai avuto una sua propria politica della memoria su questi temi. Per una risposta, dovrebbero essere rilette le proclamazioni dei padri e delle madri Costituenti, i libri scolastici di testo e le trasmissioni della televisione di Stato, gli atti delle celebrazioni del Centenario dell’Unità ecc. Qui ci limiteremo solo a rilevare le incertezze della narrazione prevalente, se non proprio ufficiale, nelle celebrazioni del Centocinquantesimo dell’Unificazione del 2011. Anche per reagire ad un attacco deciso che allora veniva avanti da tempo all’Unità nazionale e alla sua storia, lo Stato italiano finì in quel torno di anni per proporre – in un contesto assai difficile, a ridosso della crisi del 2008 e nel mezzo di una grave crisi economica e politica – una narrazione sostanzialmente patriottica dell’Unità come fenomeno consensuale degli italiani. Tale narrazione, pur nobile e comprensibile, eludeva però sia la realtà del passato (la forte conflittualità in cui era nata l’Unità stessa: fra governo piemontese e governi degli antichi Stati regionali, fra moderati e democratici, fra elites e popolo, fra città e campagne, fra nord e sud ecc.) sia l’importante processo reale allora in corso, caratterizzato dall’aggravamento contemporaneo del divario tra Nord e Sud. Rivendicando l’Unità ma ignorando quella divaricazione essa non apparve credibile, in particolare al sud. Fu lo spazio creatosi fra quella narrazione e la realtà ad essere riempito dalla diffusione di una variegata lezione ‘sudista’. La polemica sollevatasi attorno ad alcuni testi (precoci quelli di Gigi Di Fiore, tempestivi quelli di Pino Aprile) si basava sul tasto dolente della percezione diffusa della realtà. Essa reagiva anche all’accusa rivolta da ambienti ‘nordisti’ al Mezzogiorno di essere una zavorra per il resto del Paese. Mentre le istituzioni tornavano a incensare Cavour, e mentre gli storici pensavano alla storia lunga delle sensibilità e delle culture ottocentesche, Pino Aprile e altri militanti neoborbonici finivano per rimanere gli unici a contestare la versione ufficiale-patriottica, dando voce a un sentimento diffuso al Sud di lontananza e di accuse al Nord che quasi nulla aveva a che fare con la Introduzione 11 ©UNICOPLI storia del 1860-61 ma che molto invece rispecchiava della vita e dei sentimenti contemporanei dei meridionali di fronte alle minacce di secessione del Nord. La risposta delle istituzioni repubblicane alla rivalutazione della storia dei Terroni fu debole, mentre sul piano storiografico gli storici avevano altri interessi e non si confrontarono davvero con esse. Fu in questo iato che sui vari punti in discussione – economici, sociali, politici – le posizioni tradizionalmente neoborboniche e filo-brigantesche trovarono un nuovo spazio. Alle genesi dei nuovi imprenditori della memoria, e al modo in cui frammenti sparsi del passato sono stati ricomposti in narrazioni identitarie, nella pubblicistica, al cinema e in televisione, e sul web, alle nuove narrazioni, al ruolo della scuola, abbiamo dedicato attenzione e anche proposto una prima ricostruzione complessiva. Nell’ignoranza generale dei risultati migliori della ricerca storiografica, ma anche a causa di lacune tuttora da coprire – sulle quali una nuova stagione di indagini in corso sta dando già frutti - a livello di opinione pubblica (soprattutto a Sud) poté diffondersi una ‘tradizione inventata’ dell’Unità come fonte originaria di quasi tutti i mali di cui il Sud effettivamente soffriva. Non importava se questo era reso possibile, attraverso uno stravolgimento del passato, dal ricorso a canoni vittimari che assimilavano i meridionali alle vittime dell’Olocausto, dalla trasformazione dell’Unificazione in un campo di sterminio del Sud da parte del Nord, dalle vecchie fandonie legittimiste del Meridione ricco e moderno ma sfruttato dal Settentrione colonialista. In queste narrazioni la caserma di Fontanelle diventava un lager, la lotta al brigantaggio una lotta ai partigiani, la sua repressione militare una strage permanente indiscriminata dei militari ‘piemontesi’ contro i civili ‘meridionali’. E non contribuì alla conoscenza dei fatti il riconoscimento da parte del presidente del comitato delle celebrazioni di una strage commessa a Pontelandolfo, su cui oggi finalmente sappiamo grazie agli studi più recenti che le responsabilità dell’esercito furono limitate e ben lontane dalle migliaia di vittime avvallate nel 2011 da autorevoli giornali. In realtà Pontelandolfo non fu il caso più importante, incendi e stragi coinvolsero altri centri urbani oggi meno noti, in Irpinia e in Terra di Lavoro, nell'odierno basso Lazio, in Abruzzo, Basilicata, Calabria, nelle Puglie, nel Sannio e in Molise. I centri urbani che si erano schierati per Francesco II furono puniti con la marginalizzazione amministrativa; alcuni di quelli più affidabili assunsero funzioni giudiziarie e politiche che prima non avevano. L’unificazione fu sanguinosa ma non solo per via della lotta tra piemontesi e borbonici. Lo fu soprattutto per una lotta intestina al Regno di Napoli e per una dissoluzione di legami sociali molto complessi, legati ad una organizzazione sociale di estrema articolazione, che stava cadendo poco alla volta sotto i colpi del mercato, del lavoro salariato e del commercio internazionale, il che creava l’humus per un rifiuto dello Stato da parte di soggetti messi ai margini e privati di ogni futuro: prima dei Borbone e poi del Regno d’Italia. Non tutto nel Regno di Napoli era arretrato, e il giudizio non deve essere liquidatorio ma consapevole degli sforzi di modernizzazione falliti e delle responsabilità della casa borbonica e della sua strategia di terra bruciata – che altro fu il brigantaggio se non questo? – nella ©UNICOPLI 12 Nicola Labanca e Carlo Spagnolo perdita dell’opportunità di una soluzione federale che era negli auspici del Risorgimento del 1848. Così nel grande brigantaggio confluirono sia una sorda rivolta contro il presente sia una congerie di faide locali sia le culture coeve della violenza sia le speranze illusorie di restaurazione borbonica e di riaffermazione del potere secolare ecclesiastico. Non vi è dubbio che inizialmente, nel 1861, una componente importante delle insorgenze fu alimentata dal legittimismo borbonico e dalla sua promessa di quotizzazione dei demani, che né Garibaldi né Cavour avevano soddisfatto. Tuttavia il brigantaggio non fu un fenomeno meramente ideologico. Se non si considerano la miseria e la fame di terra, l’odio maturato dalla popolazione rurale nel corso di tutto l'Ottocento contro i possidenti e i “galantuomini”, non si spiega come mai il fenomeno si dispiegasse ancora e in forme criminali dal 1862 in poi - trascinandosi fino al 1870 e oltre - quando le speranze di restaurazione erano tramontate. La genesi dello Stato italiano può oggi essere rivisitata anche alla luce delle domande nuove che scaturiscono dalla globalizzazione del sec. XXI nella quale albergano miti nichilisti che potrebbero essere altrettanto negativi per le giovani generazioni di quanto allora furono quelle rivolte. Per il centocinquantesimo una narrazione semplicatrice e dicotomica veniva agitata, strumentalmente, da una certa pubblicistica che con la sua voce copriva le afasie o le distrazioni degli storici sui nodi più spinosi dell'unificazione italiana e soprattutto nel silenzio della Repubblica, frenata da forze assai poco interessate al senso storico dell’Unità nazionale, su come affrontare una ancora aperta “questione meridionale”, intesa come divari di occupazione, redditi e prospettive di vita tra alcune aree del paese. In questo spazio pubblicistico – a stampa, on line, generalmente mediatico – tutto veniva re-inventato: i meridionali come gli ebrei, discriminati per la loro ‘razza’; il Mezzogiorno come territorio coloniale, dove tutto era permesso agli ‘invasori’; rimossi i meridionali liberali, i protagonisti del 1848 e i garibaldini; il passato borbonico come una sorta di originario paradiso perduto. La variegata area neoborbonica, antisettentrionale, filo-brigantesca si nutriva di queste fantasie, che trovavano nel web un campo aperto per radicarsi. Amministrazioni locali in cerca di attrazioni turistiche e di identità territoriali hanno contribuito a legittimare la riscoperta del brigante eroe. Lo studioso si chiede come questo sia stato possibile, e trova una spiegazione non tanto nel testo e nel passato (cioè nella storia effettiva della Unificazione italiana) quanto nel contesto dell’oggi, laddove un certo radicamento di ‘invenzioni della tradizione’ e di movimenti nostalgici di passati immaginari sono diffusi in vari paesi europei, radunando confusamente i “perdenti della modernizzazione” e le loro, più o meno legittime, rivendicazioni culturali. Persesi o confusesi le grandi tradizioni ideali novecentesche, disperse o frantumate le narrazioni memoriali dei grandi partiti di massa, proprio queste forze territoriali che i politologi chiamano populiste cercano forme proprie di espressione e sono tutt’altro che banali, sanno intervenire sulle faglie sociali che dalla fine della Guerra fredda vanno coniandosi, scomponendosi e ricreandosi nuove narrazioni su basi territoriali. Poco importa se fragili sono le basi realmente sto- Introduzione 13 La Repubblica e il brigantaggio Solo in questo quadro largo e cronologicamente profondo di questioni può essere compresa la discussione, anche aspra, sollevatasi negli ultimi anni attorno al grande brigantaggio meridionale come forma di reazione all’Unificazione nazionale. Si tratta di una questione assai difficile ed insidiosa, in cui è bene distinguere i livelli di competenza più prettamente storiografica da quella politico-culturale da quella infine istituzionale. Qualsiasi siano i suoi livelli, però, appare non solo utile ma necessaria una conoscenza più ravvicinata e più meditata della storiografia, cioè di quanto sul tema gli studiosi (e talora persino i pubblicisti) sono andati scrivendo e riflettendo in più di un secolo e mezzo di storia. Non è certo per l’illusione che historia sia magistra vitae, o che possa esserlo la storiografia. Però solo la conoscenza di quanto si sia già scritto permette di ricostruire il percorso degli studi e di cogliere quanto, talora, oggi si va sostenendo sia in realtà una riformulazione (e talora una scopiazzatura) di quanto altri già hanno sostenuto nel passato. Solo la conoscenza degli studi passati permette di dimostrare come talune tesi oggi riproposte siano state già, nel passato, battute dalla conoscenza scientifica dei fatti e dei contesti. ©UNICOPLI riche (o inesistenti quelle storiografiche) di tali narrazioni: si pensi ai miti della ‘Padania’. Né deve stupire se esse rielaborino frammenti e spezzoni di vecchie narrazioni rielaborandole e ricomponendole in costruzioni nuove, mescolando immagini antiche e pratiche innovative di comunicazione di massa, nel Web e fuori di esso. La riappropriazione di concetti di radici, di territorio, di identità locali – percepiti come positivi nella e contro la frammentazione odierna – avviene in vari contesti e in diversi Paesi assieme al recupero di elementi narrativi che circolano nelle tradizioni locali, miscelati ad elementi della cultura globale, originando nuove narrazioni del passato. Narrazioni poco storiche, si dirà, e poco o nulla veritiere, perché sovrappongono il presente al passato e cancellano le differenze e le culture del passato: ma della verità portano la sembianza, e tanto basta nel circuito comunicativo istantaneo della Rete. Di fronte a tali processi, profondi e diffusi, la Repubblica non ha avuto una propria politica della memoria, non sapendo quindi offrire al Meridione d’Italia, anzi ai suoi vari Meridioni, una versione adeguata del processo di Unificazione. Troppo pochi, peraltro, sono stati gli storici che si sono posti questo problema (a loro giustificazione, comunque, un problema più delle istituzioni e della politica che della storiografia). I curatori di questo volume sono convinti che tale discussione pubblica sia solo l’epifenomeno di vicende economiche, sociali, politiche e persino ideali ben più profonde. Fatto sta che la risposta della Repubblica a tale viluppo di questioni è riuscita nel complesso inadeguata. ©UNICOPLI 14 Nicola Labanca e Carlo Spagnolo Non v’è dubbio che, oggi, una riproposizione romantica o addirittura nostalgica dei briganti poggi su una proliferazione di racconti episodici a fronte di una diffusa mancanza di conoscenze dei contesti. Essa mette radici diverse in ambienti diversi, sostenute però dalla comune mancanza di cognizione della società meridionale e delle campagne di metà Ottocento. In taluni ambienti cattolici tradizionalisti, la figura del brigante espressione di una società meridionale sensibile ai richiami dello Stato della Chiesa e costretta a confrontarsi con uno Stato liberale e laico non può non trovare terreno fertile per radicarsi. In alcuni degli ambienti populisti odierni, pronti a contrapporre sempre ‘il popolo’ e ‘lo Stato’ (o ‘il palazzo’), un’immagine popolaresca dei briganti non può non incontrare echi di consonanza. Ma non è esente da responsabilità la tradizione democratica e progressista in cui è stata coltivata sin dagli anni Sessanta la falsante equazione fra brigante, contadino e popolo, soprattutto se intesa come un’espressione (o una formula) di totale equivalenza. Per questo suo carattere trasversale, la riproposizione dei briganti come forza di opposizione all’Unificazione moderata e ‘settentrionale’ ha radici profonde. In questi ultimi ambienti i briganti possono persino essere scambiati per partigiani dando origini ad immagini positive del brigantaggio a dispetto delle pratiche efferate di rapine, abigeato, sequestri e stupri che le bande praticarono con sistematicità. D’altronde, proprio una versione ufficiale dell’Unificazione privata dalle asperità delle sue contraddizioni sociali e politiche può ingannare e finire per presentare quella brigantesca come l’unica (forma di) opposizione sociale alla ‘guerra regia’ e all’unificazione per ‘rivoluzione passiva’. Si cancella così la memoria dei liberali, dei democratici, dei garibaldini e dei mazziniani che sognavano un'altra Italia e per essa combatterono. Infine, in ambienti anarchici così come in ambienti di destra radicale la riproposizione di visioni romantiche del brigante come masnadiero schilleriano può trovare suoli ben arati. Di fronte a tutte queste diverse realtà, solo la conoscenza e solo la conoscenza dei risultati validati della storiografia può rappresentare il primo passo per la demistificazione della riproposizione di vecchi miti, o della loro sempre nuova ricombinazione. Solo il primo passo, certo, per una visione da parte della Repubblica: ma un passo indispensabile perché almeno sia reso impossibile il ripresentare vecchie fandonie o recenti riletture come novità. Sottolineiamo il dato ‘repubblicano’ perché, proprio ripercorrendo più di un secolo e mezzo di ricostruzioni, appare evidente come sia l’Italia liberale sia il regime fascista non fossero, e non sono stati, i periodi migliori per studiare l’Unificazione e il brigantaggio. La prima, frutto immediato di quella cesura storica, nel corso della quale quella storia era ancora questione palpitante, viva, difficile, una storia ancora di protagonisti e testimoni, le cui memorie edite furono certo fondamentali ma che non potevano bastare per una vera ricostruzione storica. Ma nemmeno il secondo rappresentò lo scenario migliore per uno studio del brigantaggio: un periodo in cui le origini dell’Italia unita non dovevano essere messe in discussione, e in cui la storia ufficiale rappresentava tutto quanto era venuto prima come “in cammino” verso il regime. E i contrasti fra democratici Introduzione 15 Il dibattito recente, e i territori È solo a seguito di tutta questa storia, e di tutta questa storiografia, che si arriva alle attenzioni più recenti che la ricerca storica italiana sta portando alla vicenda del grande brigantaggio meridionale. Come gli autori dei capitoli ‘cronologici’ di questo volume mettono bene in evidenza, la storiografia italiana ha visto – lo diciamo qui schematicamente – una successione di interpretazioni del fenomeno storico che è andato sotto il nome di grande brigantaggio meridionale. Per primi, i suoi stessi protagonisti o i loro sostenitori fra Stato della Chiesa e ambienti reazionari interni all’Italia liberale già costituita configurarono, ad eventi in corso, un’immagine positiva ©UNICOPLI e moderati, fra laici e sostenitori del Papa, fra “gentiluomini” e “briganti” non potevano trovare spazio nella ricostruzione datane dalle classi dirigenti e dalla Sinistra storica. È per questo che l’avvio della Repubblica ha inaugurato il periodo vero in cui il brigantaggio fu studiato. E gli storici nel primo trentennio della Repubblica hanno compiuto passi fondamentali nella ricostruzione del contesto sociale e politico-militare. Per quanto alcune parti del loro ragionare possano oggi apparire da riformulare, nessuna infatuazione postmoderna per la pluralità delle interpretazioni potrà negare come alcuni studiosi abbiano eretto pilastri ancora necessari di ogni ricostruzione e interpretazione odierna e futura. Dopo le riflessioni di alcuni contemporanei, dopo le inchieste immediatamente successive di un Fortunato o le riflessioni di un Croce, dopo i primi studi locali di un Locatelli, è con la storiografia del periodo della Repubblica che si mettono le basi di una lettura scientificamente fondata del fenomeno del grande brigantaggio. Soprattutto Franco Molfese, ma poi anche Tommaso Pedio e Raffaele Colapietra, infine Giuseppe Giarrizzo, Alfonso Scirocco e Rosario Villari hanno scritto pagine da cui oggi non è possibile prescindere. Un approccio storiografico, oltre a diffondere conoscenze, insegna anche a non perdere di vista genealogie che il presentismo e il ‘nuovismo’ di certi media contemporanei tenderebbero a far dimenticare. Prima delle attenzioni più recenti, è certamente nei primi anni Ottanta che si inizia a riflettere in modo nuovo e meno schematico, solo adesso possibile grazie alla conoscenze nel frattempo accumulate, attorno al brigantaggio ampliando lo sguardo – lo diciamo schematicamente, per brevità – al suo “manutengolismo”, cioè ai ceti e alla società politica che lo sosteneva, e più in generale alla società civile nelle sue diverse articolazioni territoriali. Anche Molfese aveva guardato non solo ai briganti ma alla società che li esprimeva: ma le categorie con cui vi guardava erano quelle dei suoi tempi, in cui si cercava di sussumere tutto il Mezzogiorno dentro una unica questione sociale. Ciò detto nei primi anni Ottanta si mettono le basi per le attenzioni nuove che la storiografia più recente ha dedicato a queste tematiche. ©UNICOPLI 16 Nicola Labanca e Carlo Spagnolo dei briganti, proponendone una interpretazione rivendicativa e apologetica. All’opposto, soprattutto nei decenni successivi (cioè a fenomeno storico ormai stroncato dall’interagire di una pesante repressione militare-giudiziaria e di una decisa politica e di integrazione e cooptazione nelle sedi decisionali della nuova elite dell’Italia unita di gran parte di quegli ambienti meridionali che alla sua costituzione si erano opposti), la classe dirigente liberale e i suoi storici diedero spesso dei briganti un’immagine tutta negativa e criminalizzante, spesso sottacendo il consenso politico e sociale che essi avevano riscosso e dal quale la loro azione si era mossa. Più rare, ma suggestive e durature, furono in quei decenni le ricostruzioni romantiche della guerra del brigante. Sotto il fascismo, con Croce che difficilmente poteva dare di quel fenomeno una lettura positiva (ma non esente da tocchi romanticizzanti), fu Volpe a tentare di riassumere almeno alcuni aspetti della ‘critica brigantesca’ all’Unità d’Italia dei liberali. Ma è evidente che, in un regime d’ordine, nessun orianismo era davvero possibile sino in fondo, e più che dei briganti si parlò della guerra ai briganti (Cesari). Fu quindi solo con la Repubblica che poté darsi la condizione per uno studio più libero dell’Unificazione. Non solo la versione moderata o sabaudista ma ormai anche quella democratica e mazziniana, o garibaldina, dell’Unificazione tornarono ad essere ‘dicibili’. Ma non fu solo lo scontro politico ad essere studiato, con la Repubblica. Influenzati anche dalle grandi lotte contadine degli anni fra fine della guerra mondiale e avvio della Ricostruzione e dalla diffusione degli scritti di Gramsci (che ponevano al centro dell’interpretazione del Risorgimento tanto la lotta politica fra moderati e partito d’azione quanto lo scontro sociale fra aristocrazie agrarie e contadini) gli storici cominciarono a vedere il brigantaggio sullo sfondo di un processo di Unificazione tutt’altro che consensuale e moderato o ‘regio’ e piuttosto conflittuale politicamente e socialmente. Da qui a vedere il brigantaggio come contraddittoria forma di opposizione sociale all’Unificazione moderata e liberale il passo fu breve. A questa interpretazione politico ed economico-sociale non ci fu sostanziale obiezione per lunghi anni, anche perché purtroppo lo studio accademico e professionale del brigantaggio come un aspetto della difficile integrazione del Mezzogiorno nel nuovo Stato unitario declinava, favorendo gli studi locali degli eruditi locali. Non per caso il volume di Molfese fu stampato per più di vent’anni, e non conobbe alternative – come lavoro di sintesi – per mezzo secolo. Come si è detto, negli anni Ottanta nuovi stimoli e nuovi spunti emersero, ma senza portare a nuove sintesi di pari ampiezza. Molte rigidità delle interpretazioni economico-sociali furono smussate, si mise in evidenza il dato di lungo periodo di un Meridione solcato da forme di insubordinazione e di ‘malandrinaggio’, fu possibile (sulla base delle intervenute ricerche di storia locale) mettere l’accento sulle diversità territoriali nelle forme tattiche, nei risultati e nei consensi dell’azione brigantesca, la articolazione delle bande in sottogruppi, le differenze tra bande costituite da contadini, da sottufficiali ed ex soldati o da pastori, si esaltò il dato della conflittualità fra unitari e anti-unitari nelle vicende politiche locali. Insomma si misero in discussione alcuni aspetti delle Introduzione 17 ©UNICOPLI interpretazioni precedenti, ma nell’insieme senza rigettarli. È solo negli ultimi decenni che una storiografia nuova si è affermata e sta ponendo domande davvero nuove. Fra tutte, si ricordano qui almeno la definizione di guerra civile per l’esito finale del processo di unificazione, la forte accentuazione del dato della conflittualità politica a livello locale (una sorta di ‘autonomia del politico’ localistico) e la parallela svalutazione delle spiegazioni economico-sociali, mentre un quasi interamente nuovo filone di ricerca viene delineato: lo studio dei canali di comunicazione e delle rappresentazioni del brigante, allora e dopo. E con questo siamo arrivati all’oggi, dalle apologie dei reazionari alle deprecazioni dei liberali unitari, dalla storia criminale e militare, a quella politica e sociale, sino a quella culturale. Oggi, nel sommarsi e intrecciarsi di tante letture passate, non è infrequente vedere più di una concessione al relativismo postmoderno. Di un fenomeno storico, che all’inizio fu esaltato dai suoi reazionari sostenitori e deprecato dai suoi oppositori liberali e nazionali, e che oggi è studiato in tanti suoi livelli e dimensioni, non è raro vedere storici che rinunciano – di fronte alla complessità – a offrire comunque una visione complessiva, se non un giudizio. Di fronte alla enorme varietà dei casi territoriali e locali, talora emerge una postmoderna irriducibilità alla sintesi. Ecco che il brigantaggio, anche negli storici più moderni e affinati, rischia di diventare un fenomeno storico pirandelliano: uno, centomila, e alla fine nessuno. Un brigantaggio ora ‘inventato’ dai liberali, ora più che altro ‘locale’. Un brigantaggio di cui si esamina anche con grande finezza la dimensione culturale, e la sua performatività, ma di cui si smarrisce il profilo sociale (ma erano contadini, braccianti, terrazzani, pastori, ex-soldati, renitenti, ceti piccolo-urbani marginali?) e talora gli obiettivi politici (erano parte attiva dello scontro fra unitari e reazionari antiunitari o erano piuttosto bande a sostegno delle fazioni e degli interessi locali?). Ogni slargamento storiografico deve essere considerato utile, ogni dibattito e innovazione storiografica è certamente importante. Meno utili appaiono le impostazioni liquidatrici di quelle precedenti, soprattutto quando alle viste non si presenta una unica nuova interpretazione complessiva. Anche per questo il volume è articolato in tre parti: una parte ‘cronologica’, tendente a far emergere le grandi fasi del dibattito storiografico nazionale; una ‘tematica’, concentrata sulla dimensione militare dello scontro fra briganti e Stato; e soprattutto una parte geografica-‘territoriale’. La scelta della scala territoriale è stata quella, grossomodo, regionale. Certo, altre scelte erano possibili, visto che le stesse regioni amministrative repubblicane sono tutt’altra cosa delle articolazioni territoriali di quel tempo, e che esse non sono altro che aggregazioni di aree minori, dalle caratteristiche specifiche. Inoltre, nella storia unitaria del brigantaggio, oltre alla articolazioni proprie della dimensione regionale – che differenzia ad esempio radicalmente la storia della Sicilia (o della Sardegna) da quella del Mezzogiorno continentale, e all’interno di questo quella (ad esempio) della Puglia rispetto a quella della Campania, quella degli Abruzzi e del Molise a quelle della Calabria e della Basilicata – an- ©UNICOPLI 18 Nicola Labanca e Carlo Spagnolo che di altre articolazioni si dovrebbe tenere conto: si pensi alle differenze città/ campagna, pianura/collina/montagna, agricoltura/pastorizia ecc. Come suggerito da Salvatore Lupo, le differenti risposte territoriali all'unificazione e al brigantaggio vanno ancora approfondite: perché Napoli si rivelò, sin dall'arrivo di Garibaldi, così resistente alle tentazioni legittimiste e filoborboniche? Perché invece le insorgenze urbane, specie nel 1861-63, furono così significative in Lucania, Irpinia, Capitanata, nelle aree interne della Puglia, negli Abruzzi? E come mai in Calabria il brigantaggio non ebbe gli stessi caratteri politici? Non si deve tener conto di specifici rapporti sociali e dei legami delle rispettive strutture produttive con la Corona e con la capitale? Pur con questi interrogativi aperti, consapevolmente adottati nelle loro potenzialità come nei loro limiti, la sezione geografica del volume ha l’importante ruolo di testimoniare come ogni necessaria articolazione territoriale di qualunque discorso sul brigantaggio non dovrebbe far sì che, postmodernisticamente, lo specchio della storia si rompa in mille frammenti non ricomponibili. Non foss’altro che, ai contemporanei, certo non ignari di tutte queste diversità, il fenomeno rimaneva unitario e portava lo stesso unificante nome di ‘brigantaggio’. Non sta a questo volume proporre una propria interpretazione del brigantaggio, quanto offrire un panorama vasto delle diverse interpretazioni che si sono succedute nel tempo e dei loro principali risultati, delle metodologie di analisi, di alcune ricerche in corso, senza far velo ai limiti di conoscenza ancora da colmare. Nella relativa omogeneità delle letture dei diversi autori dei vari capitoli che lo compongono, esso si accontenta di contribuire a che tutti – studiosi, insegnanti e cittadini interessati al tema – abbiano chiaro quanto sia fondamentale avere consapevolezza di ciò che la storiografia ha accumulato in centosessanta anni di storia unitaria, e di non ritenere che solo l’ultima moda o interpretazione sia quella unica e valida. Nonché di far emergere come tanti temi che la pubblicistica odierna ripresenta non sono altro che derivazioni, e spesso deformazioni e banalizzazioni, di temi che gli studi più seri avevano già affrontato nel passato. Dal convegno al volume Il presente volume prende le mosse dal convegno Guerra ai briganti, guerra dei briganti. Storiografia e narrazioni, organizzato a Bari per il 11-13 ottobre 2018 dal Dipartimento di studi umanistici dell’Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’, dal Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari e dalla Società napoletana di storia patria. Il convegno ha potuto fregiarsi del patrocinio del Comune di Bari e della Regione Puglia, oltre che della Società italiana per lo studio della storia contemporanea. Il suo Comitato scientifico è stato formato da Annastella Carrino, Renata De Lorenzo, Lea Durante, Gian Luca Fruci, Nicola Labanca, Salvatore Lupo, Carmine Pinto e Carlo Spagnolo. Il convegno era stato sollecitato non solo dal rinnovamento degli studi sul brigantaggio – di cui si è più sopra detto – ma soprattutto dalla piega, ritenuta Introduzione 19 ©UNICOPLI preoccupante, delle prese di posizione di alcune forze politiche favorevoli all’istituzione di giornate di memoria “atte a commemorare i meridionali morti in occasione dell’Unificazione italiana” e addirittura di delibere assunte dai Consigli della Regione Basilicata e della Regione Puglia nelle quali il Mezzogiorno veniva identificato con la monarchia borbonica e diventava una vittima dello Stato italiano. Ne risultò una indignata reazione degli storici, di diversa tendenza, uniti nella critica alla cancellazione del passato. Non era la commemorazione in sé a suscitare imbarazzo quanto la vittimizzazione del Mezzogiorno che metteva su un indifferenziato banco degli imputati Cavour, Garibaldi e gli stessi gruppi dirigenti meridionali che dopo decenni di lotta all’assolutismo borbonico avevano appoggiato l’unificazione. La data prescelta per la commemorazione, il 13 febbraio, giorno della caduta del Regno dei Borbone, non glorificava proprio la monarchia oppressiva che aveva provocato la caduta del regno delle due Sicilie? Nel corso del Convegno, l’allora presidente del Consiglio della Regione Puglia Mario Loizzo intervenne per riconoscere le ambiguità della risoluzione. La delibera, di cui nel corso del dibattito del convegno è stato chiesto il formale ritiro, per evitare ambiguità di sorta, da allora non ha avuto seguito ed è stata lasciata ‘dormiente’. Il presente volume è qualcosa di più e purtroppo qualcosa di meno di un registro degli atti del convegno. Gran parte dei saggi qui pubblicati erano stati presentati in prima versione al convegno, altri se ne sono aggiunti, tutti sono stati sottoposti ad un referaggio anonimo. Ciò ha preso del tempo, durante il quale non si è realizzato l’auspicio che alcuni relatori conferissero il proprio testo: si ringraziano comunque Lea Durante, Carmine Pinto, Maria Michela Landi, Gian Luca Fruci, Silvia Sonetti e Giulio Tatasciore, il cui contributo fu prezioso in sede di convegno. La scelta di pubblicare non dei semplici atti di convegno ma uno strumento di informazione e aggiornamento bibliografico era già presente agli organizzatori dell’iniziativa. L’idea di farne non solo uno snello volume a stampa ma anche una pubblicazione liberamente disponibile in open access e accessibile on line da diversi siti è venuta nel tempo, imponendosi anche a scelte accademicamente forse più redditizie per i singoli relatori, e discende dalla volontà comune di contribuire, come si diceva all’inizio, non solo al dibattito storiografico ma anche all’informazione più ampia e più libera. ©UNICOPLI Parte prima STORIOGRAFIE DI IERI E NARRAZIONI DI OGGI ©UNICOPLI ©UNICOPLI MEMORIE E STORIE DEL BRIGANTAGGIO NELL’ITALIA LIBERALE Enrico Francia Pensare ad una storia del brigantaggio 1 Lettera a Salvemini, 15 gennaio 1912 in G. Fortunato, Carteggio 1912-1922, Roma, Laterza, 1979, p. 10 2 Cfr. L. Musella, Una ricerca sul brigantaggio di Giustino Fortunato, in “Contemporanea”, 17, 2014, n. 4, pp. 627-642 e Id., Giustino Fortunato, il brigantaggio meridionale e la difficile unità d’Italia, in “Nuova rivista storica”, 99, 2015, n. 2, pp. 399-420. 3 Gaetano Salvemini, L’autobiografia di un brigante, estratto da “Lares. Bullettino della Società di Etnografia Italiana”, vol. III, 1914, fasc. I, pp. 61-86, fasc. II, pp. 163-184. Su questo si veda Nicola De Blasi, “Carta, calamaio e penna”. Lingua e cultura nella Vita del brigante Di Gè, Potenza, Casa Editrice Il Salice, 1991. 4 Salvatore Di Giacomo, Per la storia del brigantaggio nel Napoletano, Ed. Digitale Liberliber, 2005 (prima edizione: s.l., s.n., 1904?). ©UNICOPLI Nel marzo 1911 Gaetano Salvemini scriveva a Giustino Fortunato, per chiedergli consigli di lettura per una relazione che avrebbe dovuto tenere sul brigantaggio. La risposta di Fortunato era entusiasta: “magnifico il tema del brigantaggio (…) si tratta di un argomento vergine e originalissimo: molto più grandiosamente tragico di quello che sia mai dato sospettare. Esso solo basterebbe ad onorare, con un libro non morituro, la vita di un uomo”1. In realtà a cavallo del Novecento quel terreno vergine di cui parlava Fortunato era oggetto di una crescente attenzione da parte di alcuni dei più importanti intellettuali meridionali. Dal 1909 Fortunato raccoglieva materiali – lettere fonti d’archivio, opuscoli, testimonianze dirette – intorno al brigantaggio, e anche per questo era diventato un punto di riferimento per coloro che si occupavano di brigantaggio, come testimonia la lettera che gli aveva scritto Salvemini2. Dopo un lungo scambio espitolare sempre con Fortunato, nel 1914 Salvemini ripubblicava con una sua introduzione il diario del brigante Michele Di Gé sulla rivista di studi demo-etno-antropologici “Lares”3. Qualche anno prima, nel 1904 Salvatore di Giacomo invece aveva scritto Per la storia del brigantaggio napoletano, breve testo, impressionistico e frammentato, ma con alcune acute notazioni generali4. Nel 1899 Francesco Saverio Nitti invece aveva pubblicato un libello, Eroi e Briganti, la cui seconda parte era dedicata al brigantaggio postu- ©UNICOPLI 24 Enrico Francia nitario; nella nota introduttiva Nitti ringraziava Benedetto Croce per le notizie e i dati che gli aveva fornito5. E nel 1912 lo stesso Croce ripubblicava all’interno del saggio sulla rivoluzione napoletana del 1799 un saggio dedicato al capobrigante Angelo Duca, detto Angiolillo, individuato come esempio di brigante sociale6, e pochi anni dopo aveva dedicato una nota de “La Critica” alla pubblicazione dell’autobiografia di Di Gè7. Per Fortunato, Salvemini, Croce, Nitti parlare di brigantaggio significava in primo luogo confrontarsi con un vissuto personale e familiare, in alcuni casi ancora vivo. La famiglia di Fortunato, originaria di Rionero in Vulture, borbonica, era stata accusata di avere aiutato Carmine Crocco; gli zii e poi anche il padre erano stati arrestati, e quest’ultimo “sdegnato delle persecuzioni, delle accuse, dell’atmosfera irrespirabile”decise di trasferirsi a Napoli8. La raccolta di materiali in cui era impegnato da anni Fortunato era tesa in primo luogo a difendere la famiglia da quelle infamanti accuse9. Anche Nitti proveniva da una famiglia che era stata colpita direttamente dal brigantaggio. Il nonno paterno di Nitti, Francesco Saverio senior, era stato ucciso dalla banda di Crocco durante l’assedio di Venosa. Al di là del peso della memoria e del vissuto personale, per questi intellettuali fare la storia del brigantaggio postunitario significava non solo confrontarsi con le zone oscure di un’unificazione che si apprestava ad essere solennemente celebrata nel suo cinquantennio10, ma dare profondità storica al dibattito sul mezzogiorno nel quale erano intensamente impegnati: la ricostruzione di quella tragica esperienza poteva fornire spiegazioni e ragioni del ritardo, degli squilibri, della mancata nazionalizzazione11. Nessuno di loro alla fine scrisse un libro di ampio respiro sul brigantaggio come auspicato da Fortunato, e neanche lo stesso Giustino tradusse la gran mole di documentazione acquisita in un intervento pubblico di ampio respiro. 5 Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Venosa, Edizioni Osanna, 1987 (prima edizione 1899). 6 Benedetto Croce, Angelo Duca (Angiolillo). Capo dei banditi in Id., La rivoluzione del 1799. Biografie, racconti, ricerche, Bari, Laterza, 1912, pp. 427-452. Croce aveva pubblicato questo profilo biografico in forma di piccolo libello nel 1892 (Napoli, Luigi Pierro editore). 7 B. Croce, L’autobiografia di un brigante, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce”, n. 13, 1915, pp. 239-240. 8 L. Musella, Una ricerca sul brigantaggio di Giustino Fortunato, cit., p. 627. 9 Umberto Zanotti Bianco, Giustino Fortunato (1848-1932), in G. Cingari, G. Galasso, M. Rossi-Doria, L. Sacco, A. Jannazzo, U. Zanotti-Bianco, Giustino Fortunato, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 112. 10 Cfr. Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2011 (1° ed. 2006), pp. 5-19. 11 Sui meridionalisti, oltre alle classiche antologie degli anni Sessanta-Settanta (Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1963; Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia. Antologia della questione meridionale, Bari, Laterza, 1972), si veda soprattutto la lettura offerta da Salvatore Lupo, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, in “Meridiana”, 12, 1998, n. 32, pp. 17-52. Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale 25 Sulla storiografia e sulle interpretazioni sul brigantaggio si vedano soprattutto Alfonso Scirocco, Il brigantaggio meridionale post-unitario nella storiografia dell’ultimo ventennio, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, XXII, 1983 (ma 1985), n. CI, pp. 17-32; A. Scirocco, Il giudizio sul brigantaggio meridionale postunitario: dallo scontro politico alla riflessione storica, in Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, I, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1999, pp. XIII-XXXVIII; S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia. Annali, vol. XVIII. Guerra e pace, a cura di Walter Barberis, Torino, Einaudi, 2002, pp. 463-502; Alessandro Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, in “Le carte e la storia”, fasc. 2, 2015, pp. 32-39. 13 Sulla relazione Massari e sulla commissione di inchiesta si vedano Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 258-271; Tommaso Pedio, Inchiesta Massari sul brigantaggio. Relazioni Massari-Castagnola. Lettere e scritti di Aurelio Saffi. Osservazioni di Pietro Rosano. Critica della “Civiltà cattolica”, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1998. 14 In particolare sono stati esaminati Luigi Anelli, Storia d’Italia dal 1814 al 1863, vol. IV, Milano, Vallardi, 1864; Carlo Belviglieri, Storia d’Italia dal 1804 al 1867, vol. 6, Milano, Corona e Caimi editori, 1867; Luigi Zini, Storia d’Italia dal 1850 al 1866. Continuata da quella di G. La Farina, Milano, Casa editrice di M. Guigoni, 1869; Nicola Nisco, Storia civile del regno d’Italia dal 1848 al 1870, 6 voll., Napoli, A. Morano, 1885-1892; Carlo Tivaroni, L’Italia degli italiani. Tomo II, 1859-1866, Torino, Roux Frassati, 1896; Nicola Nisco, Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860: Francesco I, Ferdinando II, Francesco II, Napoli, Alfredo Guida editore, Va edizione, 1908; Giuseppe Leti, Roma e lo stato pontificio dal 1849 al 1870. Note di storia politica, vol. 2, seconda edizione, Ascoli Piceno, Giuseppe Cesari, 1911. 12 ©UNICOPLI Peraltro i loro scritti dedicati al tema, così come anche la corrispondenza intercorsa tra di loro, non apportavano significativi mutamenti all’interpretazione del fenomeno che si era consolidata nel corso del cinquantennio liberale. Anzi rappresentava in un certo senso una conferma – per quanto autorevole – di un paradigma interpretativo sul brigantaggio, che si era costruito già nel corso della guerra e che aveva trovato modo di manifestarsi in un gran numero di testi. Fino all’inizio del Novecento di brigantaggio si era scritto molto in Italia, soprattutto quando il fenomeno era vivo, e negli anni ‘80-‘90, quando vi era stato un rinnovato interesse per il tema, soprattutto attraverso la pubblicazione di memorie, autobiografie, etc.12. All’interno di questa ampia produzione ho scelto di soffermarmi su tre tipologie di testi, peraltro non tutti esplicitamente dedicati al brigantaggio: 1. gli scritti di “battaglia”, ossia quelli che vengono prodotti nel corso delle campagne contro il brigantaggio (anni Sessanta), tra i quali ricopre un ruolo chiave soprattutto la relazione Massari13; 2. alcune storie di Italia e del Risorgimento che vengono pubblicate tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio del XX secolo14; 3. gli scritti di coloro che intervengono sulla questione meridionale, a partire dai cosiddetti primi meridionalisti, ossia Villari, Turiello, Franchetti, per arrivare agli autori evocati all’inizio di questo articolo (Nitti, Fortunato, Salvemini). L’intento è quello di mostrare come attraverso questo tipo di testi si costruisca – come accennato - una sorta di paradigma liberale del brigantaggio, che si concentra soprattutto nell’analisi delle cause del fenomeno. Nello specifico, Enrico Francia 26 ©UNICOPLI per quanto distanti nel tempo, redatti con finalità e struttura diverse, questi scritti concordano sostanzialmente nell’individuare due ragioni principali nello sviluppo del brigantaggio: lo stretto legame con la questione sociale; il ruolo politico dei Borbone. Nel corso del cinquantennio postunitario esistono altre tipologie di scritti che affrontano il tema del brigantaggio: testi di fiction; gli scritti di Lombroso e di coloro che lessero il brigantaggio sulla scorta degli studi criminologici a cavallo del secolo15; e infine gli scritti di parte reazionaria e filoborbonica, così come le autobiografie di briganti16. Però il rilievo di questi scritti per la costruzione tanto del discorso politico quanto di quello pubblico sul brigantaggio rimane decisamente minoritario nell’Italia liberale e anche nei decenni successivi, mentre la narrazione liberale sul brigantaggio si estende anche nel corso del Novecento17. Il paradigma liberale Le basi del paradigma liberale sono da rintracciare nei testi che vengono redatti nel corso degli anni Sessanta quando la guerra al brigantaggio è in corso e quando a parlare sono in larga parte coloro che si trovano direttamente coinvolti sul campo. Nella relazione Massari, nelle lettere di Aurelio Saffi a “Il Dovere”, nelle memorie dei militari e nelle discussioni parlamentari, il brigantaggio viene innanzitutto spiegato e interpretato come espressione di una “malattia sociale”. Lo provava in primo luogo l’insorgere del brigantaggio laddove le condizioni sociali erano peggiori. Scriveva proprio Massari che “la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto, proporzioni maggiori, è assai infelice”18. Questo legame tra condizioni sociali e brigantaggio ritorna costantemente nella gran parte delle ricostruzioni successive del fenomeno. Nella Storia del reame di Napoli Nicola Nisco definisce il brigantaggio “considerato nelle sue cagioni e nelle sue origini” come “la riscossa selvaggia della miseria contro la possidente, il prodotto necessario dello stato economico e morale degli abitatori delle nostre campagne”19. Ancora più stringente il nesso causale tra questione sociale e brigantaggio nelle pagine dei meridionalisti. Per Villari “Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso è certo, com’è ben noto, la con- Su Lombroso e il brigantaggio si veda in particolare Maria Teresa Milicia, Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso, Roma, Salerno, 2014. 16 Su questi si vedano soprattutto i lavori di Carmine Pinto: C. Pinto, Il patriottismo di guerra napoletano, 1861-1866, in “Nuova rivista storica”, C (2016), 3, pp. 841-869; Id., Gli ultimi borbonici. Narrazioni e miti della nazione perduta duo-siciliana (1867-1911), in “Meridiana”, vol. 88, 2017, pp. 61-82. 17 Cfr. A. Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, cit. 18 Il brigantaggio nelle province meridionali. Relazioni dei deputati Massari e Castagnola colla legge sul brigantaggio, Milano, Fratelli Ferrario, 1863, p. 19. 19 N. Nisco, Storia del reame di Napoli, cit., p. 34. 15 Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale 27 Pasquale Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze, Barbera, 1878. 21 F. S. Nitti, Eroi e briganti, cit., p. 39. 22 Aurelio Saffi, Cenni sulle province meridionali della penisola in “Il Dovere. Giornale politico, settimanale per la democrazia”, 25 luglio 1863, ripubblicato in T. Pedio, Inchiesta Massari sul brigantaggio, cit., p. 295. 23 Il brigantaggio nelle province napoletane, cit., p. 37. 24 Nell’ottobre 1860 Luigi Carlo Farini, inviato nelle province meridionali, aveva scritto a Cavour : «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile». Sulla percezione e la rappresentazione del Mezzogiorno nel corso della guerra al brigantaggio: John Dickie, Una parola in guerra: l’esercito italiano e il brigantaggio (18601870), in “Passato e presente”, X, 1991, n. 26, pp. 53-74; Nelson Moe, “Altro che Italia!”. Il Sud dei Piemontesi, in “Meridiana”, 6, 1992, n. 15, pp. 53-89. Più in generale sulla rappresentazione del Mezzogiorno nel corso dell’Ottocento si veda: Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2004; Antonino De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano, Feltrinelli, 2012. 20 ©UNICOPLI seguenza di una quistione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali”20. E alla fine del secolo anche Nitti nel suo Eroi e Banditi, riprendendo esplicitamente la relazione Massari, attribuisce alle condizioni sociali del Mezzogiorno la ragione fondamentale di un fenomeno ormai scomparso, ma che ha segnato profondamente l’inserimento di quelle province nello stato unitario: “Le cause predisponenti del brigantaggio erano numerose: alcune sono scomparse, qualcuna ancora permane. La prima, la vera, la grande causa era la miseria”21. La malattia sociale in cui versava il Mezzogiorno però non si era trasformata direttamente in “guerra sociale”: per Saffi “le bande de’ malfattori non hanno, in sé medesime, alcun carattere di protesta sociale e politica per le sofferenze e le gravezze di qualunque ceto”22. Il brigantaggio è certo espressione dell’ordine sociale esistente, ma anche lettura che manifesta l’istintivo rigetto della lotta sociale come motore della storia da parte della classe dirigente unitaria. Di contro si imputa – come vedremo tra poco – ai Borbone di attizzare e di utilizzare l’odio tra le classi per mantenere il potere. Per Massari il “concetto borbonico” “è quello di operare la ristorazione per mezzo della guerra sociale, aizzando le passioni ed i risentimenti del povero contro il ricco o l’agiato, del proletario contro il possidente”23. In questa analisi del brigantaggio come malattia sociale, centrale è il modo in cui vengono presentate le popolazioni rurali meridionali. Una descrizione che assume toni e accenti diversi a seconda degli autori, oscillando tra la compassione e la condanna morale. Mentre Massari e Saffi, e poi in seguito i meridionalisti, descrivono i contadini come vittime del sistema sociale, politico e economico, i militari come Bianco di Saint Jorioz, riecheggiando le affermazioni sprezzanti di Farini24, attribuiscono alle popolazioni meridionali caratteri di assoluta estraneità alla civiltà: “qui siamo tra una popolazione che sebbene italiana e nata italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, ai Noueri, ai Dinkas, ai Malesi, epperciò non è d’iuopo ©UNICOPLI 28 Enrico Francia parlar qui di cose che non sono nemmeno accessibili alla loro intelligenza”25. Anche la prima generazione di storici dell’epopea risorgimentale diede giudizi severi sulla natura delle popolazioni rurali meridionali: secondo Tivaroni, riprendendo Bianco di Saint Jorioz e Raccioppi, il brigantaggio si sviluppava in un contesto segnato da un “popolo delle campagne semi-selvaggio e alieno dai pesanti lavori agricoli”26. Il brigantaggio era una prova “che l’uomo del secolo XIX può essere in determinate circostanze, senza andare in Abissinia, bensì in Italia, bestia selvaggia quanto il suo progenitore uomo dei boschi, prova ancora che la civiltà penetra a stento nel capanne e nei boschi”27. Anche laddove i giudizi appaiono più sfumati e meno sprezzanti, questa letteratura presenta le popolazioni meridionali come ben lontane dalla “civiltà” e distanti anche rispetto alle altre “plebi” europee: “la nostra plebe (…) a differenza delle altre plebi d’Europa non è mutata per nulla da quel che era ai principii di questo secolo. Un contadino napoletano del 1863 ed un contadino napoletano del 1799 si assomigliano a capello”. È differente anche nel suo modo di essere “pericolosa”: “ci furono briganti in Francia nel 1848 è vero, ma gente senza nome volle imporre con la forza nuove forme di vivere ed abolire la proprietà e la famiglia. Gente di stessa specie in quelle stesse condizioni qui in Napoli si gitta alle strade per rubare o si prepara a saccheggiar le in nome del Re e della Santa Fede”28. La responsabilità del degrado del Mezzogiorno è da attribuirsi in primo luogo al passato regime, che ha alimentato, come scrive Aurelio Saffi, “l’ozio forzato e l’abbrutimento della popolazione; la mancanza di ceto medio illuminato, attivo e indipendente (….); ogni gemme di virili virtù prostrato; il vizio e la frode signoreggianti”29. Ma le colpe dei Borbone non si limitano ad aver creato le condizioni sociali e morali che hanno determinato lo sviluppo del brigantaggio. Essi hanno una responsabilità politica specifica -ed è questo il secondo asse del paradigma liberale sul brigantaggio – in quanto i Borbone hanno utilizzato il brigantaggio nei momenti di crisi politica della dinastia. Se infatti il brigantaggio è un dato endemico della società meridionale, nel 1799, nel 1806, nel 1820, nel 1848 e chiaramente nel 1860 – ossia quando il potere dei Borbone è messo in discussione -, la dinastia ha usato il brigantaggio come arma militare e politica contro i loro nemici: giacobini, francesi, rivoluzionari, piemontesi. Ancora prima di Massari, è Marc Monnier a fissare questo legame politico tra Borbone e brigantaggio. Il ginevrino residente a Napoli, autore nel 1862 di un libro dedicato al brigantaggio di grande successo, ricorda come 25 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano, Daelli, 1864, p. 31 26 C. Tivaroni, L’Italia degli italiani, cit., p. 365. 27 Ivi, p. 371. 28 Carlo Capomazza, Sul brigantaggio nelle province meridionali d’Italia, Napoli, 1864, p. 13. 29 A. Saffi, Cenni sulle province meridionali della penisola in “Il Dovere. Giornale politico, settimanale per la democrazia”, 18 luglio 1863, ripubblicato in T. Pedio, Inchiesta Massari sul brigantaggio, cit., p. 291. Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale 29 “in tempi di crisi politiche il brigantaggio aumentava a dismisura, accogliendo la feccia delle popolazioni, (…) i vagabondi e i malfattori in gran quantità. E si vide quasi sempre il partito vinto servirsi di questi banditi a difesa della propria causa. È mestieri forse ricordare la sanguinosa spedizione del Cardinal Ruffo nel 1799 ?”30. Anche Massari individua nel rapporto tra Borbone e brigantaggio una strategia politica di lungo periodo che ha sempre il 1799 come punto di partenza. Massari riteneva dunque questione “oziosa il definire se il brigantaggio sia esclusivamente politico oppure esclusivamente sociale, essendo evidente che se nella essenza è il sintomo di un profondo male sociale non cessa dall’essere adoperato ed usufruttuario per fini meramente politici”31. Un anno dopo Carlo Capomazza legava in modo ancor più netto la storia delle crisi borboniche con il periodico riemergere del brigantaggio: Anche nelle ricostruzioni successive, tutta la storia dei Borbone viene ad essere caratterizzata da questo legame con le bande, che costituiscono come scrive Nisco “il loro vero esercito per riconquistare il trono in sessanta anni ripetutamente perduto”33. E’soprattutto Nitti a centrare una parte significativa del suo racconto sull’assunto che la monarchia borbonica“si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico”: “Non solamente durante il 1799, ma durante la monarchia francese, ma nel 1820, ma nel 1848, ma nel 1860, i Borboni ebbero il brigantaggio come suprema difesa. (…) Passato il pericolo, restaurate le sue basi, la monarchia premiava i più fortunati, i capi delle insurrezioni, e sterminava gli altri: tranne a ricominciare ove ne fosse il bisogno”34. Nella ricostruzione di Nitti anche le proteste contadine del 1848 erano espressione di questa strategia della monarchia: “Data la costituzione a malincuore, si volle dalla Corte determinare quello stato di squilibrio, che rendeva necessario il ritorno al vecchio regime. (…) Leggendo gli scritti e la corrispondenza dei liberali del 1848 traspare ogni momento la loro ingenua sorpresa nel vedere che, mentre Marc Monnier, Notizie storiche sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Fra’ Diavolo sino ai nostri giorni, Firenze, Barbera, 1862, p.12. 31 Il brigantaggio nelle province napoletane, cit., p. 38. 32 C. Capomazza, Sul brigantaggio, cit., p. 18. 33 N. Nisco, Storia del reame di Napoli, cit., p. 36. 34 F. S. Nitti, Eroi e briganti, cit, p. 47. 30 ©UNICOPLI Nella perdita del trono la ricetta è il brigantaggio. Tre volte son caduti in sessant’anni, e sempre pei modi medesimi. Sempre, quando il pericolo era lontano, ardimenti, bravate, e piena fiducia di essere invincibili: poi al primo rovescio, deposti i pensieri di resistenza, abbandonato il governo, e messo in sicuro la persona. A questo punto si mette mano allo specifico, cioè si ricorre ai briganti: sempre han creduto facile di riprendere con alquante centinaia di assassini quello che poco tempo prima avevano giudicato impossibile di difendere con migliaia di onesti soldati32. Enrico Francia ©UNICOPLI 30 essi lottano per la libertà, i contadini si rivoltano, invadono le terre pubbliche e se le appropriano, oppure si trasformano in briganti”35. Come Massari, Nitti può dunque mettere insieme la dimensione sociale e quella politica: “Così nella storia del brigantaggio, noi troviamo due forme distinte: i briganti comuni erano o delinquenti desiderosi di far fortuna e di sfogare i loro istinti, o poverissimi uomini spinti dalla fame e dalle ingiustizie a mettersi contro la società. Oltre di questo vi è stato un vero brigantaggio politico che, riunendo gli elementi che già v’erano, e rivolgendosi alle masse e svegliando istinti rivoluzionari, è stato sostegno della monarchia e da essa a volta a volta creato e distrutto”36. Il riconoscimento di una dimensione politica del brigantaggio non si traduce mai nel conferire alle bande il ruolo di nuovo esercito del Borbone37, né la pervasività ed estensione del fenomeno viene letta come prova di un effettivo consenso tra le classi popolari. Soltanto per la prima fase (tra la fine del 1860 e la primavera del 1861) al brigantaggio vengono saltuariamente attribuiti alcuni dei caratteri della “guerra dei partigiani”38 – locuzione mutuata dalla tradizione risorgimentale e evocata saltuariamente in questi testi39 – soprattutto in virtù della presenza dei soldati dell’ex-esercito borbonico, i quali “non solo aumentarono di numero e disciplinarono quei ladroni, ma diedero ad essi per la prima volta quella veste di partigiani; sotto cui dal primo loro apparire molti si erano ingegnati mostrarli all’Europa”40. Però nella gran parte di questi testi, l’utilizzo dei briganti come ultimo presidio della monarchia viene descritto nei termini del complotto e della corruzione, elementi che avevano sempre caratterizzato l’azione della monarchia borbonica. Scrive così Belviglieri che “questi licenziati o Ivi, p. 64. Ivi, p. 47. 37 Su questo si veda A. De Francesco, Brigandage méridional ou révolte politique? Les lectures culturelles des élites politiques italiennes dans les années 1860, in Jean-Clément Martin (dir.), La Contre-Révolution en Europe: XVIIIe-XIXe siècles. Réalités politiques et sociales, résonances culturelles et idéologiques, nuova edizione (online): Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2001, http://books.openedition.org/pur/16546. 38 Così ad esempio vengono definite nelle memorie di De Witt; Angiolo De Witt, Storia politico-militare del Brigantaggio nelle province meridionali d’Italia, Firenze, Girolamo Coppini Editore, 1884, p. 199. 39 La locuzione “guerra di partigiani” (o meglio “dei parteggiani”) apparve per la prima volta in Italia, proveniente dall’esperienza spagnola, su “La Minerva Napolitana” nel febbraio 1821 (Egidio Liberti, Tecniche della guerra partigiana nel Risorgimento, Giunti, Firenze 1972, pp. 373-385), e fu poi usata nelle discussioni relative al modo di condurre la guerra patriottica. Però Del Negro osserva – muovendo proprio dal libro di Liberti – come “dopo il 1815 i rivoluzionari italiani discussero spesso e volentieri di guerra partigiana, ma, salvo in alcune circostanze del tutto eccezionali, non furono mai in grado di condurre una vera e propria guerra per bande. Al contrario i reazionari, mentre non si preoccuparono di offrire analisi teoriche della guerra partigiana, la monopolizzarono sul piano della prassi”, Piero Del Negro, Guerra partigiana e guerra di popolo nel Risorgimento, in “ Memorie storiche militari “, 5, 1981, p. 62. 40 C. Capomazza, Sul brigantaggio, cit., p. 16. 35 36 Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale 31 C.Belviglieri, Storia d’Italia dal 1804 al 1867, cit., p. 30. C. Capomazza, Sul brigantaggio, cit., p. 16. 43 N. Nisco, Storia del Reame di Napoli, cit., p. 202. 44 Giustino Fortunato a Pasquale Villari, 4 novembre 1874 in G. Fortunato, Carteggio 1861911, Roma-Bari, Laterza, 1968. pp. 9-10. 45 Giustino Fortunato a Nello Rosselli, 4 aprile 1927 in G. Fortunato, Carteggio 1927-1932, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 14 e ss. 41 42 ©UNICOPLI disertori furono l’anello d’unione trai cospiratori reazionarj di Napoli e di Roma. Intanto il partito borbonico, riavutosi dal subitaneo trabalzo e rifatto animo alla vista degli errori del Governo e dello scontento pubblico, non avendo altra forza sottomano, ricorse alle tradizioni del 99, arruolò quella gente, ed il brigantaggio divenne politico”41. Anche per Saffi la dimensione politica del brigantaggio si manifesta solo nelle forme della cospirazione e non certo nell’esistenza di un patriottismo borbonico. La reazione del 1861 è frutto della “mene” di Francesco II in cui gli interessi dei filo-borbonici si mescolano ”colle passioni selvagge di turbe superstiziose e avide di saccheggio, sospinte dai preti”. Anche se i capi banda conservano immagini dei regnanti e si danno dei gradi militari, si tratta del riprodursi di pratiche tradizionali dei Borbone che in simili circostanze si affidano a “partigiani” di questo tipo. Peraltro si ribadisce che a spingere anche i briganti più politicizzati non erano certo la difesa di nobili valori: “Altro che zelo di cattolici, e fedeltà di sudditi! Fu fame e disperazione”42. In modo più meditato e meno polemico rispetto agli autori degli anni Sessanta, Nisco sottolinea come questo potenziale “esercito della reazione” non attecchisca per “la mancanza di ogni coscienza politica delle nostre plebi, male vecchio frutto delle signorie demoralizzatrici e che ancora amareggia la nostra vita sociale”43. I due temi che costituiscono il paradigma liberale del brigantaggio – il brigantaggio come espressione della malattia sociale del mezzogiorno e come strumento dei Borbone in crisi – sono funzionali ad un duplice obiettivo che coinvolge tutti questi autori, sia pur con accenti e in momenti diversi dell’Italia liberale: legittimare politicamente l’unità nazionale, dimostrando la sostanziale assenza di soggetti dotati di una legittimità concorrente, ed anzi attribuendo al regime dei Borbone caratteri che lo ponevano al di fuori del consesso civile; mostrare la difficoltà di un’unificazione morale e sociale della nazione, evidenziando la profonda alterità/arretratezza del Mezzogiorno. Ritorniamo allora Fortunato che, come abbiamo visto, all’inizio del XX secolo assume un ruolo centrale nella costruzione di questo paradigma. La sua posizione sul brigantaggio non infatti mutò nel corso del tempo: se nel 1874 scriveva a Villari che “il 1860 fu rivoluzione politica della borghesia; il brigantaggio fu reazione sociale della plebe”44, ancora nel 1927, in una lettera a Nello Rosselli, affermava che il brigantaggio non era stato “un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico (...) frutto di secolare abbrutimento di miseria ed ignoranza delle nostre plebi meridionali”45. Enrico Francia 32 Se la spiegazione sociale del brigantaggio era stata utilizzata negli scritti degli anni Sessanta per giustificare l’occupazione militare e i fallimenti della rapida estensione delle leggi piemontesi, nella riflessione “meridionalista” si trasformava nella denuncia dei limiti dell’unificazione - comunque mai messa in discussione - limiti che dovevano essere superati intervenendo nel corpo sociale delle province meridionali. In caso contrario, come scrive Villari nel 1875, il brigantaggio rimaneva un destino inevitabile: ©UNICOPLI Senza liberare gli oppressi non aumenterà fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la ricchezza necessarie ad una grande nazione. L’uomo che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno decade. La camorra, la mafia ed il brigantaggio diventano inevitabili. Sotto una o un’altra forma salgono in alto, si diffondono nel paese, ne consumano la midolla spinale, demoralizzandolo46. Venti anni più tardi, partendo proprio da Villari, Nitti vedeva migliorati alcuni aspetti nella vita sociale e politica delle province meridionali (istruzione, leva militare), ma rimanevano comunque ancora irrisolti alcuni fattori che avrebbero potuto turbare quella realtà (tasse, terre usurpate, etc). In ogni caso brigantaggio non era più quel fenomeno inevitabile di cui parlava Villari “perché l’emigrazione è stata valvola di sfogo. Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del brigantaggio e una dell’emigrazione e l’una e l’altra si completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi”47. Voci dissonanti Ad incrinare questo consolidato paradigma interpretativo si presentavano poche voci. Chiaramente quelle dei legittimisti, ma anche quella di uno storico eterodosso come Alfredo Oriani. Nella sua Lotta politica in Italia (1892), libro che all’indomani della sua pubblicazione fu quasi completamente ignorato dalla storiografia coeva48, Oriani attribuisce al brigantaggio un’inedita veste politica. Le province meridionali erano certo segnate dalla corruzione, dalla superstizione religiosa, dalla “barbarie” e la dinastia decaduta aveva conferito legittimità ad un’insurrezione frutto in larga parte delle arretrate condizioni sociali e priva di reali obiettivi politici. Ma era anche frutto di “un patriottismo di municipio e di regione, ignorante, aspro, inconciliabile” che P. Villari, Le lettere meridionali, cit., p. 73. F. S. Nitti, Eroi e briganti, cit., p. 67. 48 Cfr. Massimo Baioni, “La lotta politica in Italia” di Alfredo Oriani. Parabola di una fortuna, in “Storiografia”, 1997, n.1, pp. 177-194. 46 47 Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale 33 metteva nella rivolta una poesia capace di rinnovare i prodigi del valore garibaldino. Infatti Garibaldi, il miglior giudice d’insurrezione e di guerra, in un libro che scrisse poi, rese omaggio al valore dei briganti napoletani, i quali, non raggruppati dal re ad esercito, senza altri capitani che i propri capi, senza programma e senza bandiera, resistettero siffattamente per anni a tutti gli sforzi del governo nazionale da costringerlo all’umiliazione di dovere per essi sospendere le guarantigie statutarie, sostituendo a Napoli luogotenenti a luogotenenti, mutando nella campagna più di un generale, discendendo finalmente a una guerra di esterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia49. Alfredo Oriani, La lotta politica in Italia; origini della lotta attuale: 476-1887, volume III, e-book (https://www.liberliber.it/online/la-lotta-politica-in-italia-di-alfredo-oriani-volume-iii/) tratto da A. Oriani, La lotta politica in Italia: origini della lotta attuale: 476-1887, Firenze : Libreria della Voce, 1921, volume 3. 50 B. Croce, Alfredo Oriani, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce”, 13, 1909, pp. 1-28. 49 ©UNICOPLI Secondo Oriani, nel Mezzogiorno postunitario vi era stata una ribellione di fronte “ad una signoria straniera”, che avrebbe potuto assumere i caratteri di una vera e propria Vandea, se avesse avuto una bandiera, un ideale e soprattutto un sovrano disposto a combattere sul campo. Ma Francesco II era inetto militarmente e legato ad un legittimismo antiquato, e così i ribelli napoletani, privi di ideali e di guida, alla fine non poterono essere che briganti. Per quanto priva di una reale direzione e quindi destinato ad esaurirsi per consunzione, Oriani conferiva al brigantaggio i connotati della reazione legittimista: “la reazione legittimista (…) finiva piuttosto vinta dall’influenza benefica della libertà che da una rapida e logica azione della monarchia: governo borbonico e papale erano stati battuti in pochi giorni quasi senza combattere; essa invece lottò parecchi anni con ferocia pari al coraggio, con perversità forse maggiore della stupidaggine, per acquetarsi lentamente come una di quelle convulsioni, che, dopo aver dato al malato la violenza di un delirio e lo spasimo di un’agonia, lo lasciano spossato ma senza nessun organo offeso e colla fisonomia di prima”. Il libro di Oriani fu riscoperto su “La Critica” da Benedetto Croce che lo apprezzava in chiave idealistica e antipositivista (“storia da filosofo e da artista insieme”)50. Più tardi, negli anni Venti, dallo stesso Croce dovevano venire anche alcune sollecitazioni a guardare al brigantaggio con lenti diverse. Nei suoi primi scritti Croce aveva fornito una lettura tutta in chiave sociale del brigantaggio. Dallo scritto sul brigante Angiolillo fino al saggio su Pescasseroli, e alla stessa Storia del Reame di Napoli, Croce vedeva il brigantaggio come una forma endemica della società rurale meridionale. Riportando le parole di suo zio Francesco Sipari, Croce scriveva nel saggio su Pescasseroli che “il brigantaggio non è che miseria, miseria estrema disperata: le avversioni del clero e dei caldeggiatori il caduto dominio e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abu- Enrico Francia ©UNICOPLI 34 sano e la fanno perdurare”51. E anche nelle pagine finali della Storia del Reame di Napoli, utilizzando come fonti Monnier e Bianco di Saint Jorioz, riproponeva l’immagine dei Borbone che, di fronte alla crisi del loro regime, chiamavano in soccorso “truci e osceni briganti”52. Anche nel saggio pubblicato su “La Critica”, Il Romanticismo legittimista e la caduta del Regno di Napoli53, Croce non mutava il suo giudizio di fondo sulla natura del brigantaggio e sull’azione dei Borbone. Ora però al centro della sua analisi era la costruzione mito-poietica del brigantaggio da parte dell’opinione pubblica legittimista europea (in particolare quella francese): “l’Europa apprese che l’Italia meridionale era un mare in tempesta, pullulava tutta di bande di insorti, di soldati del disciolto esercito, di contadini, di improvvisati condottieri. (…) È la Vandea, la Vandea che risorge – fu il grido che uscì dal petto dei legittimisti europei”54. L’associazione tra brigantaggio e Vandea, ossia con una guerra anti-rivoluzionaria guidata dai legittimisti, era stato sin da subito rigettato dai protagonisti della campagna contro i briganti, come ricordava Tivaroni: “Ricasoli poteva dire che nessun generale od ufficiale borbonico avesse osato assumere il comando, che nessun nome li conduceva da paragonarsi a quelli che conducevano i vandeani, e che i briganti non si davano alla guerra contro i soldati, ma alle rapine e ai furti”55. Sessant’anni dopo, il richiamo alla Vandea poteva ancora allarmare Giustino Fortunato, che vedeva in esso un tentativo di fornire una legittimazione politica ad un fenomeno che rimaneva ai suoi occhi strettamente legato al contesto sociale. Così in una nota, riportata da Zanotti-Bianco, scriveva: “L’amico Benedetto Croce vorrebbe, che una storia, di là da venire, del brigantaggio meridionale, fosse dato il titolo di Vandea napoletana. No. Il brigantaggio meridionale, espressione e frutto d’una società rosa dalla miseria e moralmente fradicia, non merita tanto”56. In realtà Croce era ben consapevole che quella Vandea evocata dai legittimisti europei “era un ribollimento d’immaginazione, un fantastico costruire analogie storiche (…), un’illusione, un inganno promosso o lasciato correre dal partito borbonico napoletano (…) Chi conosceva le cose, e napoletane in specie, chi considerava spassionatamente e con animo alto, giudicava ben altrimenti intorno all’Italia nuova, e alla monarchia borbonica”. Ed anzi quella“Vandea Napoletana” in realtà aveva assunto i caratteri di una “lurida commedia”un “atroce drammaccio da arena”57. Però per quanto non si potesse paragonare il brigantaggio al movimento antirivoluzionario francese, Croce cercava di comprendere come e perché quelle “fantasie” si erano sviluppate, così come andavano analizzate e rilette – sia B. Croce, Pescasseroli, in Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1958, p. 403. Id., Storia del Regno di Napoli, cit., p. 277. 53 Id., Il Romanticismo legittimista e la caduta del Regno di Napoli, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce”, 22, 1924, pp. 257-278. 54 Ivi, p. 262. 55 C. Tivaroni, L’Italia degli italiani, cit., p. 369. 56 U. Zanotti Bianco, Giustino Fortunato (1848-1932), cit., p. 114. 57 B. Croce, Il Romanticismo legittimista, cit, p. 264 51 52 Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale 35 pur condannandole – le ragioni degli storici reazionari come De Sivo58. Croce manifestava un’attenzione che gli storici liberali non avevano mai espresso nei confronti di una tradizione politica che era stata sconfitta – inevitabilmente e giustamente secondo Croce – ma che sosteneva e teneva viva – per quanto stentatamente negli anni postunitari – una legittimità politica alternativa a quella dello stato-nazione italiano. Misurarne la capacità mitopoietica, anche come fa Croce criticarne la fondatezza, costituisce senza dubbio una pista di ricerca che soltanto in tempi recenti sarà rivisitata, anche per fronteggiare una sua ennesima e alquanto raffazzonata ripresa59. ©UNICOPLI 58 Id., Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo, in Id., Scritti di storia letteraria e politica, Bari, Laterza, 1919. Su De Sivo vedi Emilio Gin, L’Italia contesa. ‘Nazione Napoletana’ e ‘Nazione Italiana’’ in Giacinto De Sivo, in “Nuova Rivista Storica”, Vol C, 2016, n. 1, pp.107140. 59 Gian Luca Fruci, Carmine Pinto, El regreso de los Borbones. Reelaboraciones mitográficas y perspectivas políticas en el Mezzogiorno italiano, in “AYER”, 2018. Vol. 112, pp. 317-334. ©UNICOPLI DEL BRIGANTAGGIO E DI ALTRE STORIE AL TEMPO DEL FASCISMO Enzo Fimiani Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 9-11. Alfonso Scirocco, Il brigantaggio meridionale post-unitario nella storiografia dell’ultimo ventennio, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XXII, s. III, 1983, p. 17. Concetti poi ribaditi a fine secolo, in Id., Il giudizio sul brigantaggio meridionale postunitario: dallo scontro politico alla riflessione storica, introduzione a Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 1999, p. XXIV. 3 Ernesto Galli della Loggia, Il brigantaggio, in Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna, Id., Giovanni Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 39-47. 4 Daniele Palazzo, Il brigantaggio nel Mezzogiorno dell’osso: l’area del Pollino, tesi nella Scuola di dottorato in Scienze storiche, Università di Napoli “Federico II”, 2015, p. 123. 5 Alessandro Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, in «Le Carte e la Storia», XXI, 2015, 2, pp. 32-33. 1 2 ©UNICOPLI Scrivendo di memoria e interpretazione del brigantaggio durante il fascismo mi inoltro in terre incognite. Già nel 1964, un classico degli studi sul brigantaggio afferma che «da almeno quarant’anni a questa parte non si è scritto quasi più, e comunque ben poco di valido», anche a causa della «cortina di silenzio» fatta calare sugli eventi nel Sud dopo il 1860 e alimentata dal regime fascista1. Un saggio importante del 1983 rafforza il concetto: una vera storiografia intorno al brigantaggio finirebbe col 1870 (esaurite le velleità del borbonismo legittimista e consolidato, nella forma, il nuovo Stato con Roma capitale), per riprendere solo sulla spinta ideale seguita al secondo conflitto mondiale, non avendo gli anni del fascismo prodotto alcunché di rilevante da segnalare2. Nel 1999, una sintesi sui miti nella storia d’Italia ospiterà un contributo sul brigantaggio ma senza cenni al dibattito tra 1922 e 19453. Nel 2015, una ricerca di dottorato parla senza mezzi termini di una «stasi» storiografica ancora più ampia, tra vigilia della Grande guerra e 1960 4, mentre una rassegna dei principali contributi sulla questione, pur smentendo il dato per cui essi si arresterebbero al 1870, non segnala apporti significativi usciti in età fascista5. E da paradigmi del genere non ci si discosta molto pure se si guardano altre prospettive. Per esempio, negli studi Enzo Fimiani ©UNICOPLI 38 letterari viene ribadita l’antica convinzione per cui «il fascismo aveva steso un velo su questi argomenti, proiettato verso la difesa dell’unità nazionale»6. Inoltre, anche durante il periodo fascista ci si trova di fronte a oscillazioni interpretative che creano ulteriori ostacoli: si va infatti dalla definizione del brigantaggio quale fase storica cruciale (una delle più «difficili e pericolose [della] vita unitaria»7, tale da porre l’Unità «in un pericolo assai più serio di quanto generalmente non si creda»8); al constatare invece che «il brigantaggio era assurto, nella politica e nella stampa europea, ad un’importanza, che non meritava affatto», trattandosi di un fenomeno che «non va supervalutato […], soltanto un episodio della storia del nostro Risorgimento»9. Nel mezzo, si pongono valutazioni spesso divergenti. Per un verso, si riconosce che «lo studio del brigantaggio interessa principalmente perché è una prova dello stato miserando, a cui intere popolazioni possono essere ridotte dalle male signorie, e perché sta a dimostrare attraverso quali e quante difficoltà si sia formata l’unità territoriale e spirituale degl’Italiani»10. Per altro verso, si è invece sicuri di trovarsi di fronte a «una questione ormai superata», tanto da sembrare solo «una leggenda, una storia di tempi remoti e mitologici»11. Non pochi, infine, si arrendono senza appello, scrivendo di accadimenti storici sui quali «il giudizio corrente non è modificabile nella sua intima sostanza»12: su di essi, perciò, «ben poco di nuovo è permesso di dire»13. In realtà, tra le due guerre mondiali si scrive eccome, di briganti e dintorni. Non si tratta solo di un capitolo all’interno della più generale storia delle storie del brigantaggio nell’intera Italia unita. Il quadro pare più complesso. Riguarda lo stesso fascismo e già il titolo di questo contributo prova a darne conto. La dicitura altre storie segnala come il tentativo di ricostruire interpretazioni e usi pubblici che emergono nei confronti della vicenda del brigantaggio dopo l’unificazione nazionale vada oltre la questione in sé, comportando l’inevitabile incrocio con ulteriori dimensioni politico-culturali del sistema mussoliniano, parallele, poliedriche e più vaste. La locuzione al tempo del fascismo intende invece ricordarci che non tutti gli autori coevi (storici, eruditi, dottrinari, politici), qui utilizzati come fonti a fini interpretativi, possono essere ascritti alle caRaffaele Nigro, Il brigantaggio postunitario. Dalle cronache al mito, Bari, Adda, 2010, p. 165. 7 Pietro Silva, Figure e momenti di storia italiana, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1939, p. 375. 8 Gino Doria, Per la storia del brigantaggio nelle province meridionali, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XVII, s. II, 1931, 1-4, p. 388. 9 Michele Cianciulli, Il brigantaggio nell’Italia meridionale dal 1860 al 1870, Tivoli, Mantero, 1937, pp. 180 e 195. 10 Ivi, p. 6. 11 «Echi e commenti. Rassegna universale della stampa», XVIII, 1937, p. 992, recensione a Cianciulli, Il brigantaggio, cit. 12 Gino Doria, Introduzione a Pietro Calà Ulloa, Un re in esilio. La corte di Francesco II a Roma dal 1861 al 1870, Laterza, Bari 1928, p. XIII. 13 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 44. 6 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 39 Cfr. Giuseppe Talamo, La storiografia sul Risorgimento tra le due guerre mondiali, in Cento anni di storiografia sul Risorgimento, Atti del LX Congresso di storia del Risorgimento 14 ©UNICOPLI tegorie monolitiche dei fedeli di regime o dei cosiddetti fascisti attivi, e neppure inscatolati in una specie di fascismo archetipico che, in quanto tale, non esiste. Tra di loro, ve ne sono parecchi collocati su quei crinali di frontiera – così tipici in storia – tra eterodossia e ortodossia; altri che intrattengono rapporti controversi con la dittatura e qualcuno che si limita a viverci dentro, né da aperto oppositore né da convinto aderente; e altri ancora che fascisti di certo non sono ma partecipano direttamente del complessivo clima culturale intorno al brigantaggio durante il ventennio, intrecciando relazioni, a volte polemiche, sempre reciproche influenze con mondi culturali più organici al regime. Anche in ragione di simili approcci, serve a poco una disamina cronologica delle pubblicazioni di quel tempo. Conviene invece addentrarvisi in modo trasversale, per questioni e interpretazioni, polemiche o strumentalizzazioni, lungo il quarto di secolo qui trattato, visto anche che non sembrano delinearsi con nettezza fasi interpretative al suo interno, con proprie e consequenziali cadenze. Si nota, piuttosto, un ciclico riemergere di stilemi ricorrenti e diffusi sul brigantaggio e sul brigante, non pochi in realtà antecedenti al regime ma che dentro quest’ultimo trovano fertili terreni di coltura, spalmandosi peraltro in un numero di testi (volumi, articoli, più o meno brevi opuscoli d’occasione, contributi in riviste o giornali) che si rivela – elemento già a priori interessante – assai più consistente di quanto ritenuto finora. Una messe non trascurabile, variegata anch’essa, composta di lavori buoni, e quindi significativi in sé, di scritti meno validi, e pure di brutture per contenuti e forme. Tutti, però, nessuno escluso, importanti nel modellare una prospettiva generale dalla quale la cultura (“alta” e non) e la politica (“ufficiale” e non) guardano allora al brigantaggio, alla sua memoria, alle sue eredità, facendo anche i conti con tutte le implicazioni che tali dibattiti riverberano sull’attualità politica al tempo del fascismo. Certo, a volerlo davvero sviscerare, l’argomento si intreccerebbe con molti dei funzionamenti endogeni al fascismo. Nella “terra di mezzo” che sta tra i vertici e la base, tra il centro e la periferia, una sorta di policrazia di fatto vede spesso muoversi i protagonisti del regime di secondo livello, i quali però – forse proprio perché tali – possono incidere ancor più sul concreto modellarsi dell’esperienza dittatoriale. Vi si svolgono lotte di potere nel mondo politico-accademico e per il controllo della cultura (si pensi solo alle tese vicende intorno all’Istituto per la storia del Risorgimento negli anni ‘30), che ruotano all’interno di dimensioni – Risorgimento, ruolo della monarchia, sabaudismo, questione meridionale – tutte intrecciate con le interpretazioni del brigantaggio. Queste ultime, a seconda dell’opinione più o meno severa nei confronti della lotta dei briganti, costituiscono non trascurabili linee di demarcazione tra gli allineati al mussolinismo e i “critici” interni (spesso solo presunti) che emergono nelle varie congiunture14. ©UNICOPLI 40 Enzo Fimiani Durante il regime – autoproclamatosi unico continuatore di aspirazioni e miti risorgimentali – si delineano due visioni di massima sul brigantaggio, con nel mezzo una serie di sfumature. Da un lato, di esso si dà un giudizio d’insieme più negativo che positivo: non si tratta tanto di una questione della storia quanto di un problema che deve essere «sradicato»15, poiché antitesi del valore sacro dell’Unità. Dall’altro lato, il peso storico del brigantaggio appare quasi sempre relativo agli occhi di chi osserva dalla prospettiva del 1922-1945: anche se la lotta post 1860 avesse avuto un rilievo ancora maggiore, «l’unità italiana sarebbe rimasta egualmente intatta, essendo un tal fatto storico che non poteva dipendere dalle sorti di una guerra di briganti»16. In alcune fasi, queste predisposizioni interpretative vengono attenuate da un eccesso di benevolenza nei confronti dei “vinti”, alimentato soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta da spinta giovanilista e vis polemica dei Gruppi universitari fascisti17. A mettere in guardia contro un simile paradigma che – appiattendosi su rancori storici e nostalgie verso immaginari paradisi preunitari – rischia di far perdere di vista il fenomeno risorgimentale nel suo complesso, è Gioacchino Volpe, cioè proprio quel medesimo maestro che, di contro, sottolinea il carattere elitario del processo di unificazione nazionale e il mancato coinvolgimento delle masse18. In questo quadro, si collocano la valutazione del ruolo di Casa Savoia e della questione meridionale. Sempre latente nel ventennio19, la sospettosità fascista nei confronti della monarchia mai degenera in aperta rivalutazione del brigantaggio, anche quando il feroce astio di ritorno contro il sovrano nel corso della Repubblica sociale tra 1943 e 1945 conduce a una ripresa del tema in funzione anti-sabauda. La questione meridionale non può essere una leva grazie alla quale guardare con simpatia alla lotta perdente dei briganti: la tesi ufficiale sostiene infatti che – sanato il divario storico del Sud proprio grazie alle opere del regime20 – di essa ormai sotto il fascismo non si possa più «legittimamente parlare»21. italiano, a cura di Ester Capuzzo, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2002, pp. 177-198. 15 Walter Maturi, Risorgimento, voce in Dizionario di politica, a cura del Partito Nazionale Fascista, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1940, vol. IV, p. 75. 16 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 395. 17 Giuseppe Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 52. 18 Cfr. Gioacchino Volpe, Pagine risorgimentali, Roma, Giovanni Volpe, 1967, pp. 7-58 (già in «Rivista Storica Italiana», LIII, 1936,1). 19 Cfr. Walter Maturi, Risorgimento, voce in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto Giovanni Treccani, 1936, vol. XXIX, pp. 434-439. 20 Giuseppe Frisella Vella, Temi e problemi sulla cosiddetta questione meridionale, Palermo, La Luce, 1928, p. 55. 21 Raffaele Ciasca, Mezzogiorno, questione del, voce in Enciclopedia italiana, cit., vol. XXIII, 1934, p. 151. Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 41 Dopo il 1860 si creò in Italia una situazione per qualche verso simile alla presente; contro il nuovo regime gruppi di avversari irriducibili, rifugiatisi fuori dei confini dello Stato, ordivano congiure organizzando il brigantaggio. Ebbene: gli uomini di Governo di quel tempo, che pur si professavano liberali, non si peritarono di far approvare dal Parlamento quella legge Pica, che costituì lo strumento più efficace della vittoria che il nuovo Stato riportò contro la reazione borbonica. Ugualmente noi crediamo che, di fronte alla reazione anti-fascista, che si manifesta oggi, come allora la reazione borbonica, in forme di attività criminosa, siano necessari ed urgenti provvedimenti di eccezionale rigore. E, poiché il Governo ha fede nella vittoria piena della riscossa nazionale operata dal fascismo contro la reazione delle forze antinazionali, esso propone che i provvedimenti da adottarsi siano di carattere temporaneo, e fissa a cinque anni il periodo della loro durata, 22 Attilio Vigevano, La legione ungherese in Italia (1859-1867), Roma, Libreria dello Stato, 1924, pp. 107-108. 23 Nicola Nicolini, recensione ad Antonio Lucarelli, Il brigantaggio politico nel Mezzogiorno d’Italia (1815-1818), Bari, Laterza, 1942, in «Nuova Antologia», CDXXVIII, 1943, 1708, p. 134. ©UNICOPLI Se quanto sinora proposto ha un senso, tre citazioni sono forse utili per inoltrarsi nella questione. La prima è del 1924 (nel pieno dello sbandamento fascista intorno al delitto Matteotti): «Il governo italiano intraprese contro queste bande una lotta a fondo e, al loro fanatismo e alla loro ferocia, oppose misure militari eccezionali, tanto più doverose in quanto indispensabili a mantenere quell’unità d’Italia così faticosamente conquistata e in quanto, sotto il pretesto politico, alcune bande, specialmente nell’ultimo periodo, compivano atti di rapina, di malandrinaggio e di saccheggio»22. Siamo di fronte a una buona sintesi di un paio di punti forti dell’approccio verso l’argomento durante l’intera esperienza fascista: della repressione da parte dei governi del nuovo regno d’Italia non si disconoscono gli eccessi, ma la si ritiene indispensabile, per le circostanze storiche e l’alta posta in gioco (esistenza, legittimazione e durata del nuovo Stato unificato); e poi, dopo il tempo breve del brigantaggio politico, dotato comunque di una sua logica e di una parvenza di legittimità, viene il tempo lungo di nient’altro che malandrinaggio. Un periodo, quest’ultimo – si sarebbe ribadito vent’anni dopo – rivelatore della «realtà» del fenomeno, della sua essenza medesima: «quegli uomini non furono mai nulla di più di ciò che dovevano essere: briganti»23. L’altra citazione ci conduce a non molto tempo dopo, quando però gli scenari politici sono radicalmente mutati. La crisi del fascismo è passata, si è nel cuore dell’accelerazione dittatoriale del regime. Il 9 novembre 1926, nella relazione che accompagna il disegno di legge sulla difesa dello Stato presentato alla Camera dei deputati, l’allora ministro della Giustizia Alfredo Rocco – uomo decisivo di quella accelerazione – sviluppa argomentazioni significative: 42 Enzo Fimiani ©UNICOPLI con la certezza che assai prima della scadenza di questo termine lo scopo di pacificazione, che si propone, sarà pienamente conseguito24. Siamo davanti (a parte il fatto che la norma sarebbe stata prorogata sine die) a due idee del fascismo – e non delle più secondarie – nei confronti del problema storico e nazionale del brigantaggio. In primis, un giudizio negativo su di esso trova ragion d’essere soprattutto nella visione dei briganti come elementi, e fattori, anti-nazionali. I briganti sono etero-guidati da avversari irriducibili, traditori della Patria, che congiurano al di fuori dello Stato, in senso spaziale e metaforico. Inoltre, essi attentano alla vita del nuovo regime nazionale, che pretende di farsi tutt’uno con lo Stato. Ecco dunque che la questione storica del brigantaggio viene collocata sul piano dell’irreconciliabile linea di demarcazione del porsi dentro/fuori la Nazione, il che significa, nel 1926, dentro/fuori il fascismo. In secondo luogo – aspetto per noi ancor più interessante – nel disegnare un legame diretto tra passato del 1860 e presente di un fascismo triumphans, viene istituito un esplicito parallelo tra reazione borbonica e attività antifascista: gli oppositori del regime, pertanto, vengono valutati come briganti a loro volta. E se lo sono, bisogna estirparli attraverso il ricorso a una legislazione eccezionale, così come accaduto con la scelta di approvare la legge Pica, la 1409 del 15 agosto 1863. Rocco, così, assume l’analogia tra sistemi dalla natura liberale (ma solo presunta) e regimi antidemocratici (ma che solo la propaganda avversaria dipinge come tali), i quali in momenti di pericolo estremo finiscono per comportarsi al medesimo modo. La terza citazione ci proietta invece al tramonto del regime, quasi a disegnare i cicli della parabola stessa della dittatura italiana sotto la lente di un’idea fascista del brigantaggio. In un volumetto pubblicato nella tarda primavera del fatale anno 1943, si legge: Resta fissato che il brigantaggio fu il primo dei grandi problemi che la nuova Italia, nelle provincie meridionali trovate in eccezionali condizioni rispetto a quelle del centro e del settentrione, affrontò coraggiosamente e riuscì ad eliminare paralizzandone le dannose conseguenze ed iniziando così la rigenerazione di cui aveva bisogno il Mezzogiorno. Della reazione e del brigantaggio, anche a considerarli come malanni attraverso i quali dovevano fatalmente passare le provincie meridionali, rimane il ricordo doloroso; ma resta pure il conforto che gli ostacoli opposti da quei malanni alla costruzione dell’edifizio unitario e liberale, da ultimo furono felicemente superati […]. Le speranze nel ritorno al passato che poggiavano sullo sfruttamento di quei malanni riuscito altra volta, se ancora illusero qualche retrivo, caddero per non più rinnovarsi […] sulle ruine di un regime per sempre abbattuto dalla volontà degli italiani25. 24 Alfredo Rocco, Legge sulla difesa dello Stato. Relazione sul Disegno di legge, in Id., Scritti e discorsi politici, vol. III, La formazione dello Stato fascista, 1925-1934, Milano, Giuffrè, 1938, p. 846. 25 Salvatore Panareo, Reazione e brigantaggio nel Salento dopo il 1860, Lecce, Tipografia editrice salentina, 1943, p. 40. Corsivi miei. Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 43 Cit. in Simona Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia, 1919-1926, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 95. 27 Tarquinio Maiorino, Storia e leggende di briganti e brigantesse, Casale Monferrato, Piemme, 1997, pp. 306 e ss. 26 ©UNICOPLI Come per un contrappunto al declino del fascismo, sembra trovare credito una visione ottimistica che tende a leggere il brigantaggio come una sorta di male necessario, nei cui dolori il Mezzogiorno deve passare per rigenerarsi. Non è una prospettiva che nasca per caso. Dolori simili, infatti, vengono leniti e riscattati da un fattore essenziale: il consenso della nazione, vale a dire la medesima forza, lo si chiarisce in altri passaggi, sulla quale poggia l’autorità fascista, che ambisce a superare la gravità dell’ora, in quel 1943, facendo leva su di essa. Mentre tutto sta crollando, l’impianto mussoliniano ha necessità di richiamarsi proprio alle origini dell’adesione di massa che spaccia come base della sua potestà: e l’approccio nei confronti della questione storica del brigantaggio, entro il più ampio contesto del movimento risorgimentale, ne è una cartina di tornasole. Tratteggiate così alcune tendenze che accompagnano l’intera parabola fascista, è utile definire, a grandi linee, una trama delle posizioni più importanti che emergono tra 1922 e 1945 rispetto alla lotta dei briganti dopo il 1860. Sono punti di vista variegati e spesso trasversali a interpreti dalle diverse provenienze, anche perché è lo stesso Risorgimento a costituire una dimensione di frontiera, per così dire, tanto tra fascisti e non, quanto tra correnti dello stesso regime, le cui linee di confine sono spesso segnate dal maggiore o minore peso conferito al ruolo dei Savoia piuttosto che al protagonismo garibaldino, alle pulsioni del Sud oppure ai condizionamenti internazionali, e così via. Innanzitutto, si consideri che il fascismo giunge al potere quando ormai, nei decenni tra 1870 e Grande guerra, appaiono consolidate sia una tradizione interpretativa, sia una vulgata volte a depotenziare la natura politica del brigantaggio, enfatizzandone viceversa in parte gli elementi di rivendicazione sociale ma soprattutto gli aspetti di deriva criminale. Emblematica è la naturalezza con cui il prefetto di Bari usa il termine «brigantaggio» per bollare le agitazioni contadine nel pieno dell’avvicinamento al potere da parte del fascismo26. Tutto ciò che si scrive dal 1922 non può che risentire di questo clima, come pure delle spinte del nuovo governo mussoliniano a mettere la «sordina su quel nome scottante» di brigantaggio, che stride con l’idea fascista del compimento dell’Unità27. Questa visione, inserendosi entro un’ortodossia di base – la sacralizzazione del momento unitario – permette di non rompere una genealogia patria che dalle origini risorgimentali conduce al regime, esito ultimo e definitivo di un processo che, nella propaganda, si fa vera e propria teleologia. Per di più, il dibattito pubblicistico e storiografico sul brigantaggio fino al 1945 non riguarda quasi mai i grandi nomi, bensì una larga fioritura, in giro per l’Italia, di figure medie o minori e di studiosi locali, di per sé quindi meno in grado di suscitare rivoluzioni interpretative capaci di scardinare pregressi paradigmi d’età liberale. Enzo Fimiani ©UNICOPLI 44 L’adagiarsi sulla tradizione pre-fascista sembrerebbe prerogativa soprattutto degli anni ’20. Nel decennio successivo, si levano invece lamentazioni riguardo alla perdurante carenza di studi rilevanti o innovativi sulla questione. Non è tanto un fatto di quantità, anzi. Viene piuttosto sottolineata la mancanza di lavori monografici, esaustivi o comunque di sintesi penetrante. Nel 1931 si scrive che «le pubblicazioni sul brigantaggio già copiose, ma ancora frammentarie, attendono lo storico che le raccolga, le riordini e le penetri»28; o si auspica una «Storia generale del Brigantaggio, finora non esistente»29; o ancora si promettono a tal fine monografie sul tema, che però mai verranno condotte a termine30. Nel 1937, si rincara la dose: «La bibliografia sul brigantaggio è abbondante, anzi abbondantissima. Ma alla quantità non corrisponde, purtroppo, la qualità […], uno studio esauriente sul brigantaggio non ancora è stato fatto»31. E questo panorama, ricco ma all’apparenza non soddisfacente, alimenta proprio sul tema del brigantaggio anche qualche polemica, o forse è meglio dire gelosie o rancori (interpersonali e politici), tra gli studiosi stessi. Si passa dalle accuse a un libro sui briganti che «sembra fatto apposta per solleticare le più basse voglie del grosso pubblico»32, alle stilettate sulle «fanfaluche di taluni storici, da noi prese con le molle»33, fino all’astiosa critica dell’irpino Michele Cianciulli (avvocato, docente, futuro massone nel secondo dopoguerra, prima socialista controllato dal regime poi iscritto al PNF dal 1925, autore di un importante volume sul brigantaggio nel 1937) nei confronti del napoletano Gino Doria (irregolare nelle appartenenze, radiato dall’albo dei giornalisti, avvicinatosi agli ambienti crociani senza mai arrivare a un’aperta rottura con il fascismo, che pubblica nel 1931 uno dei più rilevanti contributi del periodo sull’argomento)34. Che le pubblicazioni saggistiche facciano meno leva su ricerche di prima mano e più su spunti interpretativi; che si pongano spesso sul piano agiografico della retorica patria; che a volte svelino soprattutto una natura polemica, generando posizioni diverse capaci di ricadere sulle dinamiche politiche interne al fascismo, lo dimostra il fatto che scarse si mostrano le novità documentarie proposte durante quegli anni. Non poche voci stigmatizzano una tendenza del genere, indicando le direttrici lungo le quali i ricercatori dovrebbero muoversi Raffaele De Cesare, Brigantaggio, voce in Dizionario del Risorgimento nazionale, a cura di Michele Rosi, Milano, Vallardi, 1931, vol. I, p. 129: la scrittura del lemma è antecedente al fascismo ma è significativa la scelta di accettarne i contenuti e non riscriverlo ex novo durante il regime. 29 Francesco Stocchetti, Premessa ad Antonio Manhés e Ross Mc Farlan, Brigantaggio, Napoli, Tirrena, 1931, p. 3; cfr. Iacopo Gelli, Banditi, briganti e brigantesse nell’Ottocento, Firenze, Bemporad, 1931, p. 1. 30 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 399. 31 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 194. 32 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 400, a commento di: Gelli, Banditi, briganti, cit. 33 Giuseppe Valagara, I briganti dell’Episcopio e il banchetto di Monsignore. Episodio del brigantaggio politico in Irpinia, Napoli, R. Contessa e fratelli, 1935, pp. 16 e 27. 34 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., pp. 44-45. 28 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 45 35 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 129; cfr. Augusto Fraccacreta, Un fondo giudiziario sul brigantaggio nell’Italia meridionale (1862-1866) conservato nel R. Archivio di Stato di Roma, in «Archivi», IV, 1937, 3-4, pp. 210-216. 36 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 398. 37 Capone, Il brigantaggio, cit., p. 33. Cfr. Antonio Lucarelli, Risorgimento, brigantaggio e questione meridionale, a cura di Vito A. Leuzzi e Giulio Esposito, Bari, Palomar, 2010; Id. Il sergente Romano: notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese del 1860, Bari, Società tipografica pugliese, 1922; Id., La Puglia nel secolo XIX, con particolare riferimento alla città di Acquaviva in Terra di Bari, Bari, Società tipografica pugliese, 1926. 38 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 59; cfr. pp. 60-62. 39 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 128. 40 Saverio Cilibrizzi, Storia parlamentare, politica e diplomatica d’Italia. Da Novara a Vittorio Veneto, vol. I: 1848/49–1870, Napoli, Treves-Lupi, 1939, p. 349. 41 Alfredo de Crescenzo, Il brigantaggio nella provincia di Salerno dopo il 1860, in «Archivio Storico per la Provincia di Salerno», VI, 1933, 3, p. 220. 42 Francesco Zerella, Un episodio della reazione borbonica: la congiura di Frisio, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XXVI, 1939, 5, p. 593. ©UNICOPLI per compiere passi avanti sull’argomento. In particolare, vengono considerati imprescindibili le corrispondenze private dell’epoca, gli atti dei numerosi processi istruiti o conclusi, le fonti di polizia e in genere i documenti degli archivi locali («bisogna consultare […] gli archivii processuali e quelli di polizia nonché i provinciali»35). Non mancano certo giustificazioni per tali mancanze, visto che le fonti tradizionalmente utilizzate sono da sempre «memorie e studi di ufficiali che vi parteciparono», senza che a fare da contraltare giunga l’incrocio con memorialistica prodotta dai briganti, a molti dei quali «difettava purtroppo la materia prima: l’alfabeto»36. D’altra parte, non mancherebbero neppure esempi di ricerche in grado di utlizzare con metodo fondato proprio una parte della documentazione sopra citata, specie giudiziaria e degli archivi locali. Il problema è che essi vengono da intellettuali di chiara marca antifascista, quindi non spendibili sul proscenio della cultura di regime, benché assai più influenti di quanto al tempo si possa ammettere: valga per tutti l’esempio più eclatante in tema di brigantaggio, quell’Antonio Lucarelli, pugliese di Acquaviva delle Fonti, autore di alcuni dei principali libri del periodo, studioso «pioneristico» per il suo uso delle fonti37. Di contro, pur in questo quadro controverso, gli interventi della pubblicistica rivelano una certa coscienza della complessità del fenomeno. Il brigantaggio non nasce certo nel 1860 ma, essendo «radicato nell’Italia media e sud fin da tempi antichissimi» 38, può essere definito «piaga endemica del Reame di Napoli e degli Stati del Papa» 39, che «infestava da secoli le campagne meridionali»40. Quanto alla natura di una questione che comunque all’indomani dell’Unità si acuisce fino a dirompere, la coscienza rimane sufficientemente alta ma la trama delle spiegazioni si fa più variegata, per non dire in chiaroscuro. Nel riconoscere che non manca «il carattere politico al brigantaggio dopo il 1860, checché se ne voglia dire in contrario»41 e che comunque va operata una chiara distinzione tra le due forme, politica e delinquenziale, del fenomeno42, si afferma che esso non Enzo Fimiani ©UNICOPLI 46 può essere valutato come di esclusiva matrice politica, né solo sociale o criminale, bensì quale precipitato di molti fattori insieme. Se appare certo come nell’ultima fase venga «ridotto a volgare delinquenza»43, nella sua totalità si tratta di un «fenomeno oltremodo complesso» che, esito di svariate concause (che molti contributi elencano con pignoleria persino pedante), svolge in ogni caso una funzione di tipo politico anche quando non ne ha il carattere, influendo sugli eventi di portata più generale tra 1860 e 187044. Di più labili certezze appaiono dotati i commentatori riguardo alla cronologia del fenomeno. Se c’è una certa convergenza di opinioni riguardo all’arco più o meno decennale di durata e al tornante della metà dei ’60 («nell’anno 1866 le orde brigantesche erano ormai vinte»45 e «il grande brigantaggio finì tra il 1865 e il 1866»46 o al massimo «tra il 1866 e ’67»47), emergono invece plurimi punti di vista nel definire una precisa distinzione tra una prima fase (più breve) frutto di spinte politiche e un secondo periodo (ben più lungo) dominato da pulsioni criminali. Per alcuni approcci, il ciclo politico si chiude già con il 1861, dopo pochi mesi («come capi di bande furono scelti, dall’aprile del 1861 in poi, i peggiori avanzi delle galere»48) oppure non oltre il dicembre, quando – con la fucilazione, vicino Tagliacozzo nell’area abruzzese della Marsica, del generale spagnolo José Borjes inviato di Francesco II – «il brigantaggio perse del tutto quel tanto di apparenza politica che poteva avere, e si mostrò apertamente manifestazione criminosa, contro cui […] si diressero gli sforzi del governo che impiegò più di centomila uomini, prima di arrivare ad esserne vincitore»49. Ulteriori punti di vista ne vedono invece la conclusione al 1863, dopo di che il moto brigantesco «perdette ogni sostanza ed ogni apparenza politica, e fu malandrinaggio […] con esempi di efferatezza non umana, che empivano gli animi di terrore» 50 (compiuti anche dalle «brigantesse», localizzate sempre più al fianco degli uomini51). Quale che sia l’anno conclusivo della fase politica, è la medesima dose di reale “politicità” del fenomeno a venire messa in dubbio. Per alcuni autori durante il fascismo, si è di fronte a una versione più esecrabile della tradizione brigantesca nella penisola: «ecco dunque l’insorto, il bandito, il brigante: il comune delinquente cioè sotto le spoglie del reazionario politico!»52. La vicenda viene letta non tanto quale slancio politico, legittimista e filo-borbonico, quanto piuttosto come frutto ultimo di problemi antichi, che i Borbone, invece di risolvere Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 35. Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 43; cfr. pp. 65-68. 45 Giovanni De Caesaris, Pagine di storia abruzzese (Il brigantaggio 1860-1868), Teramo, Tipografica teramana, 1936, p. 18. 46 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 186. 47 de Crescenzo, Il brigantaggio, cit., p. 236. 48 Cilibrizzi, Storia parlamentare, cit., p. 349. 49 Manhés e Mc Farlan, Brigantaggio, cit., p. 209. 50 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 129. 51 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 141. 52 Nicola Borrelli, Episodi del brigantaggio reazionario (dal ’60 al ’70) nella campagna Sessana in Terra di lavoro, Santa Maria Capua Vetere, Di Stefano-Del Prete, 1927, p. 8. 43 44 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 47 Emma De Vincentis, Il Napoletano alla vigilia dell’annessione nel 1860, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XIII, 1926, 3, p. 582. 54 Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 20. 55 Vigevano, La legione ungherese, cit., p. 108. 56 Cilibrizzi, Storia parlamentare, cit., p. 350. 57 Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 62. 58 Cfr. Umberto Zanotti-Bianco, La Basilicata, Roma, Collezione meridionale editrice, 1926. 59 Nicolini, recensione in «Nuova Antologia», cit., p. 134. 60 Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 8. 53 ©UNICOPLI o perlomeno lenire, lasciano immutati e persino aggravano53. Non manca però chi azzarda una classificazione in virtù della geografia storica del Mezzogiorno: sarebbero ad alto tasso di motivazioni politiche le province più settentrionali dell’ex regno delle Due Sicilie, poiché contigue ai domini pontifici da dove il deposto sovrano e la sua corte tramano contro il giovane Stato italiano; viceversa, nelle plaghe più meridionali, prevarrebbe il semplice aspetto delinquenziale del brigantaggio che, «pur se talvolta apparve difensore della caduta dinastia, nella realtà intonò la sua azione a comune delinquenza»54. Alcuni sottolineano poi come a un certo punto la finalità politica divenga un paravento: «sotto il pretesto politico alcune bande, specialmente nell’ultimo periodo, compivano atti di rapina, di malandrinaggio e di saccheggio» 55. Se qualche erudito locale predica una certa prudenza interpretativa, scrivendo che «anche in questo doloroso, anzi raccapricciante fenomeno sociale, bisogna essere cauti nel giudizio» e valutando come «molto giusta l’opinione [che] distingue il brigantaggio politico dagli infiltramenti numerosi di uomini e di folle criminali»56; di contro non sono pochi coloro che rincarano la dose, tranciando invece giudizi categorici, secondo i quali il brigantaggio successivo all’unificazione, nel suo insieme, non sarebbe «se non un ordinario e feroce malandrinaggio»57 e la prassi dei briganti difetterebbe di qualsiasi intento politico 58. A ciò, si affianca anche una comparazione tra due fasi storiche di brigantaggio nel Sud. Le posizioni sono di nuovo agli antipodi: gli uni scorgono in quello del 1799-1815 un’adesione al Borbone «prevalentemente formale», ennesimo esempio della «tradizione pseudo-politica del brigantaggio italiano»59; gli altri, ne vedono invece l’unica occasione nella quale il brigante possa dirsi animato da intenti politici, al contrario appunto di quelli tra 1860 e 1870, in una visione che legge «quest’ultimo brigantaggio piuttosto come un fenomeno di ordinaria criminalità che non come un’affermazione politica […]. Dominava nei più, anche se capibanda, il carattere di volgari delinquenti, mossi da bassi istinti sfogati poi sotto l’egida della reazione politica e col concorso di giovanissimi ignoranti ed illusi, stanchi di miseria e di umiliazioni, al cui occhio lasciavansi intravedere miraggi di onori, di favori, di ricchezze»60. D’altronde, questa dell’interpretazione astorica del sanfedismo del cardinale Ruffo, sorta di onda lunga della Vandea sotto la Rivoluzione francese che giungerebbe nella penisola, è un’annosa questione che si riverbera nel dibattito sul ©UNICOPLI 48 Enzo Fimiani brigantaggio postunitario al tempo del fascismo, alimentato anche dalle polemiche di Croce che rifiuta la riproposizione di un mito vandeano nell’Italia meridionale dei briganti post-1860 61. Una rivalutazione del mito sanfedista è però in quegli anni «al centro dell’interesse di alcuni studiosi come Nicolò Rodolico, Giacomo Lumbroso, Alberto Consiglio e Massimo Lelj. Si trattava di storici diversi tra loro e con differenti rapporti col regime ma uniti nella polemica contro la centralità accordata da Croce alle repubbliche ‘giacobine’ nel processo di costruzione dell’identità nazionale italiana, impegnati quindi nel rivalutare in tal senso il ruolo del sanfedismo»62. Così, la connessione in linea retta con quanto accade all’indomani dell’Unità non tarda a manifestarsi, fino a giungere ad analogie senza il beneficio del dubbio, per cui «il brigantaggio meridionale del 1860 e dopo ha un intimo nesso storico ed una perfetta analogia col brigantaggio del 1799 e del decennio dei regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat»63. Anche quando l’analisi si propone più sfumata, ecco riemergere il parallelo con la Repubblica partenopea: è la «fiducia che si sarebbe ripetuto, a causa vinta, il beneficio dell’impunità come nel 1799», la molla che spingerebbe molti delinquenti a farsi briganti64. Il tutto, non lo si dimentichi, fermo restando come sia l’intero Sud a scontare una specie di destino deterministico, quale vera terra d’elezione per le deviazioni brigantesche («terreno dunque più favorevole fu l’Italia Meridionale; anche per la conformazione fisica, che, offrendo covi e rifugi naturali, permetteva una più lunga latitanza» 65) e spazio prediletto per seguire il mestiere di brigante che, nel Mezzogiorno, si fa autentica «vocazione», plurisecolare 66. Come si vede, non siamo lontani da antichi stereotipi, che nel fascismo non mutano certo di segno. A pareri del genere, che non vanno per il sottile, fanno da contrappunto tesi che guardano alla questione da altre e più dialettiche angolature. Alcune cercano di rimanere scevre da ogni esagerazione: «considerare il brigantaggio come un puro fenomeno di delinquenza, dovuto all’anarchia serpeggiante nel paese dopo la partenza dei Borboni da Napoli, significherebbe semplificar troppo la cosa; come significherebbe ampliarla oltre il vero se, con gli storici legittimisti, si considerasse il brigantaggio quale una nuova Vandea e tutti i briganti come purissimi eroi»67. Altre enfatizzano le istanze di natura sociale, per cui «la pri- 61 Benedetto Croce, Il romanticismo legittimistico e la caduta del Regno di Napoli, in «La Critica», XXII, 1924, 2, pp. 257-278. 62 Massimo Cattaneo, Il Triennio repubblicano 1796-1799. Nuovi paradigmi storiografici e pseudorevisionismi, in Antirisorgimento: appropriazioni, critiche, delegittimazioni, a cura di Maria P. Casalena, Bologna, Pendragon, 2013, p. 72. 63 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 27. 64 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 128. 65 Nicola Vernieri, recensione a Cianciulli, Il brigantaggio, cit., in «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono», XXI, 1938, 3, p. 83. 66 Nicolini, recensione in «Nuova Antologia», cit., p. 134. 67 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., pp. 390. Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 49 68 69 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 45. Gioacchino Volpe, L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Milano, Treves, 1927, p. 35. 70 Tito Battaglini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie, vol. II, Da Gaeta al brigantaggio politico, Modena, Società tipografica modenese, 1939, p. 104. 71 Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 5. 72 Vernieri, recensione in “L’Italia che scrive”, cit., p. 83. 73 Tommaso Palamenghi-Crispi, Il generale Nicola Fabrizi nel Risorgimento italiano, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XXII, 1935, 3, p. 497; Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 43. 74 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 129. 75 Aldo Romano, recensione a Gaetano Zingali, Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia (1860-1932), Milano, Treves, 1933, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XXI, 1934, 6, p. 1147. 76 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 8. 77 Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 36. ©UNICOPLI ma, la vera, la grande causa del brigantaggio fu la miseria» 68. I briganti e la loro rivolta si alimentano perciò dal «malcontento antico e nuovo» delle popolazioni rurali69, sono conseguenza di un disagio sociale profondo, autentica «eruzione del sottosuolo sociale e politico»70. È però, questo, un Mezzogiorno valutato quasi come pre-condizione in sé del disagio e della ribellione, con toni che finiscono per toccare, specularmente, le stesse, criticate radicalità di giudizio appena accennate: «nella colma misura d’una dura miseria, nello avvilimento delle masse sopraffatte ed angariate da inumani signorotti, trovava dunque quel brigantaggio, se non la sola causa, certo una gravissima concausa»71. Una situazione socio-economica siffatta conduce inevitabilmente anche a degradi di diverse tipologie: rende più indifese le popolazioni rispetto alle seduzioni dell’avventurismo brigantesco; scava una tara antropologica per la quale il brigantaggio «allignò un po’ dappertutto e più tenacemente ove più viva e suscettibile era la sensibilità popolare […], e più duro e senza scampo il servaggio» 72; induce l’incancrenirsi di una sorta di morbo, ormai cronico, tale da dipingere un brigantaggio che si fa «piaga» e autentica «malattia dell’organismo sociale […], espressione di un male profondo e antico»73. Non bisogna quindi sorprendersi che un simile fenomeno nasca nel Mezzogiorno: nessuna «meraviglia che nascesse, e assumesse forme così minacciose il brigantaggio»74 in un’area geografica che manifesta il suo disagio proprio «con atti di brigantaggio»75. Dato il contesto di lungo periodo, l’arretratezza socio-economica diviene anche civile: «quale meraviglia se, nel 1860, una parte delle popolazioni meridionali non ebbe un’idea chiara della concezione unitaria nazionale e contro di questa reagì a modo suo nei suoi strati più grigi o più bassi?»76. È l’epopea brigantesca, alimentata dalla storica mancanza di senso dello Stato delle plebi meridionali, a causare l’arretratezza meridionale («il brigantaggio […] paralizzò l’ascensione del Mezzogiorno al regime liberale»77). L’Unità, però, ne rappresenta l’antidoto: «mutate e migliorate le condizioni di vita e d’ambiente, il brigantaggio meridionale era naturalmente destinato a Enzo Fimiani ©UNICOPLI 50 scomparire»78. Con i miglioramenti dal punto di vista politico e materiale grazie all’unificazione nazionale, il conflitto dei briganti esaurisce la spinta propulsiva. Così, il fenomeno «spegnevasi al sorgere dell’immagine radiosa della Grande Patria»79. Già all’alba del nuovo Stato, quando i Borbone, «abbandonata Gaeta, tentarono, quale extrema ratio, una ripresa del brigantaggio politico nell’Italia meridionale [che] i mutati tempi non consentivano di pensarla come destinata a riuscita», la reazione finisce per ottenere scopi opposti a quelli sperati, non riuscendo «se non a cementare gl’Italiani del Mezzogiorno nella recente unità» e a spogliare il mondo brigantesco del proprio fascino perverso: «i briganti vennero quasi automaticamente privati di quell’alone di leggenda che li aveva circonfusi per buona parte del secolo XIX; rappresentarono, quasi, figurazioni storiche fuori del loro tempo; e precipitarono nel ladroneccio minuto, quando non disparvero del tutto»80. Da ciò consegue che il mito di Borbonia felix, di una presunta età dell’oro del Sud che l’unificazione avrebbe spezzato, non trova particolare eco sotto il fascismo: «è del tutto falsa la tesi che il Mezzogiorno si fosse trovato nel ’60 in condizioni relativamente migliori di quelle del resto d’Italia» 81. Anzi, sembra emergere una visione opposta, per la quale «l’Italia viveva sotto i Borboni di un’economia primitiva» 82. E non è certo questa l’unica aggravante a carico della casa regnante sulle due Sicilie. La gran parte di coloro che tra 1922 e 1945 si cimentano in scritti sul brigantaggio – benché non manchino sguardi benevoli verso Francesco II e i «rapporti indiretti che i Borbone ebbero col brigantaggio» 83 – appare nel complesso sfavorevole alla gestione borbonica. Si scrive di un movimento brigantesco «creato e protetto dal Re detronizzato» o «favorito da Francesco II, il re spodestato» 84, il quale sembra non pensare ad altro che alla «segreta alimentazione del brigantaggio» 85. Già ben prima dell’Unità, i re giunti dalla Spagna (solo dal 1734) tengono comportamenti ambigui verso i briganti: «i Borboni di Napoli […], anziché ergersi a naturali custodi dell’ordine nei loro Stati e combatterli, preferirono non solo incoraggiarli, ma servirsene, o addirittura irreggimentarli tra le forze dell’ordine e proclamarli ausilio e sostegno della monarchia»86. Ogni volta che nella loro storia rischiano di smarrire o in effetti perdono il proprio Cianciulli, Il brigantaggio, cit., pp. 8 e 68. Michelangelo de Grazia, Appunti storici sul Gargano, Torremaggiore, Caputo, 1930, vol. II, p. 54. 80 Nicolini, recensione in «Nuova Antologia», cit., pp. 134-135. 81 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 48. 82 Ivi, p. 51. 83 Enrico Lumbroso, Il brigantaggio politico e i Borboni di Napoli, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XXIV, 1937, 2, p. 647. 84 Michelangelo de Grazia, Rodi Garganico nel Risorgimento italiano, in ivi, XVIII, 1931, 2-3, p. 470; Evelina Rinaldi, Un nuovo documento intorno alla situazione di Roma nel 1862, in ivi, XXV, 1938, 1, p. 87. 85 Zerella, Un episodio della reazione, cit., p. 589. 86 Nicolini, recensione in «Nuova Antologia», cit., p. 134. 78 79 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 51 Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 7. Cianciulli, Il brigantaggio, cit., pp. 126-127. 89 Ivi, p. 22; Egidio Maturi, Caratteristica di rivoluzionari e di reazionari del Risorgimento da alcune lettere inedite, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XXII, 1935, 6, p. 933. 90 Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 29. 91 Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 6. 92 Manhés e Mc Farlan, Brigantaggio, cit., p. 208. 93 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 186. 94 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., pp. 389 e (soprattutto) 393. 95 Giambattista Gifuni, Il brigantaggio, in Id., Profili e scorci di storia, Napoli, Artigianelli, 1942, p. 138 [già in «Corriere Padano», 8 maggio 1936]. 87 88 ©UNICOPLI potere, cercano di riconquistarlo inducendo le popolazioni rurali a darsi al brigantaggio, assoldate «dal Governo e dalla dinastia nel cui nome […] macchiavansi dei più orrendi delitti!». Sono dunque i regnanti a lasciare «dietro di sé una scia d’ignoranza, d’incoscienza, di abbrutimento: quanto cioè loro conveniva»87, adottando la medesima tattica anche nel 1860 ed anzi programmandola già nell’estate 88. È nei decenni precedenti, però, che i Borbone creano le condizioni per il loro crollo. Ostacolando «ogni miglioramento nella massa del popolo, avevano, con la loro improvvida politica, isolato e circondato il regno come una gran muraglia» 89. Durante il brigantaggio postunitario, poi, attuano un foraggiamento irresponsabile del cosiddetto manutengolismo, che in alcune zone del Mezzogiorno prolifera soprattutto nei centri urbani (ove piccole aristocrazie di censo o notabilari si fanno spalleggiatrici dei briganti90) e in altre nelle campagne profonde (ove vivono «pastori, carbonai, cesinanti, presto trasformati – per paura, per opportunità, per solidarietà – in manutengoli e confidenti» 91). Ingannano infine senza scrupoli chi li serve con autentico slancio ideale, per esempio il citato Borjes che, accorso verso il bosco di Lagopesole in Basilicata, «credeva di essere a capo di una vera e propria insurrezione, scoppiata in un paese che volesse per riconoscente affetto rimettere in trono il fuggito sovrano. Ma […] vide con disinganno che i suoi dipendenti altro non erano che una accozzaglia di ferocissimi ladroni e di assassini»92. E così, con il 1870 viene definitivamente sconfitta non tanto e non solo l’ex casa regnante in sé, quanto la sua escrescenza politica peggiore: la fine delle aspirazioni legittimiste «significò soprattutto vincere il ‘borbonismo’, cioè quel sistema di vita sociale, che consisteva in un accordo ibrido ed immorale fra plebe e poteri pubblici, fra governo e criminalità» 93. Si ha consapevolezza, però, che non dipenda soltanto dalla dinastia e dai suoi sbagli lo sfociare nel brigantaggio postunitario di tutta una serie di fattori. Il ruolo delle borghesie locali, per esempio, non viene sottaciuto. Anzi, per qualcuno nella «connessione tra brigantaggio e borghesia» si annida il «vero punto storico della questione»94. Stridono questi approcci – per cui gran parte dell’esperienza brigantesca post-1860 deriverebbe da elementi come la «sfiducia, la diffidenza, la ostilità della borghesia al nuovo regime»95 – con l’autorevolezza Enzo Fimiani ©UNICOPLI 52 interpretativa di Volpe, per il quale il Risorgimento è «opera prevalente della borghesia»96, a conferma che intorno a simili questioni si agita il mondo interno al regime (si pensi solo alle polemiche della sinistra fascista, per la quale è al contrario proprio la borghesia a fungere da freno nei confronti del complimento dell’unificazione nazionale 97). Oltre a ciò, si punta il dito anche sul ruolo che il mondo cattolico ha nella dimensione storica del brigantaggio. Roma pontificia dall’esterno (nel garantire base e legittimazione alle aspirazioni borboniche) e il clero nel Sud divenuto italiano (nel fornire aiuti e appoggi ai briganti98), recitano una parte non trascurabile in commedia. Anche qui, però, ecco emergere posizioni diverse. Se alcuni ritengono decisiva la protezione offerta dal papa a Francesco II e ai borbonici99, per altri il peso del clero è del tutto secondario nella vicenda100, fino a giungere a posizioni opposte, «per cui il clero basso, così regolare che secolare, aveva nel suo complesso fraternizzato con la rivoluzione»101. Meno divaricate appaiono le letture a più ampio spettro, che provano a inserire fenomeni come il brigantaggio nel complesso delle transizioni tra differenti regimi politico-dinastici. Non solo dopo il 1860 ma in tutte le epoche precedenti, il Sud conoscerebbe un’esperienza storica di tipo brigantesco «corrispondente quasi sempre a periodi di crisi politica, di transizione dal vecchio al nuovo» 102, all’interno di «bruschi mutamenti di regime» 103. In passaggi del genere, ecco rientrare in gioco un altro dei temi di discussione durante il regime, nodale perché investe le reazioni e il ruolo del popolo delle province meridionali. Se la pratica del brigantaggio postunitario dura tanto a lungo «anche per l’aiuto che il più delle volte i briganti avevano […] dal popolo» 104, è pur vero che si tratta di genti «timorose d’essere esposte alle efferate rappresaglie brigantesche» 105. Un tale meccanismo viene innescato a sua volta dalle «condizioni delle popolazioni [che] non erano molto buone; taglieggiate dai briganti se obbedivano ai regi, fucilate dai regi se aiutavano i briganti, cercavano di sfuggire al danno ed al pericolo aiutando gli uni e gli altri»106. Non così di rado, però, si verificano casi che al contrario vedono una presa di posizione netta, con esempi di vera e propria reazione anti-briganti che sfociano in una Volpe, L’Italia in cammino, cit., pp. 28-32. Cfr. Parlato, La sinistra fascista, cit., pp. 49-51. 98 Guido Guidi, Brigantaggio, voce in Nuovo Digesto italiano, Torino, Utet, 1937, vol. II, p. 545. 99 Cfr. tra gli altri: Vincenzo Roppo, Una famiglia di martiri e danneggiati politici sotto la dominazione dei Borboni: Turi Baldassarre e Gaetano, Bari, L’Edizione, 1923, p. 15. 100 Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 8. 101 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 128. 102 Vernieri, recensione in «L’Italia che scrive», cit., p. 83. 103 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 389. 104 Manhés e Mc Farlan, Brigantaggio, cit., p. 209. 105 Gifuni, Il brigantaggio, cit., p. 138. 106 Manhés e Mc Farlan, Brigantaggio, cit., p. 209. 96 97 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 53 imputata, almeno in parte […] agli uomini – per tanti altri versi insigni e benemeriti – della gloriosa ‘Destra’, i quali credettero che fosse sufficiente, appunto, provvedere – come provvidero – all’amministrazione, reprimere – come repressero – le rivolte dei contadini e il brigantaggio, e non pensarono che il compito supremo consisteva nel fare degli Italiani un popolo, nel dare agli Italiani la coscienza nuova dell’essere loro, la coscienza nazionale. La Destra agì come se tutta l’Italia fosse stata il Piemonte111. Sullo strumento di cui si servono queste nuove classi dirigenti postunitarie per affrontare la minaccia dei briganti c’è una maggiore uniformità di giudizi. Si entra infatti in un filone interpretativo con una propria specificità, che guarda al fenomeno brigantesco ponendo al centro il momento militare112. Un filone tradizionale, che già dai decenni d’età liberale, e poi naturalmente sull’onda del conflitto mondiale, erge l’esercito a caposaldo intangibile della nazione e sulla cui scia il fascismo non fatica a posizionarsi. L’attenzione che durante il regime viene dedicata agli aspetti bellici del brigantaggio, peraltro, non appare solo retorica patria ma anche convinzione che si tratti comunque di uno scontro arma107 108 109 110 75-76. Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 14. Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 193. Cilibrizzi, Storia parlamentare, cit., p. 350. Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 389; Cianciulli, Il brigantaggio, cit., pp. 111 Carlo A. Avenati, La rivoluzione italiana da Vittorio Alfieri a Benito Mussolini, Torino, Ghirardi, 1934, pp. 174-175. 112 Cesare Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’Esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma, Ausonia, 1928 [1a ed. 1920]; Uberto Govone, Il generale Giuseppe Govone. Frammenti di memorie, Torino, Fratelli Bocca, 1929; Gelli, Banditi, briganti, cit.; Giuseppe Miozzi, L’Arma dei Carabinieri Reali nella repressione del brigantaggio (1860-1870), Firenze, Funghi, 1933. Per una prospettiva critica: Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 395. ©UNICOPLI «coraggiosa difesa civica contro i malviventi» 107. Quando invece i meridionali si danno al brigantaggio, è spesso per necessità, nel 1799 come dopo l’unificazione. E sempre, da qualunque parte si collochino, le popolazioni del Sud vengono lodate perché danno comunque prova di saper stare «in prima linea», cosa che poi avverrà anche e soprattutto (in un esplicito parallelo storico-propagandistico) nelle trincee della Grande guerra108. Chi questo popolo del Mezzogiorno non lo comprende a fondo è, a parere di molti autori durante il fascismo, proprio quella Destra storica chiamata a guidare il processo unitario e l’avvio del nuovo regno: «sotto un certo punto di vista, il brigantaggio politico potrebbe anche ritenersi come una giusta reazione al piemontesismo, che, contrariamente agli altissimi ideali di Mazzini e di Garibaldi, considerava il Mezzogiorno come un paese di conquista»109, tanto da compiere molti errori dopo l’Unità, come l’aver voluto chiudere, appunto nella transizione tra regimi, ogni legame con le tradizioni borboniche e popolari pregresse o l’aver scelto di inviare funzionari da Torino con la sola pretesa di moralizzare Napoli110. La colpa, anche dell’ostinato persistere del brigantaggio, deve quindi essere Enzo Fimiani ©UNICOPLI 54 to, al quale danno impulso sia i numerosi sbandati dell’ex esercito borbonico e i renitenti alle prime leve del neonato regno d’Italia, sia la sua natura di conflitto irregolare, condotto con metodi da «guerriglia logorante» 113 e perciò spina nel fianco nel faticoso consolidamento dell’Unità. Le forze armate, nonostante l’ingrato compito di combattere contro altri italiani, si distinguono per patriottica abnegazione («nell’oscuro e penoso ufficio di sradicare il brigantaggio l’Esercito diè prove sublimi di devozione alla Patria» 114) e spirito di sacrificio («la campagna contro il brigantaggio condotta con tanto spirito di sacrificio e tanto spargimento di sangue dall’esercito italiano»115). L’incarico è pesante, ma il senso del dovere consente di svolgerlo ugualmente: «l’esercito italiano allora compì, sebbene increscioso, tutto il suo dovere» 116. Anche quando si affrontano nodi del martirologio neoborbonico, come per i fatti di Pontelandolfo, rimane più che benevolo lo sguardo verso i comportamenti degli uomini in divisa117: l’obiettivo ultimo da raggiungere («distruggere questo flagello, ridonando alle popolazioni la pace e la serenità») può essere ottenuto solo grazie all’«opera dell’Autorità Militare»118. Non a caso, tanto la pubblicistica 119, quanto le cronache durante l’epoca fascista sono punteggiate dall’esaltazione di figure di soldati impegnati nella lotta anti-briganti, ai quali vengono affiancati gli uomini della Guardia nazionale 120. Significativo ciò che si scrive sul periodico fascista della provincia di Alessandria riguardo al militare, nativo del capoluogo, che cattura e fa uccidere Borjes: Franchini: nome di un soldato di metallica tempra, impavido e fiero: nome che fu popolarissimo una settantina d’anni fa, all’epoca della campagna per la repressione del brigantaggio. Il maggiore dei bersaglieri Enrico Franchini era infatti il terrore di tutte le bande brigantesche che, dopo la caduta dei Borboni di Napoli, andavano infestando e funestando talune regioni d’Italia e particolarmente la Basilicata e l’Abruzzo. Si diceva Vigevano, La legione ungherese, cit., p. 108. Gifuni, Il brigantaggio, cit., p. 139. 115 Ersilio Michel, L’Isola di Malta focolaio di reazione legittimista (1860-1863), in «Archivio Storico di Malta», VII, 1936, 3, p. 333. 116 De Caesaris, Pagine di storia, cit., p. 11. 117 Vincenzo Mazzacane, I fatti di Pontelandolfo, in «Rivista Storica del Sannio», IX, 1923, 3, pp. 71-76. 118 de Crescenzo, Il brigantaggio, cit., p. 236. 119 Cfr. Edoardo Pedio, Uomini ed episodi del Risorgimento lucano (Giuseppe D’Errico), in «Rassegna Storica del Risorgimento», XVII, 1930, 1, p. 179; Giuseppe Valagara, Il brigantaggio in Irpinia: Gaetano Negri nella lotta di repressione 1861-62. Con documenti inediti ed illustrazioni, Avellino, Pergola, 1931; Giuseppe Macchi, Contro il brigantaggio nelle Provincie meridionali: Gallarate nel Risorgimento, Gallarate, Ferrario, 1934. 120 Michele Cappiello, Il brigantaggio nel napoletano dopo il 1860: discorso commemorativo per lo scoprimento d’una lapide ai caduti della Guardia nazionale di Orsara di Puglia nel conflitto del 23 giugno 1863, Avellino, Pergola, 1923. 113 114 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 55 allora: ‘Dove c’è Franchini non regnano briganti’; e la frase rimase per qualche tempo proverbiale121. 121 Riccardo Scaglia, Il maggiore Franchini, terrore dei briganti, in «Alexandria», II, 1934, 3, pp. 81-82. 122 Guidi, Brigantaggio, cit., p. 546. 123 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 185. 124 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 396. 125 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 130. 126 Vigevano, La legione ungherese, cit., pp. 107-108. ©UNICOPLI Nell’assolvimento dell’ingrato compito, però, questo esercito (specie dall’estate 1863, con la legge Pica) va incontro a comportamenti violenti quasi inevitabili data la durezza dello scontro. Il problema dei metodi repressivi utilizzati dai soldati è ben presente al tempo del fascismo, senza però intaccare il fondamento di consenso nei confronti delle autorità militari. Non si negano gli eccessi, in una lotta «nella quale purtroppo il sangue non si poté risparmiare»122, ma motivazioni più articolate vengono addotte a giustificazione. E così l’azione militare «sembrò talvolta inesorabile o strumento di dispotismo o di fazione, più che di giustizia; e tristi furono gli episodi di quegli anni e più triste la fine di quegli uomini sciagurati, che tanto male avevano ricevuto dalla cattiva organizzazione sociale e tanto male avevano fatto»123. Se la repressione straborda dai compiti precipui di un esercito, è anche vero che si tratta di una punizione meritata, in risposta alle efferatezze brigantesche. A risultare eccessiva è semmai quella nei confronti del vasto mondo dei fiancheggiatori, lo siano essi per scelta o per forza: «Rigore, ordine e disciplina, che operavano assai bene nei riguardi del vero brigantaggio, che si era meritata, per i suoi eccessi sanguinosi, la crudele rappresaglia […], sembravano eccessivi, e causarono gravi danni, ritardando la pacificazione, quando furono applicati ai sospettati di favoreggiamento»124. E in generale le prassi violente oltre il giusto sono solo una quota minoritaria, poiché, «se fu compiuto qualche atto ingiusto o partigiano, attribuibile alle passioni così calde in quei tempi, la legge fu applicata con moderazione lodevole, e le fucilazioni di briganti, presi con le armi alle mani, parvero necessarie»125. E poi, da ultimo, durante il fascismo si batte su un tasto caro al regime. A pesare sono soprattutto le necessità imposte dallo stato di eccezione: «il governo italiano intraprese contro queste bande una lotta a fondo e, al loro fanatismo e alla loro ferocia, oppose misure militari eccezionali, tanto più doverose in quanto indispensabili a mantenere quell’unità d’Italia così faticosamente conquistata»126. Simili concetti, espressi nel 1924, anticipano dunque le parole evocate da Rocco nella citata relazione parlamentare del 1926, in una continuità di regime che fornisce una delle cifre dell’esperienza totalitaria italiana. Ecco quindi i principali punti di vista attraverso i quali l’Italia nel fascismo (che naturalmente è dimensione più complicata e vasta dell’Italia fascista) osserva e cerca di spiegare gli eventi tra 1860 e 1870. Si tratta di uno sguardo critico, quando non di condanna. D’altronde, il regime tutto non si comprende- ©UNICOPLI 56 Enzo Fimiani rebbe a sua volta senza una guerra, quella Grande, tra le cui infinite eredità c’è anche una predisposizione verso la lotta dei briganti dopo l’unificazione che si fa marginale rispetto alle storie edificanti della nazione narrata pubblicamente. Muta il paradigma e altri divengono gli archetipi patriottici da declinare. Il brigante, la violenza interna alle origini del nation building italiano, faticano a stare dentro questo pantheon. D’altronde, perché possa assidersi nel tempio littorio, il brigantaggio sconta un’altra ipoteca: è molto, troppo “anti” nell’ottica del fascismo. È anti-italiano, prima di tutto, poiché rimanda e tramanda da decenni un’immagine dell’Italia che contrasta del tutto con quella che il regime si sforza di propagandare. Non è più accettabile alimentare miti del genere, poiché le gesta brigantesche hanno «fatto ritenere l’Italia a molti stranieri d’oltralpe e d’oltremare come la terra classica dei briganti»127. Occorre superare l’idea dell’Italietta ante-Marcia. Riscattata dal fascismo, viene ora guidata verso la costruzione di uno Stato e un uomo nuovi, così da dare all’estero l’immediata percezione del cambiamento rivoluzionario, imponendo quindi di tralasciare le imprese dei briganti che per tradizione «facevano inorridire il mondo»128. Il brigantaggio, inoltre, è anti-nazionale e anti-patriottico, perché lacera il corpo della nazione, ne spezza l’unitarietà, appare agli antipodi rispetto al lavoro di fusione e modellamento di un popolo organico di regime. Non a caso, ancora Rocco – sempre in sede istituzionale ma già nel 1925, presentando il disegno di legge volto a far perdere la cittadinanza ai fuoriusciti dall’Italia – utilizza la comparazione con la vicenda storica del brigantaggio. Per attaccare i fuoriusciti e gli intellettuali dissidenti, al fine di dimostrare che si tratta di italiani rinnegati, antinazionali, li paragona a coloro che dopo il 1860 attizzano il brigantaggio, stigmatizza il fuoriuscitismo, usa locuzioni che non possono venire scelte se non intenzionalmente: Il fenomeno non è nuovo perché nella storia recente dell’Italia, dopo il conseguimento dell’Unità, più o meno abbiamo avuto sempre fenomeni di questo genere, e in alcuni periodi con maggiore gravità e con maggior danno anche perché più debole era la struttura nostra politica e nazionale, e pertanto con maggior successo si avventavano contro l’Italia, che moveva i primi passi nella storia, gli assalti degli italiani rinnegati, sobillati dallo straniero. Basti ricordare, non appena costituito il Regno d’Italia, tutto quell’episodio di orrore e di tradimento che si chiamò il brigantaggio. Il brigantaggio fu organizzato fuori dei confini del Regno, da pessimi italiani, principi spodestati e loro adepti, i quali non temettero di armare la mano dei loro fratelli contro la Patria129. 127 Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 9; cfr. Gelli, Banditi, briganti, cit., pp. 7-10; «L’Ordine Fascista: Polemica», XIII, 1934, 8, p. 742. 128 De Cesare, Brigantaggio, cit., p. 130. 129 Camera dei deputati, Atti parlamentari, Legislatura XXVII, 1a Sessione, Discussioni, tornata 28 novembre 1925, p. 4691, Disegno di Legge: “Modificazioni ed aggiunte alla legge 13 giugno 1912, n. 555, sulla cittadinanza”. Cfr. in tornata 2 maggio 1932, intervento di Piero Ferretti (ivi, p. 6807). Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 57 «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono», XIII, 1930, 12, p. 381. Raffaele Ciasca, Brigantaggio, voce in Enciclopedia italiana, cit., vol. VIII, 1930, p. 851. 132 Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 21. 133 Cfr. Antonio Monti, Pensiero e azione, Milano, Corbaccio, 1926, pp. 335 e ss.; Arcangelo Scotti, Il triste giorno del 10 novembre del 1863 per la famiglia Scotti. Un tragico episodio del brigantaggio nelle provincie meridionali, Roma, Tipografia regionale, 1932. 134 Nell’ordine: de Grazia, Appunti storici sul Gargano, cit., p. 48; Valagara, I briganti dell’Episcopio, cit., p. 23; Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 30; Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 9; Cilibrizzi, Storia parlamentare, cit., p. 349; Vigevano, La legione ungherese, cit., p. 107; Borrelli, Episodi del brigantaggio, cit., p. 3; Battaglini, Il crollo militare, cit., p. 156; Manhés e Mc Farlan, Brigantaggio, cit., p. 210; Francesco Stocchetti, recensione a Maso de’ Gennaro, I debiti dello Stato nel Regno d’Italia (1861-1932), Napoli, Tipomeccanica, 1934, in «Bibliografia fascista: rassegna mensile del movimento culturale fascista in Italia e 130 131 ©UNICOPLI Il brigantaggio, per di più, è anti-Stato (leggi: anti-fascismo), perché si rivela caos, furia incontrollata e, in definitiva, anarchia. Così, si parla di «crisi anarcoide del brigantaggio»130 e la partecipazione delle campagne diventa «follia anarchica [del] contadiname»131, che mette in pericolo proprietà e sicurezza132, creando martiri della causa unitaria, uccisi dalla ferocia, spesso inaudita, della plebe senza freni133. Infine, c’è un “anti” per eccellenza, legato all’immagine e alla prassi del brigantaggio. Incontrato all’inizio di questo cammino dentro il regime, esso omologa di fatto il brigante all’anti-fascista. Entrambi sono nemici della Nazione e dello Stato. Per entrambi, tramite misure normative eccezionali, occorre non avere pietà. Una storia così dipinta non arriva a essere definita quale guerra civile, coppia poco consona al fascismo, propostosi come epigono del Risorgimento e unificatore per antonomasia degli italiani. Non basta certo questo, però, a salvare briganti e brigantaggio dall’essere destinatari di una serie di epiteti negativi talmente vasta che se ne potrebbe ricavare una sorta di dizionario fascista sul tema. Solo per limitarsi a una minima parte di questo florilegio, i briganti sono appellati «gente della peggior risma», che in branco diventano «orda brigantesca», volta solo a perpetrare «criminose gesta», con audacia che traumatizza («i banditi misfacevano con audacia impressionante»), messa in mostra dai «peggiori avanzi delle galere» che agiscono «senza pietà e senza scrupoli», autentiche, «bieche figure di malvagi». Da una simile «marmaglia criminale» ci si può dunque attendere soltanto «brutale malvagità sanguinaria». E se in essa allignano anche figure con un qualche spessore, devono convivere con «dei veri mostri umani e dei criminali pazzi nei quali la ferocia non è attenuata da nessuna sfumatura di sentimento». Il brigantaggio, poi, è malattia («la piaga del brigantaggio»), gramigna italiana (la «mala pianta politica del Brigantaggio», che semina «il terrore per le campagne»), «pagina turpe e vergognosa» della storia d’Italia, generatore di «orde selvaggie [sic], in guerra contro la civiltà», pagina storica che offre «inaudite manifestazioni di criminalità» oppure «brutale malvagità sfrenata» o ancora «virulenta efferatezza»134. ©UNICOPLI 58 Enzo Fimiani Un quadro senza sconti e, a parole, drastico, da cui discende che di un siffatto morbo converrà parlare il meno possibile, per non rendere un cattivo servigio alla causa italiana (e fascista). Tra le direttive volte a irreggimentare la vita pubblica ai canoni del regime, non mancano quelle che intendono disinnescare un mito del brigante considerato deleterio. Ad esempio, si sorvegliano gli spazi pubblici capaci di parlare a folle sempre più vaste. Già nel 1923 accade nel cinema, quando la proposta di un film a tema brigantesco del noto regista Toddi viene contestata dalla commissione censura, «il cui presidente trovava impossibile che un film intitolato ‘Italia, paese di briganti’ potesse circolare impunemente per il paese». Se «il titolo scelto da Toddi era perlomeno imbarazzante», non si trattava di «un cineasta qualunque, al quale si poteva rispondere con una secca interdizione». Il censore, così, convince il regista ad apporre almeno il punto interrogativo al titolo 135. Ancora più forte sarà il controllo a partire dagli anni Trenta, visto che il cinema nel frattempo diviene mezzo di comunicazione di massa. Dalle testimonianze di protagonisti coevi, sappiamo delle idiosincrasie del duce sul tema: «E poi c’era il brigantaggio e guai in Italia in quel momento […], Mussolini voleva che non si parlasse più dei briganti italiani»136. Nel 1941, gli avrebbe fatto eco il ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini, vergando la significativa frase: «Basta con questi briganti» sul copione di un progetto di film giunto da parte di Luchino Visconti, insieme ai giovani sceneggiatori Mario Alicata, Giuseppe De Santis e Gianni Puccini. Il non ancora riconosciuto maestro del cinema italiano è perciò costretto a rinunciare all’intenzione di trarre una pellicola dalla novella L’amante di Gramigna di Giovanni Verga, piena di allusioni al brigantaggio137. Quando invece convenga parlarne, occorre farlo curvandone il senso in accezione favorevole al fascismo. Ne è un buon esempio il bellicismo di regime, che esalta di nuovo il ruolo dell’esercito. Proprio alla vigilia della dichiarazione dell’Impero, non per caso si operano similitudini tra l’impegno militare postunitario contro il brigantaggio e la campagna in Eritrea138. Terminata l’avventura etiope, iniziato il tempo della preparazione a un conflitto europeo considerato inevitabile, un termine normalmente adoperato in significato negativo – brigantesco – subisce un ribaltamento in positivo, utile al regime. Il generale Alberto Pariani, capo di stato maggiore, lo sceglie per far comprendere al duce come l’Italia fascista, per vincere il futuro scontro bellico continentale, debba fare ricorso a un attacco di sorpresa, a una sorta di guerriglia trasposta sul piano all’estero», IX, 1934, 7, p. 655; Roppo, Una famiglia di martiri, cit., p. 15; Cianciulli, Il brigantaggio, cit., p. 193; Guidi, Brigantaggio, cit., p. 545; Battaglini, Il crollo militare, cit., p. 104. 135 «Quaderni di Cinema», XII, 1992, 49-52, p. 54. 136 Testimonianza dello sceneggiatore Ivo Perilli, in Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta: parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano, 1930-1943, a cura di Tullio Kezich, Roma, Bulzoni, 1979, vol. III, p. 925. 137 Testimonianza del regista Giuseppe De Santis in Vito Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Venezia, Marsilio, 2004, p. 260. 138 Gifuni, Il brigantaggio, cit., p. 139. Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 59 Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, a cura di Giordano B. Guerri, Milano, BUR, 2001, p. 114, appunto 31 ottobre 1936. 140 Jean A. Gili, Stato fascista e cinematografia: repressione e promozione, Roma, Bulzoni, 1981, p. 65. 141 «Rivista Marittima», LXIX, 1936, 2, p. 270; cfr. Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, p. 57. 142 Dal copione della commedia Briganti, di Giovanni Lattanzi, 1939: cfr. «Scenario: rivista mensile delle arti della scena», VIII, 1939, 2, p. 243. 143 «Corriere della Sera», 18 ottobre 1923. 144 Ivi, 17 aprile 1926. 145 Camera dei deputati, Atti parlamentari, Legislatura XXVIII, 1a Sessione, Discussioni, tornata 24 febbraio 1931 p. 3903, intervento di Ezio M. Gray; Camera dei fasci e delle corporazioni, Atti parlamentari, Legislatura XXX, Assemblea plenaria, 10 maggio 1939, p. 150, intervento di Alessandro M. Tarabini. 146 Piero Belli, Un’orda barbarica al servizio della civiltà: l’agonia del brigantaggio abissino, Milano, La Prora, 1937. 147 Mario Appelius, Tragico bilancio del brigantaggio inglese, in «Il Popolo d’Italia», 6 luglio 1940; Briganti in parrucca, Roma, Novissima, 1940 (libello anonimo anti-inglese). 148 «Corriere della Sera», 26 febbraio 1928; Giovanni Marasà, Il poker giuoco di briganti?, Palermo, Urso, 1942. 139 ©UNICOPLI internazionale, una prassi “da briganti”, appunto. E Mussolini apprezza, tanto da confidare a Bottai: «M’è piaciuta la definizione di Pariani. Mi diceva l’altro giorno: – noi dobbiamo prepararci a fare una guerra brigantesca. – Giusto!»139. Agli inizi del conflitto mondiale, poi, è ancora la cinematografia a offrirci un episodio da sottolineare: «allorquando Leo Longanesi e Ivo Perilli stendono la sceneggiatura di Fra’ Diavolo (il film sarà girato nel 1942 da Luigi Zampa), il produttore si preoccupa perché si tratta dell’apologia di un brigante, brigante che per di più è alleato con gli inglesi (in quel momento l’Italia è in guerra contro l’Inghilterra)»140. Eccezioni, comunque: nella norma, una sospettosità tanto marcata verso le simbologie e i significati (anche solo reconditi) legati all’universo dei briganti conduce a un linguaggio negativo su di essi, quasi sempre in riferimento all’attualità politica. Così, ci si serve di appellativi “briganteschi” in funzione anti-sovietica («briganti bolscevichi»141); anti-francese (briganti sono i francesi del 1797-98 che fanno«man bassa» dei tesori italiani142); anti-mafiosa («Gli orrori del brigantaggio in Sicilia», flagello che il regime si vanta di aver sconfitto143); anti-slava («Nuove gesta di brigantaggio in Istria: l’assalto notturno a un’automobile»144); anti-abissina («L’Eritrea risente sempre alquanto della turbolenza della vicina Etiopia: ne è derivato qualche atto di brigantaggio»; «il brigantaggio, piaga cronica dell’ex impero negussita»145, vera«orda barbarica»146); anti-inglese durante il conflitto (si condannano i bombardamenti britannici come «brigantaggio» e i lords vengono rappresentati, stereotipati, come briganti in parrucca, ribaltando dunque l’accezione positiva del duo Pariani-Mussolini nel 1936147); anti-statunitense («Il brigantaggio sui treni in America: 133.000 dollari rubati da sei banditi»; oppure: Il poker giuoco di briganti148); anti-finanza («il Enzo Fimiani ©UNICOPLI 60 brigantaggio finanziario […] ai danni della Nazione» 149) e naturalmente in odio ai partigiani nel 1943-45, le cui azioni non sono che «brigantaggio»150. A ciò, si aggiungono critiche verso retaggi del passato che perdurano in epoca fascista. Vengono soprattutto stigmatizzati gli scivolamenti di tipo emotivo-popolaresco che creano un alone di mito intorno al brigante e inducono le «folle impressionabili», influenzate dalla «fantasia popolare», a guardarlo con simpatia151. Ci si lamenta di quanto la materia sia preda soprattutto degli ambienti di più bassa divulgazione, richiamando di nuovo la dimensione della malattia, del malsano: «Il brigantaggio politico nel Mezzogiorno d’Italia […] può ancora presentare un certo interesse […] per i divoratori di quei malsani libri che sono il miglior ornamento, e il più ricercato, delle edicole nelle stazioni ferroviarie»152. Se si riconosce che a stuzzicare il «senso istintivo nel popolo di vedere nei briganti degli eroi» contribuisce «un certo senso di non sana letteratura, che indulgeva troppo e cercava di poetizzare le figure degli assassini»153, si biasima però come vi siano «ancora italiani che favoleggiano di briganti e [li] vedono aggirarsi per le boscaglie della Calabria e della Campania»154. Occorre perciò, non solo dal vertice con i suoi catechismi di regime ma anche dalla base, reagire a questo andazzo e riscattare l’Italia da simili retaggi. A dover essere riabilitate, sono soprattutto le terre del Sud, per cui l’immaginario brigantesco è una zavorra, veicolo di perdurante anti-modernità (da cui proprio in quegli anni porzioni del Mezzogiorno, come la Calabria silana, si sforzano di liberarsi, benché senza veri successi155). Gli eccessi popolareschi hanno però spiegazioni meno semplicistiche della mera emotività. Ci vuole la più avveduta voce di uno storico perché li si possa analizzare: a indurre usi impropri della questione, infatti, è la forza seduttiva, in sé, della dimensione brigantesca, che circonfonde i briganti di un alone volto comunque a giustificarne le azioni e si radica nel Sud ben prima del 1860. Il brigantaggio appare, in pieno secolo XX, «materia ancora calda nelle passioni e nei sentimenti», benché – e qui lo studioso si mostra, a torto, più ottimista di tanti coevi – stia perdendo il suo fascino, smettendo di essere una «bellissima materia di storia romanzesca»156. Camera dei deputati, Atti parlamentari, Legislatura XXVII, 1a Sessione, Discussioni, tornata 12 gennaio 1925, p. 2071, interrogazione di Silvio Gai. 150 Archivio centrale dello Stato, Repubblica sociale italiana, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 5, f. 28/R, “Notiziario” della Guardia nazionale repubblicana, da Sondrio, 8 aprile 1945. 151 Ciasca, Brigantaggio, cit., p. 852, sul quale cfr. Massimo Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista, Roma, Carocci, 2006, pp. 167-169. 152 Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., p. 388. Corsivo mio. 153 Manhés e Mc Farlan, Brigantaggio, cit., p. 209. Corsivo mio. 154 Vernieri, recensione in «L’Italia che scrive», cit., p. 83. 155 Vittorio Cappelli, Identità locali e Stato nazionale durante il fascismo, in «Meridiana», XII, 1998, 32, p. 60. 156 Walter Maturi, recensione a Doria, Per la storia del brigantaggio, cit., in «Nuova Rivista Storica», XVI, 1932, p. 461. 149 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 61 Nicolini, recensione in «Nuova Antologia», cit., pp. 133-134. Vernieri, recensione in «L’Italia che scrive», cit., p. 83. 159 Benedetto Croce, Nuova ondata d’affetto pei briganti, in «La Critica», XXXIV, 1936, 4, p. 480. 160 Raffaele Nigro, Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai nostri giorni, Milano, Rizzoli, 2006, p. 452. 161 Bruno Corra, Il Passatore, Milano, Alpes, 1929. 162 Nino Savarese, Storia di un brigante, Milano, Ceschina, 1931. 163 Piero Bargellini, Fra’ Diavolo, Firenze, Vallecchi, 1932. 164 Cfr. Nigro, Giustiziateli sul campo, cit., pp. 452 ss. 165 Nicola Spagnolli, È ora di ricominciare con questi Irochesi! Il brigantaggio post-unitario nel fumetto, in «Zapruder», IX, 2011, 25, p. 39. 166 Franco Cristofori e Alberto Menarini, Eroi del racconto popolare. Prima del fumetto, Bologna, Edison, 1987, vol. II, p. 396. 157 158 ©UNICOPLI In realtà, il fascino di quegli uomini – sedimentatosi in epoca romantica 157 – fa ancora parlare di loro come di «una milizia a buon mercato, la quale, accanita e generosa nelle sue guerriglie, rinnovava […] la tradizione dei capitani di ventura», per quanto «con scopi e in forme degeneri»158. È in letteratura che, da fine anni ‘20, si assiste a un ritorno alle seduzioni dell’immaginario brigantesco tradizionale, che tanto biasimo si attira dal Croce anziano, il quale nel 1936 sbotterà: «che cosa è mai cotesto affetto pei briganti che ora si mostra a più segni in Italia?»159. Non più quindi solo termini ingiuriosi volti a enfatizzare gli aspetti criminali: «si torna invece a raccontare un brigantaggio romantico e avventuroso» 160. Dal 1929 al 1932, tre protagonisti letterari del tempo, pur diversi tra loro, pubblicano romanzi sul tema. Prima il futurista Corra licenzia una storia che è una celebrazione letteraria della figura del brigante161. Poi Savarese, scrittore tra i più in voga del ventennio, si cimenta in un romanzo proprio su un giovane che è quasi obbligato a darsi al brigantaggio per motivi sociali, stretto tra l’indigenza del Sud e le mancanze di altre prospettive di riscatto, facendo così riemergere un antico cavallo di battaglia dell’interpretazione (e della giustificazione storica) del fenomeno 162. Infine, è il cattolico Bargellini – futuro sindaco di Firenze nella Repubblica, in chiaroscurali rapporti con il regime – che può pubblicare una biografia di Fra’ Diavolo per il ruolo antifrancese del brigante tra ‘700 e ‘800, nonché per la vita atta a ispirare comprensione e pietà cristiane nei confronti di uomini che sono costretti a darsi al brigantaggio 163. E negli stessi anni non perde d’attrattiva il filone, già dal 1922 fiorente e redditizio, dei romanzi d’avventura rivolti a un pubblico di giovani e ragazzi, spesso con al centro le gesta brigantesche164. «Nella letteratura popolare, all’inizio degli anni trenta, il brigante letterario godeva ancora di notevole successo»165, con collane pubblicate a larga tiratura, di ottima riuscita commerciale proprio perché vendute nelle edicole166. E ai successi di vendite contribuisce anche la cronaca coeva. Proprio a metà dei ‘30, infatti, suscita morboso interesse la figura di un brigante in carne ed ossa, il veneto Giuseppe Bedin, intorno al quale si alimenta un’aura leggendaria per le imprese della sua banda, tanto da provocare ©UNICOPLI 62 Enzo Fimiani l’attenzione diretta di Mussolini che si compiace per la morte infine incontrata dal brigante 167. Bisogna affacciarsi al periodo bellico, per trovare segni di un vero cambiamento di rotta. Nel 1942, escono ben tre opere narrative168. La prima di Riccardo Bacchelli, cattolico e tradizionalista, accademico d’Italia, il quale, pur mosso da misericordia verso i briganti, evita di fare di uno di loro il protagonista dei suoi racconti, scelta che gli permette di uscire indenne dalla censura nel frattempo intervenuta169. La seconda di Francesco Jovine, allora in relativa sofferenza rispetto ai dettami di regime dopo una qualche integrazione nei suoi meccanismi, che racconta uno spaccato del Molise contadino nel trapasso dai Borbone ai Savoia, con occhio realista, se non indulgente, verso le derive brigantesche170. La terza di Carlo Alianello, il quale, con un romanzo apertamente dalla parte dei vinti, scardina l’interpretazione di regime del Risorgimento (rischiando il confino)171. I tre scrittori perciò, favoriti anche da un fascismo ormai in difficoltà, sembrano aprire differenti prospettive sul tema, che troveranno frutti nel campo della storiografia ma solo più avanti, sullo slancio postbellico. Non bisogna però sottovalutare un’anticipazione significativa: sempre nel ’42, il citato antifascista Lucarelli – che già nel 1927 denuncia il tradimento delle idealità risorgimentali172 – pubblica uno studio sul brigantaggio di inizio ‘800 che mostra chiari collegamenti con quello postunitario, in una visione delle origini dell’unificazione nazionale quasi da “lotta di classe”173. Sembra ormai avvertirsi l’eco incipiente di Carlo Levi, che pure nella sua empatia sociale con le genti meridionali non cede all’uso strumentale dei drammi postunitari: «non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in mala fede»174. Un andamento non dissimile a un ritorno del brigante si avverte anche in un campo, il fumetto, che appare una forma non trascurabile di “nazionalizzazione” degli italiani. Le storie disegnate si prestano a lanciare messaggi divulgativi a largo spettro, utili al regime. Soprattutto negli anni Trenta, all’approssimarsi delle sfide belliciste del fascismo, «le guerre del Risorgimento [...] rappresentavano per i fumetti e le riviste un ricco patrimonio cui attingere per sostenere una 167 Il compiacimento del Duce per l’annientamento della banda Bedin, in «Il Veneto», 7-8 aprile 1939. 168 Cfr. Nigro, Il brigantaggio, cit. pp. 149-158. 169 Riccardo Bacchelli, Il brigante di Tacca del Lupo ed altri racconti disperati, Milano, Garzanti, 1942. 170 Francesco Jovine, Signora Ava, Roma, Tumminelli, 1942; cfr. il suo saggio sul brigantaggio scritto durante la guerra ma pubblicato solo postumo nel 1970 (Nigro, Il brigantaggio, cit. p. 152). 171 Carlo Alianello, L’alfiere, Torino, Einaudi, 1942. 172 Cfr. Lucarelli, Risorgimento, brigantaggio, cit., p. 56. 173 Antonio Lucarelli, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d’Italia dopo la seconda restaurazione borbonica, 1815-1818, Bari, Laterza, 1942. 174 Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1947, p. 128 [1a ed. 1945]. Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo 63 Spagnolli, È ora di ricominciare, cit., p. 39. Topolino contro Wolp il terribile brigante del West, serie pubblicata tra 15 ottobre 1933 e 31 luglio 1935. 177 O Roma o morte, in «Intrepido», dicembre 1939-ottobre 1943. 178 Ivi, 29, 6 luglio 1942, pp. 8 e 1. 179 Spagnolli, È ora di ricominciare, cit., p. 40. 180 Parole del direttore generale per i servizi della stampa italiana, Gherardo Casini, in Philippe V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 118. 181 Convegno nazionale per la letteratura infantile e giovanile. Bologna 1938, Relazioni, Roma, Stige, 1939, p. 7. 182 Spagnolli, È ora di ricominciare, cit., p. 39; Renzo De Felice, Mussolini il Duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, p. 113. 183 Gili, Stato fascista e cinematografia, cit., p. 65. 175 176 ©UNICOPLI pedagogia del sacrificio da piegare a fini propagandistici»175. Inoltre, l’universo fumettistico si presta per un contatto meno “pericoloso” con i miti statunitensi, che allora impattano anche con l’Italia provinciale. Tra 1933 e 1935 escono nove albi del fascinoso personaggio di Topolino. Lo si vede non a caso alle prese con un «terribile brigante», non certo del Sud italiano ma della frontiera americana, di quel West che ormai si avvia a divenire familiare nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni della penisola176. Il fumetto, infine, veicola l’ortodossia risorgimentale in forme popolari e stilemi reiterativi comprensibili ai più. Esemplare una storia legata al mito garibaldino proposta tra 1939 e 1943 dal diffuso settimanale «Intrepido», nato nel 1935 177. Molto seguita, essa esalta nel protagonista Leardo, ardente seguace di Garibaldi, un italiano che convintamente combatte sulla Sila contro il brigantaggio attentatore della fresca Unità. I suoi avversari tentano di dare un respiro diverso alla propria scelta. In una vignetta, uno di essi si autodefinisce: «io non songo un brigante, io songo un culunnelle! Combatto per l’amato re borbone». Leardo ne ha una percezione diversa, sentendo di trovarsi in quell’estremo lembo d’Italia per contrastare «gli ultimi borbonici che col pomposo nome di briganti infestano il meridione»178. È un approccio che conosciamo, applicato al fumetto: il brigantaggio deve «figurare come pura espressione del legittimismo borbonico, onde non scalfire il monolite risorgimentale con rivendicazioni sociali e proteste da parte dei contadini» 179. Tutte queste riemersioni del clima brigantesco non passano inosservate. Quando il regime decide una stretta censoria – per «adeguare la letteratura e l’arte […] alle necessità dell’etica fascista»180 e per una «verità storica rispettata ma sottomessa all’orgoglio italiano» 181 – viene preso di mira proprio un simile andazzo. Dalla seconda metà del 1938, si avvia non per caso «una politica di bonifica libraria particolarmente dura con la letteratura storica e pseudostorica sul brigantaggio»182. E di ritrovarsi nell’occhio del ciclone, al brigantaggio accade pure con altre tipologie di censura, sperimentate ben prima del 1938. Nella già citata cinematografia, per esempio, «i briganti sono la bestia nera della censura»183. Vi è però anche un’occhiuta vigilanza sul teatro. Il fascismo si ritrova spesso ad avere a Enzo Fimiani ©UNICOPLI 64 che fare con testi teatrali che ruotano intorno al mondo dei briganti. Leopoldo Zurlo, a lungo responsabile dell’Ufficio censura teatrale (1931-43), fustiga i testi che indulgano a visioni benevole o anche solo ammiccanti nei confronti dell’universo brigantesco. Il regime evita di enfatizzare personaggi o ambienti che possano trasmettere un’immagine negativa dell’Italia: «Secondo il censore, come nella vita esistevano il marciume e la cattiveria destinati a soccombere di fronte a forze ed energie positive, o quanto meno a convivere con esse, così sulla scena il male e gli eroi negativi potevano trovare posto ed essere tollerati, solo se gestiti senza ambiguità dagli autori, nella prospettiva della condanna e della sconfitta totale o del riscatto morale, in modo che il messaggio inviato al pubblico risultasse educativo e confortante»184. Su queste basi, nel 1936 Zurlo rigetta un copione teatrale, con l’aggiunta di una nota che avverte del rischio: «Il copione del dramma ‘Musolino’ si restituisce privo di provvedimenti perché […] non è il caso […] di portare sulla scena un brigante tanto più che l’autore sorvola sui delitti da lui commessi mentre indugia su quanto può nel giudizio di un pubblico popolare attenuarne la colpa»185. Allo stesso modo, tra 1933 e 1940 molti testi, anche di autori noti, vengono bocciati o sottoposti a rilievi per motivi similari riguardanti il brigantaggio. Oltre al Musolino di Arturo de Rosa del 1936, si spazia dalle commedie (di Ciro Berardi e Giggi Spaducci; Angelo Beltrami; Giuseppe Adami) agli spettacoli di marionette (dei fratelli Lupi), fino ai drammi come quello di Aldo Allegrini del 1940186. Al massimo, l’autorizzazione a venire rappresentate può invece concedersi per operette comiche187. Una dimensione all’apparenza eccentrica, poiché richiama registri ironici poco frequentati dalle dittature e quasi mai applicati durante il fascismo a un fenomeno, il brigantaggio, che ancora inquieta. Archivio centrale dello Stato, Censura teatrale e fascismo (1931-1944). La storia, l’archivio, l’inventario, a cura di Patrizia Ferrara, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 2004, vol. I, p. 47. 185 Archivio centrale dello Stato, Ministero della Cultura popolare, Direzione generale teatro e musica, Ufficio Censura teatrale, b. 405, f. 7636 “Musolino”, 18 settembre 1936 minuta di Leopoldo Zurlo alla compagnia di prosa L’Ecclettica. Cit. in Censura teatrale e fascismo, cit., p. 47. 186 Li si vedano tutti in Censura teatrale e fascismo, cit. (dal fondo in ACS cit.). Nell’ordine: Musolino, 1936 (p. 365); Trucibaldo IV ovvero li briganti de la Faiola, 1933 (p. 204); Quando il diavolo ci mette la coda ovvero io sono un brigante, 1935 (p. 199); Il brigante e la diva, 1939 (p. 145); Gianduia asino d ‘oro ovvero I due fratelli gemelli e i briganti della Selva nera, 1940 (p. 540); Il brigante di Marengo, Mayno Della Spinetta, 1940 (p. 152). 187 Briganti in vista: operetta comica in due atti, libretto di Carlo Liberto, musica di Ettore Lucia, Padova, Zanibon, 1937. 184 STORIOGRAFIA E USO PUBBLICO DEL GRANDE BRIGANTAGGIO NELL’ITALIA REPUBBLICANA Carlo Spagnolo ©UNICOPLI Obiettivo di questo contributo è offrire un quadro generale della storiografia repubblicana sul “grande brigantaggio”, termine con cui si designa un peculiare miscuglio di rivolta, reazione, guerriglia, violenza organizzata e criminalità che accompagna il crollo del Regno di Napoli e la sua annessione nel Regno d’Italia. Non affronteremo quindi, se non per accenni, la storiografia che ha trattato del fenomeno del brigantaggio nel lungo periodo né i precedenti delle bande dal 1799 in poi, sia per esigenze di spazio sia per sottolineare le peculiarità del grande brigantaggio. Esso muove i primi passi all’indomani del successo della spedizione garibaldina, dall’inverno 1860-1861, esplode nei primissimi anni dello Stato unitario tra 1861 e 1863, e trova risposta in una repressione avviata nel 1861 che conduce alla sua eliminazione tra 1864 e 1867, sebbene strascichi persistano fino al 1870. Così inteso, il grande brigantaggio non è separabile dal tema generale dell’Unificazione italiana: dalle sue sorprendenti modalità rivoluzionarie, dai suoi caratteri sociali, dalle sue ispirazioni ideali, dalle sue difficoltà internazionali e soprattutto dal ruolo assunto dal Mezzogiorno nello Stato unitario e nell’assetto europeo. In primo luogo, l’esplosione del grande brigantaggio all’indomani del crollo del Regno di Napoli resta un problema storico complesso: perché in quella fase un fenomeno preesistente assume caratteri nuovi e per certi versi di massa? La storiografia ha richiamato nel tempo molti fattori, quali il carattere dirompente del crollo dello Stato borbonico, il più antico e grande degli Stati italiani preunitari, l’impatto rivoluzionario di uno Stato di diritto liberale, il contrasto tra vecchi e nuovi poteri sul monopolio della forza, la presenza di un conflitto sociale attorno alla proprietà terriera. La complessa trama di quella storia si dipana lungo molti fili (la storia delle istituzioni, quella delle relazioni internazionali, la storia politica e religiosa, quella economica e sociale ecc.), tanto che questo contributo sulla storiografia del brigantaggio può fornire soltanto un panorama assai parziale degli studi. Le scelte selettive che lo guidano solleveranno obiezioni da parte degli specialisti, per le lacune inevitabili che ne risultano, specialmente sul crollo del Re- ©UNICOPLI 66 Carlo Spagnolo gno delle Due Sicilie1. Esso assume comunque il carattere di una traccia di lavoro, e non di una compiuta rassegna, che richiederebbe una diversa profondità, in quanto il suo primo obiettivo è colmare l’assenza da circa trent’anni di uno sguardo di insieme, a fronte della disponibilità di molti nuovi contributi analitici2. Un secondo, forse più urgente, obiettivo sta nell’esigenza di superare la falsa contrapposizione tra una storiografia pura, scientificamente asettica, e un uso pubblico del passato in cui tutto è lecito. Comunque, nel fornire ai lettori una bussola che possa orientarli nella lettura di quasi ottant’anni di dibattito, abbiamo cercato di individuare quanto le dinamiche della migliore ricerca storica sul tema siano state segnate dal dibattito pubblico, sino ai giorni nostri. La perdita dei canali di comunicazione tra la storiografia e la politica, che aveva caratterizzato le fasi più intense della discussione, non significa che la storiografia odierna non sia, a sua volta, connotata; significa piuttosto che essa rischia oggi di cadere nella tentazione postmoderna di considerare tutte le narrazioni tra loro equivalenti, di inseguire le mode e di condannarsi così alla marginalità culturale. Un segnale di questo rischio si è manifestato con la tracimazione delle memorie dagli argini della ricerca storica, a seguito di una radicalizzata protesta meridionale che ha visto, sin dalle celebrazioni del 150° dell’Unificazione, e ancor più tra le elezioni parlamentari del 2013 e quelle del 2018, una contestazione delle narrazioni patriottiche e un clamoroso spostamento del voto meridionale sulla Lega e sul Movimento 5 Stelle. Della contraddittoria natura di quest’ultimo movimento, che si dichiarava né di destra né di sinistra, faceva parte un confuso sentimento di rivendicazione di un passato del Mezzogiorno diverso, centrato proprio sul brigantaggio: come se ognuno potesse scegliere il proprio passato e le proprie identità, con una traslazione della libertà dei consumatori al mercato del passato. Il rapporto conflittuale con la cultura nazionale, e con la storiografia, che queste attitudini rivelano è un sintomo di alcuni problemi del presente, che poco hanno a che fare con la storia e molto con una idea falsata della ricerca e con la riesumazione di defunte “narrazioni ufficiali” che la Repubblica democratica aveva superato. Dare conto di quest’uso pubblico implica qualche rischio di semplificazione di una letteratura che procede anche per vie interne, e di rigidità nella periodizzazione che avanziamo, segnata da tre momenti di svolta che conviene qui anticipare a beneficio del lettore. Nella prima parte tratteremo del dibattito storiografico apertosi dal 1945 fino all’incirca all’inizio degli anni Ottanta: dibattito 1 Rinvio per una bibliografia su questi temi a Anna M. Rao, Mezzogiorno e rivoluzione: Trent’anni di storiografia, “Studi storici”, XXXVII, n. 4, ott.-dic. 1996, pp. 981-1041; e a John A. Davis, Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale, ivi, XXXIX, n. 2, aprile-giugno 1998, monografico su Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, pp. 603-622. 2 La principale eccezione è Alessandro Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, “Le carte e la storia”, n. 2, 2015, pp. 32-39. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 67 che è stato ricchissimo al punto da individuare filoni poi non del tutto percorsi e che prosegue anche nei decenni successivi. Nella seconda affronteremo le nuove linee emerse dal linguistic turn negli anni Ottanta, recepite da una storia culturale che si avviava mentre la fine del bipolarismo e la crisi italiana dei partiti di massa suscitavano nuove domande sulla nazione, sulle identità nazionali e locali, sulle appartenenze e sul rapporto tra centri e periferie. Si tratterà inoltre il nesso tra brigantaggio e guerra civile, categoria cui alla fine del secolo XX nei media e in una parte significativa della storiografia viene dedicata rinnovata attenzione. Nella terza parte dedicheremo alcune osservazioni al recente dibattito sull’uso pubblico del brigantaggio, suscitato dalle celebrazioni del 2011 e dalle due delibere del 2017 del Consiglio regionale pugliese e di quello lucano. 1. La storiografia dal 1945 agli anni Ottanta La storiografia repubblicana, almeno quella di orientamento democratico e antifascista, all’indomani della Liberazione doveva innanzitutto affrancarsi dall’interpretazione della guerra al brigantaggio offerta da Alfredo Rocco nel suo discorso alla Camera del 9 novembre 1926, quando presentò le leggi eccezionali sulla difesa dello Stato con le quali si inaugurava la dittatura. Il brigantaggio fu utilizzato dal fascismo come fonte di legittimazione storica, e l’intero apparato della legislazione d’eccezione venne assimilato da Alfredo Rocco al precedente della legge Pica: Dopo il 1860 si ebbe in Italia una situazione del tutto simile alla presente, contro il nuovo regime gruppi di avversari irriducibili rifugiatisi fuori dal confine dello Stato ordinano congiure organizzando il brigantaggio. Ebbene gli uomini di governo di quel tempo che pur si professavano liberali non si peritarono di far approvare dal parlamento quella legge Pica che costituì lo strumento più efficace della vittoria che il nuovo stato riportò contro la reazione borbonica. La legislazione del 1926 costituì uno straordinario, e troppo spesso trascurato, precedente delle leggi razziali. Essa escludeva dalla cittadinanza i nemici dello Stato, identificati negli antifascisti. Il regime fascista si fondava da allora su una cittadinanza esclusivista, specchio di una italianità fascista. Si anticipava con quel criterio di purezza ideologica la selezione ancorata poi dal 1938 alla razza. Ne conseguiva una lettura selettiva della storia nazionale, attorno alla dicotomia amico/nemico. Al nemico interno del 1926 si trovava un precedente nel legittimismo borbonico, di cui il brigantaggio diventava braccio armato, e la legge Pica veniva assunta come legge di eccezione, strumento repressivo per processi sommari, da adottare a modello per la dittatura. Ci si voleva appropriare della tradizione risorgimentale e liberale, svuotandola del suo nucleo più vitale, ©UNICOPLI 1.1 Il brigantaggio come questione politica e sociale Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 68 quello della libertà e dei diritti. Se la dittatura contro il nemico interno era stata ammissibile in condizioni di eccezione già all’indomani dell’Unità, e se i liberali avevano da sempre fatto convivere stato di diritto e stato di eccezione, che male ci sarebbe stato a votare le leggi del 19263? La storiografia della Repubblica non poteva che prendere nettamente le distanze da quell’impianto, rigettare l’accostamento tra brigantaggio e antifascismo, e ripensare il brigantaggio come moto non riducibile al legittimismo. La fondazione della democrazia richiedeva una rinnovata interrogazione storiografica sulle radici e sulla tenuta dello Stato unitario. Nuovi interrogativi si affollavano all’indomani del 1945: gli eventi attraverso cui era passata l’Italia in guerra non avevano forse qualche legame con il Risorgimento? La divisione in tre dello Stato italiano dal 1943 al 1945 e i coevi moti indipendentisti siciliani non richiamavano le vicende dell’Unificazione italiana? Dal 1945 agli anni Settanta sono due le grandi questioni intorno a cui ruotano gli studi: a) se il brigantaggio fosse un moto sociale agrario, analogo in qualche misura ai grandi moti contadini di occupazione delle terre occorsi dopo l’8 settembre 1943, specie quelli esplosi dal 1945 al 1947. L’interrogativo era biunivoco, se cioè la storia del brigantaggio aiutasse a cogliere le ragioni della grande mobilitazione contadina dell’immediato post-1943 e viceversa se le vicende delle occupazioni delle terre e delle violenze occorse non avessero qualche legame con la crisi del 1861-1866. Questione contadina e questione unitaria come si collegavano? b) se ci fosse un nesso tra le modalità tragiche della repressione del brigantaggio e la tendenza dello Stato liberale verso uno stato autoritario; ossia se la legge Pica del 1863 avesse aperto la strada ad una tradizione di “Stato di eccezione” e quindi alle leggi eccezionali del 1926. Attorno a questi due nodi si dispiega la discussione aperta nel 1945 da Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli, libro che ebbe un enorme successo, in cui il brigantaggio e le sue memorie venivano ripetutamente evocate come una questione ancora viva nella comunità lucana in cui Levi aveva trascorso il confino: Non intendo qui fare un elogio del brigantaggio, come pare sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e “progressista”, quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente nella sua realtà di guerra, fomentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa (…). Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno ad intenderlo. (…) È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non Sia detto di sfuggita, l’unica voce contraria in Senato fu levata dal giurista conservatore Gaetano Mosca, di cui Alfredo Rocco era stato allievo, il quale rigettò anche la lettura della storia risorgimentale proposta dal Ministro. Per un approfondimento si rinvia al contributo di Enzo Fimiani in queste pagine, pp. 41-42. 3 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 69 conosce che la morte (…) La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta4. Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945, pp. 129-130. Il libro di Levi è la vera novità rispetto ad una discussione sul Mezzogiorno che si riavviava allora dopo essere stata interrotta con la forza nel 1926. Nel 1945 viene ripubblicato da Einaudi il libro di Guido Dorso, La rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia, Torino, Gobetti, 1925, nel quale si partiva dalla borghesia agraria, e priva di cultura democratica, del Mezzogiorno come pilastro e limite del fascismo, che avrebbe costretto il regime a scelte trasformiste. Le tesi di Dorso, che innovavano profondamente rispetto a precedenti studi, guardavano alle classi dirigenti e possono essere assunte retrospettivamente come un riferimento dell’azionismo; tuttavia furono accolte con serie riserve sul “Quarto Stato” da Tommaso Fiore con lo pseudonimo Ulenspiegel perché davano troppo peso al Sud e troppo poco credito al socialismo operaio settentrionale. Furono certamente parte del dibattito delle sinistre antifasciste repubblicane e un loro comune riferimento. In seguito sono state spesso erroneamente confuse con quelle di Gramsci, delle quali tratteremo a parte. (Cfr. Francesco M. Biscione, Gramsci e la “questione meridionale”. Introduzione all’edizione critica del saggio del 1926, “Critica marxista”, n. 3, 1990, pp. 39-51 e l’edizione critica di Antonio Gramsci, Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici (1926), ivi, pp. 51-78. Nello scritto del 1926, che circolò clandestinamente dopo la pubblicazione in “Stato operaio” nel 1930, Gramsci attaccava duramente le leggende antimeridionali, fondate sulla antropologia dell’arretratezza, importate nel movimento socialista settentrionale dai «reduci della guerra contro il “brigantaggio” nel Mezzogiorno e nelle Isole» (cfr. ivi, pp. 55-56). 6 Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, cit., p.133. 4 5 ©UNICOPLI Il giudizio di Levi, che parlava di un mondo contadino immobile e fuori dalla storia per secoli, non poteva essere accolto tanto facilmente dagli intellettuali dell’epoca a partire dagli anziani meridionalisti come Dorso, Salvemini e Nitti per finire ai giovani storici come Romeo, Giarrizzo e Galasso convinti invece che il mondo contadino aveva vissuto una sua profonda trasformazione nel corso della modernità5. Soprattutto non convinceva, per la storiografia di impronta azionista, liberale e democratica, lo stereotipo di un mondo rurale fuori dal tempo e dalla politica e pertanto condannato a rimanere subalterno anche quando la democrazia, in via di costruzione tra il 1945 e il 1947, stava finalmente offrendo nuove opportunità per incanalare i contadini dentro le istituzioni. Col senno di poi, si potrebbe dire che quella fu un’occasione mancata per un dialogo, e che gli storici di quella generazione non intesero fino in fondo le sfumature di metodo e interpretative insite nella narrazione di Levi, laddove avvertiva che «il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria...»6. Quella indicazione, inattuale per la sua epoca, suggeriva una chiave di lettura che non è stata seriamente ripresa dagli studi, ossia l’eterogeneità degli obiettivi dei briganti sia rispetto alle forze legittimiste sia rispetto ai garibaldini e ai liberali, l’assenza di obiettivi razionali e di rivendicazioni precisabili ex-post, nemmeno nel senso di obiettivi e rivendicazioni materiali ben definite. Ne risultava l’esigenza di non imporre su di loro aspettative ideologiche, e la Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 70 difficoltà di ricostruire le credenze e le motivazioni di una lotta che era stata una affermazione contingente, una rivendicazione tellurica di esistenza, un rifiuto delle ragioni di tutti gli Stati contendenti. Quel tipo di argomentazione, che oscillava tra l’antropologia e l’etnografia, pone agli storici odierni problemi di fonti e appare adesso almeno in parte attingibile con le chiavi della storia culturale: ma all’epoca rischiava di essere manipolato, o letto come impossibilità di introdurre un cambiamento in un mondo da sempre immobile, e favorire forze qualunquiste, o gli eredi del fascismo agrario, che si appellavano alla vanità di qualsiasi progettualità riformatrice. Una strada che fu decisamente respinta nel 1949 quando si avviò una, seppure parziale, riforma agraria che dava il segno di una volontà di cambiamento dei rapporti sociali ad opera dei partiti di massa. E quell’impegno della Dc, che il Psi e il Pci contestavano per la sua timidezza ma cui erano nel complesso consentanei, sanciva simbolicamente l’accesso stabile dei contadini alla proprietà privata, al quale si sarebbe poi accompagnato un progetto di integrazione sociale attraverso misure selettive di assistenza, bonifica e sviluppo attraverso la Cassa per il Mezzogiorno. Attorno all’ingresso delle masse contadine nella democrazia si apriva un memorabile dibattito storiografico sui caratteri e le ragioni del brigantaggio. Emilio Sereni nel saggio Il capitalismo nelle campagne del 1947, in cui raccoglieva saggi sparsi scritti durante la guerra, rompeva con la tradizione risorgimentale e patriottica per affermare che il brigantaggio era stato una sorta di “guerra civile”7 intendendo con guerra civile la lotta del nuovo Stato contro le vecchie classi dominanti che si avvalgono del malcontento delle masse rurali. Il brigantaggio dunque sarebbe stato un prodotto di una manipolazione delle vecchie élites meridionali a danno del popolo, un uso politico di un malcontento reale ma altrimenti privo di consistenza ideale. Per Sereni il brigantaggio era stato un prodotto dell’innesto forzato, «sul vecchio tronco feudale, delle nuove forze dello sfruttamento capitalistico e del saccheggio monopolistico»8 e della differenziazione sociale generata dallo scontro tra feudalesimo e capitalismo nelle campagne meridionali. Il grande brigantaggio era l’ultima di una lunga serie di guerre contadine: 1796, 1799, 1808, 1821, 1848 e 18609. La tesi macro di Sereni individuava un nesso diretto e persino troppo rigido tra il brigantaggio e il dualismo economico italiano ma apriva la strada ad analisi micro sull’impatto dell’unificazione nel funzionamento del latifondo, delle aziende agrarie e dell’economia contadina. Di impronta leniniana più che marxiana, conosciuta con la formula della “mancata rivoluzione agraria”, essa sottolineava che una rivoluzione democratica borghese e nazionale avrebbe potuto avere successo nel Risorgimento soltanto dando una risposta alle pressioni contadine attraverso una riforma agraria che avrebbe allargato il circuito del capitalismo. Per Sereni, la mancata rivolu- 7 8 9 Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino, Einaudi, 1947, pp. 50-51. Ivi, p. XII. Ivi, pp. XX-XXI. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 71 10 Non possiamo trattenerci su quella discussione, per ragioni di economia del discorso, quanto essa meriterebbe, per i suoi risvolti culturali e metodologici. Sereni pubblicava poco dopo Mezzogiorno all'opposizione, Torino, Einaudi, 1948, nel quale prefigurava persino una sorta di partito meridionale, che avrebbe dovuto creare un blocco sociale alternativo a quello agrario in disgregazione. Diversa la posizione di Romeo, legato al progetto liberal democratico di costruzione di una classe dirigente per un paese capitalista: cfr. Rosario Romeo, La storiografia politica marxista nel secondo dopoguerra, in “Nord-Sud”, agosto-settembre 1956; Id., Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887, ivi, luglio-agosto 1958, entrambi in Id., Risorgimento e capitalismo, Bari, Laterza, 1959. 11 Mi pare che quegli studi riprendessero quelli di impronta liberal-socialista di Antonio Lucarelli, Il sergente Romano. Notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese nel 1860, Bari, Società tipografica pugliese, 1922, poi ripubblicato con poche modifiche dopo la guerra, (Idem, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860. Il sergente Romano, Bari, Laterza, 1946) e Idem, La Puglia nel Risorgimento, vol. II, La rivoluzione del 1799, Bari, Commissione provinciale di archeologia e storia patria, 1934, pp. 59-62, il primo a mia conoscenza a sostenere l’autonomia delle rivolte popolari dal 1799 in poi, e a vedere nella adesione delle masse meridionali al legittimismo un sintomo e non una causa. ©UNICOPLI zione agraria nel Mezzogiorno aveva lasciato pesanti “residui feudali” che avevano impedito o seriamente frenato l’impianto del capitalismo moderno in Italia. Non abbiamo spazio per entrare nel dettaglio, ma merita ricordare che Rosario Romeo rilevò che Sereni aveva esposto una tesi diversa da quella di Gramsci pur ritenendo che entrambi avessero parimenti torto. Romeo si avvide che Gramsci, nell’edizione antologica dei suoi Quaderni apparsa tra 1948 e 1951, trattando del Risorgimento non aveva mai parlato di rivoluzione agraria mancata, piuttosto di errori politici dei mazziniani e dei garibaldini nella guida della spedizione dei Mille, e di una “rivoluzione passiva” che aveva emarginato politicamente le classi rurali del meridione, indebolendo tutto l’asse democratico nel paese. Per Romeo, invece, il capitalismo liberale poteva essere impiantato nel Regno di Napoli soltanto con la forza delle armi piemontesi, e per fare dell’Italia un paese capitalista avanzato quella scelta sarebbe stata l’unica strada percorribile. Magari la transizione avrebbe potuto essere gestita più accortamente e il problema, dal suo punto di vista, fu la morte prematura di Cavour10. Sul tronco di quella discussione politica oltre che storiografica, sul Mezzogiorno e sul nuovo meridionalismo, si innestarono negli anni Cinquanta i primi studi locali sul brigantaggio di Raffaele Colapietra, Alfonso Scirocco, Tommaso Pedio, Rosario Villari e altri studiosi i quali riprendendo lavori avviati prima del 1945 guardavano alla specificità del brigantaggio in Abruzzo, nelle Puglie, in Basilicata11. La loro chiave di indagine era la stratificazione sociale, per cui guardavano con metodo comparativo alle differenze tra la Sicilia antiborbonica e il Mezzogiorno continentale per spiegare l’assenza di un serio fenomeno di brigantaggio in Sicilia al momento del crollo del Regno di Napoli nel 1860. Sia Romeo sia Giarrizzo sia Villari intorno al 1950 attribuivano al conflitto tra l’aristocrazia siciliana e la corte napoletana un peso determinante nel crollo del legittimismo borbonico e inquadravano il caso della Sicilia come tertium comparationis tra Napoli e Torino. 72 Carlo Spagnolo Negli anni Cinquanta si delineavano così tutte le principali interpretazioni del brigantaggio che sono ancora oggi in campo: ©UNICOPLI a) un fenomeno sociale “arretrato” di lungo periodo, manipolabile dalla reazione legittimista che promuove bande criminali 12; b) un fenomeno culturale, legato alle idee e alle rappresentazioni della nazione napoletana e del legittimismo borbonico più che alla mera questione sociale; c) una “guerra sociale”, ossia una esplosione di rivendicazioni di varia natura, al cui fondo, oltre alla contingenza del crollo dello Stato borbonico, o all’opposizione al dominio piemontese, si rivelano conflitti sociali pregressi, risalenti all’eversione della feudalità13. La seconda di queste tre interpretazioni, o piste di ricerca, apparve promettente ad alcuni storici emergenti, convinti dell’insufficienza di spiegazioni prettamente di classe. Nel 1950 sulla rivista “Società” il giovane Franco Della Peruta pubblicò, con uno scarno commento, alcune lettere inedite di Diomede Panteleoni a Marco Minghetti in cui si descrivevano le catastrofiche condizioni igienico-sanitarie e alimentari della popolazione durante il crollo del Regno di Napoli. Da quelle epistole si poteva evincere una estraneità tra i cafoni napoletani e i liberali piemontesi ma anche trarre una spiegazione delle rivolte contadine del 1860 che sarebbero poi andate ad alimentare il grande brigantaggio nemmeno un anno dopo. Paolo Alatri avrebbe proseguito lo scavo documentario su Diomede Pantaleoni e nel 1956 avrebbe proposto una chiave di lettura culturale delle rivolte legata alla sordità della cultura moderata ai bisogni dei contadini meridionali14. Tra 1950 e 1956 stavano apparendo, nelle stesse riviste, gli articoli di Ernesto De Martino che proponevano chiavi più complesse di accesso alle culture dei contadini meridionali, per la prima volta collegate a riti religiosi e a concezioni precristiane. Vi si poteva vedere qualche assonanza con tesi esposte da Croce nel 1927, quando il filosofo aveva preso le distanze dalla riconduzione del brigantaggio alla Vandea francese, ma sia Croce sia i suoi critici guardarono con diffidenza alle tesi di De Martino perché rischiavano di rinviare ad un remoto substrato culturale il problema della mancata partecipazione politica allo Stato unitario. Negli anni Cinquanta non a caso si avviò inoltre la nota ricerca sul 12 Quella tesi tradizionale, ripresa da Croce, venne riarticolata, con spunti innovativi sul ruolo della borghesia, da Gino Doria, Per la storia del brigantaggio nelle province meridionali, “Archivio storico delle province napoletane”, n.s., XVII, 1931, p. 388. 13 Giorgio Candeloro, La nascita dello Stato unitario,“Studi storici”, I, n. 3, aprile-giugno 1960, pp. 445-471, poi in Id., Storia dell’Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 175 e 203-210. 14 Franco Della Peruta, Cinque lettere inedite di Diomede Pantaleoni sulla questione meridionale, in “Società”, VI, 1950, 1, pp. 69-94; Paolo Alatri, Le condizioni dell’Italia meridionale in un rapporto di D. P. a Marco Minghetti (1861), in "Movimento operaio", V, 1953, n. 5-6, pp. 750-792; Id., Il Mezzogiorno all’indomani dell’unificazione in una relazione inedita di Diomede Pantaleoni, in “Rassegna storica del Risorgimento”, XLII, 1955, n. 2-3, pp. 165-179. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 73 Furono Tommaso Pedio e Raffaele Colapietra ad avviare, sin dagli anni Cinquanta, studi locali sul brigantaggio in Basilicata, Calabria e Puglia, da cui emergeva una critica alla tradizionale interpretazione liberale-piemontese che faceva del brigantaggio un fenomeno esclusivamente criminale e di delinquenza comune che sarebbe stato strumentalizzato ai fini della restaurazione legittimista dalle aristocrazie filoborboniche. Riprendendo spunti offerti da Gaetano Salvemini e da Guido Dorso, Pedio vedeva un’autonomia delle rivolte contadine, mosse da loro specifiche rivendicazioni relative all’uso delle terre comuni, agli usi civici (legnatico, pascolo, raccolta di erbe, transito, ecc.) e alla appropriazione da parte dei nuovi ceti proprietari di pascoli e terreni prima semigratuiti. Non 15 Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976 (ed. or. 1958). 16 Ruggero Moscati, La fine del Regno di Napoli, Firenze, Le Monnier, 1960; Domenico Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, vol. I, La struttura sociale, Napoli, Università degli studi di Napoli, 1960; Antonio Saladino, L’estrema difesa del Regno delle Due Sicilie, Napoli, Società di storia patria, 1960; Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Bari, Laterza, 1961; Id., Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Bari, Laterza, 1961. In quello stesso periodo Pasquale Saraceno avviava una grande raccolta di statistiche storiche sul Mezzogiorno, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dalla unificazione politica, in Id., L’economia italiana dal 1861 al 1961: studi nel primo centenario dell’Unità d’Italia, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 692-715. ©UNICOPLI familismo di Banfield che, spinto dalla lettura di Carlo Levi, scelse un paesino vicino a Eboli come caso di studio dell’arretratezza delle campagne meridionali15. Per un antropologo come Banfield e poi più compiutamente per Denis Mack Smith, il brigantaggio era espressione di quella arretratezza morale che albergava nelle profondità dell’Italia, rilevata da molti aristocratici inglesi nell’Ottocento. La storia d’Italia aveva un problema irrisolto nel Mezzogiorno familista, amorale e arretrato. Non si trattava in fondo di una spiegazione indiretta delle diversità del fascismo italiano rispetto al nazionalismo tedesco che da Lutero portava a Hitler? La capacità di indagine della storiografia anglosassone veniva incanalata su una tesi precostituita che identificava fascismo con arretratezza, ossia con l’assenza di modernità. Negli stessi anni e con maggior spessore Rosario Villari e Giuseppe Giarrizzo respinsero le tesi di Banfield e di Mack Smith, suggerendo che il brigantaggio era l’espressione di un misto di deprivazione, criminalità e lotte sociali, pur sempre nel quadro di accelerata costruzione di uno Stato moderno. Con le celebrazioni del Centenario dell’Unità nel 1961 il tema tornò all’attenzione del pubblico e gli storici innovarono profondamente il loro approccio. Per la prima volta si inquadrò allora l’Unificazione in una prospettiva non solo politica e si allargò lo studio ai divari economici e sociali, sulla spinta di una “questione meridionale” insoluta a dispetto del boom economico. Ci si interrogava allora sulle persistenze di lungo periodo, amministrative, fiscali e feudali, che potevano aver prodotto il divario16. Carlo Spagnolo 74 ©UNICOPLI quindi un brigantaggio legittimista ma lotte specifiche legate alla trasformazione delle economie agrarie e della pastorizia17. Col centenario dell’Unità il brigantaggio ebbe una rinnovata risonanza e Pedio, assieme ad altri studiosi avviò allora la pubblicazione di fonti memoriali dei briganti a partire dell’autobiografia di Carmine Crocco, del legittimista spagnolo Borjès e di altre fonti documentarie come l’inchiesta Massari, inoltre dava avvio a una collana di studi su “briganti e galantuomini” presso l’editore Lacaita. In qualche misura cominciava allora una popolarizzazione del brigante, che può essere collegata alle aspettative suscitate dal tentativo riformista del centro-sinistra, che si stava allora varando, di allargare le maglie della democrazia e incorporare finalmente nella narrazione della storia unitaria anche il proletariato agrario. La prossimità tra i fatti di Genova dell’estate 1960, il centenario dell’Unità e l’avvio del centro-sinistra ampliavano l’arco degli interrogativi e dividevano gli intellettuali di sinistra tra i sostenitori dell’autonomia contadina, in analogia alle tesi di Panzieri sulla autonomia operaia, e i sostenitori dell’emancipazione del proletariato attraverso i partiti. Si intrecciava così sul terreno storiografico una discussione politica sul riformismo e sulla funzione dei partiti. A ridosso di quel dibattito, nel 1964, dopo due robusti articoli apparsi nel 1960 e 1961 nella neonata rivista dell’Istituto Gramsci, “Studi storici”, Franco Molfese licenziava la prima seria e ampia storia del grande brigantaggio dopo l’Unità18. Il suo lavoro resta tuttora il principale riferimento degli studi, a cui Pedio fu uno studioso molto attivo sul tema dell’Unificazione e del brigantaggio, a cui dedicò più di una quindicina di monografie a partire dagli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Novanta. Egli sviluppò attorno al caso della Basilicata la tesi di una adesione opportunista dei “galantuomini” al movimento unitario e di un loro uso strumentale dei movimenti contadini, che nel 1861-1863 col brigantaggio avrebbero assunto i tratti di una guerra civile. Cercò di sottrarre il brigantaggio allo stigma di mero fenomeno criminale, recuperandone le autonome ragioni “anarcoidi”. Fu tuttavia lontano dalle tesi successive di denuncia dell’occupazione piemontese e invece incline a una generica condanna morale dei “manutengoli” e dell’opportunismo di tutti i ceti della società meridionale, inclusi i contadini: «nella speranza di conquistare la terra e di vincere la miseria e la fame, i contadini meridionali insorgono assumendo, come propria bandiera, quella che il nuovo regime aveva abbattuto. (…) In tal modo quella che era sorta come inconsueta lotta di classe del povero contro il ricco, assume gli aspetti di una controrivoluzione e di una agitazione armata diretta alla restaurazione dell’antico regime”. Il suo approccio sociologista adottava uno schema dualistico del tipo ricchi/poveri e venne perciò tacciato di populismo. Tommaso Pedio, Vita politica in Italia Meridionale, Napoli, La Nuova Libreria editrice, 1966, p. 25. Cfr anche Id., Giacobini e sanfedisti in Italia meridiaionale, Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799, Bari, Adriatica, 1974, e Idem, Brigantaggio e questione meridionale, a cura di Mario Spagnoletti, Bari, Levante, 1979: e Mario Spagnoletti, Studi e ricerche di Tommaso Pedio: Mezzogiorno e Storia, impegno culturale e civile d’un quarantennio: 1940-1979, Bari, Levante, 1980. 18 Franco Molfese, Il brigantaggio meridionale post-unitario: I. Le “Reazioni” dell’autunno 1860-inverno 1861, “Studi storici”, I, n. 5, ott. - dic. 1960, pp. 944-1007 e II. La rivolta contadina del 1861, ivi, II, n. 2, aprile-giugno 1961, pp. 298-362; Id., Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964. 17 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 75 19 Note di Giustino Fortunato sulle reazioni di Pontelandolofo e Casalduni, “Cronache meridionali”, 1956, p. 381 sgg. 20 Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, cit., p. 402. 21 Id., Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino (1860-1861), “Nuova rivista storica”, 1960, n. 1, pp. 1-53. ©UNICOPLI ancora oggi possono attingere tutti coloro che si occupano del grande brigantaggio. Non è possibile sintetizzare qui un libro di quasi cinquecento fittissime pagine. Se ne segnalano soltanto le tesi principali e alcuni aspetti più innovativi. Molfese allargava l’ambito metodologico in cui si era mossa la storiografia precedente, da Croce a Cesari e Ciasca, per includere il brigantaggio nella storia generale della società meridionale. La maturità di quell’impostazione si percepisce a distanza di sessant’anni, in quanto nessuno dei saggi successivi ha poi provato a cimentarsi con la stesso ambito di questioni. Mentre la precedente storiografia oscillava tra la denuncia del degrado morale del Mezzogiorno e la ricerca di una reazione borbonica, egli avviò una analisi della società meridionale e dei suoi rapporti con il governo piemontese. Si sgombrava il campo da interrogativi parziali, ristretti alla strumentalizzazione dall’alto del brigantaggio da parte borbonica o piemontese, o alla denuncia morale delle classi dirigenti locali, su cui insisteva Pedio, per guardare al brigantaggio come fenomeno interno alla società meridionale. Era un’impresa invocata da Giustino Fortunato sin dal 1919 e ripresa successivamente in chiave di lungo periodo da Rosario Villari, che fu condotta con notevole ampiezza ma non del tutto risolta nel libro, perché un po’ soffocata dalle categorie politiche a cui quella società veniva ricondotta19. Questo limite, su cui torneremo, lasciò alcune questioni irrisolte proprio sul terreno più innovativo, ossia la comprensione della complessa articolazione della società meridionale, e forse per questo non bastò a spostare l’asse prevalentemente politicista, mantenuto dalla storiografia successiva. Il problema nasceva dall’interrogativo su cui ruotava gran parte della sua narrazione: come mai «il grande favore borghese e popolare che nel 1860 aveva salutato l’avanzata garibaldina nelle province meridionali ed aveva reso possibile l’improvviso crollo della monarchia borbonica, appena un anno più tardi si fosse tramutato in un malcontento che raggiungeva tutti gli strati della società meridionale»20. La domanda sorgeva dall’esito di una sua precedente ricerca sulla spedizione garibaldina, da cui traeva l’osservazione di una diffusa sollevazione popolare che aveva scosso le basi del Regno delle due Sicilie, ma costringeva l’analisi fattuale entro una dicotomia rivoluzione/reazione, e sottovalutava l’ipotesi che già durante la spedizione garibaldina ci fossero pulsioni anarchiche e reazionarie e gravi fratture interne alle classi dirigenti e al popolo21. Al contempo essa metteva sotto osservazione i rapporti tra brigantaggio e politica moderata liberale a partire dal trionfale ingresso di Garibaldi a Napoli nel settembre 1860. Così Molfese isolava l’esplosione del brigantaggio occorsa dalla fine del 1860 al 1864, tra il crollo del regno delle Due Sicilie e la nascita del regno d’Italia, ©UNICOPLI 76 Carlo Spagnolo spingendosi fino all’esaurimento del fenomeno, attorno al 1867-1870. Molfese, che era vice-direttore della biblioteca della Camera dei deputati, si basò sulla documentazione inedita della commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, sull’archivio del Comando militare di La Marmora e sulla documentazione dei tribunali militari, raccolse una grande quantità di opuscoli e notizie locali, intrecciò fonti militari e corrispondenze dei protagonisti dell’unificazione. Molfese è stato il primo a spiegare la guerra dei briganti e su quella base a delineare le strategie militari e politiche di risposta del regno di Sardegna prima e del regno d’Italia poi. La sua tesi, semplificando al massimo, è che il grande brigantaggio nacque alla vigilia del crollo del Regno delle Due Sicilie come “grande rivolta contadina”, avviatasi già prima dell’arrivo dei Mille, e allargatasi per le aspettative di giustizia sociale e riforma agraria generate dalla spedizione garibaldina. Alle spalle della rivolta sarebbe stato il lungo conflitto sulla formazione della proprietà privata avviato dalla eversione della feudalità e dal decennio francese, a cavallo tra 1799 e 1815, che aveva lasciato in sospeso i diritti giuridici degli usi collettivi e della proprietà. Il conflitto si sarebbe trascinato per tutto il sec. XIX, nonostante alcuni tentativi di affrontarlo nel 1848, giungendo irrisolto al 1860. La “grande rivolta contadina” contro i possidenti nasce a suo avviso in quel momento senza una guida politica e viene contesa durante il crollo del regno delle due Sicilie fra tre soggetti in conflitto la cui prevalenza segna tre fasi diverse della guerra di unificazione nazionale: 1) il primo è la rivoluzione liberale e democratica garibaldina che si dispiega da maggio a ottobre 1860; 2) il secondo è la reazione militare borbonica che prende le mosse da ottobre 1860 con la riorganizzazione dell’esercito napoletano sulla linea del Volturno e la difesa di Gaeta, con l’appoggio dello Stato pontificio. 3) il terzo è lo Stato sardo-piemontese a guida moderata e conservatrice che con l’intervento militare dal settembre 1860 assume, specie dopo la morte di Cavour, un indirizzo più antidemocratico che antiborbonico, al punto da giungere a compromessi tra vecchie e nuove classi dirigenti in chiave antidemocratica. La lotta politica tra quei tre soggetti avrebbe comportato, oltre alla sconfitta dell’ala garibaldina, la delusione delle richieste contadine sull’uso della terra e dei pascoli (non soltanto per i terreni demaniali ma anche per quelli privati), sulla rendita agraria, sul fisco. I contadini meridionali avrebbero visto già durante la dittatura garibaldina il tentativo dei proprietari “borghesi” di consolidare i diritti di proprietà, acquisiti a volte abusivamente a danno dei diritti comuni, e un conflitto tra gruppi dirigenti locali sull’assetto dei diritti di proprietà. Alla sordità sia garibaldina sia piemontese alle istanze contadine consegue, per Molfese, una reazione popolare scomposta contro i proprietari e le classi dirigenti locali che da settembre 1860 viene alimentata e sostenuta dalla reazione filoborbonica appoggiata dai vertici della Chiesa cattolica, confluisce nella formazione di bande armate e apre una fase di duro conflitto armato specialmente nelle aree interne montuose prossime ai territori di Ariano Irpina, Capua, Gaeta Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 77 Id., Il brigantaggio meridionale post-unitario I., cit., pp. 958-959. Nell’articolo del 1961, Molfese spiegava già che tra novembre 1860 e il marzo 1861, vicende diplomatiche, ambiguità dei Francesi e tolleranza dello stato pontificio consentirono, sul piano militare, alle truppe borboniche di riparare nel territorio pontificio e da lì promuovere incursioni armate, oltre a dare un primo sostegno alle bande di briganti esistenti, nel tentativo di fomentare il disordine e rovesciare l’esito della guerra: «Su quel territorio relativamente angusto, coincidente oramai soltanto con la regione laziale, si erano infatti concentrate ragguardevoli forze armate, costrette alla ritirata e allo sconfinamento dalla vittoriosa campagna centro-meridionale dell’esercito sardo». A Terracina riparò a novembre 1860 «il corpo d’esercito borbonico comandato dai generali Ruggero, Palmieri e Gronet, composto di circa 12.000 uomini bene inquadrati ed armati (…) Quasi negli stessi giorni, il Klitsche de Lagrange sgombrava con i resti delle sue torme eterogenee la Marsica e la val Roveto e cercava riparo nel territorio pontificio dalla parte di Isoletta. Nel mese di dicembre, poi, sbarcarono a Terracina circa 10.000 uomini congedati dai migliori reggimenti della guarnigione di Gaeta, destinati, però, a raggiungere subito le loro sedi nel Mezzogiomo. A tutte queste forze, già di per sé consistenti, erano da aggiungere i resti dell’esercito pontificio disfatto a Castelfidardo, nonché i volontari legittimisti che affluivano da varii paesi di Europa, e specialmente dal Belgio, dalla Francia, dalla Spagna e dalla Baviera, spinti da sete di avventura non meno che dal desiderio di battersi per la causa del trono e dell’altare». Id., Il brigantaggio meridionale II: la rivolta contadina del 1861, cit., p. 299. 22 23 ©UNICOPLI e alle zone settentrionali del Regno di Napoli, confinanti col Regno della Chiesa e ancora sotto l’influenza del legittimismo, in Terra di Lavoro, nel Sannio, in Molise e in Abruzzo, e nel nord della Puglia: «al momento dell’intervento dell’esercito sardo nel Mezzogiorno, l’impresa garibaldina era oramai giunta ad un punto estremamente critico perche i contadini si andavano sollevando contro la rivoluzione unitaria un po’ dappertutto»22. Molfese sottolineava gli errori dello Stato sabaudo nella conduzione della guerra di unificazione che avrebbero favorito la nascita del grande brigantaggio: - la rivolta contadina viene sottovalutata nella sua autonomia, innanzitutto dai garibaldini e poi dai comandi militari piemontesi, che non daranno ascolto alle proposte dei democratici meridionali per la quotizzazione delle terre demaniali ed ecclesiastiche. - tra settembre 1860 e gennaio 1861, all’indomani dell’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli, la rivolta sociale si dispiega nel Mezzogiorno continentale, sospinta dall’aristocrazia borbonica che punta all’isolamento di Napoli e alla sua riconquista. Le forze militari sabaude sono impreparate a reprimerla e per di più sciolgono le truppe garibaldine che avrebbero potuto mantenere l’ordine. In contemporanea i comandi piemontesi sono impreparati a fronteggiare i tentativi di riscossa e le azioni di disturbo delle truppe borboniche e di quelle pontificie che provano a riorganizzarsi23. - Le inattuate minacce di dissoluzione degli enti ecclesiastici, avviate dalla estensione della legislazione piemontese al nuovo Regno, coi decreti Mancini del 17 febbraio 1861, non soltanto non servono a conquistare consenso tra i contadini che ne avrebbero potuto beneficiare ma portano il basso clero ad allinearsi alle posizioni reazionarie dell’episcopato e a sostenere la causa legittimista. Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 78 - Infine tra febbraio 1861, alla caduta definitiva del Regno di Napoli, e maggio 1861 la luogotenenza Pallavicini commette l’errore capitale di chiamare alla leva generale 40.000 soldati producendo, per reazione, una renitenza di massa che, col sostegno del clero, porta alla macchia un numero imprecisato di giovani meridionali assieme agli sbandati ex soldati borbonici e a pezzi del disciolto esercito volontario garibaldino. Secondo le stime di Molfese, tra i 50.000 garibaldini in armi a inizio 1861, circa tre quinti erano meridionali, ossia circa 30.000 uomini si trovarono in condizioni di difficoltà materiale, di delusione e di rabbia contro le nuove forze dirigenti, a cui vanno sommati gli sbandati dell’esercito borbonico e i giovani chiamati alla leva. Così tra febbraio e giugno 1861 si ingrossarono enormemente le fila di bande in cui si mescolavano rivoltosi, ex galeotti, criminali, sbandati e renitenti che non vedono alternative alla macchia. Nonostante l’ormai definitiva sconfitta del Regno delle Due Sicilie, i comandi politici e militari piemontesi, considerando traditori i renitenti, consegnano alla resistenza filoborbonica una massa armata di soggetti eterogenei che alimenta insorgenze diffuse. Tra giugno 1861 e dicembre 1861 si avvia allora la grande repressione militare che non distingue le varie componenti in lotta e le derubrica tutte nella categoria di briganti, anche perché le categorie giuridiche dell’epoca prevedevano il reato di banda armata per qualsiasi gruppo di almeno tre persone armate, fosse pure di soli forconi. Condotta con forze militari insufficienti e affidata al comando del generale Cialdini, la repressione sarà durissima e affidata non di rado ad esecuzioni sommarie. Molfese era consapevole delle possibili obiezioni alla sua tesi di una latente rivolta contadina e riconosceva che «la partecipazione attiva degli strati intermedi contadini (…) fu in generale effimera, non si allargò e non si unificò mai neppure su scala provinciale». Tuttavia sosteneva che «se questi strati sociali, oscillando tra speranze, delusioni e rancori, connessi precipuamente con le vicende delle operazioni demaniali, non scesero apertamente in campo in favore del brigantaggio, gli fornirono in generale, almeno fino al 1863, un appoggio coperto, largo, incessante multiforme, attivo e non sempre interessato, che, seppur non da solo, può spiegare la persistenza delle bande, il loro rinascere dopo colpi durissimi, il loro costante vantaggio della sorpresa, e d’altra parte, l’isolamento» delle truppe piemontesi24. Era un punto ambiguo della sua ricostruzione che avrebbe richiesto ulteriori specificazioni e sollevato critiche di una parte della storiografia. Le bande dei briganti non avevano mai mostrato alcuna attenzione alle questioni demaniali, accontentandosi della distruzione dei beni dei possidenti, dell’estorsione, del furto, dello stupro, ma la replica di Molfese consisteva nella distinzione tra gli strati inferiori dei braccianti e degli avventizi che avrebbero fornito la manovalanza dei briganti, incapaci di concepire persino l’aspirazione alla proprietà e pronti alla violenza, e gli “strati intermedi contadini” che avrebbero invece sostenuto i briganti dall’esterno fino a quando la ripresa delle quotizzazioni dema24 Id., Storia del brigantaggio, cit., p. 153. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 79 Corrado Barbagallo, La questione meridionale, Milano, Garzanti, 1948, osservò che la questione meridionale si ripresenta in tutte le svolte della storia italiana e, aggiungerei, di quella europea. Per ragioni intuibili di spazio e di circoscrizione dell’ambito, in questo saggio non si affronta l’ampia letteratura sulla “questione meridionale” che fa da corollario a quella sul brigantaggio, sebbene i due temi si incrocino e siano in stretta correlazione. 26 Molfese, Il brigantaggio meridionale postunitario. I, cit., p. 947. 27 Molfese ne tratta nel libro in un lungo capitolo in cui parlava di “metodo galiziano”, espressione con cui alludeva alla pratica di sobillare i contadini contro la borghesia che la corte viennese avrebbe esperito nella Galizia asburgica del 1846. Quella tesi, mai davvero dimostrata, venne ripresa in modo meccanico, senza approfondire la comparazione. Sul conflitto tra contadini e borghesie nella formazione degli Stati nazionali si dispiegava in quel momento negli Stati socialisti una vivace polemica politica, ricostruita da Thomas W. Simons Jr., The Peasant Revolt of 1846 in Galicia: Recent Polish Historiography, “Slavic Review”, vol. 30, n. 4, Dec. 1971, pp. 795-817. 25 ©UNICOPLI niali li avrebbe indotti ad appoggiare il nuovo Stato, isolando del tutto i ribelli. Per Molfese la partecipazione alle bande sarebbe stata frequente soprattutto tra i “terrazzani”, collocati tra monte e pianura, tra pastorizia e agricoltura produttiva, e avrebbe risentito delle differenze tra le aree montuose più tormentate dal brigantaggio e quelle costiere. Più che una spiegazione, era quella una indicazione di uno studio da svolgere, sul rapporto tra ex-soldati sbandati e le articolazioni della società meridionale, sulle sue profonde differenze tra province, sulla disgregazione dei rapporti di lavoro locali a causa della liberalizzazione dei mercati avviata dalla monarchia borbonica dopo il 1840, e sulle diverse situazioni che si erano create in pianura, in collina e nelle zone interne rispetto alle coste, in rapporto alla integrazione del Regno di Napoli nel mercato internazionale che proprio allora si stava dispiegando25. In realtà, nei due articoli del 1960 e 1961, in cui aveva trattato con maggior dettaglio gli aspetti militari, Molfese aveva dato una spiegazione leggermente diversa dell’inizio della rivolta, insistendo molto di più sul ruolo della monarchia e dell’aristocrazia borbonica nella mobilitazione delle campagne tra settembre e dicembre 1860, quando le promesse garibaldine di redistribuzione delle terre e di usi gratuiti stavano dando luogo a una diffusa delusione: «il governo borbonico, presieduto dal ministro della Guerra, generale Casella, adottò risolutamente il tradizionale metodo dei Borboni, consistente nel ricorso alla sollevazione contadina per reprimere la rivoluzione borghese»26. Quell’interpretazione, che dava maggior spazio al conflitto tra contadini poveri, notabili liberali e aristocrazia terriera, e alludeva a conflitti non solo materiali ma ideali, non veniva abbandonata ma nel libro ebbe meno rilievo perché l’autore si preoccupò di dimostrare l’autonomia dei rivoltosi e la carenza culturale del governo piemontese a comprenderli dopo il settembre 186027. L’“incomprensione” delle classi dirigenti per le richieste popolari venne presto rivisitata da altri studi, alla luce di esigenze internazionali della corona sabauda che Molfese aveva presenti ma che restarono in parte esterne alla sua narrazione: avendo il Regno di Sardegna giustificato diplomaticamente con ©UNICOPLI 80 Carlo Spagnolo Napoleone III e il Regno Unito la guerra contro il Regno di Napoli in nome dello Stato di diritto e della liberazione del popolo meridionale dall’oppressione feudale, esso non poteva riconoscere pubblicamente l’esistenza di un’insurrezione armata contro lo Stato unitario. Per non sconfessare l’esito unanime dei plebisciti, il governo non poteva riconoscere nemmeno l’esistenza di un’insurrezione plebea contro lo Stato unitario. Pressato tra l’opinione pubblica delle grandi potenze liberali e un possibile intervento della Santa Alleanza, auspicato dal papato e richiesto dalla corona borbonica, il Regno d’Italia non poteva riconoscere né una opposizione legittimista né una rivolta popolare: non esisteva altra strada che classificare quelle forze insurrezionali come mera criminalità. Ancora oggi meriterebbero riconoscimento le considerazioni che Scirocco, sul cui lavoro torneremo, venne sviluppando negli anni Sessanta, attorno al precario status internazionale del Regno d’Italia, proclamato nel marzo 1861 ma fino al luglio 1862 riconosciuto soltanto da Stati Uniti, Francia e Impero Ottomano, e non da Impero Asburgico, Prussia e Russia. La Spagna attese fino al 1865 e l’Austria il 1866. In pratica, il legittimismo borbonico poté nutrire qualche speranza di rovesciare l’esito almeno fino al 1862 e ciò aiuta a capire la partita diplomatica e propagandistica giocatasi attorno al brigantaggio, che non riguardava soltanto l’opinione pubblica interna ma quella delle grandi potenze ancora vincolate in parte dagli accordi del Congresso di Vienna. Narrazione e legittimazione del potere si intrecciano fin dalla genesi di questa storia. Molfese, pur tenendo conto delle questioni diplomatiche che pesarono su Cavour, insisteva sul conflitto interno, tra le ragioni dello Stato di diritto, sostenute dai moderati, quelle dell’esercito e del potere assoluto sabaudo, e quelle dei rivoltosi. La sua ricostruzione, seppure con molte sfumature e dettagli sugli ostacoli incontrati da Cavour e dalle luogotenenze, metteva sotto accusa la Destra storica e difendeva in ultima istanza i liberali-costituzionali unitari e democratici meridionali, seguendo le linee della relazione Massari del 1863 sul brigantaggio. Secondo Molfese, se fossero state ascoltati i suggerimenti di Liborio Romano, ministro nel periodo costituzionale di Francesco II e poi di Garibaldi e ancora al dicastero degli Interni nel gennaio 1861 con la luogotenenza Carignano, per la ripresa delle quotizzazioni demaniali, per lavori pubblici che lenissero la miseria e per il rafforzamento della Guardia Nazionale attraverso gli ex-garibaldini, molto sangue sarebbe stato risparmiato. Sebbene adottasse lo schema marxista di una lotta di classe dei contadini meridionali contro la proprietà terriera borghese, quell’interpretazione differiva da quella di Sereni ed era in fondo prossima alla tradizione mazziniana e azionista. Il suo libro, nonostante lo sforzo avviato, restava sulla superficie delle complesse articolazioni della società contadina e si restringeva, in ultima istanza, ad una analisi politica dell’operato di tre attori: moderati e democratici meridionali, liberali piemontesi e conservatori filo-borbonici. La prossimità alla tradizione della sinistra riformista meridionale si rivelava nel suo giudizio sulla legge Pica, che rovesciava le tesi di Alfredo Rocco. La data della approvazione, nell’agosto 1863, gli dava ragione di interpretare la legge Pica come uno strumento par- Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 81 28 Rispetto a Molfese, meno convincente risulta la posizione di Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario 1860-1871, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 201, dove si sosteneva che la legge Pica avrebbe permesso di ridurre le violenze commesse dall’esercito. Cfr. sulla legge Pica anche la nota 45. 29 Antonio Placanica, recensione a Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, e Alfonso Scirocco, Governo e Paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione (1860-1861), in “Studi storici”, V, n. 4, ottobre-dicembre 1964, pp. 781-792. 30 Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano, Giuffré, 1964, p. 113 n. 367. Su Scirocco torneremo più oltre. ©UNICOPLI lamentare per ricondurre l’esercito nella sfera della legalità e l’esecutivo sotto il parlamento. Attraverso la dichiarazione dello Stato di emergenza nel Mezzogiorno, il parlamento italiano avrebbe affermato il principio della sovranità dello stato di diritto e il suo predominio su quello monarchico assolutista. La legge Pica veniva rivalutata come tentativo dei liberali meridionali (e Pica era un deputato abruzzese) di ridurre i margini di discrezionalità dei comandi militari, pur senza poterli esautorare. Essa legalizzò i tribunali militari i quali, sebbene spesso disattenti alle procedure, furono pur sempre un’istituzione sottoponibile, almeno in astratto, a verifica. Oltretutto col rinnovo annuale dell’emergenza, e la cessazione della proroga al 31 dicembre 1865, il Parlamento si riservava la facoltà di monitorare l’azione dell’esecutivo e dell’esercito. La legge Pica avrebbe dato veste giuridica allo stato di eccezione sotto cui si completò la grande repressione e avrebbe ricondotto diverse aree del mezzogiorno sotto il dominio della legge e dello Statuto, recuperandolo alla giurisdizione civile e alle leggi ordinarie: così Napoli, Bari, Terra d’Otranto, Teramo e Reggio Calabria sarebbero rimaste fuori dal campo di applicazione dello stato di emergenza28. Nonostante alcune limitazioni, dovute in parte alle fonti, Molfese offrì una trattazione complessiva “dal basso” del grande brigantaggio che apparve alla gran parte degli studiosi convincente sebbene non esaustiva29. Ancora scoperti restavano alcuni passaggi istituzionali e politici dell’unificazione “dall’alto”, le ragioni dei comandi militari sabaudi, quelle delle classi dirigenti meridionali, e i livelli “intermedi”, ossia le modalità locali in cui la lotta si era effettivamente svolta, tra vecchi privilegi e nuovi diritti, e il peso delle quotizzazioni demaniali. Critiche gli furono mosse ad esempio sul ruolo positivo attribuito a Liborio Romano, che secondo Claudio Pavone era più partecipe della classe dirigente borbonica che della cultura democratica, e sulla profondità della crisi del Regno di Napoli che apparve ad Alfonso Scirocco ben avviata già prima dell’arrivo di Garibaldi30. Gli studi degli anni Sessanta e Settanta proseguirono quindi su questioni che Molfese non aveva davvero affrontato, innanzitutto sui caratteri di lungo periodo dei moti contadini e in parallelo sulle culture politiche delle classi dirigenti a livello locale e a Napoli e Torino. Come ha notato Capone, il lavoro di Molfese si inseriva in una stagione di studi in cui ebbe molto peso la traduzione dei lavori di Hobsbawm sul banditismo e sulla figura del ribelle nella storia moderna e contemporanea dell’Euro- Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 82 pa31. Hobsbawm insisteva più di Molfese sulle culture delle classi dirigenti, laddove metteva in questione il canone ottocentesco del criminale e del patologico che condizionava lo sguardo delle classi colte. Quell’angolatura poteva spiegare l’inclinazione repressiva della borghesia positivista verso le classi pericolose e, sebbene non potesse dare risposta alla specifica vicenda del “grande brigantaggio”, permetteva collegamenti tra il banditismo e la protesta sociale che ebbero in quel momento maggior eco. La lettura del brigantaggio nell’alveo di una rivolta sociale di lungo periodo si inseriva in un vivace dibattito sulla natura di classe dei moti contadini, a cui si guardava in quel momento negli ambienti a sinistra del Psi e del Pci, sull’esempio della Cina, di Cuba, e delle lotte sudamericane di Che Guevara. Il dibattito sulla teoria della rivoluzione attraversò sia le sinistre marxiste e leniniste sia i cattolici della teologia della liberazione durante e dopo il Concilio Vaticano II, ed è stato in parte ricostruito, anche se meriterebbe approfondimento la sua ripercussione sulle intellettualità meridionali per capirne i risvolti sulla diffusione di canoni narrativi nuovi della storia del Mezzogiorno, che avrebbero poi circolato sui media32. In Italia fu soprattutto un dibattito critico delle politiche del Pci per la “terra ai contadini” e della sua via parlamentare al socialismo, e non era riducibile all’univoca e generica etichetta di “marxista” a cui si fa spesso ricorso di recente, dimenticando le distanze tra le posizioni di Molfese, quelle di Sereni e quelle degli emergenti movimenti operaisti. In analogia alle vicende dell’America Latina, il Mezzogiorno era visto come oggetto di politiche coloniali, e i briganti assimilati agli indios33. Cominciano allora alcune forzature prospettiAlessandro Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, cit., p. 35; Eric Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966 (ed. orig. 1959) e Id., I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1971 (ed. orig. 1969). Da lì si apre una stagione di studi comparati che travalica il brigantaggio e lo studia, assieme alla follia, come fenomeno definito culturalmente dalle classi dirigenti. 32 Spunti in tal senso li aveva offerti per primo Benedetto Croce, nella storia della rivoluzione napoletana del 1799 e nelle pagine sparse di scritti di storia come Angiolillo (Angelo Duca) capo di banditi, Napoli, Luigi Pierro, 1892; Id., Un napoletano commentatore di Dante. Raffaele Andreoli, in Id., Nuove curiosità storiche, Napoli, Ricciardi, 1922, p. 242; Id., Appunti storici, in Pagine sparse, raccolte da Giovanni Castellano, Napoli, Ricciardi, 1920, p. 223, a margine del libro di Raffaele De Cesare, La fine di un regno, Città di Castello, Lapi, 1900, dove segnalava come la caduta dei Borbone non si possa capire senza la cesura del 1848. Commentando con favore Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici 1890-1910, Bari, Laterza, 1911, 2 voll., Don Benedetto ironizzava anche sulla «illusione della somma fertilità e ricchezza dell’Italia meridionale, cupidamente agognata dagli stranieri, (…) paradiso abitato da reprobi»: ivi, p. 225. 33 La critica antimperialista che emerge negli anni Sessanta rivitalizza paradossalmente le originarie tesi borboniche dell’occupazione del Mezzogiorno e unifica critiche al Risorgimento tra loro avverse (per un panorama della lotta culturale antimperialista degli anni Sessanta cfr. G. Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Venezia, Marilio, 2014, pp. 139 sgg. e Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011). Alla narrazione anticoloniale si richiamano autori molto diversi come Carlo Alianello, che rielabora il suo approccio nostalgico al Regno di Napoli in alcuni romanzi tra cui L’eredità della priora (1963), da cui verrà tratto uno 31 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 83 sceneggiato televisivo (diretto da Anton Giulio Majano e trasmesso da Rai 1 nel marzo-aprile 1980), e La conquista del Sud. Il risorgimento nell’Italia meridionale, Milano, Rusconi, 1972, narrazione provocatoria sulla occupazione piemontese e dei suoi crimini che verrà ripresa dalle narrazioni pulp neoborboniche, come anche dai fautori dell’autonomia operaia e delle culture popolari, per esempio Gianni Bosio o Raniero Panzieri, che aprono alla storia sociale e rivalutano ogni forma di resistenza popolare alle strutture di potere. Su quella scia di sinistra è Aldo De Jaco (a cura di), Storia inedita del brigantaggio meridionale, Roma, Editori Riuniti, 1969; ultimamente ripresa, senza particolari novità, da Enzo Di Brango e Valentino Romano, Brigantaggio e rivolta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina, Roma, Nova Delphi, 2017; mentre un tipico prodotto in chiave neoborbonica è Nicola Zitara, L’unità d’Italia. Nascita di una colonia, Milano, Jaca Book, 1974. Delle fortune recenti di tali narrative si è occupato Gian Luca Fruci, prima nella sua relazione rimasta inedita al convegno di Bari del 2018, e poi in I briganti sono tutti giovani e belli?, in Briganti: narrazioni e saperi, a cura di A. Carrino e G.L. Fruci, “Meridiana”, 99, 2000, pp. 9-27; cfr. il saggio di Calefati, Florio e Palmieri in questo volume, specie pp. 137-142. ©UNICOPLI che, che cercano nel brigantaggio una rivoluzione contadina generalizzata. Così i sostenitori della soggettività proletaria si distanziavano dalla fiducia di Molfese verso i democratici e i riformisti – che erano i veri eroi inascoltati del suo libro – e cercavano nei briganti dei proto-rivoluzionari anarchici; mentre i veri “marxisti-leninisti”, sulla scorta della lettura un po’ irrigidita di Gramsci operata da Emilio Sereni, ritenevano che l’assenza di un partito avrebbe spiegato la debolezza della rivolta meridionale, incapace di trovare una composizione tra i diversi interessi di classe. In retrospettiva, quella discussione risulta condizionata dall’interrogativo sulla mancata guida politica delle mobilitazioni contadine, e dal giudizio etico-politico sulle debolezze della Sinistra storica e sulle colpe della Destra. Degne di indagine diventavano le difficoltà di saldatura tra briganti e patrioti mazziniani, l’assenza di un partito popolare democratico in grado di interpretare le istanze popolari. Si studiava quindi un’assenza, mentre la storia concreta dei contadini restava sullo sfondo, innanzitutto per il silenzio delle fonti, ma anche per la convinzione che la questione economica della redistribuzione della terra e degli usi civici fosse quella centrale. Le insistenze di Carlo Levi e di De Martino sulle ragioni religiose e culturali, sul carattere apocalittico del fenomeno brigantesco non trovavano vero ascolto, perché la dimensione religiosa era letta come oppio del popolo, fede cieca che consentiva la manipolazione delle masse popolari ad opera della Chiesa e della monarchia borbonica. Una lettura attenta di Gramsci avrebbe offerto spunti più sofisticati nell’interpretazione delle motivazioni dei moti contadini e del brigantaggio. Con la pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni a metà degli anni Settanta divenne infatti più chiaro che Gramsci vedeva sì nel brigantaggio una ribellione, ma questa non fu mai una “rivoluzione mancata” in quanto i contadini non ebbero mai proprie rivendicazioni politiche e rimasero al traino della reazione filo-borbonica: Carlo Spagnolo 84 ©UNICOPLI i morti di fame non sono una categoria omogenea e si possono commettere grossolani errori nella loro identificazione astratta (…) In ogni regione esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono con la malavita professionale e con la malavita fluttuante. (…) Il “sovversivismo” di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi (…)34. i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente. Eppure [anche] nelle Noterelle di G. C. Abba ci sono elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse: basta ricordare i discorsi dell’Abba col frate che va incontro ai garibaldini subito dopo lo sbarco di Marsala. In alcune novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse contadine che la guardia nazionale soffocò col terrore e con la fucilazione in massa35. Quelle indicazioni puntualizzavano giudizi di più lungo periodo che Gramsci aveva espresso in un paio di articoli del 1920 e ripreso nel saggio del 1926 sulla questione meridionale – che circolò poco e fu ripubblicato soltanto negli anni Sessanta – nel quale pur non occupandosi molto del brigantaggio ne aveva dato una lettura precisa, come un frutto di una psicologia anarchica dei contadini e di lotte endemiche dei ceti urbani meridionali, che avevano esposto il Mezzogiorno ad uno sfruttamento capitalista accelerato: «la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento». Troppo spesso lette isolatamente, quelle indicazioni hanno dato luogo a interpretazioni parziali perché Gramsci affrontò le ragioni autonome dei contadini meridionali soltanto nelle sue riflessioni carcerarie. Sono molte le note dei Quaderni del carcere in cui Gramsci criticava le interpretazioni patologiche del brigantaggio, pervase da un «patriottismo letterario (– per amor di patria! – come si dice) che portava a cercar di nascondere le cause di malessere generale che esistevano in Italia dopo il ’70, dando, dei singoli episodi di esplosione di tale malessere, spiegazioni restrittive, individuali, folcloristiche, patologiche ecc. La stessa cosa è avvenuta più in grande per il “brigantaggio” meridionale e delle isole»36. Gramsci criticò a fondo la narrazione folclorica post-risorgimentale dei briganti, vedendovi alcuni elementi anticipatori delle sirene nazionaliste e fasciste: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, 4 voll. (d'ora in avanti Q.), Q 3. §46, pp. 324-25. 35 Gramsci, Q. 19, §26, pp. 2045-2046. 36 Ivi, Q. 25, §1, pp. 2279-2280. Cfr. anche gli scritti Operai e contadini, “Ordine Nuovo”, 3 gennaio 1920, e Alcuni temi sulla questione meridionale, del 1926, pubblicato clandestinamente su “Stato operaio” nel 1930, riedito nel 1957, e poi in Antonio Gramsci, La questione meridionale, a cura di Franco De Felice e Valentino Parlato, Roma, Editori riuniti, (1966) 19733, p. 72 e p. 136, dove si accenna al brigantaggio. 34 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 85 Realmente l’unità nazionale è sentita come aleatoria, perché forze “selvagge”, non conosciute con precisione, elementarmente distruttive, si agitano continuamente alla sua base. La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà terriera mantiene la sua compattezza solo sovreccitando i suoi elementi militanti con questo mito di fatalità storica, più forte di ogni manchevolezza e di ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno che all’adesione organica delle masse popolari-nazionali allo Stato si sostituisce una selezione di “volontari” della “nazione” concepita astrattamente37. È da ritenere inoltre che il movimento lazzarettista sia stato legato al non-expedit del Vaticano, e abbia mostrato al governo quale tendenza sovversiva-popolare-elementare poteva nascere tra i contadini in seguito all’astensionismo politico clericale e al fatto che le masse rurali, in assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano 37 Id., Q. 19, §5, pp. 1979-1980. Sul significato attribuito da Gramsci al volontarismo garibaldino, nazionalista e arditista, cfr. Agostino Bistarelli, Volontarismo democratico dal primo al secondo dopoguerra: antifascisti e partigiani, in Carlo Spagnolo (a cura di), Il volontarismo democratico dall’Unità alla Repubblica, Milano, Unicopli, 2017, pp. 158-173. 38 Lelio La Porta, Gramsci e i gruppi subalterni, “Azioni Parallele”, n. 6, 2019, <https:// azioniparallele.it/30-eventi/atti,-contributi/304-gramsci-e-i-gruppi-subalterni.html>, pubblicato il 1 agosto 2019; Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. 2 Quaderni miscellanei (1929-1935), a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2017, p. 452. ©UNICOPLI Se il brigantaggio era sottinteso tra quelle forze “selvagge”, allora possiamo desumere che Gramsci riconduceva ai conflitti tra le varie frazioni della borghesia e tra diversi tipi di contadini (mezzadri, proprietari, fittavoli, giornalieri ecc.) una tendenza al ricorso alla violenza che avrebbe caratterizzato il rapporto tra Stato unitario e ceti popolari. La scoperta delle note di Gramsci sulle classi subalterne, che avvenne con l’edizione critica di Gerratana, stimolava una innovazione profonda dell’approccio meridionalista, perché inseriva i moti contadini nella cultura dei centri urbani, del clero e nelle credenze locali. Ci si rese conto allora che Gramsci era andato oltre le impostazioni di Molfese e Sereni, laddove aveva avvertito che i braccianti e gli avventizi e molti contadini meridionali erano animati da rivendicazioni e logiche culturali e non materiali, frutto di una religiosità intrisa di paganesimo e di una fede catartica (alimentata anche dal basso clero) in qualche salvatore che si sarebbe materializzato in figure rivoluzionarie come Garibaldi – il cui ritratto era affisso in molte abitazioni contadine – o a scala ridotta in predicatori e capibanda che promettevano un immediato riscatto sociale o sfogavano un sentimento di vendetta rispetto a soprusi, o faide locali che coinvolgevano volta a volta proprietari, liberali, aristocratici, clero o appendici della monarchia. Esemplari sono le sue note sul caso di Lazzaretti, un ex-garibaldino che sarebbe diventato un predicatore e avrebbe capeggiato dopo il 1870 una rivolta dei contadini e dei minatori toscani del Monte Amiata38: Carlo Spagnolo 86 ©UNICOPLI dalla massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all’insieme di rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne39. Insomma, Gramsci aveva largamente anticipato le intuizioni di Carlo Levi e i temi di Ernesto De Martino, e suggeriva una pista di indagine sul brigantaggio che non è stata davvero battuta con sistematicità: quanto le masse popolari erano mosse da una richiesta di autonomia da logiche di mercato e gerarchie statuali che erano del tutto estranee al mondo contadino? Quanto le loro istanze erano effetto di credenze popolari, liturgie, reti di solidarietà e di status (tipiche di un mondo rurale molto più articolato e complesso di quanto abitualmente non si dica), che erano state tacitate da strumentalizzazioni di fazioni locali, dei legittimisti borbonici e della Chiesa? Se le richieste contadine durante la spedizione dei Mille nel 1860 erano state legittimate inizialmente da una parte del clero, di estrazione popolare, la durata e la radicalizzazione dello scontro non andavano collegate al ritiro di quell’appoggio e all’adozione da parte delle bande di atteggiamenti pagani, “eretici”40? Il sovversivismo delle campagne, per Gramsci, non si spiegava con la resistenza filo-borbonica né con quella dei vertici della Chiesa, ma «con la loro scarsa presa e con la sostanziale assenza di veri obiettivi politici delle bande». L’incontro tra bande e aristocrazia legittimista, che pure ci fu (si pensi all’accordo tra Borjès e Crocco) sarebbe avvenuto solo su basi temporanee, per motivi di interesse reciproco, per opportunismo e non per una autentica fede delle bande nella monarchia borbonica. Non solo. Gramsci vedeva proprio nello scontro tra Stato e Chiesa, e nella cultura laicista degli intellettuali e della borghesia, una delle ragioni più forti del distacco tra élites e masse popolari meridionali. Gramsci rimproverava ad una Sinistra storica laica e moralista il disprezzo verso qualsiasi contaminazione con la religiosità popolare, da cui sarebbero derivate prima una facile presa delle argomentazioni reazionarie sulle masse popolari durante il crollo del regno di Napoli e poi remore degli intellettuali della Sinistra ad affrontare fino in fondo la storia dell’unificazione nei deGramsci, Q.25, §1, p. 2280. La ricerca ha cominciato soltanto da poco a studiare con gli strumenti dell’antropologia storica episodi – riferiti dalla memorialistica– di antropofagia, di squartamento dei nemici ad opera delle bande, che richiamano pratiche simboliche eccedenti la guerra, e la presenza di donne, le “drude”, nelle bande (rispettivamente Marco Vigna, Brigantaggio italiano: considerazioni e studi nell’Italia unita, Novara, Interlinea, 2020, pp. 149-178, e Mariamichela Landi, Alle radici dell’antropologia criminale: i processi alle donne nel brigantaggio (18631865), intervento al webinar “Intersezioni. Briganti in pubblico fra nuovi saperi, giustizia e spettacolo (fine XIX-inizio XX secolo)”, 28 giugno 2021). Si richiederebbe l’incrocio di fonti processuali e parrocchiali, per superare sia la condanna morale aprioristica sia il biografismo apologetico che ne fa delle partigiane (Valentino Romano, Brigantesse, donne guerrigliere contro la conquista del Sud, Napoli, Controcorrente, 2007) o delle proto-femministe, come in una recente serie televisiva sul brigante Crocco, Il generale dei briganti, trasmessa su RaiUno in prima serata in due puntate il 12 e 13 febbraio 2012, e prodotta per i Centocinquanta anni dell’Unità da Rai Fiction ed Ellemme Group con il sostegno di Apulia Film Commission. La fiction ruotava attorno all’asse narrativo dei briganti meridionali vittime dei soprusi dei signori e dei piemontesi, e ha avuto oltre cinque milioni di spettatori a puntata. Nessun libro di storia potrebbe mai aspirare a simili audience. 39 40 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 87 Gramsci, Q. 3, §12, p. 298. Giuseppe Giarrizzo, Un comune rurale della Sicilia etnea: Biancavilla, 1810-1860, Catania, Tipografia dell’Università, 1963; Lucy Ryall, La rivolta. Bronte 1860, Roma-Bari, Laterza, 2012 riprende in fondo le tesi di Pedio, secondo cui al cuore della rivolta furono le contese tra gli emergenti proprietari “borghesi” e i contadini, mentre i grandi proprietari (i Nelson) rimasero alla finestra. 43 Alfonso Scirocco, Girolamo Ulloa, L’Unità d’Italia e l’autonomismo napoletano, “Archivio storico delle province napoletane”, XIX, terza serie, 1980, pp. 546-565, cit. p. 548. 44 Si rinvia alla puntuale rassegna di Renata De Lorenzo, Clero, legittimismo, ordine pubblico e organizzazione dello Stato nel Mezzogiorno dopo il 1860,“Archivio storico delle province napoletane”, XXI, terza serie, 1982, pp. 335-348, cit. p. 336. 41 42 ©UNICOPLI cenni successivi. In quella chiave, dopo l’esecuzione sommaria di Lazzaretti, si «spiegherebbe anche la tiepidezza [della Sinistra] nel sostenere una lotta contro il governo per l’uccisione delittuosa di uno che poteva essere presentato come un codino papalino clericale ecc.»41. Gramsci indicava nell’autonomia delle credenze religiose e nell’attaccamento a reti di scambio sociale, e a gerarchie sociali molto articolate, una complessa pista di indagine sulle aspettative catartiche e sulle dinamiche delle rivolte, per la quale si richiedeva, a suo avviso, una serie di studi monografici estremamente complessi, studi che solo alcuni hanno in seguito davvero avviato. A partire da Giarrizzo, per finire alla ricerca di Lucy Riall, quel tipo di indicazioni è stato in parte sviluppato nel caso siciliano, specie per l’occupazione delle terre di Bronte, e per qualche caso urbano. Più difficile si è rivelata sin qui una indagine analoga per i veri nuclei della rivolta del brigantaggio continentale, nei territori montuosi della Sila, dell’Irpinia e degli Abruzzi, mentre la propensione degli studi si rivolgeva piuttosto alle biografie di alcuni protagonisti, alla consistenza delle violenze a livello locale42. In parallelo alla riscoperta di Gramsci, nel corso degli anni Settanta, le suggestioni della scuola francese de Les Annales spostano l'asse degli studi sulle strutture e sulle permanenze, e il brigantaggio diventa parte delle trasformazioni di lungo periodo delle campagne del Mezzogiorno. Assieme ad una critica serrata di una parte della storiografia alle classi dirigenti e al carattere oligarchico dello Stato, si produce una nuova ondata di studi sui soggetti protagonisti dell’opposizione al nascente Stato italiano. Si rovescia da allora e per un lungo periodo l’attenzione della storiografia: dalla ricostruzione in positivo delle forze risorgimentali favorevoli all’Unificazione si passa ad una revisione critica che recupera il punto di vista dei suoi oppositori. La storiografia risorgimentale aveva già «dedicato attenzione anche alle ragioni dei vinti», in chiave biografica, mentre questa nuova leva di studi portava le indagini ad una nuova sistematicità43. Sul ruolo della Chiesa, sulle posizioni dell’episcopato, e sulla influenza della fede nelle plebi meridionali cominciavano a interrogarsi “dal basso” alcuni, non marxisti, che studiarono «l’opposizione al nuovo Stato che unisce persone e settori dalle origini più varie, il clero, il mondo contadino che fornì contributi al brigantaggio, l’ambiente reazionario legittimista»44. Carlo Spagnolo 88 ©UNICOPLI La stessa stagione di studi prosegue, in parallelo, la critica alle classi dirigenti locali e allo Stato amministrativo. L’attenzione si rivolse allora con un approccio funzionalista alle debolezze dello Stato borbonico rimaste in eredità allo Stato italiano, alle modalità di costruzione del consenso, al ruolo giocato da un sistema poliziesco e militarizzato, assieme a nuovi strumenti statali di conoscenza e controllo45. Una rivista sensibile a nuove tematiche di storia sociale suggerite da Les Annales, come “Quaderni storici”, dedicava un fascicolo del 1980 alla Indagine sociale sull’unificazione italiana, in cui si guardava all’uso della statistica come strumento di controllo da parte del nuovo Stato unitario46. Le indagini sfociarono in molte pubblicazioni sulle peculiarità regionali, prima affrontate in un convegno del settembre 1974, e in una serie di lavori monografici, poi condensate da un importante convegno napoletano dell’ottobre 1984, in cui l’analisi dei casi locali mostrò una stretta interconnessione tra dimensione politica e sociale47. Se Galasso riconduceva il brigantaggio a una questione di A titolo di esempio, Aldo Albonico, La mobilitazione legittimista contro il regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale post-unitario, Milano, Giuffrè, 1979, sul contributo dei volontari spagnoli alla causa legittimista, sul ruolo di Borjès e i rapporti tra carlisti e le bande di Crocco e Chiavone, sul ruolo ambiguo del governo spagnolo, sul disdegno di molti legittimisti ed ex ufficiali borbonici contro l’appoggio a bande criminali e alle loro prassi di vendette e violenze; Bruno Pellegrino, Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogiorno. L’episcopato meridionale dall’assolutismo allo Stato borghese (1860-1861), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1979, si occupava delle divisioni durante il periodo luogotenenziale tra un episcopato ostile alla soluzione unitaria e un basso clero assai più aperto ad essa; Alfonso Scirocco, Il Mezzogiorno nell’Italia unita (1861-1865), Napoli, Soc. editrice napoletana, 1979, che seppe spiegare le ragioni dell’attrazione dei borghesi e dei possidenti per lo Stato unitario nonostante le loro frequenti simpatie legittimiste, e come a loro tutela si orientasse la politica dello Stato nel Mezzogiorno dall’abolizione della Luogotenenza alle elezioni del 1865; Roberto Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale: regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna, Il Mulino, 1980, di taglio giuridico, riconduce le scelte repressive della legislazione italiana ad una rigida ideologia liberale che non ammetteva ombre nella giustizia penale e rimetteva al rapporto diretto governo-esercito l’amministrazione della giustizia. L’autore è molto critico verso la Sinistra storica, ritenuta corresponsabile nella repressione militare, priva di una cultura giuridica garantista e corresponsabile della assenza di fiducia dei contadini meridionali verso le istituzioni. Come Scirocco, Martucci dissente dalla interpretazione di Molfese della legge Pica del 1863, ritenendola frutto soprattutto della linea del governo e della Destra, e rileva che la legge Pica non interferiva coi tribunali eccezionali previsti dalla legge del 1859 mentre si applicava soltanto agli otto tribunali militari (Potenza, Foggia, Avellino, Caserta, Campobasso, Gaeta, l’Aquila e Cosenza) istituiti dal generale della Rovere con circolare del 21 agosto 1863 n. 29. Essi si aggiungevano ai quattro preesistenti di Bari, Catanzaro, Chieti e Salerno. 46 Raffaele Romanelli, La nuova Italia e la misurazione dei fatti sociali. Una premessa, “Quaderni Storici”, XV, n. 45, dicembre 1980, p. 768. 47 Gli Atti del IV Congresso di storiografia lucana su “Il brigantaggio nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia” del settembre 1974 , che trattava del brigantaggio meridionale dal Medio Evo fino al tardo Ottocento, con contributi di Molfese, Scirocco, Rumi e altri, sono in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, XLII, 1975. La storiografia, pur continuando a discutere attorno alle caratteristiche politiche del brigantaggio, insiste in quel momento sulle specificità del rapporto città/campagna e monte/pianura, e concorda sul carattere di insorgenza di mas45 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 89 sa: Gaetano Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud, 1799-1900, Reggio Calabria, Ed. meridionali riuniti, 1976; Francesco Barra, Cronache del brigantaggio meridionale 1806-1815, Salerno, Società editori meridionali, 1981. 48 Gli atti del convegno del 1984 sono in “Archivio storico per le province napoletane” (d’ora in poi ASPN), terza serie, a. XXI, vol. CI, 1983. Le relazioni coprirono tutto il Mezzogiorno continentale: Giuseppe Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, pp. 1-15, Alfonso Scirocco, Il brigantaggio postunitario nella storiografia dell’ultimo ventennio, pp. 17-32; Francesco Barra, Reazione e brigantaggio in Campania, pp. 65-168; Francesco Gaudioso, Indagine sul brigantaggio nella Calabria cosentina (18601865), pp. 169-222; Tommaso Pedio, Reazione e brigantaggio in Basilicata (1860-1861), pp. 223-286, Raffaele Colapietra, Il brigantaggio postuniario in Abruzzo, Molise e Capitanata nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario, pp. 287-309; Tommaso Nardella, Testimonianze inedite sul brigantaggio postunitario nel Gargano, pp. 311-332. Trascuro le altre, su temi complementari. ©UNICOPLI lungo periodo, e il grande brigantaggio alla questione napoletana, Alfonso Scirocco e Molfese ribadirono le distanze tra le loro interpretazioni. Importanti furono le sintesi ampie sui casi regionali, che davano un quadro di insieme sugli avanzamenti della ricerca. Barra parlò del brigantaggio come sintomo di movimenti profondi della società meridionale, con l’ascesa di una borghesia agraria di nuovo tipo, e individuava nel crollo degli equilibri di potere locali le ragioni di una forma spuria di conflitto violento. La sua relazione forniva una mappatura delle bande in Campania e alcuni dati sulle bande, sui capi, sulle loro trasformazioni: dopo il distacco dai legittimisti nell’inverno 1861-62 «non si ebbero quasi più reazioni ed invasioni di paesi, frequentissime nell’autunno 1860 e nell’estate 1861, ma lo scontro si spostò dai centri abitati alle campagne, ai boschi, alle montagne. La rivolta divenne guerriglia, o se si preferisce brigantaggio, e la lotta si frammentò in mille episodi, che è assai arduo ricostruire complessivamente su di una anacronistica ed arbitraria scala regionale», trasformandosi in una lotta di movimento su territori vasti e impervi «cioè la aree naturali del brigantaggio» (p. 113). Particolarmente stimolante la posizione di Colapietra che individuava nel brigantaggio stesso gli elementi di crisi. Il brigantaggio non era solo un sintomo di qualcosa di profondo ma un fattore dinamico del crollo del potere nel contesto della crisi di regime. La tardiva concessione della Costituzione provvisoria di Francesco II avrebbe creato una dinamica di conflitti violenti tra frazioni dei proprietari coi loro alleati, divisi per bande, che cercavano di conquistare i vessilli del potere. Quindi Colapietra rovesciava alcuni argomenti tradizionali, l’idea di un brigantaggio frutto di lunghi conflitti pregressi, facendo di questi ultimi un fattore parziale rispetto a quanto accade nel 1860-62. Ossia non soltanto un conflitto tra galantuomini e contadini ma una lotta dentro le borghesie e dentro i ceti popolari che scatena una violenza estrema, fino alla guerra civile. Il suo interesse cadeva specialmente sulle lotte di potere apertesi specificamente nel 186048, con la strumentale concessione di una costituzione da parte di Francesco II che creò un conflitto aperto tra fazioni fino alle reazioni urbane dell’autunno 1860, in coincidenza col plebiscito. Dopo le repressioni, e ©UNICOPLI 90 Carlo Spagnolo lotte che durarono circa un anno, la percezione della irreversibilità del Regno d’Italia avrebbe favorito l’accordo di classe tra i proprietari, attorno al 186162, e avrebbe aperto la strada a processi contro i fatti di sangue avvenuti, il che lasciava scoperti i subalterni che avevano protetto gli interessi di vecchi e nuovi notabili a mano armata. A quel punto le bande avrebbero preso la strada dell’autonomia, e spesso furono i pastori ad assumerne la guida e imporre i codici della società armentaria a cui si sovrapposero quelli militari, magari appresi nell’esercito borbonico (come per Crocco). In modi diversi, Barra e soprattutto Colapietra distinsero tra pastori-briganti e contadini-proprietari, tra aree e fasi, dando al contempo un quadro compiuto della geografia del brigantaggio e indicando una serie di piste di ricerca, a partire dallo scontro di lungo periodo tra contadini e pastori, tra medi e grandi proprietari, fittavoli e giornalieri, e da quello di più recente formazione tra una agricoltura capitalista e una agricoltura legata a pratiche di scambio integrato di tipo comunitario che invece chiedeva difese dal mercato e dalla monetizzazione. In Calabria e in area garganica, ad esempio, lo scontro tra pastori e contadini che ebbe luogo attorno all’abigeato fu un aspetto importante del brigantaggio (Molfese parla di circa 12.000 capi rubati o abbattuti dai briganti nel 1863 e 11.000 capi nel 1864, spesso per mera volontà di danneggiare i possidenti, ma con danni duraturi all'allevamento), e se i capi banda emergono inizialmente tra ex-sottufficiali borbonici, le reclute sono magari membri di vecchie bande armate già esistenti, a volte a difesa delle grandi proprietà, e ex-pastori49. Emergono le divisioni urbane tra possidenti, gli opportunismi di vario colore, e le logiche della violenza spinte dal conflitto sulla leadership dentro le bande. Proprio l’eterogeneità delle bande contribuisce a fare emergere i capi più spietati e capaci di unificarle con una disciplina del terrore. E si evidenzia come l’accumulazione di ricchezze, per quanto simbolica e difficilmente spendibile, fosse una motivazione essenziale della crescita delle bande50. Ulteriori studi avrebbero proseguito quel filone attraverso studi locali, più per correggere che per superare le proposte di Molfese51. 49 Grazie anche alle nuove fonti rese disponibili dagli Archivi di Stato dagli anni Settanta comincia una numerosa letteratura di alterna qualità su casi locali, che tuttora prosegue, tra cui a solo titolo di esempio Pasquale Soccio, Unità e brigantaggio in una città della Puglia, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1969; Luciano Sarego, Reazione e brigantaggio nel Cicolano (1860-1871), Rieti, Il Velino, 1976; Francesco Gaudioso, Calabria ribelle. Brigantaggio e sistemi repressivi nel Cosentino (1860-1870), Milano, Angeli, 1987; Gaetano D’Ambrosio, Il brigantaggio nella provincia di Salerno (Circondario di Campagna), Salerno, Palladio, 1991; Antonio M. Paradiso, Storia del brigantaggio nella valle dell’Ofanto 1860-1865, Bari, Adda, 2015. 50 Cfr. per una rassegna John A. Davis, Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale, “Studi storici”, 1998, n. 2, pp. 603-622. 51 Gaetano Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799-1900), Reggio Calabria, Editori meridionali riuniti, 1976. Cfr. Raffaele Colapietra, Il brigantaggio post-unitario in Abruzzo, Molise e Capitanata nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario, cit.; Alfonso Scirocco, Briganti e potere nell’Ottocento in Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 91 Giovanni Arrighi e Marta Petrusewicz produssero allora studi di grande respiro sull’impatto del capitalismo sull’agricoltura calabrese, specie sul latifondo52. Con diverse declinazioni il tema ebbe sviluppo in altri casi regionali che ebbero ben presente l’esigenza di collocare le dimensioni locali in quadri comparativi su scala internazionale, e cominciavano a costruire una topografia del contesto in cui si sviluppa il brigantaggio oramai matura53. 1.2 La guerra ai briganti Italia: i modi della repressione, “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, XLVIII, 1981, pp. 79-97. 52 Giovanni Arrighi, Fortunata Piselli, Il capitalismo in un contesto ostile. Faide, lotta di classe, migrazioni nella Calabria tra Otto e Novecento, Donzelli, 2017 (apparso in origine nel 1987 sulla “Review. Fernand Braudel Center”), frutto tardivo di un progetto del 1973-79 presso l’Università della Calabria appena nata nel 1972. Gli autori esplorano la tesi che l’emigrazione fosse l’esito della sconfitta delle lotte sociali precedenti, incluso il brigantaggio, e le collegano all’ascesa di una economia di mercato che divideva i produttori per il mercato locale da quelli per il mercato libero e per l’export. Arrighi suggerisce tre “vie al capitalismo”: la «via prussiana» del Crotonese (latifondo, con borghesia terriera e proletariato senza terra, pauperizzazione e lotta di classe); la «via americana» nella piana di Gioia Tauro (struttura sociale semiproletarizzata, meno povertà diffusa e ricchezza meglio distribuita, faide continue tra gruppi rivali); una «via svizzera» nel Cosentino (migrazioni a lunga distanza e di lungo periodo, comunità relativamente prospere con minore conflitto sociale). 53 In questo senso sono da leggere le interpretazioni di lungo periodo sulla storia del Mezzogiorno, sulla eversione della feudalità e sulle trasformazioni delle campagne, frutto di confronti con la storiografia francese, di Pasquale Villani, Le campagne del Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, “Quaderni storici”, XV, 1980, pp. 5-20, poi in Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di Angelo Massafra, Bari, Dedalo, 1981, pp. 3-15; Angelo Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia società e istituzioni, atti del convegno di Bari del 1985, Bari, Dedalo, 1988; Saverio Russo, La storiografia sul Mezzogiorno nell’ultimo quarantennio, in La storiografia sull’ltalia contemporanea, Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro, Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di Cristina Cassina, Pisa, Giardini, 1992, pp. 315-329; Piero Bevilacqua, Corsi e ricorsi della storiografia sul Mezzogiorno, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry e A. Massafra, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 131-150; Francesco Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Torino, Einaudi, 1994. ©UNICOPLI Abbandoniamo per un attimo la guerra dei briganti e la “questione sociale” per affrontare come, in parallelo, tra anni Sessanta e Ottanta, si avviassero molti lavori che dedicarono spazio alla storia militare della repressione, e che ritornavano più sistematicamente che in passato sul nodo della guerra ai briganti, ossia la guerra dello Stato. Franco De Felice, in una recensione a Molfese, richiamava la vecchia affermazione di Luigi Settembrini sul ruolo fondamentale svolto dall’esercito nell’unificazione italiana: «il fil di ferro che ha cucita l’Italia e la tiene unita». Era un centro di potere amministrativo, che mirava a moralizzare le classi dirigenti meridionali, del cui municipalismo e brama di risorse diffidava, e orientava l’e- ©UNICOPLI 92 Carlo Spagnolo conomia attraverso la domanda di beni all’industria pesante54. Se intendiamo l’esercito come un vero e proprio partito della Corona, dobbiamo riconoscere che ha trovato sin qui solo trattazioni parziali, perché la storiografia si è orientata sulle strategie militari, sulle modalità operative e sulle percezioni dei vertici piuttosto che sulla complessiva funzione politica delle forze militari55. Un po’ per la disponibilità del lavoro di Cesari, un po’ per ragioni di metodo, la sintesi di Piero Pieri evitò persino di affrontare il brigantaggio ritenendolo estraneo alla sua materia56. Forse a quella scelta contribuì anche la condizione delle fonti, che venne in parte colmata negli anni Settanta quando gli Archivi di Stato iniziarono a regestare il materiale delle luogotenenze militari57. È quindi comprensibile che la tesi di Molfese sulle divisioni tra i riformatori unitari che avevano dato spazio all’esercito per repressioni non solo di ordine pubblico ma anche antipopolari suscitassero maggiori discussioni tra gli storici della politica che tra quelli militari. Alfonso Scirocco fu il primo a sostenere che l’alternativa democratica a cui credeva Molfese non avesse mai avuto seria consistenza, perché nel 1861-1863 il principale problema sarebbe stato l’assenza di una amministrazione funzionante; la costruzione dello Stato unitario non avrebbe avuto a disposizione altro che la classe dirigente moderata, e l’esercito come strumento di amministrazione e veicolo di autorità58. Nemmeno Molfese sciolse quel nodo quando produsse un quadro generale della repressione, e ne spiegò meglio le logiche. Al Convegno del 1984 Molfese sostenne che il contrasto all’insurrezione venne inizialmente affidato ad un 54 Franco De Felice, Società meridionale e brigantaggio postunitario, “Rivista storica del socialismo”, n. 24, 1965, pp. 188-200; cfr. anche la recensione di Antonio Placanica in “Studi storici”, V, 1964, n. 4, e quella di Alberto Aquarone in “Rassegna storica del Risorgimento”, LII, 1965, fasc. II. 55 Rinvio al saggio di Nicola Labanca in questo volume. 56 Francesco Tuccari, Memoria dei principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio dopo l’Unità (1860-1870), “ASPN”, 1983, cit., pp. 333-367, rimase sul terreno della tecnica militare, pur dando un quadro puntuale e per certi versi nuovo del passaggio dalla guerra frontale del 1860-61 alla controguerriglia del gen. Pallavicini, con l’impiego della cvalleria e di reparti mobili. 57 Fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate nell’Archivio centrale dello Stato. Tribunali militari straordinari, a cura di L. De Felice, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1998; Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, a cura di Antonio Dentoni-Litta, Direzione centrale Archivi di Stato, 3 voll., Roma, Ministero per i beni culturalie ambientali, 1999-2001, e per l’Archivio storico dello Stato maggiore Guida al fondo “Brigantaggio”, a cura di Piero Crociani, Roma, Stato maggiore dell’esercito, 2004; Il brigantaggio postunitario nella Marsica. Briganti e manutengoli nell'Alta Vallelonga, Archivio di Stato di L'Aquila, Villamagna (CH), 2004; Il brigantaggio postunitario in Capitanata, a cura di Laura Orsi, Archivio di Stato di Foggia, San Severo, 2005; Silvia Trani, La costruzione dello Stato unitario negli archivi dell'Esercito e dell'Arma dei carabinieri, “Le Carte e la Storia”, 2, 2011, pp. 130-150. 58 Alfonso Scirocco, Governo e Paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione, Milano, Giuffrè, 1963 (seconda edizione Il Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione (1860-61), Napoli, Soc. editrice napoletana, 1981); Id., Il Mezzogiorno nell’Italia unita (1861-1865), Napoli, Soc. editrice napoletana, 1979. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 93 Molfese, La repressione nel Mezzogiorno continentale, ASPN, 1983, cit., pp. 44-45. Molfese precisava così alcuni aspetti del suo libro, e nelle conclusioni scriveva, a p. 64, che «La protesta armata dei contadini del Sud si elevò al livello di guerriglia soltanto col “grande brigantaggio” ma non riuscì mai a sfociare in una guerra contadina e si esaurì nelle devastazioni anarcoide e terroristiche». 61 Anna Maria Isastia, Il volontariato militare nel Risorgimento. La partecipazione alla guerra del 1859, Roma, Stato maggiore dell’esercito, Ufficio storico, 1990; Eva Cecchinato, Camicie Rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza 2007; Eva Cecchinato, Mario Isnenghi, La nazione volontaria, in Storia d’Italia. Annali, vol. XXII,a cura di Alberto M. Banti e Paul Ginsborg, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007, pp. 697-720. Segnalo anche Pompeo Di Terlizzi, I carabinieri e il brigantaggio nell'Italia meridionale, 1861-1870, Bari, Edizioni Levante, 1994, documentato studio di un militare, incline alla giustificazione dell'operato dei carabinieri. 59 60 ©UNICOPLI esercito dotato di forze insufficienti: Cialdini, all’insediamento a Napoli, «disponeva soltanto di 22.000 uomini in tutto il Mezzogiorno continentale. Quando cedette il comando a Lamarmora nell’ottobre 1861, la forza ascendeva già a 50.000 uomini (…) raggiungerà il massimo (circa 120.000 uomini) nel 1864». La tattica difensiva iniziale, volta a proteggere soltanto i maggiori centri urbani, si tramutò in una repressione feroce quando nel 1861 scoppiarono rivolte legittimiste o più semplicemente anti-unitarie. «Una serie di massacri in massa contrassegnò la repressione a Gioia del Colle, Auletta, Vieste, Montecilfone, per citare soltanto i più noti. Fu una vera e propria guerra civile a cui i risvolti sociali e classisti impressero caratteri di particolare ferocia»59. Nonostante i successi contro i legittimisti, per la limitatezza delle forze a sua disposizione, dalla fine del 1861 Cialdini non poté impedire il dispiegarsi del grande brigantaggio a cui «presero parte centinaia di bande contadine piccole, medie e grandi, a volte aggregate in vere e proprie costellazioni». Le piccole bande spesso sarebbero state guidate da salariati agricoli e braccianti. Fu per rispondere al nuovo pericolo che Lamarmora introdusse lo stato d’assedio in tutto il Mezzogiorno in occasione del ritorno di Garibaldi nel 1862 e di Aspromonte, ma solo dal 1863 in poi lo Stato riorganizzò la polizia e poi introdusse la legge Pica60. Si avviò inoltre, fra anni Settanta e Ottanta, ad opera di Carlo Jean e altri, lo studio della teoria e della pratica delle guerra per bande, dei garibaldini, del conflitto tra comandi piemontesi e Garibaldi, lo scioglimento dell’esercito meridionale, le modalità di selezione del nuovo esercito italiano. Negli studi di Pieri, in quelli posteriori di Minniti, Mazzoni, Isastia, Del Negro e altri, il brigantaggio è questione marginale rispetto al problema del rapporto tra militari e volontari garibaldini, al reclutamento e all’impiego disorganico delle forze armate, ai mutamenti nei comandi tra La Marmora, Cialdini e il governo61. Il nodo di Aspromonte ritorna come cartina di tornasole della funzione assunta dall’esercito dal 1862, di garante dell’ordine pubblico, degli assetti interni e internazionali. È una storia istituzionale dall’alto che per quanto approfondita e densa di notizie poco o nulla dialoga con la prospettiva sociale dal basso, e si occupa piuttosto del modo in cui si organizza il volto militare della repressione e l’azione dei singoli corpi nel Mezzogiorno. Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 94 Enrico Francia, nel 1999, ha prodotto invece uno studio importante sulla cerniera tra potere civile locale e potere militare costituita dalla Guardia nazionale, il cui progetto nasceva nel 1848 per tramontare definitivamente dopo il 187062. Francia aiuta a capire come nei centri urbani meridionali sin dal 1848 ma ancor più intorno al 1860 si aprisse uno scontro politico tra vecchia guardia civica e guardia nazionale, legato al dilemma tra il decentramento amministrativo – che avrebbe favorito le “borghesie” o congreghe locali – e l’assetto centralizzato del nuovo Stato unitario. La discussione resta aperta, perché lo scarso dialogo tra storia militare e altre discipline non giova ad una considerazione complessiva dell’esercito come partito della Corona, che agisce non soltanto per considerazioni militari ma per motivazioni politiche, avocando a sé competenze ultime in tema amministrativo. In proposito la storiografia militare repubblicana ha acquisito alcuni punti fermi, sia smitizzando la sacralità dell’istituzione e riconoscendone quindi errori, limiti e difficoltà, sia abbandonando l’idea di una neutralità dell’esercito e indagando i legami di La Marmora, Cialdini e altri generali con i vertici politici, sia quantificando sempre più puntualmente la presenza e il dislocamento delle truppe nel Mezzogiorno continentale e il modo in cui esse repressero il brigantaggio. È ormai acquisito che le strategie repressive più radicali furono spesso invocate proprio dalle forze dirigenti meridionali, e andrebbe abbandonata la dicotomia tra l’uso indiscriminato della forza “piemontese” e il vittimismo locale63. 2. Il ritorno della nazione, l’incidenza della questione morale e della guerra tra anni Ottanta del secolo Ventesimo e primi anni del secolo Ventunesimo Le innovazioni metodologiche sollecitate dal linguistic turn e dal dibattito sulla post-modernità a cavallo degli anni Ottanta spostano l’attenzione degli studi sulla dimensione culturale, sulle percezioni, sulla comunicazione, e lasciano in secondo piano la dimensione sociale del brigantaggio, ormai data per acquisita dagli esiti del convegno del 1984 e da un filone di studi locali che prosegue. Assieme alle Regioni, attivate a inizio degli anni Settanta, cresce la sensibilità della ricerca sulla eterogeneità del Mezzogiorno. Sulla scia di nuove iniziative editoriali, tra cui l’einaudiana storia delle regioni, nel corso degli anni Ottanta la “questione meridionale” si trasforma, non appare più omogenea, non è più declinabile nei termini del dualismo tra Nord e Sud. Mentre viene chiusa la Casmez e si liquida l’intervento straordinario, ci si avvede dei grandi divari interni Enrico Francia, Le baionette intelligenti. La guardia nazionale nell’Italia liberale (1848-1876), Bologna, Il Mulino, 1999. 63 Elena G. Faraci, L’Unificazione amministrativa del Mezzogiorno, Roma, Carocci, 2015, propone una prima sistemazione dell’intera vicenda delle luogotenenze militari. 62 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 95 Tra i molti saggi che ridefiniscono la “questione meridionale” negli anni Ottanta rinvio a quelli numerosi di Piero Bevilacqua, prima su “Studi storici” e poi su “Meridiana”, che non elenco per ragioni di spazio. Cfr. “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 1, 1987, Presentazione, pp. 13 e 18; Biagio Salvemini, Sulla nobile arte di cercare le peculiarità del Mezzogiorno, in “Società e storia”, XVIII, 1995, pp. 353-372.“Meridiana” è stata un laboratorio sperimentale sulle complessità del Mezzogiorno e ha avviato una riconsiderazione dei divari interni al Sud per tutta l’età moderna e contemporanea. Nel tempo la rivista ha allargato l’ambito alla criminalità, e ai suoi rapporti col brigantaggio, ad esempio Rosario Mangiameli, Banditi e mafiosi dopo l’Unità, in “Meridiana - Rivista di storia e scienze sociali”, n. 7-8, sett. 1989-genn. 1990, p. 89. Ne è seguita una attenzione alle dinamiche della violenza, per esempio Daniele Angelini e Dino Mengozzi (a cura di), Una società violenta. Morte pubblica e brigantaggio nell’Italia moderna e contemporanea, Manduria, Lacaita, 1996, frutto di un convegno del 1995. 65 Marta Petrusewicz, Signori e briganti. Repressioni del brigantaggio nel periodo francese in Calabria, in Storia e cultura del Mezzogiorno, Roma, Lerici 1977, pp. 333-346, e soprattutto Ead., Latifondo. Economia morale e vita materiale in una periferia dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989, specie pp. 227-238, uno studio fondamentale per capire la società agraria e la dissoluzione dell’economia del latifondo. 64 ©UNICOPLI al Mezzogiorno. Tra gli studi innovativi contro gli stereotipi meridionalisti vanno richiamati quelli dell’Imes a partire dalla sua nuova rivista “Meridiana”64. Rispetto agli studi di Pasquale Villani, Villari e Giarrizzo, le trasformazioni delle campagne meridionali scivolano sullo sfondo, tranne per alcune eccezioni tra cui gli studi molto approfonditi sul latifondo dei Barracco in Calabria condotti da Marta Petrusewicz, che dedicava un robusto capitolo al brigantaggio e alle ragioni per cui la grande proprietà, dotata di una propria manovalanza armata, ne restò relativamente immune. L’autrice, che riporta addirittura una cifra – decisamente poco plausibile e in contrasto con altre stime – di 100.000 briganti in Calabria nel 1862-1863, ne attribuisce l’esplosione non ad una fede legittimista quanto alla «aumentata presenza dello Stato e dei suoi rappresentanti [la quale] aumentava le occasioni di conflitto con le popolazioni locali (…) che piuttosto che affidarsi alla giustizia estranea ed “ingiusta” preferivano farsi briganti»65. Proprio quando gli studi cominciavano a spiegare le articolazioni interne ai singoli casi territoriali, la curiosità sulle classi e sulle strutture produttive scemava mentre cresceva l’esigenza di studiare le culture del passato e di cogliere i tratti di modernità meridionale. Così l’incrocio tra il regionalismo e l’impostazione “anticoloniale” dava luogo negli anni Ottanta ad una critica sofisticata alle precedenti narrazioni e alle culture “orientaliste” che si applicano al Mezzogiorno a partire dell’Ottocento e lo definiscono “arretrato”. Questa linea di storia culturale non si interroga più sulla partecipazione attiva delle classi dirigenti meridionali al movimento unitario e ai governi post-unitari, o sulla meridionalizzazione del ceto politico e amministrativo avvenuta con la Sinistra storica, ma sostiene che sono gli sguardi degli osservatori a definire la “questione meridionale” e ad uniformarvi tutto il Mezzogiorno. Dal dibattito sulla attualità e sulle modifiche profonde del ruolo dello Stato, che sfoceranno in un acceso dibattito sulla tenuta della nazione, emergono Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 96 nuovi interrogativi anche alla storia del Risorgimento, fra cui quelli attorno a due grandi nodi: a) come si ripropone la questione della nazione davanti alla proiezione globale di alcuni Stati occidentali e alle sfide della comunicazione di massa; b) come mai nel caso italiano si affermi improvvisamente una “questione settentrionale” che assume, contro tutta la tradizione politica dello Stato italiano, la forma di un movimento politico territoriale, latamente separatista e dichiaratamente antimeridionale66. Sono questioni che incidono, seppur indirettamente, sugli interrogativi degli storici e si accompagnano a un’attenzione accresciuta alle soggettività, ai linguaggi e alle forme culturali del canone nazionale sulla cui performatività nel Risorgimento soprattutto Alberto M. Banti ha insistito67. Quegli stimoli avviano una rilettura della storia nazionale alla luce di un processo di integrazione europea che, attorno alla fine della Guerra fredda e alla redazione del Trattato di Maastricht, tra 1989 e 1991, suscita grandi aspettative cosmopolite per un superamento del nazionalismo. Si allarga lo sguardo sul Mezzogiorno dall’Italia all’Europa, e dall’Europa ad altri continenti; contemporaneamente la storiografia comincia a guardare in chiave culturalista e di lungo periodo le aspettative degli stati preunitari verso il nascente Stato italiano. Non pare azzardato collegare alla nuova ondata di interessi sulla cultura del Risorgimento la temperie di un decennio segnato dalla crisi del sistema dei partiti e dalle fragilità della Repubblica. Lo studio si sposta, allora, dalla ricerca delle cause o degli effetti materiali, ai sentimenti, alle aspettative e alle delusioni, e il Risorgimento fuoriesce dalla narrazione unitaria: ci si sposta dallo Stato nazionale alla scala europea e al colonialismo, e si riconsidera l’Unificazione dentro una transizione difficile dall’Antico regime allo Stato liberale68. In questo mutamento di prospettiva, si pone crescente attenzione alle percezioni e alle narrazioni, allontanandosi pian piano dai corposi processi economici e sociali che accompagnarono l’affermazione del moderno capitalismo nell’Italia meridionale. Ad esempio Marta Petrusewicz ha spostato le sue indagini proprio su queste percezioni “orientaliste”, vedendo nelle disillusioni degli esuli meridionali dopo il 1848 la matrice principale del passaggio da un giudizio negativo sui Borbone a un pregiudizio antropologico Aperto dall’Historikerstreit nel 1986, il dibattito sulla nazione ha tratto impulso in Italia dalla critica leghista allo Stato unitario, per articolarsi poi attorno ai libri di Gian Enrico Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Una società tra identità nazionale e integrazione europea, Bologna, Il Mulino 1993; Maurizio Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Roma-Bari, Laterza, 1995; Ernesto Galli Della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996. 67 Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità ed onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000; Idem, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011. 68 Cfr. la messa a punto di oltre un ventennio di studi costituita da Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, a cura di Alberto M. Banti e Paul Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007. 66 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 97 69 Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011; Ead., Chi ha inventato la questione meridionale? in Briganti o emigranti? Sud e movimenti tra ricerca e studi subalterni, a cura di Orizzonti meridiani, Verona, Ombre Corte, 2014, pp. 17-29. 70 John Dickie, A World at War: The Italian Army and Brigandage 1860-1870, “History Workshop”, n. 33, Spring 1992, pp. 1-24 e idem, Una parola in guerra: l' esercito ita!iano e il "brigantaggio" . (1860-1870), in “Passato e presente”, n. 26, maggio-agosto 1991. 71 Gian Enrico Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa, Torino, Einaudi, 1987; Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Renzo De Felice, Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini & Castoldi, 1995. 72 Indro Montanelli, Roberto Gervaso, Mario Cervi, Storia d'Italia, 22 voll. , Milano, Rizzoli, 1965-2000; e Ruggiero Romano, Corrado Vivanti (a cura di), Storia d'Italia, Torino, Einaudi, 6 voll. 1972-1976. Si sarebbero poi aggiunte dal 1977 la serie delle Regioni e dal 1978 quella tematica degli Annali. ©UNICOPLI sul Mezzogiorno69. Alla percezione del grande brigantaggio da parte dei militari si rivolge invece il saggio di John Dickie sulle istruzioni ai plotoni di esecuzione, tenuti a sparare alle spalle, a segno di disprezzo dei fuorilegge70. La storiografia sul Risorgimento risente dei riflessi di un dibattito nato su altri terreni. Dalla seconda metà degli anni Ottanta torna in auge una pubblicistica sedicente revisionista, critica dell’antifascismo e della Resistenza, che rimette al centro il tema della guerra civile in luogo della Guerra di liberazione del 1943-1945. Sulla scorta del dibattito avviato in Germania da Ernst Nolte e da Jürgen Habermas, a partire dalla crisi dei partiti di massa e delle loro narrazioni repubblicane, apre in Italia un dibattito pubblico sulla Resistenza come “guerra civile”71: un dibattito che finirà per investire l’intero arco della storia nazionale e per sollecitare uno smantellamento di ogni connotazione positiva attribuita all’idea dello Stato nazionale. La storiografia si sente chiamata da allora a due compiti contraddittori, colmare le lacune delle narrazioni consolidate che vedono nello Stato nazionale un elemento in sé positivo, e al contempo ampliare la propria tradizione critica dei tratti apologetici di quello Stato, propri di una narrazione nazionalistica più che patriottica che aveva ancora solide appendici in una pubblicistica diffusa (si pensi alle riviste illustrate di storia militare e di storia italiana, o alla storia d’Italia di Montanelli e Cervi, la più venduta sul mercato anche dopo l’eccezionale successo editoriale della Storia d’Italia einaudiana negli anni Settanta72). L’ottica cosmopolita europea e la critica del nazionalismo favoriscono, sulla scia di quanto avviene in Germania e Francia, una rivisitazione radicale, tuttora in corso, degli aspetti meno edificanti della storia nazionale, dei crimini commessi nelle colonie in nome della nazione, una interrogazione delle responsabilità italiane nelle due guerre mondiali e nella persecuzione degli ebrei e di altri gruppi, mentre si avvia lo studio di tutti quegli aspetti soggettivi e comunicativi che la categoria di classe faticava a ricomprendere. Si avvia una impostazione critica ad un tempo del nazionalismo e delle modalità dell’unificazione, più attenta al Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 98 punto di vista dei protagonisti, degli esuli e dei dissidenti, che finisce per rimettere in circolo anche la tesi della guerra civile per l’unificazione73. Alla storia si affida, nella crisi della politica, il compito di tribunale morale del Paese: di chi la colpa della crisi italiana? Anche sulla scia della ricerca di una “memoria condivisa” auspicata dall’allora presidente della Camera Luciano Violante, all’indomani di Tangentopoli, la storia d’Italia viene rivisitata in ottica giudiziaria in un significativo volume dedicato alla storia della criminalità, nella quale il brigantaggio torna ad essere assunto come questione criminale e morale74. Il saggio di Daniela Adorni in quel volume offriva una interessante sintesi tra l’approccio culturale e quello antropologico. L’autrice si concentrava su come la vicenda del brigantaggio fosse stata percepita “dall’alto” e illustrava il corto circuito prodotto nell’elite piemontese dall’impatto con il “brigantaggio”. Dal giudizio negativo del 1859-1860 sul regime politico sul Regno di Napoli, e sulla “sua borghesia pavida e opportunista”, la classe dirigente settentrionale sarebbe passata dal 1861 in poi alla “condanna morale dell’intero Mezzogiorno”. Adorni riprende molti argomenti di Della Peruta, Alatri e Molfese sulle cecità della Destra sabauda e sull’insurrezione contadina ma vi aggiunge un elemento nuovo, il precipitare «tra la primavera e l’estate di quello stesso anno [1861] dello spirito pubblico nel Sud che veniva via via ad assumere i connotati di una vera e propria guerra civile». Se già Sereni e Molfese avevano parlato di una specie di Silvio Lanaro, Le élites settentrionali e la storia italiana, “Meridiana”, n. 16, gennaio 1993, pp. 19-39; Marco Meriggi, Breve storia della questione settentrionale dall’Ottocento a oggi, Roma, Donzelli, 1997; Giuseppe Berta (a cura di), La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, in “Annali della Fondazione Feltrinelli”, 2007, specie il saggio di Marco Meriggi, I mutevoli confini storici del Nord. Sarà poi Meriggi, assieme a Marco Revelli e Marco Rossi Doria, a rispolverare l’interrogativo – tipico della discussione revisionista sul ruolo degli Alleati nel 1943-45 – “liberazione o conquista?”, in tre fascicoli per il Cinquantesimo, supplementi a “Il Manifesto” (La Conquista. L’Unità italiana nell’era della borghesia 1815-1870. I. Restaurazioni, II. Rivoluzioni e III. Nazioni), settembre 2011, e a impiegarla in Nord e Sud nell’unificazione italiana. Una prospettiva transnazionale, in Maria M. Rizzo (a cura di), L’Italia è. Mezzogiorno, Risorgimento e post-Risorgimento, Roma, Viella, 2013, pp. 27-41. 74 Daniela Adorni, Il brigantaggio, in Storia d’Italia, Annali, vol. 12, a cura di Luciano Violante, La criminalità, Torino, Einaudi, 1997, pp. 290-319. Questo filone segue un rinnovato interesse degli studi sulla criminalità, la cui origine stava nell’interrogativo degli anni Sessanta e Settanta sul frequente impiego della legislazione repressiva in età liberale, di cui si è detto: cfr. ad esempio Luciano Violante, La repressione del dissenso politico nell’Italia liberale: stati d’assedio e giustizia militare, “Rivista di storia contemporanea”, V, 1976, n. 4, pp. 481-524, Roberto Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, cit., e di recente Id., La regola è l’eccezione. La legge Pica nel suo contesto, “Nuova rivista storica”, XCVII, 2, 2013, pp. 405-443. Sulla unilateralità di questo approccio giuridico esprime riserve Salvatore Lupo. Una sintesi dell’esercizio della giustizia militare nella repressione del brigantaggio in Carlotta Latini, Cittadini e nemici. Giustizia militare e giustizia penale in Italia tra Otto e Novecento, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 175-199. Riprende la tematica dei crimini dell’Unificazione Alberto Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso italiano, Roma-Bari, Laterza, 2016. 73 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 99 75 Luciano Violante, Delinquere, perdonare, punire, in Storia d’Italia, Annali, 12, a cura di L. Violante, La criminalità, cit., p. XIX. 76 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, specie il saggio di Paolo Pezzino, Risorgimento e guerra civile, pp. 56-86. 77 Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, 3 voll., Roma-Bari, Laterza, 1969-1984. 78 Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia, Annali, vol. XVIII, Guerra e pace, a cura di Walter Barberis, Torino, ©UNICOPLI guerra civile, la categoria si applicava ora allo scontro culturale tra una Destra sorda e cieca e il familismo meridionale. La guerra civile del 1861 diventava così una tappa di una guerra di civiltà tra gli onesti e i criminali, evocata nel saggio introduttivo di Violante che indulgeva all’eccezionalismo italiano: «Nella storia italiana la criminalità e le politiche criminali hanno avuto un peso del tutto anomalo (…) per i confini, troppo spesso sottili, tra politica e criminalità. Per il troppo frequente ricorso al diritto penale o alle misure di polizia come strumenti di governo dei fenomeni economici e sociali». Una tale lettura giuridica offriva spunti interessanti per capire le dinamiche della criminalità organizzata ma stabiliva una continuità tra tutti i fenomeni criminali e prescindeva dalla storia politica e internazionale. Non si rischiava di condannare l’intera tradizione politica unitaria75? La ricerca, un po’ artificiosa, di una memoria unitaria della nazione degli onesti non impediva, e anzi favorì, l’apertura di filoni di indagine sui capitoli oscuri della storia italiana – nella cui scia si sarebbe inserita anche la “scoperta” dell’“armadio della vergogna”. Essa comportava una rivisitazione critica delle narrazioni “ufficiali” sul fascismo e la Liberazione e apriva spazi inediti di dibattito sulla storia dello Stato unitario. Il riconoscimento – per certi versi liberatorio – di aspetti di “guerra civile” anche nei momenti alti della storia unitaria, a partire dalla Resistenza, aveva intanto già trovato nell’opera di Claudio Pavone una sintesi alta che ricomprendeva la guerra civile avvenuta negli ultimi anni della seconda guerra mondiale dentro lo schema delle tre guerre in una, quella di Liberazione, quella civile, e quella di classe76. Il recupero del tema della guerra civile, a fronte della decostruzione dell’idea di nazione formatasi nel Risorgimento, poneva negli anni a cavallo fra fine del Ventesimo e avvio del Ventunesimo secolo l’esigenza di una sintesi complessiva della storia dell’Unificazione nella quale inserire anche il grande brigantaggio, ma ad una simile impresa si frappongono numerosi ostacoli, tra cui la difficoltà di integrare il crollo del regno di Napoli nella costruzione positiva dello Stato unitario, sulla quale si dispone ora della ricostruzione, per molti specialisti definitiva, dell’opera cavouriana di Rosario Romeo, la eterogeneità degli studi locali e l’assenza di sintesi militari ed economiche dell’Unificazione stessa77. La difficoltà del tema aiuta a cogliere l’importanza del saggio di Salvatore Lupo, che in quegli stessi anni vede l’Unificazione come fine del Risorgimento78. Il saggio non ambiva ad una compiuta sintesi del brigantaggio, di cui pure ©UNICOPLI 100 Carlo Spagnolo ripercorre tappe e dinamiche, ma a sollevare interrogativi sulla contraddittorietà dell’Unificazione e sul modo in cui la storiografia la aveva fino allora inquadrata. La tradizione liberale meridionalista aveva a suo avviso condizionato una lettura troppo omogenea del fenomeno, occultando le inclinazioni neoborboniche di parte del liberalismo meridionale. La guerra civile diventava così per Lupo uno degli assi portanti del discorso, che rivalutava lo scontro tra unitari e filo-borbonici e ne complicava l’articolazione sociale. Come Molfese, anche Lupo vede all’opera un “partito borbonico”, capace di manovrare contadini e briganti, ma se il primo ne limitava l’influenza all’aristocrazia e ai reazionari nel 1861-1862, il secondo la estende al moderatismo liberale. Lupo rileva come nel “partito borbonico” militassero alcuni dei cosiddetti moderati liberali, come la famiglia Fortunato, che avrebbero poi calato un velo sulle proprie commistioni con le bande brigantesche. Per Lupo, il crimine era uno strumento politico diffuso trasversalmente, e il brigantaggio fu un fenomeno politico e criminale assieme. Il silenzio degli intellettuali postunitari sugli aspetti di guerra civile di tutte queste vicende avrebbe comportato una lettura riduttiva del brigantaggio, l’espunzione della dimensione bellica dal discorso pubblico e la sua riconduzione alla generica criminalità e barbarie del Meridione arretrato. Lupo adopera la categoria di guerra civile in maniera metodologicamente avvertita, anche in relazione alla sua durata e alla sua articolazione interna, rimossa troppo sovente da una pubblicistica scandalizzata: «a rivolgere le armi gli uni contro gli altri furono non solo meridionali e ‘piemontesi’, ma anche meridionali e meridionali». E aggiunge: «non c’è nulla di anomalo in tutto questo (…) Nemmeno possiamo indulgere a revisionistiche indignazioni perché del sangue fu versato nella repressione delle insorgenze filo-borboniche e del grande brigantaggio del 1860-1865, come fanno oggi i neo-borbonici o i neo-legittimisti ansiosi di contrapporsi ad una storia ‘ufficiale’ che a loro dire tutto questo avrebbe censurato. In realtà costoro ripropongono inconsapevolmente, con un secolo e mezzo di ritardo, lo scandalo della cultura patriottica ottocentesca, che guardava alla guerra civile come a un peccato imperdonabile quanto il fratricidio»79. Seppure con queste avvertenze, la guerra civile diventa così l’espressione sintetica della transizione duosiciliana nello Stato unitario, e contribuisce a spiegarne la penetrabilità a nuovi poteri criminali che si affacciano all’indomani del 1860. Transizione e reti criminali si intrecciano, e Paolo Macry, assieme ad altri ricercatori napoletani, metteva in quel momento a fuoco il “crollo dello Stato” come momento di caos e di opportunità, in cui si producono fenomeni morbosi e violenti assieme a ideali e speranze80. Einaudi, 2002, pp.463-502, e Id., L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli, 2012. Cfr. anche Luigi Musella, Una ricerca sul brigantaggio di Giustino Fortunato, “Contemporanea”, n. 4, 2014, pp. 627-642. 79 Lupo, L’unificazione italiana, cit., pp. 17-18. 80 Paolo Macry (a cura di), Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, Napoli, Liguori, 2003, dove si esplorano i contrasti interni al Regno di Napoli durante il crollo, che Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 101 configura aspetti di guerra civile, tra liberali e conservatori, borbonici e non, che non disdegnano alleanze con bande criminali, anche per stabilizzare l’ordine pubblico. La linea repressiva adottata da Spaventa dal novembre 1860 renderà così, nel caso di Napoli, i camorristi avversi al governo provvisorio a cui avevano inizialmente guardato come un alleato: cfr. Marcella Marmo, Quale ordine pubbblico. Notizie e opinioni a Napoli tra il luglio ’60 e la legge Pica, in ivi, p. 195 sgg.; John Davis, Conflict and Control: Law and Order in Nineteenth-Century Italy, Atlantic Highlands, New Jersey, Humanities Press International, 1988, insiste sull’inclinazione delle autorità borboniche prima e italiane poi a rispondere con misure di ordine pubblico ad ogni problema sociale, e il recente Antonio Fiore, Camorra e polizia nella Napoli borbonica (1840-1860), Napoli, Federico II University Press, 2019, pp. 257 sgg. 81 Sull’unificazione amministrativa cfr. Raffaele Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Roma, Donzelli, 2010, specie pp. 131-137. 82 Come accennato prima, Molfese aveva presente il tema ma ad occuparsene sono stati in prevalenza storici dell’età moderna. Cfr. Antonio Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997; Giuseppe Galasso, Storia del Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale, 1815-1860, Torino, Utet, 2002; Maria M. Rizzo (a cura di), Mezzogiorno Risorgimento e post-risorgimento, Roma, Viella, 2013; Carmine Pinto, Crisi globale e conflitti civili. Nuove ricerche e prospettive storiografiche, “Meridiana”, 78, 2013, pp. 9-30; John A. Davis, Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale e le rivoluzioni europee (1780-1860), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014 (ed. or. 2006). 83 Per una rassegna recente cfr. Alessandro Bonvini, Il patriottismo risorgimentale nel mondo atlantico, ca. 1790-1870, “Storica”, XXIV, 2018, n. 71, pp. 87-132. ©UNICOPLI Dall’insieme di questa letteratura emerge l’esigenza di collegare più strettamente i processi culturali, e l’analisi delle diverse forme di violenza e di guerra, ai corposi processi di trasformazione dei mercati locali e internazionali dopo il 1848, rispetto ai quali lo Stato nazionale e costituzionale apparve ad alcune élites come la strada maestra per un governo politico del mutamento81. La sensibilità sugli spazi della globalizzazione sin dalla fine del Ventesimo secolo ha favorito inoltre una diversa contestualizzazione della crisi del Regno di Napoli, con un allungamento della periodizzazione e un inquadramento del grande brigantaggio nella crisi degli imperi82. Studiare l’unificazione italiana dentro un quadro “atlantico”, di crollo dell’Impero spagnolo, senz’altro suggerisce inedite piste di ricerca comparativa e transnazionale, permette di pensare l’emergere della “questione meridionale” anche come frutto della cesura delle correnti culturali, politiche e commerciali che legavano il Mezzogiorno al Mediterraneo e all’Atlantico meridionale83. Suggestivo è anche il parallelismo tra la guerra civile statunitense, che scoppia nell’aprile 1861, e la vicenda italiana, perché ci parla di un conflitto in corso tra i modelli di sviluppo legati ad un più intenso sfruttamento della terra e del lavoro agrario e i nuovi modelli di mercato aperto, industriale, in cui centrale è la libertà del lavoro. In quella prospettiva, tuttavia, il brigantaggio diventa una appendice della guerra di lunga lena tra imperi e Stati-nazione, quindi parte di una guerra vera e propria. Forme e dimensioni della guerra classica vengono così recuperate e trovano la più ampia e puntuale ricostruzione nel lavoro di Carmine Pinto, che offre un resoconto compiuto dei tentativi della monarchia borbonica di prose- ©UNICOPLI 102 Carlo Spagnolo guire la guerra dopo il settembre 1860. Avvalendosi di fonti borboniche, prima trascurate o poco disponibili, Pinto illustra in dettaglio le strategie dei comandi legittimisti, il tentativo di Francesco II di creare una coalizione internazionale con l’Austria e i carlisti spagnoli, e la sua sconfitta nel corso del 1861. Le alleanze strette dai legittimisti con le bande dei briganti, come egli documenta puntualmente, in Irpinia e Basilicata, si rompono già a settembre 1861 perché «la visione della guerra era diversa», tra i capibanda che «non volevano rinunciare a bottino e saccheggi» e il tentativo di Borjès di ripristinare legge e ordine in nome della monarchia. Il giudizio politico è piuttosto netto: la riscossa legittimista, sebbene avesse successi nelle aree interne, non ebbe mai la capacità di modificare i rapporti di forza e fallì soprattutto a Napoli. Questa ricostruzione sgombra il campo da molti equivoci sul brigante-partigiano, e dimostra quanto le stragi fossero in genere avviate dagli insorgenti. La seria minaccia costituita dalle bande e dalle rivolte urbane innescava risposte dell’esercito italiano (o dei corpi locali) a volte non commisurate, anche per l’insufficienza delle forze disponibili, ma pur sempre riconducibili a logiche di guerriglia e non al mero disprezzo dei civili in quanto meridionali. Nel suo libro anche la geografia e la cronologia della risposta dell’esercito piemontese sotto il comando di Cialdini vengono puntualmente spiegate. Distaccandosi da Molfese, Pinto vede il costruirsi di un’alleanza tra gli unitari moderati, liberali e democratici, inclusi molti ex-garibaldini: Cialdini «condivise con Nicotera, intemediario della Sinistra (…), che era necessario combattere i nemici comuni» e recuperò molti ex-garibaldini nella guardia nazionale84. La guerra diventa così l’unica chiave di spiegazione delle insorgenze: Pinto nega il carattere di classe della rivolta ma sembra piuttosto accantonare che risolvere le questioni poste da Molfese e Lupo85. È forse inevitabile che le vecchie Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 122-124. Cfr. Marco Vigna, Brigantaggio italiano, pref. di A. Barbero, Interlinea, 2020. 85 Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., p. 374, vede nel brigantaggio un fenomeno essenzialmente criminale e mercenario: «Il sistema di sostegno di cui beneficiarono fu trasversale ai ceti sociali e ai gruppi territoriali e largamente ispirato da nobili, religiosi e notabili borbonici, ma non furono mai capaci di provocare una grande rivolta […] per non parlare di una guerriglia contadina a sfondo sociale. […] in nessun caso emerse un conflitto più ampio, in cui i briganti si presentarono in un qualche modo come rappresentanti di ceti bassi contro gruppi dominanti. La guerra che scatenarono alla nazione coinvolse i contadini come collaboratori, o come vittime, mai come rivoluzionari. Anzi, gran parte delle loro azioni colpivano proprio i contadini più di altri ceti […]. Le masse contadine non furono protagoniste di sommosse sociali». L’osservazione è corretta, se si escludono i moti del 1860, ma non supera in alcun modo le tesi di Molfese, Galasso, Romeo, Pescosolido e altri, che tutti concordemente avevano già notato la subalternità e la strumentalizzazione dei briganti fatta da diverse fazioni e dai legittimisti. Come lo stesso Pinto riconosce, i briganti non erano certo sostenitori della lotta di classe ma erano prodotto di una società in cui si erano sedimentati, attorno ai conflitti sul demanio e sulle quotizzazioni, su vecchi diritti resi inefficaci, conflitti irrisolti e forme di prevaricazione entro cui si erano prodotte forme di marginalità sociale, uso della forza e rottura delle gerarchie. Come scriveva Galasso, il 1848 offre nella campagne meridionali «una 84 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 103 vera e propria preistoria del brigantaggio post-unitario, più pertinente e imprescindibile di quanto pensassero non solo la “Civiltà cattolica” , bensì anche coloro alle cui tesi la rivista si opponeva». Cfr. Giuseppe Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale, cit., p. 12. 86 Questa tesi, adombrata da Galasso, e sostenuta da una parte della storiografia, viene ripresa da Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la “questione napoletana” 1861-1870, Nocera Superiore, D’Amico, 2016, e Id., Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico. In appendice Tommaso Cava, Analisi politico del brigantaggio attuale nell’Italia meridionale, Nocera Superiore, D’Amico, 2020, che riprende temi di Pedio e altri, e vede nel “banditismo politico” non solo la prima guerra civile italiana ma anche un conflitto interno alla Nazione napoletana, fase culminante della guerra di fazione insorta già nel 1848 all’interno della borghesia provinciale meridionale, tra legittimisti e “galantuomini liberali”, ritenuti collusi con la camorra napoletana, la delinquenza comune, le “mafie” pugliesi, lucane e calabresi. ©UNICOPLI domande vengano semplicemente accantonate, davanti a nuove che emergono, eppure resta da ricostruire il nesso tra quella ideologia e le condizioni di vita, le ragioni di una economia di sussistenza che di per sé non spiega il brigantaggio ma ne era una condizione necessaria, al contempo una premessa e una conseguenza della eversione della feudalità di fine secolo XVIII e della liberalizzazione dei mercati agrari che si avvia dal 1840 e che ricevette dal crollo del Regno una spallata decisiva, almeno nelle aree in cui il grande brigantaggio si produsse. Come Molfese e Lupo, Pinto riconosce motivazioni proprie dei rivoltosi e dei briganti, quando evidenzia come, nonostante la sconfitta dell’opzione legittimista, nel 1864 il brigantaggio riprendesse vigore, sebbene nella sua narrazione restino in ombra le ragioni. La guerra viene quindi ad assumere una funzione interpretativa dominante all’inizio del Ventunesimo secolo, e le narrazioni pubbliche del brigantaggio si organizzano soprattutto attorno alla riduzione della guerra a guerra civile. Sulla congruità della categoria di guerra civile si potrebbe discutere a lungo. Se intendiamo per guerra civile una guerra tra due o più fazioni di uno Stato per la conquista del potere, quella occorsa nel Regno di Napoli può essere considerata “civile” soltanto in parte, perché nessuna delle fazioni in lotta pensava di rovesciare il trono dei Savoia nel 1860. Si ripropone, insomma, sin dalla sintesi di Lupo, il nodo dei diversi conflitti e delle diverse fasi dell’Unificazione, a cui non rende giustizia l’impiego generico della categoria di guerra civile, che copre campi semantici diversi e almeno tre diverse guerre: - la prima è la guerra civile napoletana e siciliana, interna al Regno delle due Sicilie, che riguarda l’assetto interno, assolutista o costituzionale, autonomista o centralista, che si era aperta nel 1798-1799 e che da allora era andata avanti, proseguendo negli anni Venti e nel 1848, e infine sfociando nel crollo del regno tra maggio e settembre 1860; - la seconda è la guerra formale, una guerra tra due Stati e tre nazioni, quella napoletana e quella siciliana e quella italiana unitaria, la quale si avvia dal 1848 ma si combatte davvero nel 186086. Essa non è affatto guerra civile ma è semmai una “guerra di civiltà” cui la parte borbonica arriva nel 1860 esaurita e priva di sostegno internazionale. Essa muta e diventa guerra irregolare di secessione legittimista interna allo Stato unitario in formazione, tra autunno 1860 e marzo ©UNICOPLI 104 Carlo Spagnolo 1861, e ha breve durata, fino a fine 1861 circa; vede schierati gli eserciti ma anche volontari e forze irregolari, e mobilita il brigantaggio. - la terza è una “guerra di classe” o meglio una rivolta sociale, laddove si apre una contesa sugli assetti proprietari e di potere locali nel rapporto col nuovo Stato, e può giungere al rifiuto di qualsiasi potere statuale. Questa sorta di guerra, come mostrava già Molfese, non si capisce senza collegarla alla diffusione di aspettative legate a Garibaldi, ed inizia come una lotta rivoluzionaria, anche ideologica, tra liberali, democratici e garibaldini, contro moderati e legittimisti, per introdurre cambiamenti rivoluzionari, nel rapporto Stato-Chiesa e nell’assetto del latifondo, nell’assetto amministrativo e politico, per favorire o prevenire esiti autonomisti e rovesciamenti sociali. Questa lotta ha implicazioni nazionali oltre che locali e vede, a differenza della precedente, il Mezzogiorno come antecedente di possibili sviluppi del nuovo Stato. Il suo sviluppo è almeno duplice: consiste da un lato nei tumulti contadini, sorretti da una parte dell’aristocrazia e del clero, nel saccheggio contro i possidenti “borghesi” e nella violenza, e dall’altro nella lotta urbana aperta tra moderati filoborbonici e legittimisti contro forze liberali unitarie. La possiamo chiamare una guerra civile meridionale, e non più napoletana. Nel 1861 diventa guerra controrivoluzionaria dopo la sconfitta dell’opzione rivoluzionaria. È condotta dalle bande ribelli, si lega alla criminalità, è ad alta intensità ed è difficile da isolare perché si mescola con la guerra di secessione e attecchisce nelle aree più impervie, nelle città di collina e sui monti, dove i fedeli legittimisti sono militarmente più organizzati e direttamente collegati alla monarchia borbonica, in Campania, Lucania, Calabria, Abruzzi, Puglia e Molise. Essa non è riducibile alla guerra di secessione e si innesta su microcosmi, faide e aspettative locali, sfocia nella violenza pura e nel rigetto delle logiche fiscali, impositive e finanziarie centralistiche, che il nuovo Stato esaspera ma eredita in parte dal precedente. In inglese si direbbe per opposizione alle policies più che alla polity. Le luogotenenze militari e le forze regolari dell’esercito e dei bersaglieri, dal 1861 al 1866, combattono quindi due diverse guerre in una ma applicano per entrambe lo stesso codice di guerra87. Siamo consapevoli che queste distinzioni non possono essere nette ma possono servire per una esigenza di razionalizzare e distinguere fenomeni su cui la storiografia repubblicana ha faticato a individuare una categoria interpretativa unificante, proprio per la densità di uno scontro che non è soltanto militare ma 87 Tra gli studi recenti che riprendono la questione demaniale con fonti primarie segnalo Antonio Palazzo, Storia del brigantaggio nella valle dell’Ofanto 1860-1865, tesi di dottorato XXVII ciclo, Univ. di Napoli, s.i.d. (2015); e Chiara Recchia, Le facce travisate con farina. Casalvierani nel brigantaggio postunitario, Roma, Aracne, 2016, con una lucida Prefazione di Guido Pescosolido, studi molto accurati che fanno luce non soltanto su casi locali ma sulle logiche sociali che alimentavano il brigantaggio; e per le rivolte urbane legittimiste a Bovino, Vieste e altri centri della Capitanata, Alessandro Capone, Legittimismo e questione demaniale. I repertori della protesta nella Capitanata del 1860-61, “Meridiana”, n. 84, 2015, pp. 213-235. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 105 politico, ideologico, sociale e di ordine pubblico, nel quale si intrecciano le ragioni degli Stati, quelle delle bande dei briganti e degli attori locali. Come suggeriva Lupo, la guerra come categoria interpretativa potrebbe confonderci e dovremmo affiancarle la categoria di conflitto, e persino di rivoluzione, per via di quel processo di unificazione in cui il grande brigantaggio ebbe caratteri non solo reazionari ma anche rivoluzionari (o contro-rivoluzionari), specialmente laddove ruppe il legame tra Stato e Chiesa. Poiché guerra e conflitto sono concetti asimmetrici, eppure intrecciati, si potrebbe proporre uno schema un po’ grezzo – una matrice che metta in ascisse il conflitto e in ordinata la guerra – che attraverso diverse gradazioni salga dal conflitto alla guerra. Tab. 1. Caratteristiche dell’unificazione italiana Conflitto ideale / Guerra civile Conflitto politicoideologico (conservatori-liberalidemocratici ecc.) Lotte interne e intestine Criminalità-jacquerierivolta locale Guerra di annessione (comporta l’incorporazione dello Stato nemico) Guerra civile interna (crollo Regno delle due Sicilie) Repressione armata (Stato di eccezione) Insurrezione armata - guerriglia Rivoluzione politica/ Controrivoluzione Un simile schema semplificato, mera tassonomia delle forme di conflitto che si presentano nella fase di transizione, forse estensibile anche ad altri casi nazionali, aiuta a cogliere alcuni slittamenti semantici che attraversano il dibattito sul grande brigantaggio meridionale, la cui complessità sta nella sovrapposizione dei molti piani della guerra esterna e della violenza interna, nell’intreccio peculiare tra scontro sociale, repressione e guerra internazionale che avviene in un breve volgere di tempo. ©UNICOPLI Guerra vera e propria tra forze armate Guerra classica tra Stati (non comporta necessariamente la scomparsa dell’avversario ma può determinare modifiche territoriali) Guerra internazionaleconflitto di civiltà (comporta la scomparsa di un sistema politico, giuridico e sociale, ad esempio Stato nazionale di diritto/Ancien régime) 106 Carlo Spagnolo ©UNICOPLI 3. L’uso pubblico all’alba del Ventunesimo secolo Il brigantaggio ha sempre suscitato attenzione nell’opinione pubblica italiana, basti a dimostrarlo una rapida scorsa sull’archivio elettronico del “Corriere della sera”, dove risultano ben 5.050 articoli in cui ricorre il lemma, dal 1876 a ottobre 2018. La presenza è stabile, ma i picchi massimi si ebbero tra il 1967 e gli inizi degli anni Settanta del secolo scorso (1967: 193 articoli; 1971: 81), quando negli articoli di fondo si parlava delle estorsioni praticate dal brigantaggio in Orgosolo. Dagli anni Ottanta il tema entra in una fase di declino quantitativo (1979: 87 artt.; 1992: 51; 2008: 27) perché l’argomento viene confinato alle pagine culturali, d’altronde proprio questa esclusiva dimensione culturale è un dato di novità. Col declinare del secolo Ventesimo l’utilizzo del termine si dissocia progressivamente dalle forme storiche della criminalità e dalla discussione sulla mafia, sulla camorra o sulla ‘ndrangheta, mentre si confina progressivamente alle discussioni culturali attorno all’Unificazione italiana, diventando un terreno di confronto sulle politiche della memoria. Non era nemmeno questa una novità assoluta. Storici e giornalisti si cimentano col “grande brigantaggio” soprattutto a ridosso delle grandi celebrazioni dell’Unità, sin dal 1911 e ancor più nel 1961, in particolare quando matura una discussione complessiva sui caratteri del Mezzogiorno, sulle forme del capitalismo italiano e sull’uso della violenza come forma di regolazione dei conflitti. Una critica al Risorgimento emerse già allora, mentre nel corso degli anni Sessanta e Settanta nei media si era affermata una narrazione epica del brigante ribelle. Dagli anni Ottanta essa si collega alle identità regionali. In Sicilia l’assemblea regionale respingeva a scrutinio segreto, il 17 marzo 1982, «la proposta di un monumento da erigere a Marsala nel centenario della morte del condottiero dei Mille. Il Garibaldi che capeggiò quella spedizione, si è detto, non era più il democratico combattente contro la dittatura Rosas o il protagonista della disperata difesa della repubblica romana del 1849. Dietro di lui si profilava, attraverso il prodittatore Depretis, l’ombra sinistra di Camillo Benso»88. In quell’occasione, secondo Romeo «i più espliciti oppositori dell’iniziativa» furono i missini e i comunisti, «i due gruppi, cioè, che fino a qualche decennio fa erano attestati sulle posizioni più intransigentemente unitarie». Due anni dopo, Galasso notava come «Le figure dei briganti, le loro gesta, sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali, assumendovi il significato di ragioni di fama e di distinzione di quei luoghi. (…) si sottolinea che si trattò di vicende di grande importanza storica, per cui oscuri villaggi e impervie gole appenniniche meritano di essere ricordati dalla grande storia, e Rosario Romeo, Niente eroi per i siciliani, “Il Giornale”, 15 maggio 1982, ora in Id., Scritti politici 1953-1987, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 256-258. 88 Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 107 Giuseppe Galasso, Un tema, un convegno, (introduzione ai lavori del convegno del 1984), “ASPN,” terza serie, a. XXII, vol. CI, 1983, p. X. 89 ©UNICOPLI che in qualche modo ne hanno determinato il non molto felice destino (…), e continuano a determinarlo»89. Si avvia allora, attorno all’articolazione dell’autonomia regionale e delle connesse ricerche di identità appunto regionali, quello slittamento di cui abbiamo trovato traccia anche nella storiografia, dal nazionale al locale e un recupero, prima identitario e poi economico e turistico, di memorie e narrazioni mai del tutto abbandonate, accomunate dalla valenza in fondo positiva della lotta dei briganti, che ne rimuoveva le caratteristiche violente. All’interno di un circuito mediatico in espansione, quelle narrazioni avrebbero trovato occasioni per accedere a un pubblico più vasto, e tuttavia non pare del tutto convincente la tesi che vede nella mera performatività di quelle narrazioni la ragione del loro successo. Un circuito commerciale popolare in cui il mito del brigante attira lettori e spettatori c’è sempre stato, ma ciò non spiega come mai nell’Italia degli esordi del secolo Ventunesimo sia il grande brigantaggio a trovare attenzione e non ad esempio il vecchio Fra’ Diavolo con le bande controrivoluzionarie del cardinale Ruffo. È invece da considerare il contesto creato dalla critica allo Stato unitario che, in varie forme, emerge con la nascita della Lega Lombarda tra 1982 e 1984 e col suo successivo dispiegamento nella “Padania”. La formazione di un partito territoriale rompeva infatti un tabù profondamente innestato nella cultura politica meridionale, da sempre fortemente centralista, non ultimo per le scelte fatte tra 1860 e 1864. Al federalismo e alle appartenenze rivendicate dalla Lega Nord, la cultura meridionale non ha trovato argine dopo la dissoluzione dei partiti di massa e la marginalizzazione subita dalla costellazione prodottasi negli anni Novanta. Tra la fine dell’intervento straordinario del 1985, la scelta referendaria di abrogare l’Agenzia per lo Sviluppo e la Promozione del Mezzogiorno, ex-Casmez, e l’introduzione di un sistema politico maggioritario che produce logiche di schieramento dualista a livello regionale, entrano in discussione le narrazioni unitarie. E tra gli anni Novanta e l’introduzione dell’euro nel 2001 si consumano alcune speranze suscitate dall’integrazione europea. Lo squilibrio innescato da una sussidiarietà fondata sulle autonomie e l’integrazione del Mezzogiorno nel mercato unico non ha trovato un bilanciamento istituzionale adeguato all’idea dei molti Mezzogiorni, come si è manifestato nella controversa riforma del Titolo V della Costituzione. Mentre si accentua la sensibilità alle differenze interne al Mezzogiorno, anche la storiografia abbandona l’interrogativo sullo sviluppo, all’incirca a partire dalla fine degli anni Ottanta, per oltre un ventennio. Nonostante alcuni significativi interventi proposti dall’Imes o da altri gruppi intellettuali, si oscilla tra un giudizio sulla politica meridionale soggetta da sempre alla criminalità, alla corruzione del ceto politico, e uno sul Mezzogiorno come territorio frammentato, non riconducibile a nessuna politica di svilup- ©UNICOPLI 108 Carlo Spagnolo po, arretrato per via della sua frammentazione e quindi ingovernabile. Si era di fronte ad una introiezione del paradigma di Banfield che accantonava tutta la tradizione gramsciana e persino quella azionista dei Romeo e dei Giarrizzo. Se molti segnali di critica di massa al Risorgimento e allo Stato unitario erano emersi con la propaganda leghista sin dai tardi anni Ottanta, e con l'antipartitismo della nuova destra missina, è soltanto con la crisi della narrazione europea, specie dopo la crisi finanziaria del 2008, che muta radicalmente il tono e si dispiega un sorprendente consenso “neoborbonico”. Nel 2010, mentre si avvia tra qualche polemica l’impostazione delle celebrazioni del Centocinquantesimo dell’Unificazione, grande successo editoriale arride alla denuncia di un giornalista che aveva “scoperto” che quell’Unificazione era stata sanguinosa e, senza accontentarsi della nozione di “guerra civile”, parlava addirittura di un “Olocausto” italiano, applicando ai remoti eventi del 1860 il linguaggio delle leggi razziali e dello sterminio etnico. Si trattava chiaramente di un parto fantasioso. Finalmente il Mezzogiorno trovava un contraltare alla narrazione leghista, peccato che fosse frutto di generosa immaginazione e di una pesante “sollecitazione” delle fonti per far dire loro quello che non avrebbero mai potuto dire. Pino Aprile parlava di «centinaia di migliaia, forse un milione di meridionali (...) sterminati dalle truppe sabaude» (Terroni, p. 14) - trascurando che sui circa 6,8 milioni di abitanti del Regno di Napoli nel 1861, una simile cifra avrebbe cancellato la popolazione maschile attiva con effetti di lungo periodo non occultabili - e così, cancellava i molti patrioti settentrionali e meridionali caduti contro i Borbone o per mano dei briganti, e trasformava la complessa lotta politica e militare dell’unificazione in una vicenda di occupazione coloniale razzista con tanto di stragi, incendi e distruzioni di villaggi. Quel linguaggio viene recepito anche da diversi insegnanti nelle scuole perché si riallaccia al dibattito del primo decennio di questo secolo Ventunesimo attorno alla istituzione di nuove giornate della memoria. Le repressioni contro le bande dei briganti condotte dall’esercito piemontese vengono assimilate a quelle delle SS del 1943-1945. Finalmente il Mezzogiorno, novello Israele, ha le sue vittime da risarcire per i fatti di Pontelandolfo e Casalduni, invocati come precedenti di Marzabotto e S. Anna di Stazzema. Non manca nemmeno il campo di concentramento e sterminio, individuato a Fenestrelle90. Non che esecuzioni sommarie e stragi non fossero avvenute, e spesso in località oggi nemmeno ricordate della Basilicata, del Sannio, dell’alto Molise, degli Abruzzi, del basso Lazio, della Puglia (Ariano Irpina, che fu la prima, Avellino, Cantalupo, Macchiagodena, Rionero del Sannio, Gioia del Colle, o la reazione di Isernia dove morirono 1245 persone ecc.) ma si trascurano quelle commesse da bande di briganti guidate da filoborbonici che cercarono la riscossa nei primi mesi del 1861, 90 Su questo si veda la puntuale replica di Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari, Laterza, 2012. Sulla genesi del movimento neoborbonico cfr. il saggio di M.T. Milicia in questo volume. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 109 Pino Aprile, Terroni: Tutto quello che è stato fatto perchè gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme 2010, pp. 3 sgg., p. 14 per la citazione del milione di morti . Mentre il libro ebbe una accoglienza controversa, diverso fu l'atteggiamento sulle singole vicende e sulle stragi. A proposito della strage di Pontelandolfo, sulla stampa si parlò di 400-900 morti (Paolo Rumiz, Il massacro dimenticato di Pontelandolfo. Quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti, “La Repubblica”, 27 agosto 2010; Sergio Rizzo, Gian A. Stella, Il rogo delle case e 400 morti che nessuno vuole ricordare, “Corriere della sera”, 22 settembre 2010). Nonostante un distacco critico dalle tesi di Pino Aprile, anche Paolo Mieli, Risiera di San Sabba, poltrone e sensibilità, "Corriere della sera", 14 ottobre 2001, e Pierluigi Battista, Come ti riscrivo l'Unità d'Italia, ivi, 6 settembre 2010, parlarono di migliaia di morti per stragi per mano piemontese, e invocarono un risarcimento morale per le vittime di Pontelandolfo. Su “Il Mattino” si menzionarono 900 morti. Eppure della strage di Pontelandolfo si sapeva già quasi tutto. Iniziata con il brutale sterminio di una quarantina di soldati, la reazione militare portò alla morte di 13 persone e, forse, all’incendio di una parte del paese, un fatto grave ma ben lontano dalle cifre denunciate per le quali si chiese il riconoscimento del Centocinquantesimo. Era appena stato pubblicato un libro ben documentato di Davide F. Panella, L’incendio di Pontelandolfo e Casalduni: 14 agosto 1861, Foglianise, Piesse, 2002; di recente è tornata sulla vicenda e sul suo uso pubblico Silvia Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (18612019), Roma, Viella, 2020. 92 Mi permetto di rinviare a Carlo Spagnolo, Fine dello Stato? Appunti sulle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, “Ricerche Storiche”, vol. XLII, n. 2, maggio-agosto 2012, pp. 273-310; Paolo Peluffo, La riscoperta della patria, Milano, Rizzoli, 2008; Giovanni 91 ©UNICOPLI mentre interessano soltanto le repressioni militari, le cui gesta diventano pulp. Il Risorgimento diventa nostro contemporaneo91. Sorprende, a distanza, che le obiezioni di alcuni storici e giornalisti alla strana contabilità dei morti restassero inascoltate, mentre autorevoli quotidiani dettero ampio risalto a strepitose scoperte. Nel 2010, il numero degli articoli sul brigantaggio sul “Corriere della sera”, dai 27 del 2009, risaliva a 46. Sull’onda emotiva che segue alla rincorsa delle stragi, Giuliano Amato, presidente del comitato dei garanti delle Celebrazioni del Centocinquantesimo, nel 2011 porge le scuse a Pontelandolfo a nome del Presidente della Repubblica per «quanto è successo» ed «è stato relegato ai margini dei libri di scuola», e riconosce al Comune lo status di “luogo della memoria”. Se quella voleva essere una risposta accomodante verso il Sud, e di rigetto della contestazione della Lega Nord che rifiutò di partecipare alla seduta della Camera del marzo 2011 in cui si commemorava la nascita dello Stato unitario, non si può dire che fosse una scelta lungimirante. Mentre la Germania, nel riconoscere le proprie responsabilità, si basa su un attento rapporto con la ricerca, le autorità italiane sancirono la prevalenza dell’emotività sulla conoscenza storica. La dicotomia vittime/carnefici, mutuata dalle commemorazioni di Auschwitz, poteva estendersi a qualsiasi evento del passato. Il discorso neoborbonico applicava al solo Mezzogiorno l’esortazione alla coesione sociale rivolta dal Presidente Ciampi e dal Comitato per le celebrazioni a tutti gli italiani. Alla storia, durante le celebrazioni dell’Unità, si affidava un compito morale, ossia istruire gli italiani degli indubbi successi dello Stato e spingerli a reagire al declino92. ©UNICOPLI 110 Carlo Spagnolo A fronte, insomma, di un approccio etico alla storia, si forma un discorso sudista vittimista, fondato su presupposti etnico-territoriali, che fa specchio alla critica leghista, ed è radicalmente contrario alla narrazione patriottica del centocinquantesimo dell'Unità che vede nell'europeismo e nell'euro il compimento del disegno risorgimentale. Nel respingere orgogliosamente l’accusa di gravare sull’economia settentrionale, quella pubblicistica richiama un Regno di Napoli scopertosi improvvisamente “avanzato”. Essa coglie un vuoto di rappresentanza, e la scomparsa dei soggetti che avevano elaborato le narrazioni meridionaliste e antifasciste. Non sono mancate sulla stampa alcune voci critiche di storici come Galasso, De Lorenzo e Macry ma la narrazione di Pino Aprile ha avuto presa sull’opinione pubblica perché non esistevano in quel momento narrazioni sintetiche dell’Unificazione dal punto di vista del “popolo” meridionale. Mentre la migliore storiografia parla del crollo dello Stato e della lunga decadenza borbonica, il pamphlet di Aprile denuncia la genesi delle élites unitarie – una casta anch’essa? – e in questo sta una ulteriore ragione del successo. Aprile propone la prima narrazione unificante della condizione di subalternità del Mezzogiorno, e ne attribuisce le debolezze allo Stato, anzi ad uno Stato estraneo, straniero. Il pamphlet costruisce una cronaca di singoli episodi privi di ogni serio riferimento al contesto storico mentre vellica la psicologia collettiva. Maturato nelle emergenti comunità del web dal 2001 in poi, il neoborbonismo intercetta un sentito bisogno di appartenenza con la denuncia antipolitica. La ricerca storica ha difficoltà a decostruire quella costruzione narrativa che viene ripresa e diffusa sul Web da numerosi siti e da un vero e proprio movimento neoborbonico, rivendicativo contro i silenzi di una inesistente “storiografia ufficiale”. Come abbiamo provato a mostrare, l’accusa era infondata ma coglieva alcune lacune e incertezze interpretative che si erano accumulate sul finire del Ventesimo secolo. Anche sul numero dei morti. Se la stima di Ciconte, che ricalca quella di Molfese, di circa 8.200 briganti e civili caduti nelle repressioni del 1861-64 può apparire parziale, perché consapevolmente basata su fonti militari troppo restrittive93, Martucci aveva probabilmente esagerato rivalutando le cifre tra le 20.000 e le 70.000 unità. Lupo ha espresso riserve sulle stime di Martucci con argomenti che mi paiono fondati94. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli, 2011; Maria Pia Casalena (a cura di), Antirisorgimento, Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, Bologna, Pendragon, 2013. 93 Molfese, Storia del grande brigantaggio, cit., Appendice II, pp. 361-364, avvertiva sulla limitata attendibilità delle cifre militari: dal 1 giugno 1861 al 31 dicembre 1865 , i briganti messi fuori combattimento sarebbero stati 13.853 (5.212 fucilati o uccisi, 5.044 arrestati, 3.597 costituitisi). Mancavano sia le fasi precedenti e successive, sia le cifre dei caduti civili, sia le perdite dell’esercito e delle guardie nazionali. 94 R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita 1855-1864, Milano, Sansoni, 1999, pp. 314315, Lupo, L'unificazione italiana, cit., p. 133 n. 62, e la replica di R. Martucci, La regola è l'eccezione, cit., pp. 437 sgg. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 111 Enzo Ciconte, La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Roma-Bari, Laterza, 2018, p. 164. Su Ciocca v. n. 101. 96 F. Molfese, Le repressioni del brigantaggio nel Mezzogiorno continentale (1860-1870), ASPN, 1983, cit., p. 52. 95 ©UNICOPLI Forse più attendibili sono le cifre di Ciocca, che stima un numero di caduti di circa 15.000 persone, di cui 10.000 briganti e civili per le repressioni e forse 5.000 loro avversari, inclusi soldati, guardie ecc. e stima alla macchia un numero variabile di persone, forse fino a 80.00095. A centocinquant’anni dall’Unità, ancora non sappiamo esattamente la consistenza delle bande, le loro dinamiche numeriche (Molfese contava 388 bande, di dimensione variabile, a seconda delle circostanze, da poche unità fino a oltre 2.000 uomini per quelle di Chiavone e Crocco), il numero dei caduti, e nemmeno le cifre dei reparti militari impegnati nella repressione (Molfese calcolava ben 105.000 uomini a disposizione dell’esercito nel 1863, oltre a 6.353 carabinieri, ma sono cifre mutevoli nel tempo e non tutti erano impegnati nella lotta al brigantaggio)96. Non è tutta colpa della storiografia, perché quel lavoro non fu fatto all’epoca dalle autorità preposte, e per ricostruirlo a posteriori ci vorrebbe un’indagine certosina di équipe che dovrebbe coinvolgere sia gli uffici storici militari sia i migliori studiosi. Sin qui gli storici hanno operato individualmente e, nei casi migliori, hanno potuto indagare le cifre dei caduti in singoli eventi, o stimare le cifre per alcune aree o momenti, senza poter arrivare ancora al quadro di insieme. Le stime di Ciocca indicano un ordine di grandezza plausibile, sebbene ancora poco ci dicano dell’articolazione territoriale, tuttavia siamo ben lontani dai 100.000 morti infilati a forza nei cimiteri burocratici dei consigli regionali. Le assemblee regionali sembrano credule quanto le amministrazioni russe ottocentesche di cui parlava Gogol’ nel romanzo Le anime morte, in cui spiegava perché nella Russia zarista gonfiare le cifre dei morti potesse essere redditizio. Nel sec. XXI i meccanismi sono cambiati ma non la confusione: una identità “meridionale” dove scompaiono le differenze tra città e campagna, tra privilegiati e sfruttati, tra vecchi e nuovi poteri, e ci si sente tutti sudditi fedeli del defunto Regno di Napoli, avrebbe divertito moltissimo Gogol’. Nonostante le incertezze sui dati, non si spiega con argomenti interni alla ricerca la difficoltà degli studiosi di intervenire nel dibattito pubblico e nel percorso istituzionale delle politiche della memoria, quanto con la separazione tra politica e storiografia, cui segue, soprattutto dal 2010 in poi, una riduzione delle risorse dedicate alla ricerca accademica e del reclutamento universitario, assieme ad un corposo processo di trasferimento di docenti e studenti dal Sud al Nord. Si produce allora un nuovo circuito di comunicazione del passato che marginalizza la complessità e i saperi specialistici, specie al Sud, e guarda alle elezioni politiche del 2018. Senza la creazione di quel circuito separato non si spiegherebbe lo straordinario percorso di una mozione sottoposta da diverse forze politiche a inizio 2017, alla Camera e a tutte le Regioni meridionali, poi approvata quasi all’unanimità ©UNICOPLI 112 Carlo Spagnolo dai Consigli regionali di Basilicata e Puglia del 7 marzo e del 4 luglio 2017, per istituire una giornata commemorativa per le vittime meridionali dell’Unificazione97. Non era la proposta di una commemorazione a fare specie, vista l’esplosione di date commemorative di ogni tipo, quanto la trasposizione integrale in un testo ufficiale di affermazioni fantasiose sulla genesi dello Stato italiano, senza alcun confronto con la storiografia e senza una qualsiasi istruttoria di merito, riprese dal libro di Pino Aprile, nel frattempo autore di un ulteriore Carnefici e nominato consulente culturale del Presidente della Regione Puglia. Nella mozione approvata dal Consiglio regionale della Puglia, presentata dal Movimento 5 Stelle, si parlava di manuali scolastici e universitari silenti (sic!) sulla guerra civile e sui suoi caduti «stimati tra 20.000 e 100.000 morti», e si trasformava la monarchia dei Borbone in vittima con la scelta del 13 febbraio, data della caduta della fortezza di Gaeta. L’ampiezza delle cifre era già un segno di scarsa serietà ma più grave era la semplificazione che faceva coincidere meridionali e borbonici, vere vittime, escludendo dal diritto alla memoria i liberali meridionali esuli dopo il 1848 in Piemonte, i volontari settentrionali dei Mille caduti durante l’Unificazione, i meridionali che avevano partecipato alla spedizione di Garibaldi, e rimuovendo quella complessa guerra tra meridionali di cui si è tanto discusso negli studi. Come suggerito da Luigi Masella in un articolo che ha suscitò molte reazioni sulla stampa, non si finiva per condannare come “delinquenti” Cavour, Mazzini e Garibaldi, rei di aver soffocato il Mezzogiorno? Se Cavour è il carnefice, e Garibaldi il suo complice, scompare l’unica vera “rivoluzione” della storia meridionale italiana, quella avviata nel Mezzogiorno dai Mille, e dai circa 30.000-35.000 meridionali che ne ingrossarono le fila, a fianco di alcune migliaia di volontari provenienti da tutta Italia e persino dall’estero. La mozione costruiva una identità meridionale artificiosamente contrapposta a quella nazionale, dai caratteri populisti e plebiscitari, per rispondere a istanze promosse dai vincitori delle elezioni del 2013, specie il composito Movimento 5 Stelle. In Campania, dove si era avviato un dibattito analogo, l’impegno di alcuni studiosi aveva rallentato l’iter ma soltanto dopo l’approvazione della mozione in Puglia il 4 luglio 2017 si sarebbe aperto un dibattito nazionale. Dopo una serie di articoli apparsi sui quotidiani, in cui molti studiosi 97 Le mozioni si differenziavano per le cifre e per le valutazioni ma l’impianto era comune. Quella presentata alla Camera a firma De Girolamo (Forza Italia) il 28 febbraio 2017 diceva che «il processo di unificazione dell’Italia costò la vita ad almeno 25.000 meridionali in base a documenti di morti “certificate”, ma numerosi storici sostengono che le vittime furono più di 100.000». In quelle regionali si parla invece di 20.000 fino a 100.000 morti. Il secondo tema erano le stragi taciute, per le quali Pontelandolfo e Casalduni diventavano simbolo di altre numerose e imprecisate. Il terzo punto era la commemorazione. La mozione alla Camera era più cauta, non indicava una data, e chiedeva genericamente una giornata commemorativa, mentre quelle regionali davano come impegnativa la data del 13 febbraio. Molti materiali sono accessibili nell’apposito dossier sul sito della Sissco, <https://www.sissco.it/articoli/ dossier-una-giornata-per-le-vittime-del-risorgimento/>. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 113 98 Luigi Masella, Ennio Corvaglia, Gian Luca Fruci, Ferdinando Pappalardo, Carlo Spagnolo, La giornata del ricordo? ‘Una scelta neoborbonica’, “Corriere del Mezzogiorno”, 22 luglio 2017. Il documento Sissco Sulla “giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia” è accessibile all'URL <https://www.sissco.it/articoli/sulla-giornata-della-memoria-per-le-vittime-meridionali-dellunita-ditalia/>, in un dossier che contiene molti articoli apparsi sulla stampa in quei mesi. 99 Al convegno di Bari del 2018, il Presidente del Consiglio regionale (PD) tenne un discorso introduttivo in cui richiamava l’importanza della ricerca storica e i rischi di un revisionismo strumentale a interessi politici immediati. Il video è accessibile all’URL <https://youtu.be/ w0c-nvCFtBo>, e dal sito della Cattedra Monnet <jmc.uniba.it>. 100 Christopher Calefati, Antonella Fiorio, Federico Palmieri, Brigantiland. Social media, circuiti commerciali, intrattenimento, “Meridiana”, n. 99, 2020, pp. 81-108, e il saggio degli stessi autori in questo volume. ©UNICOPLI espressero le proprie riserve su una rappresentazione dicotomica del passato, mentre vari giornalisti e uomini politici difendevano la scelta e argomentarono sull’inopportunità delle resistenze degli storici, un documento della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco) del 30 luglio 2017 emetteva una chiara condanna della delibera e ne chiedeva il ritiro98. Quasi tutte le associazioni degli storici hanno aderito al documento della Sissco da cui sarebbe scaturita una presa di distanza, segnatamente del Partito democratico e di varie altre forze politiche99. Una reazione così netta e inusuale di storici di diversa tendenza ha contribuito a mettere in sonno le delibere approvate, e a bloccarne del tutto l’iter nelle altre regioni. Paradossalmente, ne ha tratto beneficio la produzione storiografica sul brigantaggio che dal 2017 in poi ha avuto maggior attenzione sui media e ha generato qualche dubbio persino nei siti militanti neoborbonici100. Il libro di Carmine Pinto, attraverso un resoconto puntuale delle dinamiche della lotta al brigantaggio, ha contribuito a sfatare il mito delle stragi indiscriminate di civili e illustrato a dovizia la violenza con cui si caratterizzavano i briganti. Nonostante i segnali positivi di un ritorno alla ricerca e di un abbassamento dell’ondata polemica, un fenomeno di questa portata non può essere accantonato come uno sfortunato episodio. Si è trattato forse di una sorta di sovversivismo delle classi dirigenti meridionali che rinnegavano il percorso compiuto e le scelte fatte nel 1860? È difficile dare una risposta sensata in questa sede, e la sola certezza è che si sbaglierebbe a mettere in collegamento diretto, come fanno i neoborbonici, gli eventi del 1860-1866 con quelli odierni. Il blocco di forze che ha sostenuto le delibere regionali raccoglieva gruppi eterogenei, pezzi di classi dirigenti insoddisfatte dell’abbandono della “questione meridionale”, rappresentanti di precari e di ceti sociali moderni sballottati dalla crisi della globalizzazione, che una nuova destra, a volte vestita di sinistra, cerca di raccogliere. Non si è notato in essa una rilettura della storia meridionale in vista di un diverso futuro, quanto una rivendicazione generica di riconoscimento e di risorse da contrattare. Nuove forze politiche in cerca di legittimazione storica, all’interno di un’unità amministrativa e territoriale come la regione, sin qui mai politicamente autonoma, reinven- ©UNICOPLI 114 Carlo Spagnolo tano le proprie radici al di fuori della tradizione repubblicana e della denigrata democrazia dei partiti. Attingono direttamente ad uno Stato preunitario, del quale si mitizza la modernità e la buona amministrazione. Se trascuriamo per un attimo le evidenti forzature, per provare a dare una spiegazione del loro successo di pubblico andrebbe considerata una domanda diffusa di conoscenza delle radici territoriali, delle piccole patrie, di comunità di prossimità sentite come baluardo contro l’anomia. Si esprime così un’esigenza legittima di conoscenza delle nuove identità regionali, trascurate dai programmi scolastici, le curiosità di chi è in cerca di un contraltare al giudizio univocamente positivo delle celebrazioni nazionali, l’esigenza di rigettare il determinismo dell’equazione Mezzogiorno uguale ad arretratezza. Non vanno sottaciute le incongruenze della storiografia, scopertasi distratta su temi che erano stati studiati da una generazione di storici ormai scomparsi o anziani, considerati acquisiti ma legati a domande e linguaggi di una stagione precedente. Non una “congiura del silenzio” ma la oggettiva difficoltà di sciogliere appieno alcuni nodi controversi, come l’impatto dell’Unificazione sulle condizioni degli abitanti dell’ex Regno di Napoli e il numero dei caduti di quell’Unità101. Qualche esigenza di innovazione ne risulta anche per l’annoso dibattito sulla “questione meridionale” che gli storici hanno lasciato agli economisti. Una distinzione metodologica che sfugge ancora oggi al dibattito sta nella diversità tra la questione dell’arretratezza dell’economia meridionale, preesistente al 1860, e la funzione che essa viene ad assumere dopo l’Unità, con le novità del mercato del lavoro e il modo in cui entra in funzione una struttura tendenzialmente dualista che influenza il mercato dei capitali e il circuito dello scambio. Gli strumenti quantitativi della storia economica non bastano ad affrontare il tema dell’impatto socio-economico dell’Unificazione. Il dibattito tra gli economisti ruota al momento sulle stime del Pil (e dei redditi medi) del Mezzogiorno in confronto a quelle del Nord, ma il problema non è soltanto il divario relativo, quanto l’impatto qualitativo sulla struttura sociale ed economica del Sud e di come essa si integri al resto d’Italia. 101 Importante Pier Luigi Ciocca, Brigantaggio ed economia nel Mezzogiorno d’Italia, 1860-1870, “Rivista di storia economica”, n. 1, apr. 2013, pp. 3-30, che stima gli effetti della guerra al brigantaggio a cui attribuisce una seria perdita di competitività dell’agricoltura meridionale. Cfr. anche Paolo Macry, Ancora sul brigantaggio meridionale, “Rivista di storia economica”, n. 3, dic. 2013, pp. 349-354, e il fascicolo monografico a cura di Carmine Pinto e Francesco Benigno, Borbonismo, “Meridiana”, n. 95, 2019, specie i saggi di Benigno, La rottura con la società civile come causa del crollo borbonico, pp. 21-38 e di Emanuele Felice, Economia e società: il divario Nord-Sud all’Unità, pp. 39-62. Felice ha prodotto diversi studi sul divario, tra cui Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna, Il Mulino, 2013, in cui discute stime sue, di Fenoaltea, Daniele e Malanima, e dimostra l’insussistenza della “modernità” del Regno di Napoli. Per una ampia e assai utile messa a punto del tema cfr. Guido Pescosolido, La questione meridionale in breve. Centocinquant'anni di storia, Roma, Donzelli, 2017. Non ho lo spazio qui per richiamare gli studi di De Rosa, Toniolo e altri. Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana 115 ©UNICOPLI A ben vedere, la ricerca di una identità politica del Mezzogiorno continentale non dovrebbe stupire. Se guardassimo oltre i confini nostrani, potremmo sostenere che il Mezzogiorno non fa eccezione. Con la globalizzazione e il declino del fordismo in Occidente, la rivendicazione di nuove identità territoriali è diventata un fenomeno generale in Europa, attraversa aree avanzate come la Catalogna, il Veneto e la Lombardia, la Scozia nel Regno Unito, i fiamminghi nei Paesi Bassi, pezzi dell’Est continentale che si frammentano, come la Repubblica ceca e la Slovacchia. Come osservava Giuliano Procacci già alcuni anni fa, la polemica sulla nazione investe sia le aree vincenti sia quelle perdenti della globalizzazione. In Italia meridionale, caso mai, la critica alla nazione scoppia in ritardo, assume argomenti culturalmente subalterni e si dimostra incapace a ripensarne la storia. In fondo il Mezzogiorno deve molto allo Stato unitario per la crescita dei redditi e dell’occupazione verificatasi tra 1947 e 1980 e le sue élites ne sono almeno in parte consapevoli, ma pronte a rimuoverne la memoria. Un’argomentazione psicologista di questo fenomeno suona parziale ma non è priva di rilievo. La sorprendente scoperta di un «Sud evoluto rispetto alle altre realtà del Diciannovesimo secolo» soddisfa non soltanto i desideri di un neorbonismo nostalgico ma anche le speranze di forze politiche che eludono, ancora un volta, i problemi dello sviluppo e perciò volontaristicamente immaginano un Sud capace di competere spontaneamente con le aree sviluppate della Germania, dell’Inghilterra e della Francia. Certamente non mancano esempi fulgidi di successo imprenditoriale, tuttavia i dati della Svimez continuano impietosamente a parlare di divari medi tra Sud e Nord, nei tassi di disoccupazione e di produttività, pari a quelli che intercorrono tra Grecia e Germania. Della reinvenzione della storia non meriterebbe parlare se non riguardasse il nostro vivere civile e il nostro presente. Vittime, insomma, alla ricerca di una nuova sudditanza? È una strada già percorsa e forse evitabile. ©UNICOPLI L’INSEGNAMENTO STORICO FRA DIDATTICA E POPULAR HISTORY Il grande brigantaggio a scuola1 Annastella Carrino e Claudia Villani La storia sotto assedio 1 Il saggio è stato complessivamente pensato e discusso da entrambe le autrici. Nello specifico, il primo e l’ultimo paragrafo sono stati scritti congiuntamente; il secondo da A. Carrino; il terzo da C. Villani. 2 Ridotte a significante senza significato, le competenze si prestano così alle più svariate interpretazioni e strumentalizzazioni, diventando la posta in gioco di diverse (anche opposte) concezioni pedagogiche ed educative. (Cfr. M. Baldacci, La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Franco Angeli, Milano 2019). Senza entrare nel merito di un dibattito tanto acceso quanto articolato, chiariamo che qui intendiamo il termine come necessariamente connesso ai contenuti e allo specifico statuto cognitivo e metodologico delle discipline. 3 “Historical thinking had been stunned by an experience of contingency of catastrophic dimensions, namely the crises of modernization, which since the late nineteenth century had with increasing radicalness generated needs for orientation that the traditional teleological concepts of history found increasingly difficult to fulfill”, J. Rüsen, Sense of History: What does it mean? With an Outlook onto Reason and Senselessness, in Meaning and Representation in History, ed. J. Rüsen, Berghahn Books, New York 2006, p. 132. ©UNICOPLI L’Unione Europea chiede alla scuola un insieme di competenze, in linea con la ridefinizione delle teorie didattiche e le più innovative proposte della pedagogia, ma senza promuovere un’organica riflessione sui saperi disciplinari e sul loro rapporto con i contenuti conoscitivi2. Queste competenze sembrano situate in una pedagogia atemporale, indifferente al momento storico nel quale insegnanti e ricercatori vivono. In questo scenario, le discipline storiche e l’insegnamento della storia pagano un prezzo altissimo, per due ordini di ragioni, che vanno necessariamente affrontate prima di inoltrarci nel nostro caso di studio. Da una parte, sembra superato il nesso Stato-nazione, storia nazionale-scuola nazionale, e con questo, un certo tipo di storia e di pensiero storico3. Assistiamo a una revisione del rapporto con il passato che coinvolge la storia ricercata e la storia insegnata, ma anche le istituzioni pubbliche – nazionali ed europee – il cui rapporto con il passato, nell’età delle identità ambigue e dell’insicurezza, si traduce in peculiari forme di “risanamento” e “risarcimento” delle identità Annastella Carrino e Claudia Villani 118 ©UNICOPLI nel presente: è il tempo delle politiche della memoria4. La sacralizzazione delle domande di memoria e la conseguente concezione anacronistica dei problemi moltiplicano all’infinito le “vittime” da risarcire. Non è un caso, quindi, che siano esplosi, negli ultimi decenni a varie latitudini, dibattiti sulla storia e sull’insegnamento della storia5, caratterizzati da alti livelli di politicizzazione, il cui vero oggetto «è rimediare alla decomposizione dell’identità nazionale nell’età dell’Europeizzazione, della globalizzazione e delle migrazioni di massa»6. Anche l’Italia non è sfuggita a questo destino7. Dall’altra, nei vuoti aperti dalla crisi del rapporto costitutivo tra storici come scienziati e storici come “addetti alla memoria nazionale”, aumentano le tensioni tra popular history (le narrazioni storiche prodotte per un’audience di massa) e professional history, sino al più recente memory boom e alla diffusione di un nuovo regime di storicità (present-oriented)8. I sentieri della professional Gli Stati hanno imparato ad usare la memoria in diversi campi: nelle politiche del patrimonio culturale, nelle giornate della memoria, nella promozione turistica, ma anche nella diplomazia internazionale. Su questi argomenti cfr. The Palgrave Handbook of State-Sponsored History After 1945, a cura di B. Bevernage, N. Wouters, Palgrave Macmillan, London 2018. Per una definizione di politiche della memoria cfr. P. Aguilar Fernandez, Políticas de la memoria y memorias de la política. El caso español en perspectiva comparada, Alianza, Madrid 2008, p. 53. Sulle politiche della memoria promosse dalle istituzioni comunitarie e dalla UE, cfr. F. Focardi, B. Groppo, L’Europa e le sue memorie: politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013; O. Calligaro, Negotiating Europe. EU Promotion of Europeanness since the 1950s, Palgrave Macmillan, London 2013; A. Sierp, History, Memory, and Trans-European Identity: Unifying Divisions, Routledge, London 2014; Transnational Memory Politics in Europe: Interdisciplinary Approaches, ”Journal of Contemporary European Studies”, XXIII, 2015, 3; Le memorie divise d’Europa dal 1945 ad oggi, ”Ricerche storiche”, XLVII, 2017, 2, a cura di C. Spagnolo e L. Masella. Sul rapporto tra politiche della memoria e insegnamento della storia assai significative sono le vicende dell’Europa orientale, come emerge in particolare in A. Brusa, Un inquietante laboratorio memoriale. Politiche della memoria e insegnamento della storia in Europa Orientale, in “Historia Magistra”, XI, 31, 2019. 5 Cfr. M. Carretero, Constructing Patriotism. Teaching History and Memories in Global Worlds, Information Age Publishing, Charlotte 2011. Per una rassegna aggiornata sull’argomento cfr. L. Cajani, S. Lässing, M. Repoussi, The Palgrave Handbook of Conflict and History Education in the Post-Cold War Era, Palgrave Macmillan, London 2019. 6 M. Carretero, S. Berger, M. Grever, Introduction: Historical Cultures and Education in Transition, in Palgrave Handbook of research in historical culture and education, eds. M. Carretero, S. Berger, M. Grever, Palgrave Macmillan, London 2017, p. 10. Per un’introduzione al tema dell’europeizzazione cfr. Conflicted Memories. Europeanizing Contemporary Histories, eds. K. Jarausch, T. Lindenberger, Berghahn Books, New York 2011 e M. Gehler, “Europe”, Europeanizations and Their Meaning for European Integration Historiography, in “Journal of European Integration History”, XXII, 2016, 1, pp. 141-174. 7 Sul caso italiano si vedano L. Cajani, I recenti programmi di storia per la scuola italiana, in “Laboratorio dell’ISPF”, XI, 2014, pp. 2-25; Id., Italy, in The Palgrave Handbook of Conflict, cit., pp. 309-320. 8 Gli studi recenti sulle master narratives nazionali ci hanno spiegato che questo tipo di narrazioni si fonda su un certo regime di storicità (future-oriented), sulla professionalizzazione e sulla crescente chiusura disciplinare della storia, sulla subordinazione delle altre storie (di genere, religiose, etniche, sub-nazionali, trans-nazionali) alla dimensione nazionale. Su questo tema si veda la serie di monografie pubblicata dalla Palgrave Macmillan, esito 4 L’insegnamento storico fra didattica e popular history 119 di un progetto di ricerca europeo, “Writing the Nation”, https://www.palgrave.com/gp/series/14380 (per tutti i link ultimo accesso 25-08-2020). In particolare S. Berger, C. Conrad, The past as history: National identity and historical consciousness in modern Europe, Palgrave Macmillan, London 2015. 9 In verità nell’insegnamento della storia è sempre esistito una sorta di equilibrio conflittuale tra approccio identitario e approccio cognitivo, un equilibrio generalmente spostato a favore degli obiettivi identitari, messo in discussione negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, con la crescita di importanza degli obiettivi cognitivi, ma oggi tornato sui binari tradizionali. Per un modello esplicativo sui rapporti tra narrazioni identitarie e storia come disciplina del pensiero, e per una proposta di periodizzazione su questi processi P. Seixas, Historical Consciousness and Historical Thinking, in Palgrave Handbook of Research in Historical, cit., pp. 59-72; Id., A History/Memory Matrix for History Education, in “Public History Weekly”, IV, 2015, 6 DOI: dx.doi.org/10.1515/phw-2016-5370. 10 Il rapporto tra narrazioni e costruzione delle identità (individuali e collettive) viene indagato in diverse aree disciplinari (dalla psicologia all’antropologia sociale, dalla pedagogia alla didattica, dai memory studies ai media studies, dalla nuova storia culturale alle principali scuole di didattica della storia). Interessanti prospettive di ricerca riguardano l’analisi delle strutture profonde con cui raccontiamo e pensiamo il nostro rapporto con il tempo storico (passato, presente e futuro), sia nelle forme più immediate sia nei format più articolati e complessi, da quelli scritti a quelli multimediali e transmediali attuali. Cfr. R. Koselleck, Futures past: On the semantics of historical time, Columbia University Press, New York 2004; J. László, The science of stories: An introduction to narrative psychology, Routledge, New York 2008; M.-L. Ryan, Transmedia Storytelling as Narrative Practice, in The Oxford Handbook of Adaptation Studies, eds. T. Leitch, Oxford University Press 2017; P. Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi, Torino 2019. 11 M. Carretero, Teaching History Master Narratives: Fostering Imagi-Nations, in Palgrave Handbook in Historical, cit., pp. 511-528; Id., Relazione per la Ventiquattresima conferenza annuale di Euroclio che si è tenuta ai primi di aprile 2017 nei Paesi Baschi spagnoli, intitolata Intersezioni, come cambia oggi la didattica della storia? (per un resoconto puntuale: P. Ceccoli, Storia e memoria nell’insegnamento delle questioni controverse, in “Novecento. org”, 2018, 9 DOI: 10.12977/nov242). ©UNICOPLI history e quelli della popular history non potrebbero sembrare più divergenti: mentre la prima appare sempre più declinata in modo identitario, la seconda lo è sempre meno9. Con delle peculiarità: nelle ex-periferie degli ex-imperi ancora fortemente identitaria; nei paesi occidentali talvolta identitaria, talaltra meno, o, ancora, in bilico in una situazione di incertezza e/o di aperte controversie. Le scuole di didattica della storia, più attente a questi cambiamenti, da tempo indicano la necessità di uno spostamento dell’insegnamento verso il pensiero storico e verso una storia intesa come disciplina della conoscenza; ma la pur necessaria denaturalizzazione delle storie nazionali e di quelle a vocazione identitaria non risolve la questione delle identità sociali10, che si costruiscono sempre in rapporto a una narrazione del passato. Ricerche recenti sui curricoli di storia – volte a rilevare le tensioni attuali tra “locale”, “nazionale” e “globale” – mostrano, ad esempio, come il centro di gravità rimanga il quadro nazionale, con qualche accenno a quello globale. La dimensione locale o sub-nazionale (variamente intesa), generalmente marginale, entra in gioco invece nella domanda di memoria11, che esprime un bisogno fortemente radicato nel presente. Si torna a raccontare il passato per dare un senso alla ricerca di nuove “nazioni”, nuove ©UNICOPLI 120 Annastella Carrino e Claudia Villani “patrie”, più o meno “piccole”, oppure per difendere in modo oltranzista le identità tradizionali messe sotto pressione dai processi di globalizzazione. Il digitale e i social, infine, offrono un inedito palcoscenico pubblico dalle dimensioni fino a poco tempo fa inimmaginabili – il web – che sollecita e favorisce la proliferazione spontanea di narrazioni e auto-narrazioni, basate sui format narrativi più vari, secondo la logica del remix and remixability12. In questo clima si colloca anche il recente successo mediatico – e politico – del revival neoborbonico del brigantaggio postunitario: singolare “causa perduta”13 in cui confluiscono memorie collettive, universi narrativi e letterari, immaginari e radicalismi opposti. I briganti sono diventati un nuovo mito prêtà-porter14, capace di assimilare consolidate narrazioni ottocentesche, ma anche di recuperare altre figure di “ribelli”, “fuorilegge” e “sovversivi” tipicamente novecenteschi (il guerrigliero, il partigiano, il bandito sociale, ecc.), altri “vinti” e altre “vittime”15. In loro nome si denuncia il “genocidio” (sabaudo) dei meridionali, si rivendica il riconoscimento della “patria perduta” (il Regno delle Due Sicilie), si invoca il risarcimento dei propri caduti. E, in loro nome, si finisce per chiedere una nuova giornata della memoria16. Come studiosi e come docenti di storia sentiamo il bisogno di analizzare queste forme recenti di popular history, ma anche il dovere di individuare mezzi e vie per rendere più efficace la comunicazione e l’insegnamento della storia, costretti alla competizione con un magma crescente e disintermediato di usi (e abusi) pubblici del passato17. 12 Sui caratteri di questa “culture of remix and remixability” cfr. L. Manovich, Software Culture, Edizioni Olivares, Milano 2010, p. 267-76. Per comprendere la logica delle narrazioni attuali è necessario insomma fare i conti tanto con l’offerta culturale quanto con il momento del consumo e degli usi sociali della comunicazione e dello spettacolo. Come abbiamo notato altrove, c’è sempre un’audience, un target, un pubblico di ascoltatori, di lettori, di spettatori, di consumatori, di utenti a cui si rivolge una narrazione. Sull’importanza di questi elementi cfr. C. Villani, Briganti prêt-à-porter: media, narrazioni e identità nel XXI secolo, in “Meridiana”, 99, 2020, pp. 29-51. 13 Si rimanda ai numeri monografici Cause perdute, “Meridiana”, 88, 2017; e Borbonismo, “Meridiana”, 95, 2019. 14 C. Villani, Briganti prêt-à-porter, cit. 15 Briganti: narrazioni e saperi, a cura di A. Carrino e G. L. Fruci, “Meridiana”, 99, 2020. 16 La dimensione eccezionale della violenza di massa novecentesca, centrale nelle politiche della memoria europee e globali, proiettata sulle vicende ottocentesche produce così un singolare cortocircuito storico. 17 Per un’analisi e una riflessione su questi temi si è costituito un gruppo di lavoro a partire dal 2017. Fra le sue iniziative: La storia alla prova dei like. Il caso del neoborbonismo, Panel a cura di A. Carrino, G.L. Fruci, in AIUCD 2018 Conference “Cultural Heritage in the Digital Age. Memory, Humanities and Technologies”, Bari, 31 gennaio-2 febbraio 2018; Mezzogiorno fra storia e memoria, corso di aggiornamento per insegnanti, Bari, 10, 13 aprile 2018; Complicare stanca. Le sfide interne ed esterne alla storiografia: il caso del fenomeno neoborb, Panel a cura di A. Carrino, G.L. Fruci, in II Conferenza AIPH, 11-15 giugno 2018; Guerra ai briganti. Guerra dei briganti. Storiografia e narrazioni, Convegno di studi, Bari, 11-13 ottobre 2018; Briganti senza storia, Panels a cura di A. Carrino, G.L. Fruci, in III Conferenza AIPH, 24-28 giugno, 2019. Fra le pubblicazioni: La risacca neoborbonica. Origini, flussi e riflussi, “Passato L’insegnamento storico fra didattica e popular history 121 In questo contributo, in particolare, metteremo sotto osservazione le modalità con cui il brigantaggio entra nelle aule scolastiche: come viene proposto dalla manualistica, sullo sfondo del rinnovato interesse emerso nel dibattito storiografico e pubblico; come può essere trattato attraverso attività didattiche e laboratoriali che sollecitino negli studenti la capacità di orientarsi consapevolmente nel multiverso delle narrazioni storiche, distinguendo tra conoscenza storica e altri usi del passato. I manuali e la storia “piramidale” e presente”, fasc. monografico a cura di S. Montaldo, CV, 2018; G.L. Fruci, C. Pinto, El regreso de los Borbones. Reelaboracion mitográficas y perspectivas politicas en el Mezzogiorno italiano, in “Ayer”, CXII, 2018, 4, pp. 317-334; C. Calefati, A. Fiorio, F. Palmieri, Nella rete delle Due Sicilie. Neoborbonismo alla prova di internet, in “Pensiero mazziniano”, LXXIV, 2, 2019, 2, pp. 34-39; A. Carrino, Il “grande brigantaggio” nei manuali scolastici fra testo e immagini, in “Visual History”, V, 2019, pp. 109-122. Sono in corso di pubblicazione due numeri monografici in rivista (Briganti narrati, cit.; Narrazioni e pratiche del brigantaggio nel Mezzogiorno al tempo del Risorgimento, a cura di A. Carrino, G.L. Fruci, C. Pinto, in “Società e storia”). Su questi temi è inoltre in corso un PRIN 2017 (The “brigantaggio” revisited. Narrazioni, pratiche e usi politici nella storia dell’Italia moderna e contemporanea), coordinatore nazionale Carmine Pinto; coordinatori dell’unità Uniba Annastella Carrino e Gian Luca Fruci. ©UNICOPLI Nell’insegnamento della storia, la scelta delle modalità e degli strumenti utilizzati sono cruciali, perché devono tanto convincere la studentessa e lo studente dell’utilità – e della bellezza – della storia, ma anche metterli in guardia da un suo uso improprio, e immunizzarli contro le sirene di una storia strumentalizzata, urlata, rivendicata. Lo strumento principe tra tutti rimane ancora oggi il manuale, che, tuttavia, non sempre si rivela all’altezza della sfida e mentre si carica di fonti, approfondimenti, “storie” (implicitamente ma rigidamente gerarchizzate, con all’apice comunque quella politico-istituzionale), continua a riproporre visioni tanto consolidate quanto talvolta irreali del passato (una per tutte: la piramide feudale). A questo bombardamento di “storie”, cui si assegna indebitamente ma infallibilmente un ruolo ancillare, si unisce, a rendere ancor più opachi ruolo ed essenza della storia, tutta una serie di topoi che circolano fuori e dentro le aule: la storia siamo noi, la storia la scrivono i vincitori, la storia del Novecento è più importante (e più utile) di quella meno recente. La storia antica occhieggia al mito, la storia medievale sono i Templari e il rogo di Jacques de Moulay, la storia moderna è histoire bataille, Parigi val bene una messa, le streghe erano tutte donne e andavano tutte al rogo. La storia serve a evitare gli errori del passato. I briganti erano degli eroi… E topoi finiscono per diventare, in alcuni casi, le giornate della memoria, che solennizzano un momento del passato, cristallizzandolo e sottraendolo in sostanza al vaglio critico. Si sa, oramai c’è un abuso di questi momenti, che fi- Annastella Carrino e Claudia Villani ©UNICOPLI 122 niscono per togliere valore e cogenza a quelli più importanti. Le giornate della memoria – memoria appunto, che è evidentemente cosa ben diversa dalla storia – sono un caso classico di uso pubblico della storia e anche, talvolta, di suo abuso18. Al 27 gennaio e – finalmente – al 25 novembre, si aggiungono e si sarebbero volute aggiungere altre date. Come quella del 13 febbraio (1861), giorno della presa di Gaeta, ultima roccaforte borbonica19. Quale sarebbe stato il suo effetto sui ragazzi, quale schizofrenia cognitiva avrebbe prodotto studiare l’Unità d’Italia e, al tempo stesso, percepirla come costruita su una sorta di eccidio prima e sciacallaggio poi da parte del Nord sul Sud? I nostri ragazzi spesso non sanno chi fosse Masaniello. Non conoscono il rapporto sbilanciato fra Napoli e le province. Non hanno letto i racconti e resoconti dei viaggiatori del Grand Tour che temevano di scendere oltre Napoli e quei pochi che osavano farlo registravano un senso di straniamento, stupore, indignazione. Non sanno che Antonio Genovesi consigliava di “fare come l’Inghilterra” perché non ravvisava nel Mezzogiorno i presupposti per raggiungere la “pubblica felicità”. Ma si sarebbe detto loro che il Sud era una sorta di arcadia e che con l’unificazione aveva perso la scommessa col futuro. Gli si sarebbe chiesto di piangere le proprie vittime e di odiare quanti le avessero provocate. Di leggere l’Unità d’Italia come l’esito e l’avvio al tempo stesso di un processo di “piemontesizzazione”. Di mitizzare i briganti. Si sarebbe, una volta di più, appiattita la storia, banalizzandola e travisandola. Togliendole complessità. Proprio sul tema del brigantaggio, in realtà, si assiste a un evidente scollamento fra avanzamento della riflessione e del dibattito storiografici, riattualizzazione e “riscaldamento” del tema a partire dalle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità (che ne hanno fatto spesso un oggetto di narrazioni pseudo-revisioniste e “controstoriche”), e una sorta di “imperturbabilità” dei manuali scolastici. In altri termini, da un lato la trattazione didattica dell’argomento non pare sintonizzarsi con le nuove acquisizioni del dibattito scientifico, mentre, dall’altro, viene assediata da un ventaglio di sollecitazioni stravaganti rispetto tanto ai saperi esperti quanto alla didattica della storia: fictions, film, libri, brand, siti web che presentano i briganti come eroi, paladini di un impossibile riscatto meridionale, vittime di un oppressore senza scrupoli. Sul cosiddetto memory boom esploso a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, cfr., fra gli altri, P. Nora, Between Memory and History: Les Lieux de Mémoire, in “Representations”, 1989, 26, pp. 7-24; Id., Gedächtniskonjunktur, in “Transit - Europäische Revue”, n. 22, 2001-2002, pp. 18-31; J. Winter, The Generation of Memory. Reflections on the “Memory Boom” in Contemporary Historical Studies, in “Canadian Military History”, 2001, 10, pp. 7566; R. Ned Lebow, The Future of Memory, in “Annals of the American Academy of Political and Social Science”, vol. 617, May 2008, pp. 25-41; L. Cajani, La storia nel mirino del diritto penale, in “DPCE online”, 2016, 1, http://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/ view/91. Cfr. anche le riflessioni di A. Brusa sui portali Novecento.org e Historia Ludens. 19 La mozione, presentata dal M5S e approvata dal consiglio regionale della Puglia il 4 luglio 2017, proponeva proprio questa istituzione, guardando in particolare al mondo della scuola. 18 L’insegnamento storico fra didattica e popular history 123 A. Carrino, Il “grande brigantaggio”nei manuali scolastici fra testo e immagini, in “Visual History”, V, 2019, pp. 109-122; L. Boschetti, A. Carrino, Briganti a scuola, in Briganti narrati, cit. 21 G. Pomata, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, in “Quaderni storici”, XXV, 1990, 74, pp. 341-385, p. 342. 22 Per una disamina approfondita dei risultati si rimanda a L. Boschetti, A. Carrino, cit. 20 ©UNICOPLI Fra questi prodotti, dal formidabile impatto ed efficacia comunicativa, e le pagine di un manuale, fra le tante “controstorie” e la lezione in classe si gioca una partita impari. Non è questo il luogo per analizzare i materiali utilizzati per l’insegnamento della storia, e in particolare quelli relativi al processo di unificazione e al fenomeno del brigantaggio (per i quali si rimanda a quanto già scritto altrove)20. Ci basterà farvi qualche rapido cenno, per sottolineare, essenzialmente, che i testi scolastici appaiono accomunati, in misura pur variabile, da una sorta di “inerzia storiografica”21. L’identificazione del brigantaggio con la lotta di classe, la sua connessione stretta con la questione demaniale e, in una certa misura, la presentazione della figura del brigante come eroe sociale sembrano costituire delle costanti, sovente riproposte. E quando pure appaiono nuove categorie e letture storiografiche, queste finiscono spesso per giustapporsi alle altre, in una inconsapevole contraddizione. Permane insomma una visione prevalentemente dicotomica, una disposizione degli elementi in un rapporto lineare di causa-effetto. Lo Stato unitario da una parte e i briganti dall’altra; le ragioni del governo contro quelle delle masse contadine. Il brigantaggio finisce spesso per configurarsi come una sorta di risposta meccanica alle modalità – implicitamente ritenute inadeguate e prevaricatrici – con cui avviene l’unificazione della penisola; sullo sfondo di una identificazione quasi automatica fra briganti e contadini poveri, fra le gesta degli uni e le istanze degli altri. A questo si somma il modo in una qualche misura distratto e affrettato con cui il tema viene affrontato a lezione (stretto fra la fine del quarto anno di corso della secondaria superiore e l’avvio del quinto, interamente dedicato alla storia del Novecento), che induce i giovani a un possibile fraintendimento della sua portata, a una mancata, lucida, contestualizzazione. È quanto è risultato da una serie di incontri partecipati e da un questionario somministrato agli studenti dell’ultimo anno del corso di studi di istituti superiori del Nord e del Sud Italia22. Tanto dalle reazioni agli incontri quanto dalle risposte al questionario, sono emerse alcune costanti. In primo luogo, pur non esprimendo i luoghi comuni della “controstoria” (che narrano di primati, di massacri ed eccidi nel Mezzogiorno) gli studenti hanno una percezione “sofferta” del fenomeno, tanto più evidente in quanto si manifesta fra i ragazzi del Sud assai più che fra quelli del Nord. I briganti sono quasi sempre considerati dei fuorilegge, ma solo gli studenti meridionali mostrano di subire il loro fascino: eroi negativi, ma pur sempre eroi. Emerge inoltra una tendenza all’attualizzazione del processo di unificazione e delle resistenze ad esso, declinata in due modi: percezione del divario Nord/Sud (originata o comunque esasperata Annastella Carrino e Claudia Villani ©UNICOPLI 124 dall’Unità), da un lato, e nascita delle mafie (come diretta filiazione del brigantaggio), dall’altro. Un’idea forte è che il Mezzogiorno resti un’area segnata da un’arretratezza percepita come strutturale e oggettiva, che si sconta ancora oggi sul vissuto personale delle nuove generazioni, costrette a lasciare il Sud per studiare e realizzarsi professionalmente. D’altro canto, la gran parte degli studenti sembra concorde nel sostenere che dal brigantaggio abbiano tratto origine – e continuino a farlo – i fenomeni di criminalità organizzata presenti al Sud. La tendenza all’attualizzazione23 – e alla inevitabile decontestualizzazione – è un dato frequente nella ricezione di un fenomeno storico da parte dei giovani. L’insistenza nei manuali sugli aspetti sociali del brigantaggio e le allusioni agli “effetti collaterali” dell’unificazione favoriscono sicuramente una lettura di questo tipo. L’attualizzazione viene sollecitata anche da una certa pubblicistica con cui gli studenti dimostrano di avere familiarità, sia sul piano dei contenuti che dei protagonisti. A quest’ultimo riguardo, si registra un dato sorprendente: i nomi di studiosi che hanno contribuito a far avanzare la ricerca storica e il dibattito storiografico su questi temi finiscono per essere affiancati, senza filtro, ad alcuni autori di materiale divulgativo e pamphlettistico, attestati su posizioni neoborboniche e rivendicative di stampo neosudista. Pur se ai primi si fa cenno nei manuali e agli altri no, questi ultimi circolano vivacemente nel mondo extrascolastico, occupando canali di immediata fruizione soprattutto per le nuove generazioni. A monte di questo c’è forse la sottovalutazione del fenomeno a scuola, la mancata percezione dell’esigenza di fornire ai ragazzi chiavi di lettura, anticorpi, strumenti per filtrare, distinguere e selezionare. Ma c’è anche altro: una scarsa comunicazione – tante volte denunciata ma mai affrontata in modo organico – fra storia ricercata e storia insegnata, fra saperi esperti e disseminazione, divulgazione e didattica. Il passato come laboratorio didattico: fare storia o fare memoria? Non vogliamo tuttavia disegnare un quadro a tinte fosche. Nella vivace officina barese animata da Antonio Brusa, una delle rare eccezioni nella generale disattenzione delle istituzioni e delle università per la ricerca in didattica della storia24, era stato costruito già negli anni Novanta un laboratorio sul bri- A.M. Banti, I manuali di storia e il Risorgimento italiano, in “Storicamente.org”, 7, 2011, art. 5. DOI: 10.1473/stor91. Questa tendenza è stata denunciata (inutilmente, pare, come tante ricerche didattiche) fin dagli anni Settanta del secolo scorso da Scipione Guarracino: Il presente spiega il passato (1977), ripubblicato in Id., La realtà del passato, Bruno Mondadori, Milano 1987, pp. 88-101. 24 Sulla ricerca in didattica della storia in Italia, promossa da singoli e associazioni nella pressochè totale disattenzione delle istituzioni della formazione cfr. L. Cajani, Le vicende della didattica della storia in Italia, in Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, a cura di E. Valseriati, 2019, https://www.newdigitalfrontiers.com/it/book/prospettive-per-la-didattica-della-storia-in-italia-e-in-europa_116/. 23 L’insegnamento storico fra didattica e popular history 125 Nella società contemporanea il passato è di tutti. Questo è uno dei principi della democrazia, dal quale dipende la conclusione, spesso ignorata, che il passato non è proprietà esclusiva degli storici. Ma questo non vuol dire che tutti possano disporre del passato a proprio piacimento. (…) Oggi, a differenza di un secolo fa, sappiamo che le tradizioni sono inventate, che tutti possono inventarle e che sono necessarie. Si tratta di un nuovo potere, che possiamo decidere di detenere o di delegare. Di controllare o di lasciar crescere in modo selvaggio27. Siamo partiti da queste proposte didattiche per ragionare sulla possibilità di una didattica della memoria storica28 che aiuti i giovani a comprendere le dinamiche delle memorie collettive e ad elaborare in modo autonomo e consapevole i frammenti delle narrazioni del passato che circolano intorno a loro. Si tratta di riflettere, insomma, su una competenza strettamente connessa alla capacità di pensare storicamente, distinguendo tra conoscenza storica, usi e abusi del 25 Storie di briganti attraverso le immagini, in Il racconto delle grandi trasformazioni. Laboratorio 2B, a cura di A. Brusa, L. Bresil, M. Tamburriello, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 16-29. 26 Processo ai briganti, a cura di A. Brusa e L. Bresil, a.s. 2001-2002, Scuola media statale “Michelangelo”, Bari. 27 A. Brusa, L. Bresil, Laboratorio 3 per l’insegnante. Storia: il mondo, popoli, culture, relazioni: percorsi e materiali di lavoro, Ed. Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 1996. 28 Intendiamo qui una didattica della storia che insegni a distinguere le diverse forme di memoria storica di una collettività: la storia è solo una di queste forme, con caratteristiche peculiari, con una consapevolezza metodologica e critica specifica tanto nella ricerca sul passato quanto nella sua narrazione, ecc. ©UNICOPLI gantaggio con le fonti iconografiche25. Più recentemente, inoltre, in una scuola secondaria di primo grado, era stato sperimentato un percorso ludico-teatrale che utilizzava fonti dirette e indirette per mettere in scena un “Processo ai briganti” con tanto di giuria popolare, cancellieri, imputati, avvocati dell’accusa, della difesa, giornalisti, testimoni, familiari, donne26. L’accurata preparazione del dossier documentario da parte del docente, nonché il momento conclusivo di debriefing sull’esperienza ludica e il rimando alla storiografia aggiornata sul grande brigantaggio meridionale avevano permesso di promuovere una coscienza storica attrezzata su questa fase particolare della storia ottocentesca, introducendo il tema complicato del rapporto tra memorie collettive e ricerca storica, tra memorie maggioritarie e minoritarie, tra ricordo e oblio. Un’altra proposta interessante era contenuta in “Tradizioni. Gioco di ruolo a squadre su memoria storica, identità e appartenenza e sul potere ambiguo delle invenzioni”, che per molti versi anticipava una didattica della storia orientata alla comprensione delle dinamiche connesse alle memorie, all’invenzione della tradizione e alla costruzione delle identità collettive. Come scriveva opportunamente Antonio Brusa nella presentazione del laboratorio: ©UNICOPLI 126 Annastella Carrino e Claudia Villani passato29; una competenza ancora più necessaria nell’età del memory boom, della pluralizzazione delle memorie collettive, della rinegoziazione continua delle memorie che intreccia dimensione locale e globale, del web 2.0 e della transmedialità. In questo percorso rientrano i laboratori didattici realizzati e sperimentati con gli studenti dell’insegnamento di didattica della storia30, il corso di formazione per docenti Il Mezzogiorno fra storia e memoria31 nel 2018 e la partecipazione alle conferenze dell’AIPH32, con al centro il tema complesso del rapporto tra insegnamento della storia, forme della divulgazione storica e nuovi media33. Abbiamo pensato quindi di adattare il laboratorio di simulazione sulle “Tradizioni” sia alla storia (tornata “sensibile”) del processo di unificazione italiano, sia al tema attualissimo dell’identità europea34. Lo scopo di queste due nuove versioni del gioco, sperimentato con successo in diverse occasioni35, è principalmente quello di familiarizzare gli studenti con i vari meccanismi di appropriazione del passato, per farli riflettere sulle responsabilità ad essi connesse, distinguendo tra revisione storica scientificamente fondata e usi (pubblici e/o politici) del passato. Il passo successivo è stato quello di progettare nuovi laboratori didattici sul grande brigantaggio per affrontare nelle scuole il tema della controstoria neoborb del processo di unificazione italiano. Come introdurre gli studenti nel vivo del processo stesso di costruzione delle memorie collettive e delle narrazioni storiche sul Risorgimento? I due laboratori didattici, uno per la scuola media e 29 Cfr. A. Körber, Historical consciousness, historical competencies - and beyond? Some conceptual development within German history didactics, May 2015, pp. 1-56, DOI: 10.13140/RG.2.1.1524.9529, p. 23. 30 Università di Bari, Dipartimento DISUM, a.a. 2017/18 e 2018/19. 31 Il corso si è tenuto presso la Scuola Michelangelo il 10 e 13 aprile 2018, piattaforma SOFIA id.14040. 32 Public History, didattica della storia e formazione storica nella globital age of memory, panel a cura di C. Villani, AIPH - Book of Abstract, Pisa, 2019, https://aiph.hypotheses. org/7389. 33 Su questo tema assai articolato è il dibattito internazionale. Cfr. L. Cajani, La scuola di fronte agli usi pubblici della storia, in “Public History Weekly”, VI, 2018, 16; M. Daisy, Public History at School. How and Why?, in “Public History Weekly”, VI, 2018, 19; Public History and School. International Perspectives, ed. M. Demantowsky, De Gruyter Oldenbourg, Berlin-Boston 2018; C. Villani, Public history e didattica della storia nell’età delle history wars, in Pensare storicamente, a cura di S. Adorno, L. Ambrosi, M. Angelini, Franco Angeli, Milano 2020. 34 C. Calefati, A. Florio, F. Palmieri, Gli europei e il loro passato: memorie contese, adattamento presentato nell’ambito delle attività di formazione dei docenti della Cattedra Jean Monnet Sfide storiche, politiche della memoria ed integrazione europea. Mezzogiorno e area mediterranea, HICOM 2018-2021, http://jmc.uniba.it/index.php/didattica/formazione/2018-19/risorse-scuola/. 35 Cfr. Playing with Time / Tempo in gioco. Historia e philosophia ludens, International Conference, Università degli Studi di Bari, 15-17 aprile 2019. Per ulteriori dettagli, cfr. A. Caputo, Visioni del tempo dalla Primaria alla Secondaria inferiore, dal Liceo, all’Istituto Tecnico e Alberghiero, Philosophia ludens 2019, in “Logoi”, V, 2019, 14. L’insegnamento storico fra didattica e popular history 127 V. Patruno, Il brigantaggio tra i banchi di scuola, Tesi di laurea Magistrale in didattica della storia, Relatore: C. Villani, Correlatore: G. Fruci, a.a. 2017-2018. 37 In questo caso si tratta del Sergente Romano, che avrebbe trovato rifugio presso il bosco delle Pianelle, vicino a Martina Franca. Ringraziamo il Dirigente dell’I.T. Amedeo Savoia e la docente Giuseppina Barletta per la disponibilità ad accogliere questa sperimentazione. 38 Per gli aspetti metodologici del laboratorio storico con le fonti iconografiche cfr. E. Musci, Il laboratorio con le fonti e le narrazioni iconografiche, in Insegnare storia: guida alla didattica del laboratorio storico, a cura di P. Bernardi, F. Monducci, UTET università, Torino 2012. Sull’importanza del laboratorio con le immagini e sul rapporto con la cultura visuale, si veda A. Brusa, Una grammatica delle immagini: la cultura iconografica tra manuali e didattica della storia, in “Visual history”, III, 2017, https://doi.org/10.19272/201712401009; Id, Le foto iconiche, tra storia pubblica e formazione storica, in “Visual history” (in corso di pubblicazione). 39 Di seguito alcuni stralci delle pagine scritte dagli studenti. Esempio 1: «Caro diario, so che non ti scrivo da tanto tempo ma ho avuto molto da fare con i miei compagni e abbiamo incassato più di £ 5.320, 00. Oggi è stata un’altra giornata faticosa. C’è stato uno scontro a fuoco tra la mia banda ed i militi nazionali nella masseria Guado Bianco. La battaglia è durata ben otto ore e noi eravamo solo in quattordici. Molti di noi sono stati feriti, altri catturati e Dio solo sa dove si trovino ora! Voglio solo far capire a tutti quanto sia difficile la nostra vita, quella dei contadini del sud. Le nostre condizioni sono misere!». Esempio 2: «Caro diario, oggi è successa una cosa terribile: i bersaglieri della città hanno ucciso il mio compagno mentre assalivamo il Palazzo Ducale. Nonostante tutto siamo riusciti a prendere £ 264, 59 e abbiamo reciso il lobo dell’orecchio destro di un traditore, un infame!». Esempio 3: «Oggi è stata una giornata molto difficile perché, oltre a preparare la messa ed a confessare alcuni fedeli insistenti, non potevo 36 ©UNICOPLI uno per la scuola superiore, sono stati sperimentati e documentati in due tesi di laurea magistrali. Nel primo caso36 si è trattato di un laboratorio sul brigantaggio postunitario che, sulla base della recente storiografia risorgimentale, intendeva portare gli alunni dentro il caleidoscopio di conflitti civili, sociali, politici, locali e internazionali confluiti in quella drammatica vicenda, senza farli perdere nella complessità degli eventi. Obiettivo non meno importante era quello di cogliere questa occasione per far comprendere loro come il rapporto con il passato sia anch’esso una questione complessa e che le memorie collettive di eventi traumatici sono sempre memorie divise. La scuola media scelta dalla laureanda è una scuola di Martina Franca, uno dei tanti luoghi del Mezzogiorno con consistenti memorie di eroi-briganti37. Dopo una breve introduzione del docente sul contesto storico e sull’iconografia del brigante, gli studenti prendono visione di estratti di fonti processuali e di un dossier di fonti iconografiche. Ad ogni gruppo viene chiesto quindi di immedesimarsi in una categoria di personaggi ritratti nelle immagini assegnate dal docente (brigante, bersagliere, parroco che raccoglie la confessione del brigante, brigantessa, contadini, ecc.). L’analisi puntuale delle fonti38 ha lo scopo di avviare il gioco di simulazione, il cui fine è quello di scrivere una pagina di diario “verosimile”. Gli studenti sperimentano quindi direttamente cosa comporta la scelta di un punto di vista (reale ma parziale) sul passato, confrontandosi al tempo stesso con gli altri punti di vista. Diventa evidente come la complessità della realtà si rifletta nella complessità delle memorie individuali e collettive39 128 Annastella Carrino e Claudia Villani ©UNICOPLI e quanto sia difficile il lavoro dello storico, che deve non solo recuperare, vagliare e indagare le fonti, ma anche tenere conto di tutte le memorie. Nella fase conclusiva del debriefing la riflessione su questi temi è stata stimolata da un ulteriore quesito: “Cosa succederebbe senza gli storici in un paese ideale dove ogni famiglia conserva solo la sua memoria e la sua personale visione dei fatti?”. Ecco alcune delle risposte: …si scatenerebbe una grande confusione tra gli uomini: ognuno ha la sua storia, la sua prospettiva delle cose. Senza l’attenta analisi e l’acuta selezione degli storici, vivremmo nella confusione… …saremmo nel caos. Ogni famiglia crederebbe alla propria storia e soprattutto farebbero a gara per avere ragione. …non conosceremmo la storia. …non sapremmo mai cosa è realmente accaduto nel passato. …non conosceremmo le nostre origini. …ci sarebbero solo tante guerre, conoscendo l’uomo… Alla fine, è emerso come sia importante l’approccio al passato del ricercatore “scientifico”, che interroga ogni traccia possibile, ogni memoria40. Senza questo approccio, ed è il risultato più importante di questo laboratorio sulla memoria storica e sulla sua grammatica, come hanno notato molti alunni, si rimarrebbe prigionieri di memorie divise e divisive. Nel secondo caso abbiamo immaginato un laboratorio di didattica controversiale41 che ripensa la formula del “debate”42 per mettere in scena una delle tante “guerre della memoria” che periodicamente accendono il dibattito pubblico, attorno a questioni storiche particolarmente sensibili per una collettività. Il laboratorio prevede la simulazione di una seduta del consiglio regionale puglieche pensare alla dolorosa guerra che si è scatenata tra uomini del mio stesso paese e l’esercito del regno». Esempio 4: «oggi è stata una giornata molto triste perché ho visto morire sotto i miei occhi la persona più importante della mia vita: mio marito. È successo tutto in un attimo. Eravamo nelle nostre campagne quando sentimmo un rumore. C’erano tanti cavalli e poi c’erano loro, spaventosi come non mai: i briganti. Volevano saccheggiarci e violentarci. (…) avrei voluto vendicarmi di mio marito ma sapevo che non ce l’avrei fatta. Da quel momento per me tutto si fermò e nulla ebbe un senso». 40 Le memorie possono diventare anch’esse oggetto di indagine storica. Secondo la Assmann, una delle protagoniste dei memory studies, solo una memoria delle memorie intesa come archivio di tutte le esperienze storiche, anche di quelle che sembrano aver perso una relazione vitale con il presente, rende possibile pensare al cambiamento. In caso contrario si rimarrebbe intrappolati nel presente. Per i concetti di “memoria archivio” e “memoria funzionale” cfr. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002, pp. 148-157. 41 Cfr. C. Heimberg, Le questioni socialmente vive e l’apprendimento della storia, in “Mundus”, 2008, 1; The T.E.A.C.H. Report. Teaching Emotive and Controversial History, 2007, https://www.history.org.uk/secondary/resource/780/the-teach-report. 42 Cfr. A. Cattani, N. Varisco, Dibattito argomentato e regolamentato. Teoria e pratica di una Palestra di botta e risposta, “I Quaderni della Ricerca - 47”, Loescher, Torino 2019. L’insegnamento storico fra didattica e popular history 129 …diciamo pure che durante il Regno c’è stato questo strapotere del Nord, però c’era anche all’epoca un Parlamento dove comunque c’era una rappresentanza del Sud che ha pensato più al proprio interesse piuttosto che all’interesse del Sud in generale… …c’è magari un pregiudizio verso il Sud, verso coloro che sono del Sud, ma poi alla fine noi per primi diciamo che non è possibile cambiare la situazione… …Gli errori del passato… ok, ma è un passato che appunto è passato! … Guardare al passato è utile per capire una determinata situazione, non è utile per modificarla 43 A. F. Ostuni, Il neoborbonismo in classe, Tesi di Laurea Magistrale in didattica della storia, Relatore: C. Villani, Correlatore: A. Caputo, a.a. 2017-2018. Ringraziamo la Dirigente del Liceo scientifico “Salvemini” di Bari e la docente Annamaria Mercante per la disponibilità ad accogliere questa sperimentazione. 44 Cfr. http://www.sissco.it/articoli/dossier-una-giornata-per-le-vittime-del-risorgimento/. Tra le altre risorse: il testo della Mozione del Movimento Cinque Stelle al Consiglio regionale pugliese http://www5.consiglio.puglia.it/GissX/XSagArchivio.nsf/(InLinea)/mozione-139-X/$File/mozione-139-X.doc?OpenElement; una selezione di documenti dell’epoca da utilizzare a supporto delle proprie posizioni; per la squadra Pro passi tratti dai libri di P. Aprile Terroni e Carnefici; per la squadra Contro, estratti da saggi di A. M. Banti, G. L. Fruci e C. Pinto. 45 P. Aprile, Ecco perché il Sud è stato e sarà sempre una colonia del Nord, https:// video.leggo.it/primopiano/pino_aprile_nemo_sud_nord_30_ottobre_2017-3334604.html; A. Giannola, Il Sud, motore di sviluppo dell’economia italiana, http://www.economia.rai.it/ articoli/il-sud-motore-di-sviluppo-delleconomia-italiana/33969/default.aspx. 46 Ecco l’elenco stilato durante la discussione: “Pregiudizio, Credere in noi stessi, Reinvestire, Errori del passato, Problema d’informazione, Questione sociale, Non piangere sul latte versato, Spreco pubblico, Ricerca delle cause, Attenzione ai propri interessi, Circolo vizioso, La Lega porta odio, Fuga di cervelli”. ©UNICOPLI se in cui decidere se approvare la mozione per l’istituzione della “Giornata della memoria per le vittime meridionali del Risorgimento”43. Il dossier di materiali e risorse per organizzare la disputa tra le due squadre (pro e contro) in cui viene divisa la classe non contiene solamente risorse storiche, ma un ampio ventaglio di narrazioni, più o meno “professionali”, tra cui l’intero dossier di articoli e interventi sui giornali sul tema curato dalla SISSCO44. Le fasi del laboratorio sono diverse. Si inizia con la visione di due brevi video “rompighiaccio” per introdurre l’argomento: l’intervento di Pino Aprile nella trasmissione Nemo e l’intervista ad Adriano Giannola45, presidente della SVIMEZ. In questa fase preliminare si discute liberamente partendo da due punti di vista differenti sul Mezzogiorno e sulla sua storia (brainstorming), riassumendo le riflessioni attraverso parole-chiave e frasi significative46. Emergono di conseguenza un insieme di considerazioni, impressioni, pregiudizi, ansie di giovani studenti meridionali che si interrogano sul loro futuro, che si fanno domande sulla loro storia e che, pure tentati dalle accattivanti risposte offerte dalla narrazione di Aprile, non cedono alle semplificazioni, agli “eventi decisivi”, alle “cause semplici”, al giudizio affrettato su “vittime e carnefici”. Ecco alcuni esempi: 130 Annastella Carrino e Claudia Villani ©UNICOPLI …la risposta può essere soltanto quella di credere in noi stessi? O c’è qualcosa di più profondo? Secondo me non si può dare un’unica risposta alla passività o alla sfiducia nei propri mezzi… …se guardiamo un po’ al passato, diciamo che inizialmente c’era la monarchia... Con la democrazia, che mette tutti sullo stesso piano dei diritti e del peso che si può avere nella nazione, come mai allora si è conservata questa situazione (il divario Nord/ Sud)?… Nella seconda fase si divide la classe in due squadre (una favorevole e l’altra contro la mozione) e si distribuisce il materiale da utilizzare; in un terzo momento si svolge la disputa47 e infine si riflette sull’esito finale nel debriefing. Quest’ultima fase è senza dubbio la più importante, poiché un debate di storia viene utilizzato non tanto e non solo per sviluppare competenze generali di carattere retorico e argomentativo, ma piuttosto per favorire un uso critico delle fonti, per sviluppare argomentazioni storiograficamente corrette, per un approfondimento sui risultati della ricerca storica, nonché per mettere in discussione stereotipi e semplificazioni correnti48. Si dovrebbero comprendere alla fine i caratteri peculiari del dibattito storiografico e del processo di revisione storica. Nel debriefing del laboratorio sul neoborbonismo è emerso con chiarezza il tema delle manipolazioni pubbliche e politiche della storia, che fanno leva proprio sugli stereotipi e sui pregiudizi radicati nel senso comune (sul Sud, sui meridionali, ecc.), così come sulle incertezze e preoccupazioni del presente, come è emerso nel brainstorming iniziale. Persino la questione dell’identità meridionale – strategica nella narrazione neoborbonica - si è rivelata controversa: “si è sempre meridionali di qualcuno” era il motto della squadra del Pro, che ha realizzato anche un sito chiamato “Sud Party”. Gli alunni hanno compreso come diverse concezioni identitarie conducano a diverse narrazioni e quanto sia importante una mediazione esperta della conoscenza del passato per evitare usi e abusi, ma soprattutto per costruire una coscienza storica veramente all’altezza del presente. Altre scorciatoie, come hanno notato alcuni alunni, rappresentano pericolosi scivolamenti populisti, secondo logiche di spettacolarizzazione della storia che in passato sono state al servizio anche dei peggiori regimi. 47 Fondamentale è il tempo concesso per l’esposizione della tesi e per l’elaborazione di quest’ultima durante i giri successivi. Ogni squadra deve prendere appunti durante ogni intervento e cercare di “contrattaccare” al turno successivo, sino all’orazione finale. La giuria, costituita da almeno due docenti, vigila sul rispetto delle regole, conta eventuali falli, blocca la gara in caso di irregolarità e giudica utilizzando una scheda di valutazione. 48 È il modello proposto da A. Brusa e sperimentato nella rete Parri, di cui parla P. Battifora in È successo un ’68. Laboratorio di didattica controversiale, www.novecento.org, n. 10, 2018. Nella stessa direzione lavora un gruppo di ricerca costituito da M. Cecalupo, F. Motta, G. Ricci, i cui “debate” sono in corso di pubblicazione per la Loescher. Per un esempio cfr. M. Cecalupo, Debate al Senato di Roma. La cittadinanza romana ai barbari?, http://jmc.uniba. it/index.php/didattica/formazione/2019-20/materiali-didattici/. L’insegnamento storico fra didattica e popular history 131 …è pericoloso quando c’è la spettacolarizzazione della storia, perché avviene grosso modo da una parte. Perché ad esempio questo è stato certamente uno dei motivi delle dittature molti anni fa. Ad esempio, il fascismo spettacolarizzava la storia romana.… …quest’iniziativa (la mozione), in cui è molto più importante la vendibilità delle proprie idee che il loro contenuto vero e proprio, ha caratteri populisti come altre in Italia e Europa in questi ultimi anni… …è molto meglio lasciare la storia alle istituzioni, tipo Rai Storia, piuttosto che creare dei programmi di televisione che si basano sul guadagno, e quindi fare dei programmi che non siano storici, fatti solo per attirare l’attenzione del pubblico... preferisco dei programmi un po’ più noiosi, che però non siano faziosi e propagandisti… …come si fa a paragonare la Shoah all’Unità d’Italia?... Più storia, e meglio: una responsabilità civile L’insegnamento della storia a scuola viene troppo spesso dato per scontato, non problematizzato, tradizionalmente acquisito, reputato “semplice”. Si tratta, in realtà, di un ambito assai delicato, ancor più sensibile via via che lo spazio – e la dignità – della storia a scuola si riducono, attraverso scelte scellerate, dalla contrazione delle ore curriculari, all’utilizzo di manuali a doppia faccia come un giano bifronte, a opzioni tematiche e didattiche talvolta ruffiane; fino alla inimmaginabile scelta (solo in parte emendata) di estrometterla dagli esami di Sta- Tre sono le dimensioni fondamentali per comprendere il rapporto con il tempo che caratterizza ogni narrazione storica: la dimensione cognitiva, la dimensione estetica e la dimensione pratica. J. Rüsen, Introduction: How to Understand Historical Thinking, in History: Narration, Interpretation, Orientation, vol. V, Berghahn Books, New York 2005. 49 ©UNICOPLI In questo laboratorio didattico, in sostanza, gli studenti hanno sperimentato direttamente problemi e meccanismi connessi alla costruzione delle memorie di gruppi e collettività, acquisendo una nuova consapevolezza storica: la grammatica delle memorie ha una sua logica interna, impone di fare i conti con l’orientamento nel presente, con la funzione pratica che si attribuisce al rapporto con il passato49 e con la sua spettacolarizzazione. Nel debriefing, ad esempio, c’è chi ha proposto di istituire una giornata nazionale delle vittime italiane dell’unità d‘Italia (“perché alla fine siamo tutti italiani”), altrimenti “nulla vieterebbe che il 13 febbraio vengano organizzate in contemporanea delle contro-manifestazioni per ricordare le vittime dei Borboni di 300-400 anni di dominazione al Sud”. Al di là di ogni facile semplificazione, per concludere, la storia del grande brigantaggio postunitario – tornata “sensibile” - può diventare nelle scuole una straordinaria occasione per mettere gli alunni in condizione di misurarsi con due complessità di grado diverso: la complessità dell’indagine scientifica sul passato (grammatica della storia) e la complessità del rapporto tra narrazioni del passato e memorie collettive (grammatica delle memorie). Annastella Carrino e Claudia Villani ©UNICOPLI 132 to50. Dimenticando – forse anche scientemente – che la storia è terreno centrale e fecondo per condurre non solo alla conoscenza e comprensione del passato, ma anche del presente; per cogliere il passato nella sua sostanza, senza rischiare di distorcerlo, confondendo, nel migliore dei casi, storia e memoria; nel peggiore, suscitando fraintendimenti e storture, aizzando contrasti e divisioni. Se da un lato gli studenti – e non sempre per loro colpa – tendono a percepire la storia come inutile sequela di date, nomi illustri e battaglie, da scordare (con sollievo) a interrogazione fatta; dall’altro, possono essere attratti da una storia che eroicizza e rivendica, scandendo il passato fra buoni e cattivi. Senza appello, senza l’onere della prova. Se il brigante assume le sembianze di un eroe da fumetto, di un personaggio da videogioco, diventa certo più affascinante e intrigante di un “noioso” rappresentante delle istituzioni. D’Artagnan è più attraente di Richelieu; Masaniello di Genoino; Pugacev di Caterina II; Carmine Crocco di Enrico Cialdini. In definitiva, la domanda di storia, nell’ambito degli attuali processi di ridefinizione delle identità, può tradursi in rivolta “populista” contro le élite e i saperi esperti, oppure può incrociare in qualche modo la storia come “scuola di lucidità”51, di crescita conoscitiva e di riflessione critica sul passato. La sfida è dunque quella di aiutare i giovani a discernere il senso del passato, “cassetta degli attrezzi” alla mano. In questo contesto, la scuola pubblica ha un ruolo cruciale: può e deve contribuire a emancipare i giovani dall’essere solo consumatori/fruitori passivi delle narrazioni storiche, a tutti i livelli. Fra i banchi si dovrebbe acquisire la capacità di decostruire e ricostruire le narrazioni del passato (popular, public and professional history), di misurarsi con i meccanismi della ricerca scientifica e della memoria storica. La formazione di una coscienza storica52 all’altezza dei tempi costituisce insomma un elemento fondamentale per la costruzione di una cittadinanza attiva e consapevole. Se invece si dovesse imboccare una strada diversa, sganciando le cosiddette competenze di cittadinanza dall’insegnamento della storia53, si rischierebbe di lasciare il rapporto con il passato in balia delle narrazioni che circolano nella sfera pubblica, ognuna funzionale a una causa particolare, che Cfr. A. Brusa, Uno su cento. Il tema storico alla prova della maturità, 17 Ottobre 2018; Id., Dopo le discussioni sulla prova di storia. In attesa della tempesta perfetta?, 17 Marzo 2019, entrambi su http://www.historialudens.it. 51 L’espressione è di G. Duby, Il metodo della storia, intervista del 15-03-1996, http://www. conoscenza.rai.it/site/it-IT/?ContentID=825&Guid=642ad5e31ae14c5d95e8701a22392010. 52 “Coscienza storica” e/o “pensiero storico” sono concetti chiave nelle principali scuole internazionali di didattica della storia. Cfr. P. Seixas, Historical consciousness and historical thinking, in Palgrave Handbook of research in historical, cit., pp. 59-72. 53 Cfr. A. Brusa, Del pasticcio dell’Educazione civica e dei suoi legami ambigui con la storia, 16/06/2019, http://www.historialudens.it/geostoria-e-cittadinanza/332-del-pasticcio-dell-educazione-civica-e-dei-suoi-legami-ambigui-con-la-storia.html; A. Prampolini, L’educazione alla cittadinanza nel Web. Parte prima: l’Italia, 22-01-2020 http://www.historialudens.it/geostoria-e-cittadinanza/341-l-educazione-alla-cittadinanza-nel-web-parte-prima-l-italia.html. 50 L’insegnamento storico fra didattica e popular history 133 Sulla composizione, sulle attività e sulle prese di posizione del Coordinamento delle Società Storiche si veda http://www.sissco.it/categorie/coordinamento/. 54 ©UNICOPLI con la spassionata conoscenza del passato ha spesso assai poco a che fare. Nulla vieterebbe allora di promuovere altre mille giornate della memoria, dedicate a questo o quell’eroe locale, a questa o quella vittima, diventando giudici di un passato che non riusciamo più a comprendere veramente nella sua complessità. Si possono raccontare tante “storie” di briganti senza conoscere la storia del grande brigantaggio postunitario e dei tanti conflitti (politici, sociali, culturali) che intrecciano questa vicenda, solo apparentemente locale e italiana, al secolo delle rivoluzioni, da un lato, e alla storia globale del XIX secolo, dall'altro. Si può giudicare il passato alla caccia dell’evento risolutivo per spiegare il presente, schierandosi con la memoria degli uni o degli altri, ma – come hanno compreso anche gli studenti –”saremmo nel caos”, ognuno “crederebbe alla propria storia e soprattutto farebbe a gara per avere ragione”; e poi “guardare al passato è utile per capire una determinata situazione, non è utile per modificarla”. Con questi temi/problemi dovrebbero misurarsi anche gli storici di mestiere, occupandosi più sistematicamente dell’insegnamento, della disseminazione e della divulgazione della storia e dei risultati della ricerca. C’è da augurarsi che i recenti segnali di attenzione da parte del Coordinamento delle società storiche per la didattica della storia, per i temi della public history e per la formazione degli insegnanti di storia inneschino meccanismi virtuosi di questo tipo, sganciati dalle reazioni, pur meritevoli, alle urgenze del momento54. ©UNICOPLI BRIGANTI NELLE NUOVE “FORESTE” DEI MEDIA E DEL WEB Una proposta di ricerca e di didattica della storia Christopher Calefati, Antonella Fiorio, Federico Palmieri1 Introduzione L’articolo è stato curato insieme dai tre autori. Va attribuito a Federico Palmieri il paragrafo I, a Christopher Calefati il paragrafo II, ad Antonella Fiorio il paragrafo III. 1 ©UNICOPLI I briganti hanno rappresentato a lungo un soggetto mutevole, a metà tra finzione letteraria e dimensione reale, all’occasione dipinti come criminali spietati o giustizieri alla Robin Hood. La tipizzazione del brigante, giunta a maturazione con la letteratura e la propaganda politica ottocentesca, ha contribuito, in tempi più recenti, alla sua graduale astrazione dal contesto storico, tanto che le icone e i messaggi ad esse legate circolano nel web con facilità, spesso sradicate dal terreno cui appartengono. Partendo dall’osservazione della diffusione mediatica dei processi di narrazione relativi al Risorgimento e al brigantaggio, si propone nel saggio di delineare una prima cornice interpretativa del fenomeno, guardando alle dinamiche e alle modalità di divulgazione e alla natura dei contenuti proposti. Particolare attenzione è dunque rivolta ai principali strumenti di comunicazione di massa nell’epoca del digital turn: siti web, social media e piattaforme di condivisione come Facebook e YouTube. Se ne prenderanno in considerazione le interazioni con gli utenti, i linguaggi adoperati, le immagini e i documenti scelti a supporto delle storie raccontate, le metafore adottate. Nell’ultimo decennio, numerose pagine Facebook, incentrate sulle tematiche della controstoria risorgimentale, hanno incrementato la loro attività pubblicando o condividendo tesi generate dal borbonismo politico tardo-ottocentesco, dalla storiografia gramsciana, dalla narrativa cattolico-reazionaria del secondo Novecento, dalla recente saggistica controcorrente, in cui la rilettura del brigantaggio rappresenta un elemento cardine. I briganti del terzo millennio non si danno più alla macchia come quelli di età moderna, che rispuntavano all’alba per assalire borghi e masserie. Gli insorgenti di oggi affollano la fitta “foresta” del web, popolano siti internet e social network, e se un tempo fuggivano all’arrivo di bersaglieri o carabinieri, oggi ingaggiano sferzanti duelli a colpi di post e commenti. E rintracciarli è più semplice che in passato. Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri 136 Il proliferare di materiali testuali e audiovisuali sul web pone l’utente di fronte alla grande opportunità di ottenere informazioni in maniera rapida e agevole, ma comporta anche un aumento nella difficoltà di selezionare i risultati ottenuti per valutarli e scegliere quelli più rispondenti alla ricerca effettuata. Vengono quindi offerti nel saggio dei criteri da poter seguire durante la lettura dei contenuti digitali, alla luce degli screening condotti sulle risposte che il web e i social network danno a domande di ricerca su brigantaggio e Risorgimento, i cui risultati sono stati presentati al convegno di studi storici “Guerra ai briganti, guerra dei briganti” tenutosi a Bari dall’11 al 13 ottobre 2018. ©UNICOPLI A caccia di briganti tra reale e virtuale Le fake antiscientifiche investono vari campi del sapere, dalla medicina all’economia, all’ingegneria, senza risparmiare la storia. Innumerevoli sono quelle di carattere storico che continuano a circolare su Internet2, a volte condivise inconsapevolmente dagli utenti, altre, più spesso, pubblicate intenzionalmente, per offrire una nuova interpretazione dei fatti in grado di raccontare quelle “verità” che sarebbero state taciute e/o nascoste da una presunta retorica ufficiale. È questo il caso della contronarrazione risorgimentale3, che servendosi efficacemente dei meccanismi della comunicazione online, mediante l’apertura di siti internet, pagine e gruppi social seguiti da migliaia di followers4, ha rapidamente guadagnato un proprio spazio di propaganda nel dibattito pubblico, passando Si veda, sul fascismo: Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2019. Per la decostruzione di fake, luoghi comuni e strumentalizzazioni sul Medioevo: Giuseppe Sergi, L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, Roma, Donzelli, 2005; Tommaso Di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Torino, Einaudi, 2011; Simone Bordini, La storia mediata. Il Medioevo visto dal web: percorsi di ricerca e didattica, Bologna, Clueb, 2008. 3 Gian Luca Fruci, Carmine Pinto, El regreso de los Borbones. Reelaboraciones mitográficas y perspectivas políticas en el Mezzogiorno italiano, in «Ayer», 112, 2018, pp. 317-34; La risacca neoborbonica. Origini, flussi e riflussi, a cura di Silvano Montaldo, in «Passato e Presente», 105, 2018, pp. 19-48; Maria Teresa Milicia, Ritorno al futuro Regno delle Due Sicilie, in «Politika», 16/04/2019; Christopher Calefati, Antonella Fiorio, Federico Palmieri, Storia e fake news: il caso del neoborbonismo, in «Ricerche di storia politica», 1, 2020, pp. 59-70. Sul debunking dei principali topoi neoborbonici: Renata De Lorenzo, Borbonia Felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, Salerno editrice, 2013; Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari, Laterza, 2014; M.T. Milicia, Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso, Roma, Salerno editrice, 2014; Jose Mottola, Il “primato” del Regno delle Due Sicilie, Lecce, Capone editore, 2014; Giancristiano Desiderio, Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019; F. Benigno, C. Pinto (a cura di), Borbonismo, «Meridiana», 95, 2019. 4 Cfr. C. Calefati, A. Fiorio, F. Palmieri, Nella Rete delle Due Sicilie. Neo borbonismo alla prova di Internet, in «Il Pensiero Mazziniano», 2, 2019, pp. 34-39. 2 Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 137 Per le nozioni, i simboli e le rappresentazioni della causa perduta borbonica cattolica si veda: C. Pinto, Il patriottismo di guerra napoletano (1861-1866), in «Nuova Rivista Storica», 3, 2016, pp. 841-869. 6 C. Pinto, Gli ultimi borbonici. Narrazioni e miti della nazione perduta duo-siciliana (1867-1911), in «Meridiana», 88, 2017, p. 73. 7 In seguito alla definitiva sconfitta di Francesco II, nel 1866, i suoi collaboratori più fedeli continuano a raccogliere documenti e statistiche del Mezzogiorno, intentando anche cause giudiziarie contro il Regno d’Italia per il recupero del patrimonio dei Borbone, Gigi Di Fiore, La nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità sudista, Torino, Utet, 2015, pp. 152-153. 8 Sui plebisciti postunitari si veda: G.L. Fruci, Mitografia e storia dei plebisciti di unificazione nelle Due Sicilie, in «Meridiana», 95, 2019, pp. 113-138. 9 Silvio Vitale, Gli scrittori borbonici dopo il ‘60, in «L’Alfiere», 4, gennaio 1962, pp. 1-3 <http://www.lalfiere.it/blog/prodotto/04-lalfiere-numero-4> (sito consultato il 28/10/2020). 5 ©UNICOPLI da un ambiente di nicchia, a esclusivo appannaggio di circoli tradizionalisti e postmeridionalisti, a più ampi circuiti nazionali. Eppure, il tentativo di raccontare un’altra storia o la vera storia del Risorgimento risale al momento stesso in cui si produce l’unificazione, centosessant’anni fa. Una ristretta schiera di scrittori, politici e alti prelati borbonici, impegnati nella guerra di idee contro gli unitari, denuncia l’invasione straniera di un regno indipendente, ricco e all’avanguardia, il complotto anticattolico a danno della dinastia e della Chiesa, la distruzione di interi paesi, le stragi compiute contro i civili. Sul piano della comunicazione, la pubblicazione di libri, quotidiani e opuscoli, pur senza eguagliare la ricca produzione mediatica degli italiani filo-unitari, riscontra un discreto successo e i borbonici ottengono la solidarietà degli ambienti reazionari e cattolici di tutta Europa5. Negli ultimi decenni del XIX secolo, i partigiani della «nazione perduta duo-siciliana», elaborano una propria versione della storia del Regno borbonico e della sua fine, dando origine a una cospicua letteratura nostalgico-vittimistica, «affiancata ad una mistica della patria distrutta che cercò di coltivare sentimenti e frustrazioni»6. I giornali legittimisti napoletani, tra gli anni Sessanta dell’Ottocento e sino ai primi del Novecento, divengono il principale strumento di rivendicazioni politiche7. Tra le motivazioni principali all’origine del crollo della dinastia borbonica ci sarebbero la cospirazione di potenze straniere, inglesi e francesi, il tradimento degli ufficiali, l’utilizzo di camorristi e i brogli durante i plebisciti di annessione8. Le ragioni dei vinti e i materiali della causa perduta borbonica vengono utilizzati, a più riprese, durante tutto il Novecento. Per controcelebrare il centenario dell’unificazione, nel 1960, l’avvocato ed esponente politico del Movimento Sociale Italiano (MSI), Silvio Vitale, insieme allo scrittore cattolico-reazionario Carlo Alianello e ad altri collaboratori, fonda la rivista «napoletana tradizionalista» L’Alfiere, recuperando le tesi dell’irredentismo borbonico ottocentesco, a cominciare dagli scritti di Giacinto De Sivo9. Proprio su questa rivista, in un articolo di Francesco Maurizio Di Giovine del 1993, per la prima volta il forte piemontese di Fenestrelle viene accostato ai campi di concentramento novecenteschi e, qualche decennio dopo, questa tesi è rilanciata sul web mediante post, ©UNICOPLI 138 Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri immagini, video e brani musicali. Fenestrelle può essere definito forte, caserma o deposito militare, in cui sono trasferiti i soldati meridionali prima di essere arruolati nel costituendo esercito italiano. Il termine “campo”, di concentramento o di prigionia, risulta del tutto inadeguato ed è «certamente voluto per creare un effetto sensazionale»10. L’associazione tra Fenestrelle e il campo di concentramento di Auschwitz, simbolo del genocidio ebraico, trasforma i piemontesi in precorritori dei nazisti, creando una prossimità memoriale e un parallelismo tra due luoghi e due vicende concettualmente e temporalmente molto distanti. L’analogia con il nazismo è il risultato del costante bombardamento retorico presente sin dagli anni Settanta nei romanzi di Alianello ed è ripresa, alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, nell’incipit di Terroni di Pino Aprile11. Le altre tematiche ricorrenti nei romanzi di Alianello ambientati nel Regno delle Due Sicilie al momento del crollo sono la fedeltà alla dinastia dei rampolli dell’aristocrazia, la resistenza dei briganti-partigiani, ma anche il tradimento dei generali, la conquista manu militari del Sud e la persecuzione anticattolica12. Nel 1956 il romanzo L’Alfiere (1942) diviene uno sceneggiato televisivo RAI, di 6 puntate, diretto da Anton Giulio Majano. Nel 1963 è il momento de L’eredità della Priora, romanzo pubblicato da Feltrinelli, che un anno dopo distribuisce il libro di Franco Molfese Storia del brigantaggio dopo l’Unità, di impostazione latamente marxista. Di orientamento marxista è anche Florestano Vancini, regista del film Bronte, cronaca di un massacro (1971)13. Qualche anno più tardi, Majano cura la regia della miniserie L’Eredità della Priora, la cui colonna sonora è affidata a Eugenio Bennato, che per l’occasione compone, insieme a Carlo D’Angiò, il brano Brigante se more, divenuto successivamente vero e proprio inno dei brigan- 10 Barbero, I prigionieri dei Savoia cit., p. 292. Il parallelismo tra il forte di Fenestrelle e i campi di concentramento è riportato in testi e articoli pubblicati su riviste e libri di pubblicistica controcorrente tra gli anni Novanta del secolo scorso e gli inizi del Duemila. In particolare, Francesco Maurizio Di Giovine, I campi di concentramento, in «L’Alfiere», 12, 1993, p. 11; Id., Dal campo di prigionia di Fenestrelle. I primi nomi dei soldati napoletani morti durante la forzata detenzione (1860-1870) in «L’Alfiere», 29, 2000, pp. 3-4; Roberto Gremmo, La rivolta «borbonica» a Fenestrelle ed il campo di concentramento dei soldati meridionali a Lombardore dopo l’Unità d’Italia, in «Storia ribelle», 1, 1995, pp. 48-58; Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Casale Monferrato, Piemme, 1998; Fulvio Izzo, I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Napoli, Controcorrente, 1999; G. Di Fiore, I vinti del Risorgimento, Torino, Utet, 2004. 11 Carlo Alianello, La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Milano, Rusconi, 1972, p. 261; Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali», Milano, Piemme, 2010. 12 Per un accurato approfondimento sulla figura di Carlo Alianello si veda la voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, 34, 1988, a cura di Alessandra Cimmino: <https://www. treccani.it/enciclopedia/carlo-alianello_(Dizionario-Biografico)/>. Per le opere incentrate sulla caduta del Regno delle Due Sicilie: C. Alianello, L’Alfiere, Torino, Einaudi, 1942; Id., I soldati del Re, Milano, Mondadori, 1952; Id., L’eredità della Priora, Milano, Feltrinelli, 1963; Id., La conquista del Sud cit. 13 Montaldo (a cura di), La risacca neoborbonica cit., p. 30. Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 139 Lino Patruno, Fuoco del Sud, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, p. 17. Montaldo (a cura di), La risacca neoborbonica cit., p. 30. 16 Registrazione audio dell’interpellanza parlamentare dell’on. Angelo Manna del 4 marzo 1991, disponibile sulla piattaforma YouTube: <https://www.youtube.com/watch?v=IPo18d7KltI&ab_channel=NaplesReign> (sito consultato il 28/09/2020). 17 Dalla sezione “Uomini Illustri delle Due Sicilie” sul sito: <http://www.neoborbonici.it/ portal/index.php?option=com_content&task=category&sectionid=17&id=168&Itemid=69> (sito consultato il 28/09/2020). 18 Francesco Saverio Nitti, L’emigrazione italiana e i suoi avversari, L. Roux e C., Torino-Napoli, 1888, in Scritti sulla questione meridionale, v. I, Saggi sulla storia del Mezzogiorno. Emigrazione e lavoro, Laterza, Bari 1958, pp. 301-377. 14 15 ©UNICOPLI ti14. Fra gli anni Sessanta e Settanta si verifica, dunque, una prima crasi tra due tradizioni apparentemente opposte, una reazionaria e ultracattolica e l’altra di ispirazione marxista, entrambe, a proprio modo, critiche nei confronti del processo unitario. Fra i precursori dell’odierna vulgata neosudista compare anche Angelo Manna, giornalista de «il Mattino», intellettuale e deputato indipendente dell’MSI. Manna vanta una vasta produzione radiofonica, televisiva e letteraria in cui affronta spesso tematiche controcorrente15. Nel 1991, durante un’interrogazione parlamentare chiede di desecretare gli atti dell’Esercito Italiano per far luce sulla repressione del brigantaggio e sul massacro violento ai danni del Sud. La registrazione di quell’ interpellanza contro «i crimini del Risorgimento», oggi divenuta virale su YouTube, con oltre 30.000 visualizzazioni e decine di commenti16, è valsa a Manna un posto nel pantheon delle associazioni e dei movimenti filoborbonici e neosudisti. Nel 1993 viene fondata la principale formazione neoborbonica del Mezzogiorno che nel proprio sito, alla voce “Uomini Illustri delle Due Sicilie” inserisce, fra gli altri, Angelo Manna, Silvio Vitale, Carlo Alianello, Giacinto De Sivo e Pietro Calà Ulloa17. La rilettura delle vicende risorgimentali in ottica meridionalista fa, invece, suo il binomio nittiano «o brigante, o emigrante» che viene decontestualizzato e inteso con accezione negativa. La scelta tra brigantaggio ed emigrazione sarebbe, per la vulgata neosudista, una conseguenza drammatica dell’unificazione. In verità, per Francesco Saverio Nitti il brigantaggio è un fenomeno di lungo periodo, già presente ai tempi della dominazione spagnola, e perlopiù delinquenziale, fomentato dalla dinastia borbonica nei momenti di instabilità politica. In questo scenario, l’emigrazione è intesa positivamente da Nitti, come soluzione in grado di diminuire la criminalità e arricchire il territorio con le risorse derivanti dagli emigranti18. L’utilizzo di concetti estrapolati dal loro contesto originario avviene anche per le riflessioni espresse dal pensatore e politico Antonio Gramsci, divenuto un’icona dei movimenti filoborbonici per alcune frasi tratte da “Ordine Nuovo” e da Alcuni temi della quistione meridionale, che sono state mediatizzate e rese funzionali alla causa revanscista meridionale. La sostanziale differenza fra i meridionalisti e i sudisti contemporanei è che i primi si muovono sempre all’interno della cornice unitaria, non a caso la questione meridionale è questio- ©UNICOPLI 140 Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri ne nazionale, mentre i secondi rileggono Gramsci e i suoi predecessori per fini identitari e, spesso, antiunitari19. Le inchieste di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, nel decennio successivo all’unificazione, fanno emergere in tutta la sua drammaticità la situazione socioeconomica del Mezzogiorno segnando l’inizio del dibattito sulla questione meridionale20 . In questo senso va letta la produzione di un altro padre nobile della contronarrazione risorgimentale, Nicola Zitara. Bibliotecario di Siderno (CZ), scrittore e socialista di sinistra, Zitara è autore di numerose pubblicazioni e fondatore della rivista online «Fora», che racchiude un vasto archivio digitale con materiali e fonti di epoca postunitaria, oltre alle riflessioni dell’autore e dei suoi collaboratori21. Per Zitara, l’Unità non sarebbe altro che il risultato dell’aggressione armata del Nord nei confronti dei territori, della popolazione e delle ricchezze del Sud, ridotto a “colonia interna”. Pertanto, radicalizzando le riflessioni gramsciane, Zitara sostiene che l’unica possibilità per il Sud di risollevarsi sia quella di rendersi indipendente tramite la costituzione di un nuovo Stato che ricalchi i confini geografici ed amministrativi del Regno delle Due Sicilie22. Altri protagonisti, per così dire minori, nel corso degli anni Novanta hanno arricchito il panorama della controstoria antiunitaria: Antonio Ciano, autore del libro, divenuto in seguito best-seller, I Savoia e il Massacro del Sud (1994) e politico locale tra i primi a modificare la toponomastica in senso antirisorgimentale23; Alessandro Romano, discendente del brigante Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, autore della mostra itinerante Briganti, eroi o malfattori, attraverso cui la mitizzazione del brigante giunge a compimento con la sua valorizzazione simbolica che consente una maggior empatia da parte del pubblico24; Pasquale Squitieri, regista della pellicola Li chiamarono...briganti. Il film, uscito nel 1999, rielabora cinematograficamente le principali tesi revansciste, dal massacro preordinato dei contadini-briganti al razzismo antimeridionale dell’esercito piemontese, dall’intervento della camorra alla scelta obbligata, riprodotta nella scena finale, tra brigantaggio ed emigrazione. L’opera di Squitieri fa registrare un flop di incassi ai botteghini, tanto da essere ritirato dalle sale dopo poche settimane25. Le due tradizioni della controstoria an- 19 Cfr. Lea Durante, Gramsci icona dei neoborbonici, in Gramsci e il populismo, a cura di Guido Liguori, Milano, Unicopli, 2019, pp. 137-149. 20 Antonino De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 114. 21 I materiali della rivista elettronica fondata da Zitara sono disponibili sul sito: <https:// eleaml.org/nicola/fora.html> 22 Michele Marzana, Raccontare un altro Risorgimento: la controstoria neoborbonica, Tesi di Laurea Magistrale, Università di Padova, A.A. 2014/2015, pp. 60-62. 23 NON MI ARRENDO, Gaeta, si insedia commissione toponomastica anti-Risorgimento, pubblicato online il 9/03/2008: <https://www.partitodelsud.eu/2008/09/gaeta-si-insedia-commissione.html> (sito consultato il 28/09/2020). 24 Montaldo (a cura di), La risacca neoborbonica cit., pp. 39-40. 25 Roberto Chiti, Enrico Lancia, Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano, Roma, Gremese, 2001, p. 359; Stefano Della Casa, Annuario del Cinema Italiano 1999/2000, Milano, Il Castoro, 2000, pp. 104-105. Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 141 De Francesco, La palla al piede cit. p. 113. Per approfondimenti sulla storia politica ed economica dell’Italia tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo si veda: Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un soggetto politico, Roma, Donzelli, 1993; Piero Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Einaudi, 1995; Piero Ignazi, Il potere dei partiti. La politica in Italia dagli anni Sessanta a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2002; Simona Colarizi, Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2012; Giuseppe Mammarella, L’Italia di oggi. Storia e cronaca di un ventennio, 1992-2012, Bologna, Il Mulino, 2012; L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, vol. III. Istituzioni e politica, a cura di Simona Colarizi, Agostino Giovagnoli, Paolo Pombeni, Roma, Carocci, 2014; Michele Marchi, Crisi e dissoluzione della repubblica dei partiti 1976-1992, in Storia dei partiti italiani, a cura di P. Pombeni, Bologna, Il Mulino, 2016. 28 Va segnalato sicuramente il caso del Movimento per l’Autonomia, fondato da Raffaele Lombardo nel 2005, che ottiene seggi alla Camera e al Senato alle elezioni politiche del 2006 e la presidenza della Regione Siciliana alle elezioni regionali del 2008 <https://www. treccani.it/enciclopedia/movimento-per-l-autonomia/>; come pure l’esperienza di Grande Sud, fondato da Gianfranco Micciché e Adriana Poli Bortone: <https://web.archive.org/ web/20131212014919/http://www.irpiniaoggi.it/index.php/politica-in-irpinia/3-politica-inirpinia/72691-forza-del-sud-io-sud-e-noi-sud-danno-vita-a-qgrande-sudq.html>. Nel 2007 a Gaeta viene fondato il Partito del Sud da Antonio Ciano, con l’obiettivo di porsi come «forza politica realmente impegnata per il sud e per la risoluzione dell’annosa questione meridionale», attivo soprattutto a livello locale. Si rimanda al sito: <www.partitodelsud.eu> (siti consultati il 28/10/2020). Per le elezioni regionali della Campania, nel 2015, si è formata una lista civica meridionalista MO! Unione Mediterranea, che ha raccolto lo 0,7% dei consensi. 26 27 ©UNICOPLI tiunitaria, seguite da una ristretta comunità di nostalgici e appassionati, espandono i propri tradizionali confini, rafforzando un sincretismo culturale e politico, nel corso del secondo decennio del XXI secolo, ridefinendo l’immaginario collettivo del brigantaggio e dell’intero processo risorgimentale. Una periodizzazione non casuale, poiché sulla pervasività di queste narrazioni nel discorso pubblico incidono variabili sociali, politiche ed economiche non trascurabili. Gli anni Ottanta segnano l’emergere dirompente, nell’Italia Settentrionale, di movimenti federalisti e secessionisti con un forte sentimento antimeridionale e antipartitico. I malumori verso un’apparente politica di sprechi, assistenzialismo e sperpero di denaro pubblico e il timore per una “meridionalizzazione dell’Italia” riportano alla luce stereotipi di antica data su omertà, malaffare, degrado morale e il Sud viene percepito sempre più come terra di disagio sociale e mancato sviluppo economico26. La successiva affermazione delle forze secessioniste nel panorama politico nazionale polarizza, tanto a Nord quanto, di rimando, a Sud, un malcontento comune, scaturito anche dal graduale ma consistente sfaldamento del tessuto identitario nazionale, retto da partiti politici ormai in cronica crisi27. Anche nel Mezzogiorno si registrano iniziative politiche di stampo identitario e regionalistico, nella convinzione di poter trarre vantaggio dalla crescente ondata di pregiudizio antimeridionale diffuso dai movimenti territoriali del Nord. Tuttavia, la maggior parte dei tentativi si rivela fallimentare, con qualche successo in Sicilia28. La crisi economica di fine decennio, una globalizzazione che genera continue sperequazioni economiche e sociali e un generale clima di antipolitica hanno Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri 142 fatto emergere un bisogno di certezze nei cittadini, favorendo istanze micro-identitarie e visioni localistiche del proprio passato29. Il sorgere di un nuovo interesse per storie e tradizioni locali si situa quindi dentro un più ampio quadro di sradicamento sociopolitico e di una conseguente delegittimazione tanto delle classi dirigenti quanto delle professionalità. Il risentimento è oggi galvanizzato dai nuovi media e dalle nuove tecnologie che investono tutti i settori della vita sociale. ©UNICOPLI Briganti in azione La rete trasforma i briganti in icone social fungendo da cassa di risonanza per la condivisione di tesi e idee che, attraverso il ricorso a un ampio repertorio audiovisuale, risultano tanto più pervasive in quanto riescono a suscitare forti ondate emozionali mobilitando comunità virtuali verso un fine comune30. La maggior parte delle iniziative della contronarrazione risorgimentale si sviluppa e amplifica su siti internet e sui social network. Su Facebook, la pagina Briganti è la più seguita con 335.608 followers: la finalità è quella di sensibilizzare l’opinione pubblica in merito alla diffusione delle cosiddette “verità storiche” sul Risorgimento. Seguono Vento da Sud, Vento Brigante con 83.430 followers; Regno delle Due Sicilie - le verità che non ci hanno detto, con 55.612 followers e Un popolo distrutto, che conta 15.766 followers31. La narrazione neosudista si avvale altresì della piattaforma YouTube per la pubblicazione e condivisione di contenuti audiovisuali. I brani musicali e i film funzionali alla propaganda revanscista sono ripetutamente rilanciati dalle principali pagine e gruppi social. Questi canali ruotano attorno alle web communities antiunitarie che hanno saputo “rispazializzare”32 il Regno delle Due Sicilie negli sconfinati meandri della rete. Si occupano principalmente della diffusione di contenuti mediatici sul tema del brigantaggio postunitario e possono spaziare dagli articoli di testate online, in cui si ricorda la data di nascita di un capobanda33, alla celebrazione virtuale della - seppur momentanea - restaurazione legittimista nei piccoli Cfr. Francesco Benigno, Carmine Pinto, Borbonismo. Discorso pubblico e problemi storiografici. Un confronto (1989-2019), in «Meridiana», 95, 2019, pp. 9-20. 30 Emanuele Arielli, Paolo Bottazzini, Idee virali: Perché i pensieri si diffondono, Bologna, Il Mulino, 2018, p. 63. 31 Ove non altrimenti segnalato, i siti citati nel saggio erano attivi all’ultima consultazione effettuata il 18/08/2020. 32 Sul concetto di rispazializzazione si veda: Gilles Deleuze, Felix Guattari, Capitalisme et schizophrénie: Mille plateaux, Paris, Minuit, 1972. 33 Oggi nel potentino nasceva Carmine Crocco, il generale dei briganti più conosciuto! La sua storia, in «POTENZANEWS», 05/06/2019: <https://www.potenzanews.net/oggi-nel-potentino-nasceva-carmine-crocco-generale-dei-briganti-piu-conosciuto-la-sua-storia/?fbclid=IwAR3fIinE7nxu8SQ5A3qktikDzC_MY0L8bYFl01uUmaEvioiCWRgu7f-KOX0> 29 Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 143 Per un esempio di celebrazione virtuale, si veda su Facebook l’evento in memoria della “Strage di Ruvo del Monte - Potenza”: <https://www.facebook.com/regnodelleduesiciliedal1861fratellidinessuno/photos/a.1571467936457832/2734519983485949> 35 Domenico Romano, I primati del Regno delle Due Sicilie che resero Napoli una vera capitale, in «VESUVIOLIVE», 03/05/2014, <https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/storia/7368-primati-napoli capitale/?fbclid=IwAR2jlcYeonG3Ua7aMUhU06XyaQ6WkeTeKffuXgQw3O3DFvAfv4da-ZiGG_k> 36 15 agosto 1863: lo sterminio dei meridionali diventa legale, in «INuoviVespri», 16/08/2017: <https://www.inuovivespri.it/2017/08/16/15-agosto-1863-lo-sterminio-deimeridionali-diventa-legale/>. 37 Cfr. Silvia Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria il mito (1861-2019), Roma, Viella, 2020; Ead., Massacro o repressione? I morti di Pontelandolfo e Casalduni, in «Meridiana», 95, 2019, pp. 139-168. 38 Cfr. Desiderio, Pontelandolfo 1861 cit. 39 Matteo Grandi, Far web: odio, bufale, bullismo. Il lato oscuro dei social, Milano, Rizzoli, 2017, p.80. 40 Alcuni esempi reazioni polemiche nei confronti della redazione di Voyager si possono rintracciare su Facebook: <https://www.facebook.com/search/top/?q=voyager%20fene34 ©UNICOPLI centri operata dai briganti34, passando per la pubblicazione di veri o presunti primati del Regno napoletano35. Particolare attenzione è dedicata al racconto-denuncia dei “massacri” che sarebbero stati perpetrati dai garibaldini e dalle truppe piemontesi durante la guerra per il Mezzogiorno36, come nel caso dei comuni di Pontelandolfo e Casalduni, entrambi in provincia di Benevento, definiti “paesi martiri” del Risorgimento per i fatti di sangue del 14 agosto 186137. Ogni anno, sul web, è celebrato un anniversario simbolico in cui si condanna l’azione repressiva dei bersaglieri che avrebbe causato centinaia, se non migliaia, di vittime innocenti tra la popolazione civile. Immagini con ritratti di soldati piemontesi che grondano sangue, Pontelandolfo avvolta dalle fiamme, post a effetto sui social network e articoli di giornale vengono riproposti periodicamente, tornando a essere ogni volta virali. In realtà, fonti alla mano, la vicenda di Pontelandolfo e Casalduni può essere ascritta a un’azione militare, seguita a un agguato preparato dai briganti contro esercito e carabinieri. Le vittime civili furono in totale 1738. Al contrario, quando un quotidiano, un’istituzione, un personaggio pubblico sostengono tesi non condivise dalle communities neosudiste si scatenano proteste virtuali, inscenate attraverso più tecniche: lo shitstorm, una valanga di commenti in cui nessuna informazione viene discussa, non esistono pensieri difformi e ogni tentativo di dibattito risulta vano39; il mail-bombing e il lancio di una campagna di boicottaggio contro un’azienda, un giornale, una trasmissione televisiva. Succede in questo caso che l’interessato sia costretto a rivedere la propria posizione o a scusarsi pubblicamente, come accaduto per la puntata di Voyager andata in onda il 17 dicembre 2017, quando la redazione ricorre a una precisazione in merito al servizio sulla fortezza di Fenestrelle, per quanti si fossero «sentiti offesi o peggio ancora che sospettano da parte nostra l’intenzione di celare una parte della storia o di sminuire un Meridione che abbiamo tante volte, come merita, esaltato»40. La trasmissione aveva presentato Fene- ©UNICOPLI 144 Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri strelle come luogo di transito di ufficiali e soldati meridionali - tecnicamente un deposito - come riportato dagli studi più recenti41. Le scuse giungono dopo i numerosi commenti postati dagli utenti sostenitori delle tesi filoborboniche e non a seguito di un confronto o di un approfondimento sulle fonti. Talvolta, questa accondiscendenza potrebbe derivare da una scelta redazionale che mira a mantenere un alto indice di gradimento senza, al contempo, il rischio di incorrere in azioni legali. La controstoria non si limita a denunciare, secondo un consolidato paradigma vittimario42, oltraggi e “offese” ma pretende la rimozione, simbolica e materiale, dei responsabili dei presunti massacri subiti dal Sud. Su Internet si propongono petizioni per chiedere la modifica della toponomastica stradale e la sostituzione di busti e statue dedicate agli artefici dell’unificazione con quelle di insorgenti legittimisti, ex soldati borbonici o briganti, o di vittime, vere e presunte, della “repressione” piemontese. Un’autentica damnatio memoriae colpisce i padri della patria Camillo Benso conte di Cavour e Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini, ma anche generali e politici come Nino Bixio ed Enrico Cialdini. Il generale modenese è presentato come un criminale di guerra da una contronarrazione che non esprime giudizi oggettivi sul suo conto43. Le dichiarazioni tratte dai carteggi o dai diari personali di ufficiali e deputati italiani vengono pubblicate online, decontestualizzate e appositamente strumentalizzate. È quanto succede con una lettera di Luigi Carlo Farini che, chiamato ad assumere il ruolo di luogotenente di Napoli, scrive a Cavour: «ma amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civili». La frase incriminata, estrapolata dal contesto originario, ricorre nelle pagine e nei gruppi filoborbonici sottoforma di post o meme44 ed è di frequente utilizzata come prova del sentimento antimeridionale che avrebbe animato la «guerra per il Mezzogiorno»45. Ma quel presunto tratto razzista svastrelle&epa>. 41 C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Roma-Bari, Laterza, 2019, p. 52; Barbero, I prigionieri dei Savoia cit. 42 Giovanni De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 10-21. 43 Si veda, in proposito, la proposta di rimuovere il busto di Cialdini dalla Camera di Commercio di Napoli (G. Di Fiore, La Camera di Commercio di Napoli: “Via il busto di Cialdini”, in «IL MATTINO.it», 21/12/2018: <https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_camera_commercio_via_busto_cialdini-4185962.html>) e sostituirlo con quello di Angelina Romano (F. Palmieri, Le due vite di Angelina Romano, in «L’Indygesto», 23/03/2019: <http:// www.indygesto.com/dossier/4812-le-due-vite-di-angelinaromano>). Una biografia completa ed equilibrata sulla figura del generale e politico Enrico Cialdini è contenuta nel libro: Roberto Vaccari, Enrico Cialdini. Il generale di ferro, Modena, Elis Colombini, 2017. Si veda anche la voce del Dizionario Biografico degli Italiani: Giuseppe Monsagrati, Cialdini, Enrico, 25, 1981: <https://www.treccani.it/enciclopedia/enrico-cialdini_(Dizionario-Biografico)/>. 44 Cfr. Gabriele Marino, La foto del bambino. L’immagine nell’epoca della sua riproducibilità social, in «Visual History», 2, 2016, pp. 147-60. 45 Pinto, La guerra per il Mezzogiorno cit. Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 145 46 47 De Francesco, La palla al piede cit., pp. 84-85. Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994, pp. 157- 158. Jacques Geninasca, La parola letteraria, Milano, Bompiani, 2000, p. 87. La locandina dell’evento “Dalla parte dei Briganti” è condivisa su Facebook: <https:// www.facebook.com/ballafenestrelle/photos/3347886451899757>. 50 Cfr. Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, Roma-Bari, Laterza, 2017. 51 Cfr. Stefano Mensurati, Giulia Giacchetti Boico, Il genocidio dimenticato. Gli italiani di Crimea, Gorizia, LEG, 2013. 48 49 ©UNICOPLI nisce non appena la lettera viene letta per intero e inserita nel giusto contesto, più complesso e articolato di quanto fatto trasparire in rete. Farini, lasciandosi andare a giudizi e accuse sprezzanti, scritte in tono confidenziale, intendeva denunciare i metodi, a suo giudizio efferati e disumani, con cui Francesco II sollecitava la reazione della popolazione meridionale all’impresa garibaldina. L’inviato di Cavour incolpava i Borbone dell’imbarbarimento di quelle regioni, richiedendo un maggior intervento repressivo46. Un ruolo rilevante nel palcoscenico dei social network è svolto dalla comunicazione iconografica online, caratterizzata da ciò che Umberto Eco definisce, per i testi, la «sgangherabilità», cioè la facilità di manipolare, scomporre, personalizzare e asservire un contenuto in base a una determinata esigenza e contesto47. In questo senso Jacques Geninasca parla di «sintagmi seriali», per definire le strutture ricomponibili a piacimento48. Allo stesso modo, le immagini vengono utilizzate nei social e nei siti filoborbonici per suscitare immediate reazioni negli utenti. Un esempio è fornito dalla locandina diffusa in occasione dello spettacolo teatrale Dalla parte dei Briganti, tenutosi a Bari presso il Teatro Piccinni il 19 gennaio 201149. Oltre alla presenza di numerose e autorevoli partnership, il manifesto è caratterizzato dalla presenza di strilli roboanti su cui prevalgono: 1.000.000 di morti; 440.000.000 prelevati dalle casse del Sud; 15.000.000 di emigranti. Questa operazione mira ad alimentare odio e frustrazione nell’utente social, a cui viene dato un “colpevole” da poter linciare attraverso repertori di hate speech50. La produzione di fake pictures è implementata dall’appropriazione di repertori iconografici prelevati da contesti lontanissimi dalle tematiche del Risorgimento italiano. Ad esempio, nei social è spesso condivisa un’immagine raffigurante quattro bambini, nella cui parte superiore è collocato un nastro nero in segno di lutto e solennità, che in realtà è presa dalla copertina di un libro riguardante lo sterminio degli italiani in Crimea. Il contesto spazio-temporale è totalmente deformato, in quanto la vicenda si colloca tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento, quando la minoranza di italiani in Crimea, sospettata di spionaggio politico, è stata perseguitata dal regime sovietico e successivamente deportata in Siberia51. La stessa pratica è seguita per la fotografia di una ragazza che ritrae una rockstar sull’asfalto, che viene modificata in un elogio alle Due Sicilie, attraverso la sostituzione del disegno originale con lo stemma del Regno borbonico, in maniera tale da rinvigorire nell’immaginario social il sentimento Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri ©UNICOPLI 146 di orgoglio e rivalsa. Il quadro della divulgazione iconografica si completa con la diffusione di immagini che attaccano violentemente il Museo torinese dedicato a Cesare Lombroso. L’utente è proiettato all’interno delle sale attraverso un’ingente quantità di fotografie. Nelle pagine brigantesche, i reperti umani, anonimi, vengono classificati in maniera arbitraria e amatoriale. Vi si aggiunge un elemento sacrale riguardante le spoglie dei presunti “martiri meridionali”, di cui si chiede la restituzione al fine di potergli garantire una degna sepoltura sul “suolo natio”. Come ha illustrato Maria Teresa Milicia, «la strategia di manipolazione simbolica produce la visione condivisa di un sacrario degli eroi di guerra trasformato in un comune ossario e profanato dall’esposizione in pubblico»52. Il criminologo piemontese diviene il mandante di efferate stragi contro i criminali meridionali, al fine di rifornirsi di cadaveri per i suoi esperimenti. Ritorna incessantemente il paragone e l’acquisizione dell’Olocausto come trauma memoriale, infatti, Lombroso è accostato al medico nazista Josef Mengele e indicato non solo come teorico delle tesi razziste sull’inferiorità dei meridionali, ma anche come precursore e ispiratore dell’eugenetica nazista. Un accostamento paradossale date le origini ebraiche di Lombroso. Succede spesso che i briganti vengano utilizzati come testimonial della propaganda revanscista, passando dalla realtà online a quella offline, tramite la riproduzione su gadget, oggettistica e capi d’abbigliamento da indossare con orgoglio. Così, essi finiscono per incarnare delle icone attorno a cui si polarizzano sentimenti di riscatto e desideri di vendetta e giustizia. Tali manifestazioni sono il risultato di un’attenta operazione di ingegneria comunicativa e sociale53, che mira a presentizzare tematiche ottocentesche inserendole nell’attuale dibattito sociopolitico, puntando sul sensazionalismo e sulla continua denuncia di “verità scomode”, in modo da provocare sdegno e frustrazione tra gli utenti, alimentando pratiche di aggressività verbale. L’utopia di una società in cui a prevalere sia la convivenza pacifica, diffusa negli ultimi decenni dal linguaggio politically correct, è messa seriamente in discussione dalle comunità virtuali, divise fra likers e haters. Due atteggiamenti che scaturiscono dal pensiero “mimetico”54: guardare ciò che l’altro guarda produce prima un meccanismo di emulazione, in cui si aspira a far proprio l’oggetto del desiderio, che sfocia successivamente in uno di competizione, in cui dominano invidia e risentimento. Ma se i sentimenti negativi sono propri della natura umana, su Internet, che è specchio della società, si accentuano. Cfr. M.T. Milicia, Noi contro tutti. La solidarietà aggressiva nella web communitas No Lombroso, in «EtnoAntropologia», 3, 2015, pp. 165-177. 53 Giuseppe Riva, Fake news, Bologna, Il Mulino, 2018, p. 73. 54 Arielli, Bottazzini, Idee virali cit., pp. 23-24. 52 Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 147 In guardia dai briganti 55 Charles Seife, Le menzogne del web. Internet e il lato sbagliato dell’informazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, p. 22. 56 Grandi, Far web cit., p. 11. 57 Cfr. Eli Pariser, Il filtro. Tutto quello che internet ci nasconde, Milano, il Saggiatore, 2012. 58 Si veda sull’argomento: Damian Thompson, Counterknowledge: How we surrendered to conspiracy theories, quack medicine, bogus science and fake history, New York, W.W. Norton & Company, 2008; Thomas M. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era della incompetenza e i rischi per la democrazia, Roma, LUISS University Press, 2018. 59 Anna Maria Lorusso, Postverità, Roma-Bari, Laterza, 2018, p. 44. 60 Arielli, Bottazzini, Idee virali cit., p. 37. ©UNICOPLI L’odio corre e si diffonde in rete come un virus che contagia milioni di individui, e proprio come una malattia utilizza i canali di trasmissibilità, persistenza e interconnessione che ne consentono la massima diffusione55. Forse non si insulta più che al bar o allo stadio, ma indubbiamente farlo risulta più facile. Tra le ragioni vi è la percezione del web come zona franca, una dimensione “altra” in cui poter dire o fare qualunque cosa senza doverne pagare le conseguenze. E nel Far web senza regole chiunque è facile bersaglio56. Le informazioni e le immagini che la rete mostra agli utenti in risposta alle ricerche effettuate sono selezionate in base ai profili di ciascun utente, che risulta immerso in una realtà personalizzata su misura, un sistema di comunità e gruppi omogenei in cui rimbalzano e si condividono articoli e contenuti speculari, soprattutto sui social57. La brevità e l’immediatezza della comunicazione online facilitano questi processi, favorendo il proliferare di narrazioni alternative e di notizie spesso prive di basi scientifiche e alimentando flussi di “controconoscenza” difficili da arginare58. Le false informazioni o fake news vengono diffuse in maniera da sembrare vere e credibili, su siti che presentano grafica e layout accattivanti, oppure indirizzi che somigliano a quelli delle principali testate di informazione online. Nell’ipervelocità del web non c’è tempo per approfondimento, verifica e factchecking: una notizia diventa vera a furia di essere ripetuta e viene sostenuta e difesa a qualunque costo e dinanzi a chiunque. Se vengono sollevati dubbi, si innescano dinamiche difensive potentissime: si viene screditati e isolati e al tempo stesso il gruppo si compatta e si difende – in modalità vittima – dal dissenso59. Così questa omofilia finisce per alimentare, in un principio di causa-effetto, una polarizzazione che termina nella dicotomica separazione fra un noi e un loro, tipica di contesti sociali conflittuali60. Di fronte al fenomeno della contronarrazione risorgimentale, un tentativo di arginarne la diffusione online è rappresentato da pagine Facebook di debunking storico: la loro finalità è demistificare, attraverso strumenti mediatici tipici della comunicazione via social, i contenuti proposti dalle pagine “avversarie”. Tuttavia, questi nuovi attori mediatici non riescono a raggiungere lo stesso appeal delle pagine neosudiste in quanto il gap da recuperare nella quantità di utenti e ©UNICOPLI 148 Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri profondità cronologica di azione è ancora molto alto. La pagina di questo tipo con più followers è Le cavolate dei neoborbonici che conta 12.385 seguaci, quindi circa 1/30 degli oltre 300.000 di Briganti61. Nonostante questi tentativi, lo scontro online si rivela spesso una corsa all’ostentazione memoriale dei martiri, che si distacca dall’analisi storiografica basata su un’accurata selezione, lettura e interpretazione delle fonti. In questo modo, la rete mette in atto un processo di trasformazione di miti, stereotipi, leggende metropolitane e teorie del complotto in “fatti”. La difficoltà di discernere tra siti affidabili e pagine che diffondono fake deriva anche dalle modalità con cui si svolgono le ricerche. Gli utenti non cercano la veridicità di una notizia, quanto piuttosto conferme, o maggiori dettagli, su qualcosa che sanno già, anche se si tratta di informazioni poco attendibili. Inoltre, la lettura dei siti avviene per mezzo di una navigazione orizzontale, che procede per titoli, lancio di notizie e abstract, alla ricerca di risultati immediati, favorita dalla convinzione che bastino poche ore su Internet per essere sufficientemente informati su un determinato argomento62. Viene a crearsi, così, una distorsione cognitiva per cui ogni tentativo di decostruzione di quelle teorie risulta vano63. Di fronte a questa difficoltà nel selezionare le informazioni digitali è necessario, dunque, disporsi in maniera critica nei confronti del materiale che liberamente circola in rete. Se negli anni Novanta si riteneva che fosse importante procedere a una “alfabetizzazione mediatica”64, che istruisse gli utenti sull’uso di Internet, al giorno d’oggi, a distanza di più di un ventennio, è doveroso aggiungere un aggettivo: consapevole. Da quando il digitale è divenuto parte della quotidianità e la consultazione di Internet o la comunicazione telematica passaggi normali e naturali, le “istruzioni per l’uso” risultano superflue; non altrettanto le istruzioni per un utilizzo consapevole, appunto. Tentare di stabilirle rischierebbe di essere un’operazione a tratti insidiosa, sicuramente non semplice, ma un primo passo per provare a osservare e leggere i fenomeni in maniera meno Dati relativi all’ultima consultazione effettuata il 18/08/2020. Si tratta dell’effetto Dunning-Kruger: individui poco competenti in una determinata materia tendono a sopravvalutare le proprie conoscenze ritenendosi degli esperti in quel campo. Justin Kruger, David Dunning, Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments, in «Journal of Personality and Social Psychology», 6, 1999, pp. 1121-1134. 63 Si veda il caso della rubrica settimanale del «Washington Post» “What Was Fake on the Internet This Week”, in cui la giornalista Caitlin Dewey provava a decostruire le più sensazionali fake presenti in rete. Quando si è accorta che le bufale venivano costruite ad arte per implementare il numero di visualizzazioni e accrescere i profitti o che servivano a indirizzare il consenso politico ed erano condivise nonostante fossero dimostrabilmente false, ha capito che proseguire era inutile. Caitlin Dewey, What was fake on the Internet this week: Why this is the final column, in «The Washington Post», 18/12/2015, <https://www.washingtonpost.com/ news/the-intersect/wp/2015/12/18/what-was-fake-on-the-internet-this-week-why-this-isthe-final-column/>. 64 Asa Briggs, Storia sociale dei media: da Gutenberg a Internet, Bologna, Il Mulino, 2007; nuova ed. 2010, p. 399. 61 62 Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 149 F. Palmieri, La galassia neomeridionale: il web come strumento di antinformazione; C. Calefati, A. Fiorio, Storia 4.0. Il Risorgimento nella rivoluzione digitale, contributi presentati all’interno del panel coordinato da A. Carrino e G. L. Fruci “La storia alla prova dei like: il caso del neoborbonismo mediatico e digitale” (Bari, 31 gen - 2 feb. 2018, 7th AIUCD Conference. Cultural Heritage in Digital Age. Memories, Humanities and Technologies); C. Calefati, A. Fiorio, F. Palmieri, Nella Rete delle Due Sicilie. Il neoborbonismo alla prova di Internet, contributo presentato all’interno del panel coordinato da A. Carrino “Complicare stanca. Le sfide interne ed esterne alla storiografia: il caso del fenomeno neoborb” (Pisa, 11-15 giugno 2018, 2nd AIPH Conference. Metti la storia al lavoro); C. Calefati, F. Palmieri, Briganti haters; A. Fiorio, Briganti in vendita, contributi presentati all’interno del panel coordinato da A. Carrino e G.L. Fruci “Briganti senza storia. Narrazioni e circuiti comunicativi neoborbonici/ Immaginari e saperi alla sfida neoborbonica”, Santa Maria Capua Vetere e Caserta, 24-28 giugno 2019, 3rd AIPH Conference. Invito alla Storia. La proposta di analisi con le griglie di valutazione è contenuta nel working paper 2/2020 di C. Calefati, A. Fiorio, F. Palmieri, accessibile dal sito della Jean Monnet Chair – Sfide storiche, politiche della memoria ed integrazione europea, Mezzogiorno e area mediterranea – HICOM 2018-21: <http://jmc.uniba.it/ index.php/ricerca/working-papers>. 66 La storia a(l) tempo di Internet. Indagine sui siti italiani di storia contemporanea (2001-2003), a cura di Antonino Criscione, Serge Noiret, Carlo Spagnolo, Stefano Vitali, Bologna, Pàtron Editore, 2004. 65 ©UNICOPLI ingenua è porsi delle preliminari domande analitiche che possano fungere da filtro tecnico, funzionale al secondo momento di analisi contenutistica. Questo stesso gruppo di ricerca ha pertanto provato a elaborare delle griglie di valutazione che possano guidare gli utenti, soprattutto i più giovani, durante la ricerca in rete, testate in prima persona per la partecipazione a convegni di Public History e Digital Humanities e poi proposte per attività seminariali65. Partendo dagli studi effettuati nei primi anni Duemila dal gruppo di studiosi composto da T. Bertilotti, G. Focardi, M. Livi, E. Sodini, P. Vajola e da A. Criscione, S. Noiret, C. Spagnolo, S. Vitali, curatori del volume che ne è seguito, La storia a(l) tempo di Internet. Indagine sui siti italiani di storia contemporanea (2001-2003)66, si è avviata una riflessione sui criteri di analisi da dover necessariamente tenere in considerazione, allargando lo spettro di indagine e avendo come oggetto non soltanto i siti web, ma anche le pagine Facebook e i canali YouTube che si sono affermati come principali sistemi di divulgazione digitale grazie alla loro rapidità e dinamicità. I nodi fondamentali attraverso cui il fil rouge dell’analisi deve passare sono tre: identificazione, contenuti e linguaggi. L’identificazione è importante come primo momento filtrante poiché induce l’utente a porsi domande su autori e ideatori, del mezzo comunicativo e dei contenuti proposti, da cui emerge un dato imprescindibile per la valutazione, ossia la trasparenza, utile per poterne giudicare l’autorevolezza e il ruolo sociale ricoperto, cui segue la giusta collocazione nel tempo e nello spazio di quanto viene pubblicato. L’identificazione dei contenuti veicolati prepara l’utente al secondo livello di analisi, in cui tali contenuti vengono contestualizzati, ne viene verificato l’aggiornamento, i riferimenti bibliografici e archivistici o eventuali rimandi ad approfondimenti esterni, essendo l’immediatezza e la sinteticità caratteristiche della comunicazione sul web. In ultimo si testa il linguaggio utilizzato, osservandone la seman- Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri ©UNICOPLI 150 tica e la sintassi, nonché la metafora comunicativa che può rivelarsi efficace per collocare l’informazione in target predefiniti. L’attenzione per la comunicazione digitale è ormai un requisito da cui è impossibile prescindere nella ricerca storica. Applicare l’analisi storica a questo ambito significa assumerlo come un case study interessante dal momento in cui entrano in gioco fattori legati alla costruzione di una vulgata che trova nel web il suo più efficace strumento di diffusione. In particolare, il modo in cui viene affrontato e raccontato il fenomeno del brigantaggio postunitario nei nuovi sistemi massivi di comunicazione sta dentro un più ampio processo di riscrittura e manipolazione del complesso periodo risorgimentale italiano che, mistificato e semplificato, diviene un grande contenitore da cui estrarre, decontestualizzandoli, eventi e memorie. Lo studio condotto su forme e linguaggi della contronarrazione risorgimentale in rete ha evidenziato, sui principali social media, la presenza di temi tratti dall’immaginario borbonico tardo-ottocentesco, che tentano di imporsi con immagini e slogan dal grande effetto emotivo e comunicativo e che, tramite i punti di analisi proposti, possono essere adeguatamente inquadrati. L’attenzione rivolta al linguaggio ha, inoltre, un duplice vantaggio: individuare stilemi e schemi narrativi e sottolineare l’utilizzo di termini ricorrenti. Questo secondo punto apre a osservazioni più ampie relative alla scrittura online. Scrivere per un motore di ricerca è certamente più semplice che scrivere per un pubblico di lettori, poiché con tecniche studiate il “pubblico algoritmico”67 lo si conquista facilmente e, se l’obiettivo è quello di guadagnare visitatori su un sito web o condivisioni e like su una pagina social, poco importa se al termine dell’operazione il lettore sia soddisfatto o meno del contenuto proposto. Uno strumento utile in tal senso è Google Trends. Questa applicazione di Google permette di monitorare le ricerche effettuate dagli utenti nel web nell’anno in corso, o in quelli passati, le parole maggiormente ricorrenti, le tematiche più richieste, filtrando la ricerca per Paesi. Si può in aggiunta interrogare il sistema inserendo una parola-chiave e osservare la variazione dell’interesse verso questa parola nell’arco temporale prescelto (ad esempio ultime settimane, dodici mesi, cinque anni) e avere una panoramica geografica sulle aree, interne al Paese selezionato, che più delle altre l’hanno ricercata. Seguono statistiche sulle query e sugli argomenti associati in aumento o più cercati. Si possono, quindi, controllare parole e tematiche di tendenza. Selezionando come paese l’Italia, in nessun caso, dal 2009 al 2019, sono presenti nei primi dieci risultati parole legate alla storia del Risorgimento, all’Unità d’Italia, a personaggi storici del periodo in esame, al brigantaggio. Inserendo invece nel sistema la parola “Risorgimento” (categoria argomento), dal 2004 a oggi, il grafico evidenzia una Seife, Le menzogne del web cit., pp. 126-140, approfondisce il campo di studi della SEO (Search Engine Optimization) applicato alla diffusione di informazioni, che favorisce l’ascesa dei link nel ranking dei motori di ricerca e in maniera provocatoria afferma a pagina 136 «Se siete bravi a scrivere per i motori di ricerca, scrivere per i lettori è quasi superfluo». È in questo contesto che affronta la distinzione tra “pubblico algoritmico” e “pubblico umano” dove il primo, per le media company, è divenuto di molto più importante. 67 Briganti nelle nuove “foreste” dei media e del web 151 Conclusioni L’emergere di una forte domanda di storia è oggi confermato dal consumo crescente di libri, serie TV, film e giochi a tema storico, cui negli ultimi tempi è riservata particolare attenzione da parte dell’industria dell’intrattenimento69. La volontà di interagire e confrontarsi sull’interpretazione e sul radicamento, nel senso comune, di particolari momenti e vicende della storia nazionale, nonché 68 Cfr. A. Carrino, Il ‘grande brigantaggio’ nei manuali scolastici tra testo e immagini, in «Visual History», 5, 2019, pp. 145-158. 69 Cfr. G.L. Fruci, I briganti sono tutti giovani e belli?, in «Meridiana», 99, 2020, pp. 9-27; Jerome De Groot, Consuming History. Historians and Heritage in Contemporary popular culture, New York, Routledge, 2009. ©UNICOPLI forte impennata nel marzo 2011, picchi mediamente elevati nel maggio 2011, maggio 2016, ottobre 2019 e soprattutto una diffusione alquanto omogenea nel territorio italiano dell’interesse di ricerca. Il confronto con l’inserimento della parola “Brigantaggio” (sempre categoria argomento) rispecchia invece un dato territoriale rilevante: la Basilicata è la prima nella classifica delle regioni, seguita nell’ordine da Campania, Calabria, Puglia e Abruzzo. L’interesse nel tempo è di scala inferiore rispetto alla parola “Risorgimento”, si mantiene abbastanza stabile ma si nota un calo dal 2010 al 2019, che potrebbe spiegarsi con la crescita sempre maggiore dell’utilizzo dei social come canali informativi: è nell’ultimo decennio, infatti, che si riscontra un incremento nell’attività e nella creazione di nuove pagine dedicate al tema. Da sottolineare come sia tra le query che tra gli argomenti correlati compare tra le più cercate la parola “Mafia”. Anche effettuando la ricerca con il più preciso “Brigantaggio postunitario italiano” (categoria fenomeno) si nota il medesimo calo dopo il 2010, cambia invece la classifica delle regioni che vede al primo posto la Campania, seguita da Calabria, Puglia, Basilicata e Sicilia e compare la “Questione meridionale” tra le query associate. Il grafico comparato delle due ultime ricerche (brigantaggio e brigantaggio postunitario italiano) mostra una coincidenza degli apici temporali, che fa intuire come le due ricerche siano state consequenziali, dunque, in media, ogni qual volta veniva approfondito online il tema del brigantaggio veniva poi cliccata anche la voce sul brigantaggio postunitario. La stessa coincidenza, invece, nel grafico comparato Risorgimento-Brigantaggio non è presente. Studiare il grado di diffusione mediatica di argomenti o avvenimenti storici è per gli studiosi un ambito di indagine tanto sperimentale quanto necessario e ancora sottostimato, che pone molteplici interrogativi e questioni su cui riflettere. Nel caso specifico del brigantaggio, troppo spesso testi e manuali scolastici presentano versioni storiograficamente non aggiornate e non sono in grado di rispondere alle sollecitazioni derivanti dal dibattito pubblico68, pertanto, sono necessari strumenti che consentano di orientarsi nelle fitte foreste del web. Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri ©UNICOPLI 152 sui legami e le interconnessioni con il presente, è un chiaro segnale, per gli storici, della necessità di intervenire nel discorso pubblico. In questo senso, provare a indirizzare il dibattito su un piano scientifico e offrire strumenti di lettura e proposte di approfondimento potrebbe essere utile a orientarsi nelle comunità digitali. Infatti, sempre più utenti utilizzano il web per arricchire le proprie conoscenze, spesso captando informazioni poco chiare o di dubbia provenienza, che pertanto andrebbero analizzate e contestualizzate. Quanto descritto nel saggio è un’istantanea, una fotografia di quello che accade su siti internet e social network. La contronarrazione risorgimentale online attinge a una tradizione reazionaria e legittimista tardo-ottocentesca e a paradigmi e matrici politiche tardo-novecentesche. Le stesse tesi tornano oggi con nuove modalità di diffusione acquisendo ampi spazi d’azione grazie alle nuove tecnologie. Gli scritti di autori e pensatori così distanti vengono mediatizzati e riletti in un’ottica di presentismo, diventando cronologicamente e tematicamente vicini. La creazione di web communities70 incentrate sulle tematiche della contronarrazione del Risorgimento e del brigantaggio rappresenta un fenomeno indicativo del livello di diffusione di tale argomento che è necessario monitorare nel tempo, al fine di individuare le diverse forme che assume nei molteplici circuiti crossmediali. Così facendo si noterebbero, ad esempio, la mutevolezza in rapporto ai cambiamenti sociopolitici, la differenza di azione in base ai contesti, la ridondanza di concetti stereotipati e mistificati, frasi ricorrenti e immagini strumentalizzate. Il quotidiano utilizzo delle nuove tecnologie richiede, dunque, anche da parte degli utenti, un’attenzione maggiore alle dinamiche che regolano la circolazione di notizie online. A tal proposito, intervenire nella formazione scolastica attraverso attività laboratoriali e didattiche che rendano evidenti criticità e insidie della ricerca in rete, può rappresentare un primo passo utile a contenere il dilagare della disinformazione e guidare verso una navigazione consapevole. Cfr. M.T Milicia, Nel laboratorio sociale dell’odio: un anno di ordinario razzismo su Facebook, in «Voci. Annuale di Scienze Umane», 13, 2016, pp. 124–147. 70 LA MOBILITAZIONE PUBBLICA DELLA MEMORIA CULTURALE DEL BRIGANTAGGIO NEL MEZZOGIORNO DEL NUOVO MILLENNIO Maria Teresa Milicia Introduzione https://www.facebook.com/terronidipinoaprile/videos/370728507187491/ J.-C. Martin, C. Suaud, Le Puy du Fou (L’interminable réinvention du paysan vendéen), in “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, XCIII, giugno 1992, pp. 21-37. 3 T. Pedìo, La storia bandita. Il brigantaggio meridionale (1799-1808), Società Consortile PAL, Potenza 1998. 1 2 ©UNICOPLI Il 24 agosto 2019 al Parco della Grancia, nel territorio di Brindisi di Montagna (PZ), Pino Aprile, giornalista di lungo corso divenuto attivista politico dopo il successo editoriale di Terroni (2010), ha riunito movimenti neo-meridionalisti e neoborbonici per discutere il progetto di una forza politica che aggreghi e rappresenti le istanze del Mezzogiorno. Il costituente partito battezzato Movimento 24 Agosto (M24A) rispondeva all’urgenza di un soggetto politico unitario “meridionalista”in vista delle consultazioni elettorali che allora sembravano imminenti. Quattro ore di interventi da parte di attivisti e rappresentanti di realtà associative identitarie, trasmessi in diretta streaming sulla pagina Facebook Terroni1. Il Parco storico rurale ed ambientale della Grancìa comprende la piccola valle da cui si erge la rocca di Brindisi di Montagna, scenario naturale del cinespettacolo La storia bandita, che dal 1999 mette in scena “la visione dei vinti” sulla storia del Mezzogiorno, a partire dalle insorgenze antifrancesi al Risorgimento con l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, fino alla definitiva disfatta del brigantaggio politico post-unitario. Concepito sul modello della cinéscénie di Puy du Fou nella regione della Vandea in Francia, celebrazione della reazione contro la Rivoluzione francese2, La storia bandita si ispira all’omonimo saggio di Tommaso Pedìo3. Assume a tutti gli effetti il significato di una controcelebrazione della Rivoluzione napoletana del 1799 e di esaltazione dell’epopea di Carmine Crocco, “il generale dei briganti”. La scelta del luogo richiama esplicitamente la lotta contro l’unificazione italiana e assegna alla figura del brigante il ruolo simbolico di levatrice del nascente M24A, ultimo tentativo in ordine di tempo di costituire un partito a carattere identitario-territoriale sul modello della Lega Nord. Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI 154 Nell’ultimo decennio, la mobilitazione politica del brigantaggio postunitario e dei suoi protagonisti è divenuta fonte di ispirazione della creatività artistica, della produzione culturale della località attraverso pratiche di valorizzazione patrimoniale (musealizzazione, rievocazioni storiche, performance commemorative, eventi spettacolari e culturali dedicati), spesso inserite nel quadro economico di progetti di sviluppo e marketing turistico della località. In questo progetto di economia comunitaria, centrato sulle risorse dell’attore territoriale, diviene trainante il modello del recupero della memoria autentica dei luoghi. Personaggio chiave della recente affermazione popolare di un vero e proprio canone di controstoria dell’Unità d’Italia, il brigante-patriota o il brigante-partigiano – difensore del popolo e della sovranità territoriale violata dall’invasione di Garibaldi e dell’esercito “straniero” piemontese – è al centro del processo di mobilitazione totale di una rinnovata “memoria culturale” del Regno delle Due Sicilie. Secondo una narrativa semplificata assai seducente, la ricchezza del Sud fu depredata dai colonizzatori del Nord, con il pretesto dell’unificazione, producendo il divario economico interno mai colmato e tuttora percepito come una ferita aperta, pronta a sanguinare in ogni momento di crisi4. Il successo popolare di questo schema esplicativo si deve al consolidarsi del canone mitico della “vera storia” del Sud che assume funzione diagnostica della condizione presente e funzione prospettica degli sviluppi futuri. La fede nell’onniscienza del meccanismo perfetto di concatenazione causale degli eventi storici – il mito della vera storia – agisce sulla forza delle rivendicazioni politiche di giustizia territoriale nel presente, sia sul piano della negoziazione interna con i partiti e le istituzioni di mediazione della redistribuzione delle risorse economiche, sia sul piano di istanze autonomiste e/o indipendentiste di ispirazione legittimista-monarchica o rivoluzionaria. Il ritorno del brigante rifonde l’antico immaginario del bandito sociale5 redistributore della ricchezza ai poveri con il nuovo immaginario di eroe combattente per la liberazione della patria occupata. Modello positivo per rivendicare l’orgoglio dell’appartenenza al Regno borbonico (ricco di storia, di cultura e di progresso industriale) e per invertire lo stigma della criminalizzazione dell’identità meridionale, il brigante è la figura chiave della rivelazione della “vera storia”: il collante simbolico della composita com- Nel momento attuale dell’emergenza Covid il dibattito sulle risorse da destinare al Sud è più acceso che mai. A titolo di esempio si veda l’articolo a cura dell’Osservatorio CPI, Il falso mito dello “scippo” di risorse del Nord a danno del Sud: al Mezzogiorno la spesa pubblica pesa di più, in “La Repubblica”, 26/09/2020. Nella versione pubblicata sul sito dell’osservatorio c’è la riproduzione (ironica o scaramantica?) di un articolo di Pasquale Saraceno del “Corriere della sera” del 13 settembre 1973 Il divario fra Nord e Sud verrà colmato solo nel 2020, https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-la-spesa-pubblica-etroppo-bassa-al-sud. 5 L’idealtipo del bandito sociale è delineato nel classico di E. J. Hobsbawm, Bandits, Weidenfeld Nicolson, Londra 1969, trad. it. I banditi: il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi, Torino 1971. Si veda l’Introduzione di C. Pinto al suo, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti, Laterza, Roma-Bari 2019. 4 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 155 pagine di movimenti “postmeridionalisti” – che si autodefiniscono né di destra né di sinistra – impegnati nelle lotte politiche italiane sul Sud. In questo capitolo mi limiterò a seguire alcuni percorsi multiscalari della costruzione della memoria pubblica del brigante – dalla fondazione del movimento neoborbonico nel 1993 alla soglia della pubblicazione di Terroni nel 2010 – arco temporale che può essere suddiviso in due momenti: l’espansione territoriale (1993-2000) e la diffusione dei siti web (2001-2010), preludio alla crescente e pervasiva presenza sui social media nell’ultimo decennio. In questa matrice spazio-temporale della ricostituita “comunità immaginata” del Regno delle Due Sicilie si ancorano le contestazioni degli eventi celebrativi della storia risorgimentale della nazione e le controcelebrazioni della memoria dei vinti. Ho scelto di tralasciare il ruolo importante di Nicola Zitara (1927-2010), intellettuale di sinistra convertito al neoborbonismo strategico e l’invenzione del “brigante” Giuseppe Villella, già trattati in altri contributi6. Il Sud Italia si è trasformato in una memoryland ossessionata dalla rivelazione della verità sul passato e dal recupero della memoria collettiva. Tendenza riconducibile a un fenomeno di più vaste proporzioni con forti analogie nelle modalità e nelle pratiche che producono e riproducono una specifica comunità di memoria7. Quando si parla di memoria collettiva appare scontata la persistenza di un passato fissato per sempre, conservato identico a se stesso, una realtà riproducibile e fruibile da tutti come una pellicola cinematografica. In realtà si tratta sempre di un processo di ricostruzione che «proietta all’indietro rappresentazioni e interessi che appartengono piuttosto al presente»8. Bisogna allora interrogarsi in che forma uno specifico passato viene riconfigurato nel presente, «cosa è ricordato, quando e perché» e soprattutto «il passato di chi viene raccontato nella sfera pubblica, che cosa viene dimenticato, non menzionato o a volte ridotto ad appena un sussurro»9. Continuità, rotture, rimozioni, processi creativi individuali o collettivi di presentificazione del passato con relative politiche di valorizzazione sono caratterizzanti della distinzione tra “memoria comunicativa” e “memoria culturale” proposta da Jan e Aleida Assmann. La “memoria comunicativa” è limitata alla trasmissione diretta nelle interazioni quotidiane tra le 6 M. T. Milicia, Ritorno al futuro Regno delle Due Sicilie, in “Passés Futurs”, IV, 2018, https://www.politika.io/en/notice/ritorno-al-futuro-regno-delle-due-sicilie; Id., Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso, Salerno editrice, Roma 2014; Id., Il significante vuoto e l’immaginario patrimoniale del Brigante, in “Meridiana”, 99, 2020. 7 S. Macdonald, Memoryland. Heritage and Identity in Europe Today, Taylor and Francis, edizione digitale epub, 2013. Si veda anche C. Di Pasquale, Antropologia della memoria. Il ricordo come fatto culturale, Il Mulino, Bologna 2019. 8 M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017, p. 54. 9 Macdonald, Memoryland, cit., p. 27. ©UNICOPLI Come il Meridione è diventato la memoryland del “brigante” ©UNICOPLI 156 Maria Teresa Milicia persone, è una forma incorporata di memoria condivisa all’interno di gruppi sociali uniti da legami affettivi e dal vissuto di esperienze comuni. La memoria comunicativa è pertanto labile, tende a dissolversi quando la catena di trasmissione tra le persone si spezza. La “memoria culturale”, al contrario, è istituzionale, custodita nei monumenti, nei musei, negli archivi e nei repertori culturali in senso ampio, presenti sia nelle società a tradizione orale che a prevalenza scritta. La memoria culturale può resistere nel tempo anche in assenza di una catena vivente di trasmissione generazionale. Ignorata, frammentata e dispersa in depositi dimenticati può essere sottratta all’oblio attraverso l’intervento di mediazione culturale degli agenti sociali che si assumono il compito di ricostruire il passato dai frammenti giudicati significativi per il presente. Il successo delle pratiche di mediazione dei “portatori specializzati della memoria (specialized carriers of memory)”10 – dipende dalla disposizione sociale ad accogliere una particolare «forma di coscienza storica che assume la funzione performativa dell’identità di un gruppo o di una comunità»11, all’interno di un orizzonte temporale limitato a quella porzione di passato che può essere di volta in volta rivendicato per costruire o consolidare un sentimento collettivo di appartenenza. La memoria culturale pertanto non è un sapere cumulativo, al contrario è fortemente selettiva: «La funzione performativa dell’identità agisce solo dimenticando quello che rimane al di fuori dell’orizzonte di ciò che è rilevante»12. L’affermazione nella sfera pubblica di uno specifico “complesso memoriale” è pertanto affidata all’attivismo di leader e agenti sociali che acquisiscono lo status di “imprenditori della memoria”13 di un gruppo, promuovono progetti, perseguono il riconoscimento del proprio passato, spesso in competizione con memorie culturali già attive. Per comprendere il processo di mobilitazione della memoria culturale del brigantaggio nell’arena pubblica contemporanea, in competizione con la memoria collettiva dell’unità nazionale, bisogna considerare l’insieme dei fenomeni, dispiegati su diverse scale geopolitiche e temporali, che hanno reso possibile l’aggregazione di diversi attori sociali intorno al progetto di costruzione di una nuova identità politica “meridionalista”. Non una concatenazione lineare di cause ed effetti bensì processi dinamici dagli esiti imprevedibili che tuttavia assumono, su scala temporale limitata, i caratteri di una specifica “struttura della congiuntura” – vale a dire la sintesi situazionale prodotta nell’interazione tra condizioni strutturali, la pressione degli eventi e le pratiche culturali espresse tramite le azioni strategiche degli agenti storici14. 10 A. Assmann, Canon and Archive, in A. Erll, A. Nünning (a cura di), Cultural Memory Studies. An International and Interdisciplinary Handbook, Berlin, Walter de Gruyter, 2008, pp. 97-108, p. 99; J. Assmann, Communicative and Cultural Memory, in Cultural Memory Studies, cit., pp. 109-118, p. 114. 11 Ivi, p. 113. 12 Ibid. 13 E. Jelin, State Repression and the Labors of Memory (Contradictions of Modernity), Univ. Minnesota Press, edizione digitale epub, Minneapolis, Minnesota 2003, posizioni 532-543. 14 M. Salhins, Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud, Einaudi, Torino 1986, p. XV. La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 157 Cfr., Note tematiche sull’Unione Europea: https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/93/coesione-economica-sociale-e-territoriale. Per un approfondimento ad ampio raggio tematico si rimanda al numero 61 del 2008 della rivista “Meridiana” dedicata a Mezzogiorno/Italia che traccia un bilancio del decennio precedente all’inasprirsi della crisi economica globale del 2008. 16 Per una sintetica e densa ricostruzione sul tema si veda: S. Lupo, La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi, Donzelli, Roma 2015; per alcuni aspetti del dibattito coevo alla chiusura della Cassa sul dinamismo delle diverse aree territoriali del Mezzogiorno: G. Bottazzi, I Sud del Sud. I divari interni del Mezzogiorno e il rovesciamento delle gerarchie spaziali, in “Meridiana”, 10, 1990, pp. 141-181. 17 P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 239. Con accenti non nostalgici: Lupo, La Questione, cit., pp. xvi-xvii. Anche la ex Jugoslavia, tanto per restare in Europa, con il crollo del regime di Tito si disgrega con la politicizzazione delle “identità etniche”. 15 ©UNICOPLI Negli ultimi decenni del secolo scorso trasformazioni politiche ed economiche radicali hanno investito la società italiana, con forti ripercussioni sulle diseguaglianze territoriali. La fine della prima Repubblica e dei partiti tradizionali – già indeboliti nei riferimenti ideologici dal collasso dell’impero sovietico e infine smantellati dall’inchiesta “Mani pulite”– ha innescato una profonda crisi politico-istituzionale che non ha ancora prodotto un nuovo assetto stabile (forse neanche auspicabile alla luce delle tendenze autoritarie in ascesa a livello globale). Negli stessi anni si assiste alla definitiva soppressione dell’Agenzia per la Promozione e lo Sviluppo del Mezzogiorno – la famosa Cassa per il Mezzogiorno – il coevo spostamento a livello europeo dell’erogazione dei finanziamenti per lo sviluppo e il conseguente il trasferimento dei poteri di programmazione economica agli enti territoriali. L’affermazione pervasiva del modello economico neoliberista ha attenuato, se non del tutto disattivato, il contrappeso del principio di coesione economica e sociale ispiratore delle politiche europee, introducendo una competizione territoriale insostenibile per le aree carenti di infrastrutture e di capitali15. Non per caso si disgrega la grande narrazione sulla “questione meridionale” che aveva orientato nel secondo dopoguerra l’agenda politica meridionalista degli interventi statali. Resta l’efficacia simbolica delle rappresentazioni dualiste che alimentano l’immaginario politico del Sud arretrato, immobile, assistito sulla base di una riduzione binaria della realtà sociale16. Le retoriche sul dualismo Nord-Sud, con il collaudato repertorio di stereotipi sulle irriducibili differenze “antropologiche”, offrono la risorsa di uno schema combinatorio di opposizioni, ideale per costruire i campi contrapposti di alleati e nemici non più (o non solo) sulla base di distinzioni ideologiche o di classe. La dissoluzione dei grandi partiti di massa – la Dc e, soprattutto il Pci che teneva insieme «l’imprenditore emiliano e il bracciante calabrese, l’operario torinese e l’intellettuale romano»17, si accompagna all’avanzata dei movimenti leghisti al Nord che si riappropriano del repertorio di stereotipi sul Sud in funzione antistatalista, contro l’oppressione delle classi dirigenti espressione delle politiche clientelari “meridionaliste”. Già dalla metà degli anni Ottanta la Lega Lombarda e la Liga Veneta rafforzano la propria identità politica con l’uso strategico dell’insulto Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI 158 razzista18. L’etnicizzazione e/o la razzializzazione del conflitto sociale potenzia la carica di ostilità nella mobilitazione contro il “nemico”, puntando a guadagnare una duratura posizione di dominio simbolico nell’arena dello scontro politico. Il successo elettorale della Lega Nord, entrata a far parte della nuova compagine di governo nel 1994, ha prodottole durature condizioni di legittimità dell’uso del linguaggio razzista nella sfera pubblica, flessibile agli usi contingenti di rafforzamento dei confini identitari interni o esterni allo stato-nazione19. Rimane infine da considerare la tripla rivoluzione digitale: l’espansione tecnologica di internet, la nascita dei social media e la diffusione capillare degli smartphone. Nella metà degli anni Novanta – il primo motore di ricerca è del 1993 – la creazione del World Wide Web Consortium (W3C), diretto dal suo ideatore Tim Berners-Lee, apre la possibilità di accedere liberamente alle risorse della nuova tecnologia di comunicazione per chiunque voglia diffondere i propri contenuti. Il processo di trasformazione è stato rapido, pervasivo e inarrestabile, grazie all’abbattimento dei costi della tecnologia. Con la possibilità di accesso a reti espansive di comunicazione è emersa la “networked public sphere”, aperta a un numero sempre crescente di utenti non più terminali passivi bensì creatori di nuovi contenuti e agenti attivi della loro diffusione20. In questo “nuovo mondo della mass self-communication”21, i nodi della rete sono costituiti anche da singoli individui in grado di generare spazi di connettività e affiliazione sulla base della mobilitazione di risorse simboliche performative delle identità personali e collettive. Piccole realtà chiuse nella località e gruppi marginali scalano i livelli della visibilità digitale, proliferano e disseminano contenuti, generano “modelli condivisi di valutazione, di percezione, di immaginazione attraverso la reiterazione delle pratiche dei partecipanti”22. Nascono comunità mediatizzate che offrono ai viaggiatori inquieti della galassia internet nuovi spazi di socializzazione, di condivisione quotidiana delle esperienze e di riconoscimento reciproco. Il Brigante comincia il suo cammino dal passato al presente dapprima a passo lento nel paesaggio terrestre della “guerra per il Mezzogiorno”, grazie all’attivismo di piccoli gruppi impegnati a creare reti territoriali di imprenditori della memoria. Agli inizi del nuovo millennio l’apertura del varco d’accesso agli spazi del nuovo mondo dei media digitali imprime un’accelerazione senza precedenti alla mobilitazione del “complesso memoriale” del Brigante. Nel flusso incessan- L. Dematteo, L’idiotie en politique. Subversion et néo-populisme en Italie, Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 2007, p. 117. 19 Si veda di P. Barcella, Percorsi leghisti. Dall’antimeridionalismo alla xenofobia, in “Meridiana”, XCI, 2018, pp. 95-119, p. 99. 20 Y. Benkler, The Wealth of Networks. How Social Production Transforms Markets and Freedom, Yale University Press, New Haven and London 2006, pp. 10-11, 212 e seg. 21 M. Castells, Communication Power, Oxford University Press, Oxford-New York 2009, pp. 417. 22 A. Hepp, Deep Mediatization (Key Ideas in Media & Cultural Studies), Taylor and Francis, edizione epub, London, 2020, p. 19. 18 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 159 te della produzione simbolica delle comunità mediatizzate, collassa la distinzione analitica tra memoria comunicativa e memoria culturale, così come la netta separazione tra passato e presente, tra la realtà e l’immaginario dei luoghi, tra i contenuti di finzione e le ricostruzioni fattuali, tra vero e falso23. La riconquista del Sud 23 Dal conio originale del concetto di “context collapse” come proprietà intrinseca dei media digitali, D. Boyd, How “context collapse” was coined: my recollection, https://www. zephoria.org/thoughts/archives/2013/12/08/coining-context-collapse.html, alla visione tecnoapocalittica degli effetti nel campo della politica: Letícia Cesarino, When Brazil’s Voters Became Followers, in “Anthropology News”, 14 Settembre 2020, https://www.anthropology-news.org/index.php/2020/09/14/when-brazils-voters-became-followers/. 24 A. Manna, Noi portiamo ancora il marchio dei vinti sulle nostre carni, Napoli, 28 aprile 1992, YouTube MezzoTornese, pubblicato 24 dicembre 2011, https://www.youtube.com/watch?v=mk2sbGHkMG4, minuti 39:07. 25 In seguito, De Crescenzo ha conseguito il Diploma di Archivistica presso l’Archivio di Stato di Napoli e il Master in Scienze della comunicazione all’Università di Siena. 26 A. Manna, Quegli assassini dei fratelli d’Italia: appunti per una controstoria del Risorgimento, Edizione del Delfino, Napoli 1991; Id., La storica interpellanza dell’on. Angelo Manna sui crimini del “Risorgimento”/parte 1, YouTube Naples Reign, pubblicato 22 maggio 2010, https://www.youtube.com/watch?v=IPo18d7KltI. La trascrizione stenografica completa dell’interpellanza sul sito Briganti.net, http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/ Interrogazione.htm; stralci del testo sul sito Briganti: http://briganti.info/interpellanza-manna/, sul sito elealm.org aperto da Nicola Zitara nel 2001 la versione audio: https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/angelo_manna_interpellanza_2010.html. ©UNICOPLI “Genna’ si farà…ma trovami altri venti ragazzi come te (pausa) non possiamo, non ce l’abbiamo la televisione, non ci abbiamo il giornale, nun tenimme ‘na cecat’e lire”. Così si rivolge a Gennaro De Crescenzo, futuro fondatore e presidente dell’Associazione neoborbonica, Angelo Manna durante il discorso programmatico di costituzione del partito autonomista Fronte del Sud, Noi portiamo ancora il marchio dei vinti sulla nostra carne24, pronunciato a Napoli nel 1992. Deputato del MSI, in parlamento proprio nella fase calda della campagna denigratoria contro i meridionali, Manna tenta senza successo un’affermazione elettorale alle comunali a Napoli e con la lista Lega delle Leghe alle politiche del 1992. Non bastano pochi mesi di campagna elettorale per risvegliare “l’orgoglio meridionale”. De Crescenzo, docente di italiano e storia nelle scuole superiori, appassionato di archivi e dei fasti del Regno delle Due Sicilie25, decide di raccogliere la sfida per intraprendere prima di tutto una battaglia culturale identitaria, senza la quale sarebbe impossibile sperare di raccogliere il consenso intorno a un partito politico di ispirazione “meridionalista”. Il repertorio dell’attivismo neoborbonico mobilita i topoi narrativi del registro discorsivo dei vinti, già evocati da Manna, attraverso interpellanze parlamentari e pubblicazioni di rottura contro Quegli assassini dei fratelli d’Italia26: la rivelazione della verità storica sul Risorgimento occultata negli “archivi segreti” dello Stato; la denuncia del ©UNICOPLI 160 Maria Teresa Milicia perdurante inganno della storia scritta dai vincitori insegnata nelle scuole; la vera storia della conquista del Sud e la rivalutazione eroica del brigantaggio interpretato in modo esclusivo come resistenza patriottica; la rivendicazione del buon governo della dinastia borbonica con primati del Regno delle Due Sicilie. La scelta di tecniche comunicative spettacolari di grande impatto e visibilità pubblica caratterizza il movimento neoborbonico fin dal momento inaugurale, il 7 settembre del 1993, con l’organizzazione delle controcelebrazioni dell’ingresso di Garibaldi a Napoli (1860). La collaborazione di Riccardo Pazzaglia – sceneggiatore, scrittore, versatile e ironico, famoso al grande pubblico per essere stato personaggio fisso dello show televisivo di Renzo Arbore Indietro tutta – contribuisce al lancio mediatico dell’Associazione27. La strategia di appropriarsi della scena degli eventi pubblici è una forma di propaganda a basso costo che, in assenza di internet, rimaneva comunque confinata alla stampa locale. I media nazionali e l’opinione pubblica erano troppo concentrati sull’invenzione dei riti celto-padani secessionisti della Lega Nord per preoccuparsi delle boutade di un comico e di un manipolo di nostalgici. Eppure il testo dell’inno neoborbonico, scritto proprio da Pazzaglia, sulle note dell’Inno del Regno delle Due Sicilie28, non appartiene al registro del comico, al contrario rivela da subito il forte investimento simbolico nel culto degli eroi e dei martiri caduti per la patria. I versi di Pazzaglia lanciano l’appello a diventare i figli di quel soldato che non ha mai potuto conoscere i propri, a farsi “testimoni adottivi”29 della memoria dei caduti. Facendo leva sulla mobilitazione di un sentimento opposto alla nostalgia, l’inno convoca quei figli “ritornati dal passato” nel presente, per continuare a combattere: «chi in noi crederà stavolta vincerà»30. La strategia di riconquista del Sud si fonda sull’istituzione del culto del sacrificio dei caduti per la patria, con l’allestimento di una liturgia commemorativa nei luoghi simbolo della sconfitta del Regno delle Due Sicilie. La ricostituzione pubblica del paesaggio della memoria dei vinti e la valorizzazione politica legittimista del brigantaggio rappresentano il passaggio fondamentale nella lotta per affermare un nuovo regime di verità storica. La costruzione di alleanze che coinvolgono le istituzioni locali – con un’attenzione particolare rivolta alla divulgazione della “vera storia” nelle scuole e alle associazioni interessate ai progetti di sviluppo turistico – favoriscono il radicamento della presenza nei territori e il proselitismo di nuovi La ricostruzione dell’incontro è raccontata da G. De Crescenzo in Noi, i neoborbonici. Storie di orgoglio meridionale, Magenes, Milano 2016, pp. 26-30. 28 Commissionato da Ferdinando IV a Giovanni Paisiello nel 1787, secondo la fonte della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie: https://realcasadiborbone.it/inni-marze-e-canzone/. 29 M. Hirsch, The Generation of Postmemory. Writing and Visual Culture After the Holocaust, New York, Columbia University Press, 2012, p. 6. 30 Il testo integrale dell’inno con immagini delle commemorazioni a Gaeta: Inno del movimento neoborbonico di Riccardo Pazzaglia cantato da Eddy Napoli, Napoli, Teatro Trianon, 3 marzo 2012, YouTube Francesco De Crescenzo, pubblicato 15 giugno 2012, https://www. youtube.com/watch?v=bIywcXoWgyc. 27 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 161 “Il Giornale delle Due Sicilie” sul sito del movimento neoborbonico contiene la cronologia dell’attivismo a partire dal 1994: http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=4829&Itemid=235. 32 A. Pagano, La pulizia etnica piemontese nelle Due Sicilie, http://duesicilie.org/spip. php?article120. 33 A. Ciano, Eravamo comunisti. Uno scritto forte, veritiero e sincero di Antonio Ciano, https://www.partitodelsud.eu/2015/01/eravamo-comunisti-uno-scritto.html 34 Pagate Savoia! Gaeta. La città pretende 500 milioni di risarcimento per i bombardamenti “piemontesi” del 1861, 6 novembre 2008, https://www.lastampa.it/cronaca/2008/11/06/news/pagate-savoia-gaeta-1.37088952. 35 Si veda la ricerca esemplare di S. Sonetti, L’Affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019), Viella, Roma 2020. 36 E. Passaro, La scomparsa di un acceso meridionalista, in “Panorama Tirreno”, febbraio 2005, https://www.assostampacavacostiera.it/it/associazione/lucio-barone. 31 ©UNICOPLI simpatizzanti31. Gaeta, ultima roccaforte della resistenza dei sovrani Francesco II e Maria Sofia prima dell’esilio, tappa del pellegrinaggio di piccoli gruppi di tradizionalisti filoborbonici fin dagli anni Sessanta, diviene il luogo simbolo dal quale si irradia il magnetismo terrestre della conversione di soggetti dal profilo biografico e ideologico eterogeneo in agenti della manifestazione della verità storica sulle stragi del Risorgimento. Fioriscono le pubblicazioni di ricerche amatoriali finanziate in proprio, a diffusione locale, dedicate in modo particolare ai briganti patrioti-partigiani, e, con toni sempre più esasperati, alla “pulizia etnica piemontese”32. I patrioti unitari non sono riconosciuti come combattenti sul fronte della guerra civile tra meridionali ma solo come traditori del Regno delle Due Sicilie. Nel 1996 Antonio Ciano pubblica I Savoia e il massacro del Sud, prefazione di Lucio Barone, ristampato nel 2011 e ancora nel 2017 con la prefazione di Aprile e il sottotitolo Brigantaggio e Meridione. Nato e vissuto a Gaeta, militante comunista di formazione meridionalista gramsciana, “fiero delle sue origini contadine”, è stato ufficiale della marina mercantile e attualmente titolare di una tabaccheria nella sua città. Nel 2002 fonda il Partito del Sud: «Morto il PCI, a Gaeta nacque il Partito del Sud, con il quale ci siamo presentati alle elezioni. Nel 2007 siamo riusciti, con un’altra lista civica progressista e meridionalista a prendere la Fortezza»33, dichiara Ciano nella breve quanto significativa autobiografia politica. Assessore al demanio del comune di Gaeta (2007-2012), ha promosso la richiesta di risarcimento danni ai Savoia per il bombardamento della città nel 186134. L’impegno di Ciano nella commemorazione delle stragi dei Savoia lo lega in modo particolare a Pontelandolfo e Casalduni, uno dei luoghi simbolo dell’invenzione del “genocidio dei meridionali”35. Barone, autore della prefazione del volume, originario di Cava dei Tirreni e scomparso nel 2005, è stato giornalista e politico di lungo corso. Della sua affiliazione al movimento neoborbonico racconta: «Come esponente della Dc, avevo sempre manifestato le mie convinzioni fortemente meridionaliste. Quando il partito si è frantumato ed è scomparso, mi sono sentito libero di seguire la mia vocazione, impegnandomi nell’ambito di questo movimento in cui credo»36. Anche Barone fonda un partito, Alleanza Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI 162 Meridionale, con cui si candida a sindaco di Napoli nel 1997 e poi nel 2001 con la lista civica Napoli Capitale, questa volta con il sostegno aperto del movimento neoborbonico37. Nel 1997 Ciano e Barone insieme con Antonio Pagano e Alessandro Romano organizzano la prima mostra itinerante Briganti & Partigiani corredata di catalogo, «esposta in Calabria, Lucania, Puglia, Campania, Lazio e nella nordica Vicenza»38. Pagano infatti, ingegnere meccanico originario di Nocera Inferiore, è stato dirigente scolastico in diversi Istituti tecnici in provincia di Vicenza fino al 2012. Non diversamente dai molti laureati meridionali della sua generazione che hanno cercato sbocco occupazionale nell’insegnamento, si è trasferito al Nord nella fase più accesa dell’antimeridionalismo leghista39. Curatore dal 1995 della rivista “Due Sicilie”, «l’unico periodico del Sud scritto, redatto e stampato da Duosiciliani al Nord»40, Pagano esprime posizioni indipendentiste radicali, in contrasto con la pacata immagine di stimato dirigente scolastico che emerge dal tributo dedicatogli dal “Giornale di Vicenza” in occasione del suo pensionamento41. La conversione alla militanza neoborbonica di Romano ha motivazioni affettive diverse dall’investimento ideologico e dalla passione politica degli altri attivisti. Discendente del Sergente Pasquale Domenico Romano, ucciso a Gioia Del Colle nel 1863, Alessandro si sente chiamato al dovere della testimonianza, sacralizzata dal legame di sangue con uno degli eroi che rimasero fedeli fino alla morte alla patria borbonica. Nato nel 1957 a Ponza, isola nel golfo di Gaeta, dove la sua famiglia di origine si trasferì dalla Puglia ai primi del Novecento, è divenuto una figura chiave dell’attivismo territoriale per la riabilitazione della “memoria del brigante”. Alla metà degli anni Novanta Alessandro incontra la principessa Urraca di Borbone, assidua frequentatrice dei raduni tradizionalisti42 che lo nomina capitano dell’esercito borbonico. Da allora, con la divisa e le insegne di capitano, guida il drappello di soldati borbonici presente alle commemorazioni annuali dei caduti di Gaeta. Nella breve autobiografia del Capitano, pubblicata sulla pagina Facebook Terroni di Aprile, la riappropriazione della G. De Crescenzo, Noi, neoborbonici, cit. pp. 59-61. Sul sito Eleaml di Nicola Zitara, la presentazione della mostra firmata da A. Romano: https://www.eleaml.org/sud/briganti/briganti_partigiani.html. 39 P. Barcella, Percorsi leghisti, cit., pp. 102-104. Manca del tutto una tradizione di ricerche etnografiche dedicata alle forme di razzismo antimeridionale nelle interazioni quotidiane in ambiente scolastico al Nord. 40 Qui un numero online sul vecchio sito: http://www.duesicilie.org/OLDSITE/indexNF. html). http://www.duesicilie.org/OLDSITE/NazioneNapoletana.html. 41 S. Dal Ceredo, Antonio Pagano: “Ragazzi vi dico: non arrendetevi il lavoro arriverà”, 8 giugno 2012, https://www.ilgiornaledivicenza.it/home/provincia-old/antonio-pagano-ragazzi-vi-dico-non-arrendetevi-il-lavoro-arriver%C3%A0-1.930786. 42 Cfr. G. Salemi, Ricordo di S.A.R. la principessa Urraca di Borbone Due Sicilie, http:// istitutoduesicilie.blogspot.com/2016/07/ricordo-della-principessa-urraca-di.html. I raduni in forma privata di piccoli gruppi di filoborbonici a Civitella del Tronto e a Gaeta risalgono già agli anni Sessanta. 37 38 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 163 memoria passa attraverso la rivelazione di essere il discendente di un eroe della resistenza duosiciliana. Il “segreto di famiglia”– sussurratogli dallo zio quando era ormai adolescente – era stato taciuto “per vergogna”, tanto che ancora adesso i parenti non sono entusiasti delle pratiche memoriali del loro congiunto43. La seconda rivelazione arriva negli anni del liceo con la lettura del testo di Alianello La conquista del Sud (1972). La conferma della verità di quel segreto lo spinge ad abbracciare la missione di restituire memoria e dignità pubblica ai patrioti che la “storia ufficiale” ha criminalizzato con l’etichetta di Briganti. La ricerca delle prove nascoste della violenta conquista del Regno delle Due Sicilie conduce Romano a scavare negli archivi – si potrebbe dire a mani nude: privo di formazione storico-archivistica e di strumenti interpretativi adeguati, come la maggior parte degli attivisti della memoria, ricercatori improvvisati, guidati dalla tenacia del desiderio di rendere pubbliche le prove della verità: Il racconto di Romano non è ricavato da un documento d’archivio. È la Storia di Pasquale il Cafone, “un certo Pasquale Pagliuca”, protagonista di un capitolo di La Conquista del Sud, un frammento della “memoria comunicativa” familiare dello scrittore, incastonato nel palinsesto delle centinaia di citazioni tratte in prevalenza dai memoriali dei vinti e reinterpretate all’interno della nuova cornice retorica del genocidio perpetrato dai piemontesi-nazisti. Il padre di Alianello sarebbe stato testimone oculare dall’accaduto: «Io non l’ho tratto né da una storia, né da una cronaca, né da un diario, né da una corrispondenza del tempo. Lo so di mio. Me lo narrò mio padre e mai ho potuto dimenticarlo. Non posso precisare né l’anno né la data esatta. Il fatto però è vero»45. Nella Per quanto “segreto di famiglia”, la biografia del Sergente Romano era già stata pubblicata, la prima volta addirittura nel 1922: A. Lucarelli, Il sergente Romano: notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese del 1860, Società Tipografica Pugliese, Bari 1922, e più volte ristampata a partire dalla nuova edizione: Id., Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860: il sergente Romano, Laterza, Bari 1946. 44 P. Aprile, Alessandro Romano si racconta in “Terroni”, post Facebook, 23 ottobre 2015, https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1678454359108460&id= 1545756872378210. 45 C. Alianello, Storia di Pasquale il Cafone in La conquista del Sud, Rusconi, Milano 1972, pp.164-181. Riedito nel 2010 Napoli, Il Cerchio, 2010, pp. 113-119. 43 ©UNICOPLI Ricordo il primo verbale di “processo” che mi capitò fra le mani: l’ufficiale piemontese chiedeva a un pastorello lucano di 17 anni come mai avesse quelle scarpe. Il ragazzo non capiva, quello parlava un’altra lingua. L’ufficiale gli comunicò che lo condannava per brigantaggio, perché erano scarpe in dotazione all’esercito “italiano”. E il poveraccio ancora non capiva di dover spiegare che ne era entrato in possesso senza ammazzare nessuno. Immaginai il suo sperdimento, la paura, la rabbia di non rendersi nemmeno conto di cosa volesse da lui quella gente e perché lo trattassero male. Poi comprese: gli fecero cenno di girarsi dinanzi al plotone d’esecuzione schierato. Udì che caricavano le armi. Fucilato alle spalle. Mi misi a piangere44. Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI 164 ricostruzione affabulatoria delle Scarpe di Pasquale Alianello amplifica l’effetto di verità prodotto dall’eco della voce del testimone, tanto da farne il cameo della crudeltà dei piemontesi, reiterato come mnemotropo della sua narrativa dei vinti. Appena accennato in una conversazione nel romanzo L’eredità della priora (1963) – «Giovedì passato non hanno condannato a morte nu guaglione... quanto puteva tené? Quattordece, quinnece anne? ’O ssapite perché?»46 – infine rappresentato in una delle più strazianti scene della trasposizione televisiva del romanzo prodotta e trasmessa da Rai 1 (2 marzo-13 aprile 1980)47. Il lapsus mnemonico di Romano, proprio perché di sicuro non intenzionale, è significativo di come la memoria personale, non diversamente da quella collettiva cerchi spesso rimedio alla sua inesorabile labilità nella ricostruzione creativa del ricordo, soggetta alle proiezioni del desiderio più che alle esigenze di oggettività dei fatti. Il desiderio profondo – palese in questo caso – di riconoscimento della propria missione di portatore della verità nascosta negli archivi segreti dello Stato italiano. Alianello è stato il mediatore più influente della memoria culturale dei vinti. Nell’Italia delle guerre ideologiche del secondo dopoguerra, ha saputo mimetizzare il populismo di cattolico tradizionalista con il populismo comunista e, grazie al talento di narratore, ha avuto accesso all’immaginario degli Italiani attraverso il genere dello sceneggiato televisivo, il più popolare dei mezzi di intrattenimento nel periodo del dominio incontrastato della Rai. Non stupisce allora che l’immaginario televisivo del brigante di Alianello, affiori in tutt’altro genere di discorso pubblico sull’identità meridionale. Roberto Saviano nel raccontare la Torino “territorio di ‘ndrangheta”, ricostruisce la memoria “antipiemontese” della sua infanzia, a suo dire radicata nella generazione coeva degli anziani: «…sono nato nel ’79, eppure sono cresciuto sentendo ancora i vecchi del paese chiamare i Carabinieri ‘i Piemontesi’. C’era una canzone che si chiama Briganti (…) Ho ancora vivo un ricordo: una testa che spunta da una porta semichiusa prima del sonno mentre ero nel lettone della casa dei nonni, un amico o uno zio, che mi diceva: ‘Robertì, qual è o vero lupo ca magna ’e creature?’ e io dovevo rispondere ‘il piemontese che dobbiamo cacciare!’»48. Saviano dimentica che la famosa Brigante se more, scritta da Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò per la colonna sonora dello sceneggiato L’eredità della priora, si ispira al contenuto del romanzo di Alianello. Più avanti continua: «Ancora C. Alianello, L’eredità della Priora, Feltrinelli, Milano 1963; citato da Osanna Edizioni, edizione digitale epub, Gaeta, 2013, posizione 7164-7169. 47 L’eredità della priora 7° episodio, YouTube Associazione Culturale Vibrazioni Lucane, pubblicato 7 ottobre 2011, https://www.youtube.com/watch?v=7qbpebLv5hE, 37:56. Si veda: Sceneggiati e fiction 1980-1982, RAI Teche, http://www.teche.rai.it/sceneggiati-e-fiction-1980-1982/. 48 R. Saviano, Torino, una città del sud che la ’ndrangheta considera un suo territorio, in “Origami”, Supplemento a “La Stampa”, XXXIII, 2016. Il testo della lettera online: https:// it.geosnews.com/p/it/piemonte/to/saviano-torino--la-citt-pi-a-sud-d-italia-che-la-ndrangheta-considera-suo-territorio_11546483. 46 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 165 oggi c’è quella memoria nascosta nelle pietre di paese, nei vicoli, nel rancore dei nonni, nelle tifoserie degli stadi che sventolano i vessilli borbonici». Saviano, che aveva 16 anni nel 1995, non ricorda il primo ingresso dei vessilli del Regno delle Due Sicilie nello stadio San Paolo di Napoli il 18 maggio di quell’anno, in occasione della partita Napoli-Milan. Un successo rivendicato con grande orgoglio dal movimento neoborbonico, ricostruito in modo lucido e consapevole da De Crescenzo che sottolinea come prima di allora la tifoseria napoletana usasse le bandiere con la croce dei sudisti americani, mentre adesso quella bandiera è diventata «sugli stadi e fuori dagli stadi, il simbolo di una dis-appartenenza e di una nuova e significativa neo-appartenenza»49. I discendenti dei Briganti De Crescenzo, Noi, i neoborbonici, cit., pp. 50-55. GeoMat, matematica e geometria, è all’interno dello stesso indirizzo web dedicato al brigantaggio: http://www.brigantaggio.net/bosco/index.htm. 49 50 ©UNICOPLI Alla fine degli anni Novanta internet diviene accessibile tramite la rete ISDN anche ai privati dotati di abbonamento telefonico, grazie soprattutto all’abbattimento dei costi di navigazione. Il web del nuovo millennio comincia a popolarsi di siti dedicati alla “vera” storia dell’unità d’Italia e del brigantaggio, “la storia proibita” del Sud. A San Martino Sannita, un piccolo comune di 1200 abitanti in provincia di Benevento, vive Fioravante Bosco insegnante di matematica e scienze nella scuola media, cultore di storia locale con il talento del divulgatore, come si evince dal sito Geo-Mat dedicato all’insegnamento della matematica50. Nasce così Brigantaggio.net, primo sito registrato nel 1999 dedicato alla storia del brigantaggio postunitario nella provincia di Benevento che ben presto si trasforma in una piazza del villaggio globale, dove gli appassionati di brigantaggio pubblicano le loro ricerche e, soprattutto, comunicano attraverso i servizi di messaggistica elettronica. Nonostante si sia ancora lontani dalle possibilità interattive istantanee dei social media, il sito rivela da subito le potenzialità delle nuove tecnologie di comunicazione. Brigantaggio.net offre uno spazio pubblico di comunicazione di idee, opinioni, recensioni del numero sempre crescente di pubblicazioni amatoriali, insieme alle informazioni di contatto e promozione delle iniziative territoriali. Per quanto ancora puntiforme, l’attivismo della vera storia inizia a scalare i livelli di visibilità, dal locale alla potenziale platea globale degli internauti. La fase aurorale delle comunità mediatizzate rende possibili luoghi virtuali di aggregazione, di formazione di un lessico comune per raccontare la storia negata, bandita, proibita, di riconoscimento del comune destino di “briganti o emigranti”. Approdano al sito da continenti diversi molti emigrati alla ricerca delle radici perdute: guidati «dall’interesse e il culto della identità Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI 166 dimenticata (o censurata)»51 chiedono conferme genealogiche, anche solo sulla base di una omonimia immaginano o scoprono di essere discendenti di un lignaggio brigantesco. Qualcuno, coetaneo di Saviano, attraverso il sito scopre con autentica commozione la voce della memoria del Brigante. Non manca qualche esponente della Lega, galvanizzato dalla condivisione della battaglia contro i simboli risorgimentali. Tutti esprimono un’adesione entusiastica al progetto di riscatto del Sud attraverso la riappropriazione della memoria storica del popolo vittima dell’unificazione italiana. Riporto di seguito una selezione di messaggi rappresentativi delle soggettività diasporiche che si incontrano nel nome del “brigante”, intercettando per la prima volta i discorsi degli “imprenditori della memoria” del Sud impegnati a sostituire “i criminali di guerra” del Risorgimento con il pantheon eroico dei patrioti del Regno delle Due Sicilie. Proprio nel decennio a ridosso delle celebrazioni per i 150 anni dell’Italia unita. I messaggi sono corredati di indirizzo elettronico, nome e cognome, a volte numero di telefono. Ho omesso i dati sensibili (anche se pubblici sul sito), tranne nel caso del Capitano Romano che conclude la citazione. L’asterisco indica i casi di omonimia con i briganti. Ho tagliato alcuni lunghi messaggi per ragioni di spazio, sacrificando alcuni passaggi nei quali si colgono i nodi discorsivi delle rivendicazioni postmeridionaliste – reiterati, rafforzati e ripresi più volte negli ultimi anni – come il diritto alla memoria pubblica, alle modifiche della toponomastica, all’urgenza di cambiare la storia del Risorgimento nei manuali scolastici. 28 Settembre 2000 – (mail) Ho conosciuto per caso su internet il Vs. sito ed e-mail; vi prego inviarmi tutte le notizie sul brigante e la famiglia (nome*) della zona Barile, Rionero. Grazie 13 Dicembre 2000 – (mail) Desidero complimentarmi vivamente per il sito. Da diverso tempo cercavo qualcosa del genere e finalmente l’ho trovato (…) Sono un compositore siciliano e sto lavorando ad un’opera lirica. Il contenuto, per dirla in breve, riguarda la storia narrata da vincitori e da vinti. Ho letto ‘La conquista del Sud’ di Carlo Alianello e sto cercando altro materiale che possa essermi utile. Sicuramente lo troverò nel vostro sito. In particolare sono interessato direttamente alle fonti storiche ed a verbali, proclami, trascrizioni di interrogatori. Cordiali saluti, (nome) 02 Maggio 2001 – (mail) Escusar el italiano, per que soi brasiliano e mai fato corso de lingua estrangera. Ai visto el conteudo del texto de diverse pernonalitá, e a mia chamato atensione el (nome*) per que me chamo (nome*) e me piacheria saver qui e estato el primo (nome*) a rivare el Brasile tel secolo XIX, me nono se chamea (nome*) e 51 13. P. Solinas, Ancestry. Parentele elettroniche e lignaggi genetici, Edit, Firenze 2015, p. La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 167 ©UNICOPLI maritá con (nome). Sensa compromissi, se save qualque noticie o informasione será mui bene apreciate. Gracie o Muito obrigado de tuti i (nome*) del Brasile 28 Novembre 2002 – (mail ) Estimados señores El recurrente, es un ciudadano argentino, (nome), descendiente de italianos, mas precisamente de la provincia de BENEVENTO y del pueblo de CAMPOLATTARO, mi familia aparentemente a participado en el movimiento en el pueblo natal, es más han sido fusilados varios de ellos en el año 1861. Ante ello desearía tomar contacto con Uds. Gracias (nome) 17 Luglio 2002 -(mail ) Complimenti e calorosi abbracci a tutti voi di questo sito stupendo........ anche io sono una figlia di San Giorgio la Molara. Siamo emigrati in Australia negli anni 50.... Ho trovato questo sito per caso, ma ci sono rimasta incantata. Mio Nonno che è scomparso pochi anni fa qui in Australia, mi raccontava molto di San Giorgio, la nostra famiglia e il brigantaggio, ma certo, erano solo ricordi che anche a lui raccontavano i suoi, ma era comunque molto interessante... Questo sito lo sto passando a tutti quelli che conosco, e adesso racconto a tutti i miei parenti e Sangiorgesi di Adelaide questi fatti della nostra patria e della nostra zona. COMPLIMENTI ANCORA A TUTTI... Grazie ancora.. un sito fantastico.... (nome)- Adelaide AUSTRALIA. 30 Agosto 2003 – (mail) Mi chiamo (nome*), di origini calabresi (tra Longobucco e Rossano). Vorrei notizie sul brigante omonimo, detto Faccione, che pare appartenesse alla banda di Palma. Grazie 08 Gennaio 2003 – (mail) Nel percorso Briganti, leggo: “Allora Palma e... a Giosuè Gallina, capomandria di (nome*).” Mi piacerebbe avere qualche notizia in più sulla Famiglia (nome*), considerato che mi chiamo (nome* ) (come mio nonno) e mio padre, (nome* ), nacque a Corigliano Calabro. Grazie e complimenti per il sito. (nome ) 27 Giugno 2003 – (mail) (…) Sono anni che personalmente mi dedico ad una ricerca sulla verità storica dei fatti che sono passati sui libri di storia come “brigantaggio”. Sono un conterraneo di Crocco, pochi chilometri dal suo paese di nascita, e i racconti dei nonni sono giunti fino a me sulle gesta di Crocco e Ninco Nanco (…) Ritengo questo vostro lavoro debba essere divulgato al massimo con ogni iniziativa possibile (…) ed importantissimo che qualche deputato del Sud si faccia carico di portare in parlamento una richiesta per riabilitare quanti che ancora oggi per qualcuno che crede di scrivere libri di storia, passano per l’infamante appellativo di briganti (…) Usciamo con forza alla luce del sole (…) spero di vedere presto premiati gli sforzi (…) oltre che vedere presto, con una dovuta informazione, una mostra itinerante che racconti i veri fatti dell’unità e che passi pure per Milano (nome). PS. Vi pregherei se possibile avere qualche informazione su (nome*) che figura nell’elenco tra coloro come capiguerriglieri. Grazie. 29 dicembre 2003– (mail) ©UNICOPLI 168 Maria Teresa Milicia Complimenti vivissimi per la cura e la ricchezza del sito. Spero che l’inquilino del quirinale52 possa vederlo così da rinfrescarsi le idee sul risorgimento che tanto ama. La lotta contro la storiografia ufficiale è molto dura ma quando si trovano persone come voi la forza per combattere rinvigorisce. Dal prossimo mese inizierò a raccogliere le firme nel mio paese affinchè (sic) la via intitolata a Nino Bixio venga rimossa. W la verità, W la libertà! Giorgio, movimento giovani padani Brésa 23 Marzo 2003 – (mail) (…) Sono Napoletano, emigrato da oltre 35 anni, e solo pochi mesi fa ho scoperto diverse iniziative meridionali di portare alla luce la vera storia sanguinaria dell’invasione del 1860 che a scuola ci insegnavano come “liberazione e unificazione”. Grazie al vostro sito, e altri siti, pubblicazioni e gruppi internet sto finalmente comprendendo per la prima volta le vere cause che ridussero l’antico meridione alla povertà e all’emigrazione (…) Sappiate bene che del vostro lavoro non solo i meridionali ne gioveranno, ma anche tutti quelli che furono costretti a partire e i loro discendenti in tutto il mondo, anche se ora ancora non sanno e non possono dimostrarlo, ve ne saranno infinitamente grati. Vi auguro tutta la forza e la fede necessaria per continuare la vostra opera. Cordiali saluti, (nome) (Olanda) 01 maggio 2004 –(mail) (…) Sono commosso, mi viene da piangere nel leggere i messaggi di persone che cercano notizie dei propri avi briganti. Ce l’abbiamo fatta, siamo finalmente al punto di svolta, stiamo acquistando una coscienza e soprattutto ci stiamo riappropiando (sic) della nostra dignità, è fantastico. E pensare che fino a pochi anni fa si aveva vergogna di essere discendenti dei ‘briganti’, o meglio dire, dei nostri eroi (…) Io sono un laureando in ingegneria, convinto neoborbonico, faccio parte del Movimento Neoborbonico di cui è presidente l’ottimo Gennaro De Crescenzo, sono orgoglioso di essere meridionale, o meglio duosiciliano e fiero di essere napoletano. Siete tutti fantastici, VIVA O’ RRE NUOST!!! (nome e cognome) 18 aprile 2004 – (mail) Complimenti per l’ottimo lavoro e un grazie di cuore per avermi fatto scoprire di essere un pronipote di (nome*) che ‘resistette con la sua banda’ a Vitulano paese di origine della mia famiglia. Sarò grato a tutti coloro che mi forniranno notizie per ricostruire con maggior dettaglio la storia di questo avo che ormai in famiglia chiamiamo Zi’ Marcangelo. Grazie ancora e un saluto a tutti, il mio indirizzo email è: (mail- nome) 30 agosto 2005 – (mail) Più che essere una traccia breve sul vostro libro degli ospiti questo messaggio vuol significare qualcosa di particolarmente personale, che voglio condivi- 52 Carlo Azeglio Ciampi. Sulla “pedagogia civica” di Ciampi e le successive posizioni di Giorgio Napolitano: E. Francia, Il Presidente, lo storico, il comico. Note sul Risorgimento del 150°, in “Contemporanea”, XVI, 1, 2013, pp. 145-157. La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 169 53 C. Colacino, A. Grasso, A. Moletta, A. Pagano, G. Ressa, A. Romano, M. Russo, M. Salvadore, M. Sarcinelli, La storia proibita. Quando i piemontesi invasero il Sud, Prefazione di Nicola Zitara, Controcorrente, Napoli 2001. ©UNICOPLI dere con chi, come me, ha le radici in queste terre del Sannio (…) Vi è l’aver ricordato qualcosa che nella mia giovane memoria era sepolto. Sono un’avvocato (sic) di Campobasso, ho 28 anni e pur essendo cresciuta dall’età di 8 anni in Molise ho origini campane. Precisamente sia mia madre che mio padre si dividono tra Santa Croce del Sannio (BN) e Morcone (BN). Sono figlia e nipote di emigranti, fiera di avere il sangue di gente umile e nobile d’animo. Mia madre (…) mi ha sempre raccontato che tra i miei avi vi sarebbe un “brigante” ed io sono cresciuta con l’immagine sfuocata tra mito e realtà di un tale personaggio. Nell’attesa di trovare del tempo necessario per un’adeguata ricerca genealogica (…) vi ringrazio perché, attraverso questo sito, ho potuto ascoltare una canzone che riecheggiava stranamente nella mia infanzia “ommo se nasce, brigante se more” (…) Ascoltandola dal vostro sito ho riconosciuto una melodia, una musica a me nota (…) E allora l’ho ascoltata, e ascoltata ancora. Finchè non ho capito chiudendo gli occhi che a quella canzone nella mia testa era associata una voce. E il ricordo è riaffiorato piano piano, ricordo di un tale canto quando ero piccola cantato dalla voce di mio nonno, uomo forte e coraggioso tanto da dover lasciare la propria terra defraudata di una ricchezza che si doveva purtroppo cercare altrove (…) grazie perché (…) posso ancora sentire la sua voce cantare con fierezza il canto di riscossa dei briganti. GRAZIE DI CUORE. 07 settembre 2002 – ale.romano@libero.it Egregio Sig. Bosco, Sono il Cap. Alessandro Romano, parente del Sergente Romano e coautore dei testi da lei citati: Briganti & Partigiani e La Storia Proibita53. Volevo segnalarle alcune imprecisioni da me riscontrate nel suo interessante e molto efficace sito. Innanzitutto le ‘teste mozzate dei briganti’, da Lei accreditate al buon testo di Ludovico Greco: Piemontisi, Briganti e Maccaroni, sono state invece pubblicate, su mia fornitura (ho i negativi), su: Briganti & Partigiani e I Savoia ed il massacro del Sud, ai quali, tra l’altro, ho fornito tutte le restanti foto. Inoltre, nelle Premesse e Generalità, Lei riporta erroneamente l’autore di BRIGANTI: Eroi o Malfattori, quale Antonio Romano. Il nome è invece il mio, Alessandro Romano. Infatti il titolo Briganti: Eroi o malfattori appartiene alla mia mostra itinerante, composta di circa 170 foto con didascalie e documenti: il testo da Lei riportato è la presentazione del catalogo. Per finire, credo che sia doveroso segnalarle che Lei ha accreditato troppe foto al su citato testo del Greco facendo torto a numerosi altri autori. Vi sono anche altre imprecisioni ma non vorrei mortificarla oltre ed attendo un eventuale suo invito a farlo. Una nota, invece, che potrebbe essere interessante è che il “Fiocco Rosso”, da Lei tratto dal testo Briganti & Partigiani, è una coccarda appartenuta al Romano di cui possiedo anche il pugnale ed il binocolo grossolanamente riportati nel dipinto pubblicato nel mio testo e da Lei riprodotto nel sito. La ringrazio per Maria Teresa Milicia 170 ©UNICOPLI l’attenzione e Le invio i miei più Cordiali saluti. Cap. III Reg. Principe Alessandro Romano. Come si evince dal messaggio, Romano ha proseguito in proprio l’impegno di attivista della memoria del brigantaggio, aggiungendo nuovi materiali alla mostra itinerante, ribattezzata Briganti, eroi o malfattori? L’anno successivo anche il Capitano entra nel web con il sito Rete di Informazione delle Due Sicilie, che ospita il “Notiziario Telematico Legittimista”, costantemente aggiornato sulle attività del movimento neoborbonico e dei suoi affiliati, sulle numerose iniziative di convegni nei territori, rassegne stampa, novità editoriali, notizie dalla patria e una pagina dedicata alla promozione della sua mostra54 che, a partire dalla fine degli anni Novanta e per tutta la decade successiva, verrà ospitata nelle commemorazioni, eventi e convegni dedicati al brigantaggio in tutto il Sud. Anche progetti culturali ambiziosi finanziati con i fondi europei, come il Museo del Brigantaggio di Itri (10 km da Gaeta) allestito dall’antropologo Vincenzo Padiglione e inaugurato nel 2003, tengono conto della crescente popolarità dei nuovi specialisti della memoria del brigante, Ciano e Romano. La valorizzazione della figura del colonnello Michele Pezza, brigante-patriota originario di Itri noto come Fra’ Diavolo, ha un forte significato simbolico sulla scena memoriale neoborbonica degli anni Novanta, in procinto di lanciare le provocatorie controcelebrazioni del bicentenario della Rivoluzione napoletana del 179955. Il modello del brigante-patriota della resistenza sanfedista all’invasione francese assume valore paradigmatico per le retoriche del movimento: istituisce la relazione analogica con “l’invasione dei piemontesi” e la legittima guerra di difesa del brigante-patriota postunitario, esalta la sacralità dell’alleanza tra il sovrano e il popolo in nome della Santa Fede, crea una connessione di valori con gli insorti della Vandea, per primi chiamati briganti dai rivoluzionari56. La pratica militante della rivelazione della verità alimenta il processo di osmosi territoriale della memoria dei vinti, trasfondendo nel web il sangue delle stragi dell’invasione piemontese e dal web verso la colonizzazione di nuovi territori come Secinaro in Abruzzo, o Cotronei in Calabria, dove le rievocazioni folkloristiche del brigantaggio vengono ricondotte nell’orbita del mito della vera storia57. Nel 2006 a Gioia del Colle, nel bosco di Vallata, viene finalmente eretta http://www.reteduesicilie.it/pagina-di-esempio-2/. De Crescenzo, Noi, i neoborbonici, cit., pp. 41-42. A Napoli, l’8 gennaio 1999 fu organizzato un flash mobbing al Teatro San Carlo durante la prima dello spettacolo dedicato alla memoria di Eleonora Pimentel De Fonseca. Ghirlande di fiori e lumini accesi, slogan “Giacobini assassini… chi non salta è giacobino”, volantinaggio dai loggioni del San Carlo, tra lo stupore dei convenuti. Gli rovinammo la festa, commenta De Crescenzo, furono sospese le dirette televisive. 56 Si fa presente il senso dell’analogia storica avanzata da Pietro Calà Ulloa, uno dei fedelissimi della resistenza di Gaeta: Della sollevazione delle Calabrie contro a’ francesi, Tipografia B. Morini, Roma 1871, p. 183. 57 http://www.secinaro.comnet-ra.it/cultura-e-tradizioni/141-rievocazione-del-brigantaggiosul-sirente.html. Nel caso di Secinaro, la rievocazione risale ai primi anni Settanta. La rottura 54 55 La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio 171 con il passato a partire dal 2007 è confermata dal giornalista Davide Simone, originario del luogo (comunicazione personale). Su Cotronei: Comunicato Stampa, Associazione Santi e Briganti, 2 agosto 2007, http://www.provincia.crotone.it/informazione/news.php?Cod=957. Intervista al curatore del Museo del Brigantaggio a Cotronei, Il Museo del Brigantaggio di Cotronei, YouTube Calabria nel cuore, pubblicato 10 maggio 2013, https://www.youtube.com/ watch?v=4aBBDI_FEyc. 58 GEO & GEO: BRIGANTAGGIO - 24 ottobre 2008, pubblicato 24 ottobre 2008, YouTube Crocco57, https://www.youtube.com/watch?v=JF6jzT83HlU. 59 Rocco Biondi, “Settimana dei briganti: si parte”, 25 settembre 2006, https://roccobiondi.blogspot.it/2006/. 60 R. Biondi, Bossi Bingo Bongo, 7 dicembre 2003, http://roccobiondi.blogspot.com/ 2003/. 61 R. Biondi, Storiografia del brigantaggio postunitario. Dal 1860 ai giorni nostri, Magenes, Milano 2018. 62 P. Aprile, Prefazione, in A. Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud (Brigantaggio e Meridione), Ali Ribelli, edizione digitale epub, Gaeta, 2017, posizione 192-194. ©UNICOPLI la stele commemorativa in onore dell’antenato caduto per la patria. L’autorevolezza di Romano si accresce fino ad essere intervistato in qualità di storico del brigantaggio nel documentario di Andrea Cherubini, andato in onda nel 2008 su Geo & Geo, trasmissione pomeridiana di RAI 358. La dimostrazione dell’efficacia dell’opera di proselitismo del Capitano ci conduce a Villa Castelli (Brindisi) alla Prima giornata di studi sul brigantaggio, tenutasi nel 2006, da cui nasce l’Associazione storico-culturale “Settimana dei briganti. L’altra storia”59. Da quel momento Rocco Biondi – uno dei primi blogger, che dal 2003 al 2006 commenta la cronaca politica senza esprimere posizioni “meridionaliste” (a parte qualche sfogo contro il leghista Bossi)60 – coinvolto nell’organizzazione locale dell’evento, cambia stile di comunicazione e converte il suo blog alla divulgazione della vera storia. Nel corso degli anni Biondi ha recensito centinaia di opere dedicate al brigantaggio postunitario, di recente selezionate e raccolte in un volume, con l’immancabile prefazione di Aprile61. Coerente con il quadro interpretativo del mito della vera storia, la valutazione delle opere recensite non si preoccupa del rigore della metodologia di indagine storica, dell’uso e della qualità delle fonti, ma soltanto della rispondenza o meno al canone fissato dal revisionismo popolare postmeridionalista. Non c’è altra differenza tra Alfonso Scirocco e Antonio Ciano se non che il primo appartiene alla categoria squalificata degli “storici di regime” e il secondo ai detentori della verità. Con la pubblicazione di Terroni nel 2010, si oltrepassa una nuova soglia della propaganda, grazie al successo di vendite del libro e alla presenza costante dell’autore nei salotti dell’infotainment televisivo. Aprile rafforza la retorica vittimaria, facendo assumere al genocidio dei meridionali valore paradigmatico nella controstoria della nazione italiana. Ha ragione a scrivere che «Terroni ha incontrato un’onda insospettatamente alta, che era montata negli anni, senza che nessuno si fosse accorto di quanto potente e vasta fosse»62. Nessuno tranne i pionieri del web, i giornalisti – informati per mestiere e sempre oculati nel- 172 Maria Teresa Milicia ©UNICOPLI la scelta del tempo opportuno (lo stesso Aprile aveva letto Alianello ben quarant’anni prima) – e gli agenti del marketing editoriale neoliberista in gara per le vendite nel centocinquantenario della fragile nazione. Vorrei concludere con una barzelletta politicamente scorretta, inventata dai “vincitori” nel 1992, in occasione del cinquecentenario della “scoperta” dell’America, quando cominciò a sgretolarsi il mito di Cristoforo Colombo63, oggi crollato sotto i contraccolpi del movimento Black Lives Matter. Un nativo del Sud America incontra per strada uno spagnolo e, senza una ragione apparente, lo aggredisce prendendolo a pugni. Lo spagnolo, impietrito dalla sorpresa di fronte all’aggressione di uno sconosciuto, balbetta: – Perché mi fai questo? Che cosa ti ho fatto? – e l’altro risponde: – Voi avete massacrato il nostro popolo, avete stuprato le nostre donne! – lo spagnolo finalmente capisce e replica: – Ma è successo cinquecento anni fa! – e l’altro: – Sì, ma io l’ho saputo ieri. 63 H. Schuman, B. Schwartz, H. D’Arcy, Elite Revisionists and Popular Beliefs: Christopher Columbus, Hero or Villain?, in “The Public Opinion Quarterly”, LXIX, 1, 2005, pp. 2-29. Si veda anche A. Brusa, Colombo eroe o malfattore. Stereotipi, false conoscenze, bugie tra epistemologia naïve e storia, in Il falso e la storia. Invenzioni, errori, imposture dal medioevo alla società digitale, a cura di M. Gazzini, Feltrinelli, Milano 2021. Parte seconda LA GUERRA AI BRIGANTI La storiografia militare sul brigantaggio ©UNICOPLI ©UNICOPLI LA STORIOGRAFIA MILITARE SUL BRIGANTAGGIO Una visione d’assieme Nicola Labanca Ucronie contemporanee? A pensarci bene, termini come “brigante” e “brigantaggio” non andrebbero più adoperati. La loro adozione infatti potrebbe far ritenere che lo storico, senza nemmeno rifletterci, adotti la posizione di uno degli attori storici del tempo, cioè di quello che allora li utilizzava proprio per qualificare negativamente, condannare e reprimere comportamenti sociale di altri attori sociali, politici, armati ecc. Utilizzarli, insomma, lo studioso potrebbe dar l’idea – prima ancora di iniziare a far ricerca, prima ancora di capire se davvero i comportamenti sociali di singoli e di gruppi di sudditi meridionali fossero criminalizzabili – di essersi già schierato con una delle parti in campo. È singolare che persino coloro che oggi, a fini strumentali e politici, intendono elogiare e rivendicare qui compartamenti continuano distrattamente ad utilizzare parolr che invece li condannano: sarebbe come se usassero l’altro termine, al tempo collegato, di “manutengolo”, fortunatamente caduto in disuso. O vviamente, in queste pagine, l’uso di questi termini non vuol aver niente di tutto questo, ed è usata solo per intervenuta convenzione. 2 Seth G. Jones, Jeremy M. Wilson, Andrew Rathmell, K. Jack Riley, Establishing law and order after conflict, Santa Monica, CA, Rand Corporation, 2005. Quella della Rand era, ovviamente, una e non l’ultima ma forse una delle più influenti fra le varie ricette elaborate sul tema messe a punto dopo i risultati quanto meno non soddisfacenti delle campagne militari di quegli anni. 1 ©UNICOPLI Può non essere del tutto fuori luogo, per un esame della produzione d’interesse storico-militare sul grande brigantaggio1 postunitario italiano, partire da brigantaggi dell’oggi per tornare poi indietro nel tempo a quello di ieri. Nel 2005 con Establishing law and order after conflict, la Rand Corporation, forse il più importante think tank che lavora molto spesso per il governo statunitense, delineava quella che definiva A theory of rebuilding internal security2. In questo documento, poco noto in Italia, gli analisti dell’Impero analizzavano gli allora recenti avvenimenti del Kossovo, dell’Afghanistan e dell’Iraq e dettavano quella che pareva loro la ricetta del ristabilimento dell’ordine e della pace interna in Paesi in cui gli Usa fossero appena intervenuti. Non potevano sapere che, in quegli stessi teatri, la pace, la sicurezza e l’ordine pubblico non sarebbero stati ristabiliti presto. Ma apparivano molto fiduciosi su quali dovessero essere gli ingredienti per fondare un ordine duraturo dopo conflitti che avevano avuto aspetti militari, politici, sociali, religiosi, culturali ecc. Conflitti ben più Nicola Labanca ©UNICOPLI 176 sanguinosi, gravi e luttuosi di quello per l’Unità italiana fra 1859, 1861, 1866 e 1870: ma su questo torneremo più avanti. La ricetta della Rand per lo State-building al tempo delle guerre asimmetriche partiva dalla considerazione per cui “All societies in transition experience a rise in crime and an increase in violence as old security institutions are dismantled and new ones are built. Thus, an increase in violence and crime, especially in the initial period after reconstruction begins, does not by itself demonstrate that the mission is failing”. Incitava quindi a non temere brigantaggi, disordini e violenze, sociali e politiche. Ma suggeriva che tre ordini di misure erano indispensabili. La prima era che “establishing security during the ‘golden hour’ should be the most immediate concern of policymakers after the conclusion of major combat operations. This golden hour is a time frame of several weeks to several months, during which external intervention may enjoy some popular support and international legitimacy, and when potential spoilers may have insufficient time to organize. Key tasks include rapidly deploying international military and police forces, vetting and deploying indigenous police and other security forces, and establishing at least a temporary rule of law. Establishing security is critical in the short run to avert chaos and prevent criminal and insurgent organizations from securing a foothold in society, as well as to facilitate reconstruction in other areas such as health, basic infrastructure, and the economy”. La risposta militare, quindi, era necessaria ma non sufficiente. Il secondo ordine di misure teneva conto che “reconstructing and reforming the police and security forces are not enough to create a secure environment and protect civil liberties. Effective police and internal security forces require a functioning justice system. Arbitrary or politicized sentencing, an incompetent or corrupt judiciary, and inhumane prison conditions quickly undermine the benefits that come from better policing. A weak justice system also increases the prevalence of organized crime and can lead to a spiral of political assassinations, extrajudicial killings, and petty crime”. In ogni caso le scelte fondamentali non avrebbero dovuto limitarsi al campo delle istituzioni dell’ordine. La vera battaglia si sarebbe giocata sui terreni della crescita economica e della stabilizzazione sociale: decisiva sarebbe stata la ripresa dell’economia. Fra gli altri suggerimenti più tecnici3, la Rand proponeva che “Total annual financial assistance should be at Erano consigliati: a. “international troop levels should be at least 1, 000 soldiers per 100, 000 inhabitants and international police levels should be at least 150 police officers per 100, 000 inhabitants, especially when there is the potential for severe instability. These numbers are important for policing streets, defeating and deterring insurgents, patrolling borders, securing roads, and combating organized crime”; b. “After five years, the level of domestic police should be at least 200 police per 100, 000 inhabitants. Police are important for conducting general law enforcement functions such as dealing with petty crime, as well as more specialized functions such as conducting counter-drug operations”; c. è il punto citato nel testo; d. “Security assistance should last for at least five years. Time is critical because it can take several years to train, equip, and mentor police and other security forces, as well as to build and refurbish infrastructure. Justice systems can be extremely difficult and time consuming to build, especially in countries that have little formal rule of law when reconstruction begins”. 3 La storiografia militare sul brigantaggio 177 4 Metteva in guardia dall’ucronia già Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, presentazione di Lucien Febvre, Torino, Einaudi, 1950 (e ediz. seguenti). 5 Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1969; e già prima Id., I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966. R igettava invece una spiegazione sociale del tema (riducendola a “l’ultimo e ricco atto della lunga storia del populismo italiano” e in particolare quello di sinistra per la sua “mitologia assonanza della Calabria e della Basilicata con la Bolivia di Che Guevara”) già Ernesto Galli Della Loggia, Il brigantaggio, in Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1999. Non molto dissimile, al fondo, Eugenio Di Rienzo, Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico, Nocera Superiore, D’Amico, 2020. 6 Per una prima serie di dati cfr. ancora Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1966; ovviamente aggiornandolo con Carmine Pinto, La guerra per il ©UNICOPLI least $250 per capita for the first two years of reconstruction. This amount is critical to pay the high costs of such objectives as deploying military and police forces, training indigenous police and other personnel, providing equipment, and building infrastructure”. Come a dire che, per quanto non mancassero motivi culturali o politici delle possibili insorgenze, quelli sociali ed economici sarebbero stati decisivi tanto nella loro origine quanto nella loro soluzione, che mai avrebbe potuto venire solo manu millitari. Se ci siamo intrattenuti con qualche ampiezza su questo documento non è solo perché è poco noto, né per osservare che forse esso non pare essere stato sufficientemente ascoltato dai leader statunitensi degli ultimi quindici anni. Tantomeno perché crediamo nel valore dell’ucronia, giudicando il passato sulla base delle categorie del presente4: un atteggiamento da cui ci guardiamo bene. È invece per ricordare che problemi di State-building che necessitino l’intervento delle forze militari dopo un conflitto fra Stati non sono solo di oggi ma hanno una lunga storia, come la Rand (dopo non pochi insuccessi statunitensi) aveva capito, non solo religiosa, culturale e politica, ma soprattutto economica e sociale. Se si voleva instaurare law and order, l’ordine economico e sociale aveva un posto di assoluta rilevanza. A pensarci bene, che con le guerre di unificazione nazionale italiana potessero risultare necessarie particolari misure di sicurezza e che potessero nascere complicazioni e insorgenze poteva e può essere considerato quindi normale. Un grande brigantaggio meridionale e la necessaria sua repressione da parte del nascente Stato unitario non devono di per sé stupire5, né devono essere considerate da sole una ragione per affermare che l’Unità nazionale non fosse sentita dalla maggioranza della ristretta comunità politica che allora godeva (e avrebbe goduto) della cittadinanza attiva del nuovo Stato, né che per questo l’azione delle forze nazionali che lo schiacciarono fosse di tipo coloniale, né che la reazione riflettesse una (improbabile) nazione napoletana o duo-siciliana. Il grande brigantaggio meridionale e la sua repressione italiana non sono quindi una sorpresa in sé. Quello che li rese unici dal punto di vista storico-militare furono le loro caratteristiche e la loro dimensione, causate in pari misura dalla forza dell’insorgenza e dalla debolezza della controinsorgenza6. ©UNICOPLI 178 Nicola Labanca D’altronde, se dovessimo ascoltare la Rand, in processi di State-building la forza della controinsorgenza, oltre che il radicamento della sua legittimazione, sta nell’accortezza della sua politica: della sua capacità cioè di avere un progetto politico complessivo, che leghi a sé le elites locali e la popolazione, non solo militarmente ma economicamente e socialmente, e che in pari tempo dissuada altri attori da delegittimare la propria azione. A guardare bene quella che Piero Pieri, in contrasto con l’iniziativa democratica, chiamava la guerra regia e moderata piemontese per l’unificazione7, non aveva operato a tutti i livelli che sarebbero poi stati definiti dalla Rand. Fu la debolezza politica e sociale del nascente nuovo Stato che lo spinse a scegliere come prioritario lo strumento militare, che a quella controinsorgenza non era preparato. Chiamati a offrire una visione storiografica d’assieme alla produzione italiana sulla storia militare del grande brigantaggio meridionale e della sua repressione alle origini della costruzione dello Stato nazionale italiano, intendiamo nelle pagine seguenti 1. suggerire alcuni caratteri comuni alla bibliografia disponibile, 2. scorrere rapidamente le pubblicazioni più significative, 3. indicare schematicamente alcune piste di ricerca che tengano conto appunto del quadro delineato e possano superarlo. Forse proprio operare da un’angolatura particolare, quella storico-militare, può permettere di guardare da una prospettiva diversa alcuni recenti importanti dibattiti. Sempre di recente, l’attenzione degli studiosi è stata attratta dal ripresentarsi di una pubblicistica più o meno approfondita, che ha anche trovato – per le particolari condizioni politiche e sociali odierne del Paese e del Meridione – un proprio spazio. Ma ad un serio livello storiografico, almeno a livello storico-militare, il problema vero non è quello dei neo-borbonici o dei vecchi e nuovi laudatori dei briganti, bensì quello degli studi. Studi storico-militari e processo di unificazione nazionale Una ventina di anni fa, in un intervento che molto ha contribuito a cambiare la percezione storiografica contemporanea del grande brigantaggio postunitario, Salvatore Lupo definiva il volume di Franco Molfese del 1964 un “testo [che] a quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione rimane insuperato per l’ampiezza di documentazione e vigore interpretativo”8. Oggi gli studiosi dispongono anche della sintesi di Carmine Pinto, sulla quale torneremo più avanti, ma è da chiedersi se Lupo muterebbe per questo il giudizio sull’opera di Molfese che, Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Bari-Roma, Laterza, 2019. 7 Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Torino, Einaudi, 1962. 8 Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Walter Barberis (a cura di), Guerra e pace. Storia d’Italia. Annali 18, Torino, Einaudi, 2002. La storiografia militare sul brigantaggio 179 Cesare Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma, Ausonia, 1920 (e rist. 1928). Si noti che la pubblicazione non esce per i tipi dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito ma per una casa editrice privata: evidentemente, nell’istituzione militare, il brigantaggio faceva ancora sensazione mezzo secolo dopo il suo schiacciamento. L’autore aveva già anticipato un avvio di interpretazione in Id., L’esercito italiano nella repressione del brigantaggio 1860-1870, in “Rivista militare italiana”, a. 1917. A l volume di Cesare fece seguito quello di Giuseppe Miozzi, L’arma dei carabinieri reali nella repressione del brigantaggio, (1860-1870), Firenze, Aldo Funghi, 1923, con caratteri analoghi, volume poi ampliato nelle successive edizioni del 1925 e del 1933. 10 Per alcuni caratteri delle Relazioni ufficiali militari di quegli anni Piero Del Negro, Appunti sui combattenti del Risorgimento italiano. I soldati dell’esercito piemontese nelle relazioni dei comandanti e delle commissioni d’inchiesta sulle campagne del 1848-49, in Nicola Labanca, Giorgio Rochat (a cura di), Il soldato, la guerra e il rischio di morire, Milano, Unicopli, 2006. 11 Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, cit. 12 Piero Pieri, Le forze armate nella età della Destra, Milano, Giuffrè, 1962. 13 Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978. 14 Piero Del Negro, Esercito, Stato, Società. Saggi di storia militare, Bologna, Cappelli, 1979. 9 ©UNICOPLI a parte una breve sintesi di Cesare Cesari dei primi anni Venti9, rimane ancora oggi la principale via d’accesso per uno studioso di questioni militari alla storia del brigantaggio. Già da questa primissima osservazione, per cui cioè in un secolo solo tre volumi complessivi siano importanti per lo studio storico-militare del brigantaggio e della sua repressione, emerge il primo dei caratteri di questa letteratura: la scarsità. Purtroppo gli studi storico-militari sul brigantaggio sono infatti pochi e spesso ormai datati. Le storie ufficiali delle guerre d’Unificazione10, quelle basate sulla consultazione dei documenti dell’amministrazione militare e all’epoca quasi sempre redatte da militari, furono scritte per le operazioni regolari: non per quelle irregolari, interne, contro il brigantaggio. In fondo il volumetto del colonnello Cesare Cesari doveva farne le funzioni: ma non ne aveva né la precisione né la documentazione. Nessun paragone è possibile, rispetto a Cesari, con il grande lavoro di sintesi dello storico Piero Pieri11. Le ricerche preparatorie del suo grande volume del 1962, il suo testo e un volume successivo (in realtà un ampio saggio con raccolta di documenti sulla politica militare della Destra storica negli anni Sessanta)12 rimangono il contributo migliore della storiografia storico-militare italiana. Ma si parla, come è evidente dalle date, di opere di ormai più di mezzo secolo fa. Ad esse è immediatamente collegata la ricerca di Franco Molfese, sviluppata negli stessi anni e, per quanto redatta da una prospettiva marxista di storia economica sociale, con non poche consonanze con quella critico-liberale di Pieri. Dopo Pieri, a cercare lavori più originali o documentati, si potrebbero menzionare solo gli spunti contenuti nella sintesi di Giorgio Rochat e Giulio Massobrio (del 1977)13, o nelle ricerche di quegli stessi anni di Piero Del Negro (sulla coscrizione e sul suo rifiuto)14. O, più di recente, lo studio sul 1866 di Hubert ©UNICOPLI 180 Nicola Labanca Heyries (2016)15 e oggi qualche pagina della sua ancor più recente opera di sintesi (2021)16. Lo stesso citato importante volume di Carmine Pinto porta già nel titolo il termine ‘guerra’, a significare che quella combattuta fra il 1860 e il 1870 fu appunto un conflitto armato, interno, all’appena istituito Stato nazionale: e dei nove capitoli in cui si articola ben cinque portano lo stesso termine nel titolo17. Ma, a ben vedere, a livello storico-militare, solo uno (il settimo, La guerra dei combattenti) si occupa davvero di operazioni, e lo fa come può un’opera di sintesi, in una cinquantina di pagine per l’intero decennio. Cosicché, a guardare qui il solo livello storico-militare, pur essendo assai utile per alcune puntualizzazioni e periodizzazioni (come vedremo più avanti). l’apporto originale di Pinto risulta ridotto, proprio per via della sua ambizione di essere un volume di sintesi – di storia culturale, politica e sociale, più che militare. Come primissima considerazione d’approccio, allora, è facile comprendere perché se a distanza di un secolo e mezzo dai fatti, e nel corso di un secolo di pubblicazioni, gli studi davvero rilevanti per intendere il profilo storico-militare della guerra dei briganti e della guerra ai briganti, o della guerra per il Mezzogiorno (Pinto) sono così pochi è legittimo affermare che il primo problema della letteratura storiografica su queste vicende è la scarsità. E questo anche se le pubblicazioni di vario livello sul grande brigantaggio sono, anche a giudicare da recenti tentativi bibliografici, centinaia se non migliaia18. Il fatto è che, per un verso, nonostante le fonti non manchino, gli storici militari italiani non si sono dedicati al tema nella misura che la sua rilevanza avrebbe reso necessario. Per un altro verso (anche per adesso a non occuparsi dell’amplissima pubblicistica locale e dispersa pure disponibile sul tema, e soffermandosi sugli studi), l’altro fatto è che anche i migliori storici che all’argomento si sono dedicati, con interpretazioni pure cangianti nel corso del tempo (dal paradigma ‘criminale’ a quello ‘politico’, da quello ‘sociale’ a quello ‘culturale’), non si sono dedicati alla dimensione storico-militare sia della guerra del brigantaggio sia di quella al brigantaggio. Hanno cioè, legittimamente ma curiosamente – viste le dimensioni del fenomeno e vista la peculiarità della scelta principalmente militare delle elite del nuovo Stato nazionale di risolvere soprattutto manu militari il groviglio sociale, economico e politico che stava all’origine dell’insorgenza sollevatasi in aree del Meridione – studiato il fenomeno della guerra del/al brigantaggio senza la guerra. Talora, ciò è avvenuto anche senza che gli storici leggessero sino in fondo le (pur poche, come abbiamo prima visto) opere degli storici militari. 15 Hubert Heyriès, Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta, Bologna, il Mulino, 2016. Cfr. anche Id., La breccia di Porta Pia 20 settembre 1870, Bologna, Il mulino, 2020. 16 Hubert Heyriès, Histoire de l’armée italienne, Paris, Perrin, 2021. 17 Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, cit. 18 Alcune centinaia sono adesso listate in Rocco Biondi, Storiografia del brigantaggio postunitario, prefazione di Pino Aprile, Milano, Magenes, 2018. La storiografia militare sul brigantaggio 181 Si è insomma riprodotto ancora una volta, per quanto attiene alle prime fasi dello Stato nazionale, quello che pare una regola generale della storiografia italiana19: la pochezza quantitativa degli studi storico-militari, e la loro separazione (non sempre per sola loro responsabilità) dagli studi storici generali. Se così stessero le cose, a questo livello, quello del neo-borbonismo che di recente tanto preoccupa molti osservatori, sarebbe davvero una questione secondaria. L’evoluzione degli studi storico-militari sul brigantaggio 19 Fra le varie rassegne cfr. Giorgio Rochat, Nicola Labanca, L’histoire militaire en Italie. Un cadre général et un cas particulier, in Hubert Heyriès (a cura di), Histoire militaire, études de défense et politiques de sécurité. Des années 1960 à nos jours, Paris-Bruxelles, Institut de stratègie et des conflicts-Commission française d’histoire militaire, Economica, 2012, pp.153-168 ; nonché già Nicola Labanca, La maturità della storia dell’istituzione militare in Italia, in Id., L’istituzione militare in Italia. Politica e società, Milano, Unicopli, 2002, pp. 9-42. Un quadro generale in Id., Sviluppo e cambiamento nella storia militare dalla seconda guerra mondiale ad oggi, in “Revue internationale d’histoire militaire”, a. 2013, n. 91, pp. 11-81, disponibile anche su http://www.icmh.info/assets/userFiles/Ablage/Texte/CIHM-75final.pdf e in inglese su http://www.icmh.info/assets/userFiles/Ablage/Texte/Labanca_Military_History.pdf . ©UNICOPLI Una rassegna dell’evoluzione degli studi e delle pubblicazioni sulla dimensione militare del grande brigantaggio e della sua repressione a ben vedere imporrebbe, come prioritaria, una valutazione dell’evoluzione della pubblicistica più in generale sul brigantaggio, e non solo su questa dimensione. Poiché abbiamo riscontrato – come si vedrà – una notevole variazione degli accenti e delle interpretazioni relativamente alla dimensione militare, ci siamo chiesti se qualcosa di simile avveniva anche per la pubblicistica sul brigantaggio in genere, o invece se era peculiare (o se lo era in quale misura) agli studi e alle pubblicazioni prevalentemente interessate agli aspetti militari. Purtroppo, dati precisi non sono disponibili. Abbiamo quindi costruito la sottostante tabella partendo da due ricerche sulla base dati del Servizio bibliotecario nazionale, la prima chiedendo quanti volumi erano stati pubblicati che contenessero nel titolo la parola ‘brigantaggio’ (e, come forma di controllo, ‘brigante’ e ‘briganti’) e la seconda invece mirante a sapere quanti volumi erano stati pubblicati che contenessero nella descrizione catalografica che li riguardava, in ogni sua parte cioè e non solo nel titolo (il che può voler dire nella descrizione a soggetto, o nella collana editoriale ecc.) di nuovo la parola ‘brigantaggio’ (e, come forma di controllo, ‘brigante’ e ‘briganti’). I risultati di ambedue le ricerche devono ritenersi puramente indicativi: la prima, apparentemente più precisa (ma non del tutto), e la seconda, raffigurante il fenomeno editoriale forse un po’ in eccesso. Per ambedue le ricerche sono stati utilizzati archi cronologici dotati di senso: gli anni in cui il brigantaggio operava e lo Stato centrale cercava di contenerlo ©UNICOPLI 182 Nicola Labanca e di reprimerlo (1860-1870), gli anni della Destra storica e del trasformismo (1871-1886), gli anni dell’Italia liberale prima crispina e poi giolittiana, sino alla sua crisi finale (1887-1921), il ventennio del regime sino alla sua sconfitta finale in guerra (1922-1944), la Repubblica della ricostruzione e del centrismo, sino alla pubblicazione del volume di Franco Molfese (1945-1964), gli anni del centrosinistra (1965-1979), gli anni del pentapartito sino alla fine della Guerra fredda (1980-1989), l’Italia postbipolare sino al Centocinquantesimo dell’Unità (1990-2010), gli anni dal Centocinquantesimo sino ad oggi (2011-2021). Si è inoltre riportato il totale dei volumi indicato dal Servizio bibliotecario nazionale per tutti questi periodi sommati fra loro, ma si è anche calcolato la somma dei dati in tabella (la differenza è data da volumi o spogli di volumi che non riportano una data di edizione precisa). Per dare un senso più evidente, si è calcolato la proporzione fra i volumi editi in ognuno dei periodi sul numero di anni del periodo stesso, di modo da costruire una sorte di indice annuo di volumi pubblicati aventi a tema il brigantaggio. Tale valore percentuale, o indice, è ovviamente solo teorico ma permette di cogliere più immediatamente l’evoluzione quantitativa delle pubblicazioni nei vari periodi. La tabella conferma, con dati quantitativi, l’impressione che avevamo avuto (e di cui parleremo) di periodi nei quali l’attenzione al brigantaggio da parte di vari soggetti e di diversi autori era maggiore ed altri in cui era minore (ad esempio, rispettivamente, durante lo svolgersi dei fatti o nel periodo successivo, che potrebbe dirsi dell’oblio o quanto meno del silenzio). Offre anche spunti per la riflessione: laddove potrebbe sembrare, perché vi si è immersi, che l’attenzione al tema negli anni odierni sia altissima (anche per via di alcune polemiche o discussioni politiche insorte di recente), i dati quantitativi invece sembrano suggerire che l’attenzione odierna (degli anni successivi al 2011) non è poi così lontana da quella in atto negli anni Sessanta-Settanta, ed è certamente molto minore (di circa la metà) rispetto a quello del periodo precedente al 2011. Questo potrebbe anche far pensare che l’opinione pubblica stia cogliendo meno di un tempo le più recenti interpretazione storiografiche, o che vi sia meno interessata. Purtroppo, anche tenuto conto della qualità dei dati, molto più in là è difficile andare. Certo è che – stando ai dati delle pubblicazioni – il Paese ha avuto un’attenzione mutevole nei confronti del tema del brigantaggio, e che è quindi necessario e legittimo identificare queste diverse fasi, che a giudicare dai testi più interessati alla dimensione militare del grande brigantaggio postunitario potrebbero essere sette, come segue. Nonostante la scarsità di buone opere di sintesi e generali, dagli anni della repressione del brigantaggio ad oggi diverse sono state le fasi, e diverse sono state spesso le interpretazioni prevalenti, da cui si è guardato al profilo storico-militare dello scontro. Tab. 1. Quanti libri sui briganti? (1860-2022). Parola del titolo o parola qualsiasi, periodi selezionati, valori assoluti e percentuali (dati del Servizio bibliotecario nazionale) brigantaggio brigante briganti parola qualsiasi brigantaggio brigante briganti 18871921 19221944 19451964 19651979 19801989 19902010 20112021 tot tot tab 120 11 45 29 17 37 117 113 93 39 42 48 53 70 99 153 119 253 184 110 172 365 240 514 164 135 251 1476 971 1898 1224 857 1512 18601870 18711886 18871921 19221944 19451964 19651979 19801989 19902010 20112021 tot tot tab 10,9 1,0 4,1 1,8 1,1 2,3 3,3 3,1 2,6 1,7 1,8 2,1 5,3 7,0 9,9 10,2 7,9 16,9 18,4 11,0 17,2 33,2 21,8 46,7 13,7 11,3 20,9 6,0 11,7 11,7 7,6 5,3 9,3 18601870 18711886 18871921 19221944 19451964 19651979 19801989 19902010 20112021 tot tot tab 147 15 67 35 22 81 149 130 226 48 113 130 64 157 162 220 162 508 240 121 396 304 360 948 209 231 412 1855 1444 3468 1416 1311 2930 18601870 18711886 18871921 19221944 19451964 19651979 19801989 19902010 20112021 tot tot tab 13,4 1,4 6,1 2,2 1,4 5,1 4,1 3,6 6,3 2,1 4,9 5,7 6,4 15,7 16,2 14,7 10,8 33,9 24,0 12,1 39,6 27,6 32,7 86,2 17,4 19,3 34,3 11,5 8,9 21,4 8,7 8,1 18,1 183 brigantaggio brigante briganti 18711886 Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio brigantaggio brigante briganti 18601870 ©UNICOPLI parola del titolo 184 Nicola Labanca ©UNICOPLI A leggere da vicino e nel dettaglio le pubblicazioni uscite in queste diverse fasi, gli spunti sarebbero ovviamente moltissimi, com’è ovvio in più di un secolo e mezzo di pubblicistica, peraltro assai differenziata per territori ed episodi. In questa sede sarà però possibile solo delineare alcuni tratti generali di queste fasi, facendo emergere la dinamica interna dell’evoluzione delle ricerche storico-militari e il loro rapporto con il mutare dei tempi, e non di rado il mutare con essi dell’interpretazione storica generale. Per ognuna delle sette fasi di questa storia della storiografia degli aspetti militari del grande brigantaggio, non comporremo una bibliografia esaustiva ma segnaleremo almeno un’opera rappresentativa. 1. Purtroppo, nel campo degli studi, partiamo subito con un vuoto piuttosto che con un pieno. Non paiono infatti ancora soddisfacenti e sufficienti le conoscenze sulla presenza di formazioni ‘brigantesche’ nelle comunità meridionali pre-unitarie20. Poco affidabili sono infatti tanto le pubblicazioni coeve dell’età ‘duosiciliana’, spesso ottimistiche, così come quelle della successiva Italia liberale unitaria, all’opposto intenzionate a screditare la tramontata realtà borbonica. Non è quindi ancora possibile dire se o quanto esse pesavano già prima dell’Unità: certamente non erano mancate, ma quanto e dove fossero diffuse è ancora oggi difficile dire. Che la dinamica dell’età moderna della società meridionale, e non solo, avesse conosciuto una lunga storia di banditismo/brigantaggio, cioè di ricorso alle armi da parte di soggetti più o meno periferici rispetto alle autorità statuali, non riconosciuti da esse, indipendentemente dalle loro finalità (politiche, sociali, criminali, o tutte assieme), non era aspetto che sfuggiva ai protagonisti delle storie degli antichi Stati italiani. L’organizzazione da parte di questi Stati preunitari di speciali bande di confine e di milizie locali nelle aree di confine o in quelle più decentrate e meno controllate21 pare essere una loro caratteristica di lungo periodo, segnale di una particolare e preoccupata consapevolezza dei loro dirigenti. Quella realtà poté solo essere moltiplicata dalle convulsioni meridionali del periodo rivoluzionario e napoleonico22, quando il tema della centralizzazione dei poteri si fece più forte. Successivamente il disarmo di poteri locali 20 Gherardo Ortalli (a cura di), Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli Stati europei di Antico Regime, atti del convegno di Venezia, 3-5 novembre 1983, Roma, Jouvence, 1986. 21 Erano diffuse in tutti gli Stati preunitari: per il caso toscano, ad esempio, cfr. Nicola Labanca, Le panoplie del granduca, in “Ricerche storiche”, a. XXV (1995), n. 2, pp. 295-364. 22 Anna Maria Rao, Mezzogiorno e rivoluzione. Trent'anni di storiografia, Bari, Dedalo, 1996; Ead. (a cura di), Napoli 1799 fra storia e storiografia. Atti del convegno internazionale, Napoli, 21-24 gennaio 1999, Napoli, Vivarium, 2002; Ead. (a cura di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell'Italia giacobina e napoleonica, Roma, Carocci, 1999; nonché la recente riedizione di Ead., La Repubblica napoletana del 1799, Napoli, FedOAPress, 2021. La storiografia militare sul brigantaggio 185 2. Più numerose, ma ancora in non grande numero, sono le testimonianze edite coeve allo scontro fra meridionali e di una parte di essi con i ‘nazionali’ che va sotto il nome di grande brigantaggio. Si tratta comunque ancora appunto di testimonianze, e di parte, non di studi. Durante gli anni dello scontro, com’è stato studiato, la parte legittimista sviluppò un’enorme attività pubblicistica25, mirante a indebolire la legittimità del nuovo ordine e a sobillarne le componenti interne. I ‘nazionali’ furono costretti ad un maggior silenzio, sia per le impreviste sconfitte che stavano subendo sul campo, sia per la dimensione delle insorgenze (non importa qui discutere se più Insiste a ragione molto su questo punto Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, cit. 24 In generale cfr. Enrico Francia, Le baionette intelligenti. La guardia nazionale nell’Italia liberale (1848-1876), Bologna, Il Mulino, 1999. 25 Cfr. Carmine Pinto, Tempo di guerra. Conflitti, patriottismi e tradizioni politiche nel Mezzogiorno d'Italia (1859-66), in “Meridiana”, a. 2013 n. 76, pp. 57-84. 23 ©UNICOPLI e comunità periferiche divenne centrale, nella prospettiva ‘nazionale’ della trasformazione degli antichi Stati in realtà costituzionali. La parallela trasformazione economica di queste comunità23 creava frizioni fra i gruppi sociali, alcuni dei quali potevano subire l’attrazione del ricorso alle armi per facilitarla o per contrastarla. Lo scontro – a livello locale – di legittimisti e liberali/democratici costituzionalisti facilitava, in Stati repressivi ma ancora deboli quali quelli di antico regime, la militarizzazione di fazioni e gruppi locali. Le polemiche attorno alla istituzione delle ‘Guardie nazionali’24 riflettevano tutte queste complesse contraddizioni sociali, politiche e in ultimi analisi persino militari. Si trattava di processi di lungo periodo, che le trasformazioni sociali legate all’eversione della feudalità e quelle politiche connesse all’avvento di ideologie nazionali e di aneliti costituzionali certamente enfatizzarono. In mancanza però tuttora di studi accurati sull’incidenza di queste trasformazioni politiche e sociali, con ricadute ‘militari’, degli Stati di antico regime è abbastanza difficile determinare in quale misura esse pre-esistevano alla crisi ‘rivoluzionaria’ – anche se di ‘rivoluzione passiva’ – del triennio ‘unitario’ 18591861. A giudicare dalle conoscenze disponibili però sul fronte delle strutture militari e d’ordine del Regno delle due Sicilie, non pare che questo si fosse particolarmente ‘militarizzato’ negli anni precedenti l’Unità: dato che fa dubitare (per adesso) che queste forme di militarizzazione ‘irregolare’ (banditismo-brigantaggio) delle comunità di frontiera o periferiche fossero state particolarmente consistenti, o comunque avvertite come pericolose dal centro monarchico. Il tema non è secondario, per quanto attiene alle origini del grande brigantaggio post-1860: perché se quella militarizzazione ci fu, avrebbero basi più certe le petizioni di principio di una storia ‘lunga’ del brigantaggio stesso, precedente alla crisi rivoluzionaria delle guerre di Unificazione, risalente sino al 1799; se essa non ci fu, o fu fatto minore, o non fu generale, tali tesi sul carattere militare della faziosità della lotta sociale e politica locale ne risulterebbero indebolite. ©UNICOPLI 186 Nicola Labanca sociali o politiche), sia per le ovvie necessità collegate al segreto che doveva avvolgere l’impressionante repressione militare e giudiziaria allora in corso. Tantomeno erano autorizzati a parlare e a scrivere i protagonisti militari regolari. In questo quadro, la pubblicazione nel 1864 – a guerra al brigantaggio ancora in corso – dello “studio storico-politico-statistico-morale-militare” (questo è il sottotitolo, e il fatto che il militare arrivasse per ultimo è segna di buona consapevolezza) di Alessandro Bianco di Saint-Jorioz è uno snodo di sicuro rilievo26. Non stupisce tanto qui, contrariamente a molti critici che vi si sono dilungati, la parte del testo in cui l’autore rivendica come corretto l’operato delle forze militari e sostanzialmente disprezza (o non capisce) molta parte della dinamica politica delle elites locali meridionali: cos’altro ci si sarebbe attesi dal già capo di stato maggiore alla frontiera pontificia con Govone? Pare più interessante osservare invece come questo ufficiale di non alto grado si interrogasse sulla costituzione sociale del tratto di Meridione nel quale aveva operato, sui suoi strati sociali, sull’orientamento politico dei componenti delle elites locali. Non siamo affatto alla storia, peraltro a quel tempo ancora in corso, di un fenomeno nient’affatto concluso. Ma certo le sue pagine permettono uno sguardo su alcuni dei pensieri che circolavano in una parte dell’elite militare piemontese e nazionale allora in teatro di operazioni. La Rand era lontana, ma la consapevolezza che quella lotta terribile – di cui Bianco di Sain-Jorioz celava gli aspetti più brutali – non avrebbe potuto avere una soluzione solo militare pare chiara. 3. Una volta sconfitta l’instabilità sociale e politica che il grande brigantaggio aveva evidenziato e moltiplicato all’interno della nuova compagine nazionale, buona parte dell’Italia liberale preferì dimenticare o tacere. Tacquero i vinti, comprensibilmente, e tacquero i vincitori, consapevoli del rischio corso e del prezzo di sangue pagato da tutti, vincitori e vinti. In particolare si parlò poco del lato militare della guerra dei e ai briganti. Per qualche decennio, sino al nuovo Ventesimo secolo, pochi scrissero. In tal senso sono rivelatrici le pagine di Angiolo De Witt (“già ufficiale dell’esercito italiano”) che vent’anni dopo Bianco di Saint-Jorioz diede alle stampe certe sue memorie, condite da un anche più interessante Riassunto storico del brigantaggio e della politica italiana27. Nella parte memorialistica, l’autore compone una serie bozzettistica di quadri, da cui ovviamente il lettore poteva farsi una certa immagine del sud del tempo. Un ventennio più tardi, tutto era più angelicato e composto, per non dire deamicisiano. Era, come si diceva, il tempo dell’oblio anche quando si ricordava. A questo faceva però da contrappeso il breve ma denso Riassunto. In esso, sia pur senza tanta enfasi, De Witt spiegava come l’Italia si era Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Studio storico, politico, statistico, morale, militare, Milano, Daelli, 1864. 27 Angiolo De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, Firenze, Coppini, 1884. 26 La storiografia militare sul brigantaggio 187 28 Strategie mnestiche fatte emergere, fra gli altri, da Marco Bettalli, Nicola Labanca (a cura di), Ricordare la guerra. Memorialistica e conflitti armati dall’antichità ad oggi, Roma, Carocci, 2016. 29 Angiolo De Witt, Storia politico-militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, cit. ©UNICOPLI fatta indipendente ed unita, fra il favore delle potenze internazionali e la spinta dell’azione garibaldina e democratica (“penna umana non potrebbe scrivere più epica leggenda di Garibaldi coi suoi milleduecento guerrieri”). Parlando del Meridione, tendeva ad incolpare il “tiranno” (“coadiuvato dall’infima ignoranza delle infime classi dei suoi sudditi”) di aver corrotto le plebi e Roma papale di aver cercato di sobillarle. Non sfuggiva a De Witt l’enjeu internazionale, e non solo o tanto interno, del brigantaggio: “I reazionari di tutto il mondo capivano bene che sinché l’Italia meridionale era infestata da numerose bande di briganti e da molti reazionari, le grandi potenze di Europa non trovassero giusto il riconoscerla, per la ragione che, brigantaggio, reazione e partigianeria persistenti, il movimento italiano appariva come artificiale ed i suoi principi siccome spodestati non dalla maggioranza e dal voler dei sudditi ma da una audace e fortunata demagogia, che si sarebbe imposta all’intiera nazione sotto l’usbergo e la protezione del Piemonte e della Francia”. Per tale causa politica, faceva capire De Witt, il movimento liberale doveva schiacciare il brigantaggio. Nel far questo il profilo militare sarebbe stato decisivo. L’ex ufficiale lo prendeva a prova dell’onore bellico nazionale. In frasi che sarebbero piaciute ad Alberto Maria Banti, secondo lui sarebbe stato il rinvigorimento militare, in particolare dopo la ‘vittoriosa’ guerra del 1866, a chiudere ogni speranza ai legittimisti e ai briganti: “l’ultima spinta che induceva gli ormai lassi e perseguitati briganti a sottoporsi, con spontanea presentazione, alle leggi punitive dei nostri codici criminali”. L’onore militare nazionale, generosamente, De Witt lo riconosceva persino agli ultimi briganti che, “sebbene ridotti allo stremo, vollero morire combattendo, piuttosto che sottomettersi ai rigori della giustizia punitiva di un governo, da loro mai riconosciuto. Ciò sta a dimostrare che gli italiani, ancora quando seguono le orme del delitto, mantengono sempre una certa fermezza di propositi, non comune in altri popoli”. Non c’era solo l’antico uso del combattente che, per gloriarsi, eleva la fermezza militare del proprio nemico28, né c’era solo l’avvio di un’età crispina, pronta a esaltare la forza militare nazionale. “Vengano adesso a dirci i cimbri, i teutoni, gli slavi, ed i boemi, che gli italiani sono poco o punto valorosi: vengano a calunniarci le nostre più spiccate personalità politiche e militari, e vedranno che l’universo intiero sarà là per così risponder loro: ‘Bugiardi! La stirpe di Mario non è del tutto spenta!”29. Era che la guerra ai briganti (e, persino, quella dei briganti), già solo vent’anni dopo che era iniziata, e dieci anni dopo che era finita, o era taciuta o poteva essere ormai trasfigurata in oleografia, come già si faceva con i quattro padri della patria – Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, e Garibaldi 188 Nicola Labanca ©UNICOPLI – ora allineati in un monte Richmond patriottico che ai quattro, al loro tempo divisi da aspre battaglie politiche, sarebbe sembrato impossibile immaginare. 4. Per un recupero più propriamente storico delle vicende militari meridionali del 1860-1870 sarebbe stato necessario altro tempo. Com’è noto, fu proprio all’inizio degli anni Venti che apparvero le prime ricostruzioni più affidabili, per quanto non meno parziali. Nel 1922 Antonio Lucarelli dava alle stampe Il sergente Romano. Brigantaggio politico in Puglia dopo il 186030 mentre due anni prima Cesare Cesari aveva pubblicato Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 187031. La ricerca di Lucarelli, sin dal titolo, si concentrava sull’aspetto politico dello scontro tra legittimisti e nazionali. Cesari invece ripercorreva i combattimenti e studiava i corpi regolari che il brigantaggio avevano combattuto. Dalle sue pagine mancavano ormai le riflessioni sociali e politiche di Bianco di Saint-Jorioz così come i riconoscimenti bellici ai briganti di De Witt: il brigantaggio era ormai un tema di storia militare tradizionale, in cui un ufficiale ricostruiva i fatti d’arme e glorificava le istituzioni regolari che li avevano ingaggiati. Dopo la fase del silenzio rotto solo da qualche coraggiosa pubblicazione e dopo la fase dell’oblio, che si mescolava a qualche ricostruzione mitizzante, la storia militare si era ormai professionalizzata. Era una narrazione del fatto militare che, per la prima volta, si evolveva dalla testimonianza alla ricerca sui documenti. Era però anche una storia militare ‘normalizzata’, da cui spariva la soggettività del brigante e della società che lo aveva appoggiato. Cesari aveva condotto una ampia ricerca sulla documentazione dell’archivio storico dello stato maggiore dell’esercito, al quale era addetto, con un certo distacco dovuto anche al fatto di essere nato quando tutto era finito (1870). Ma, com’era normale al suo tempo – salvo inconsuete eccezioni – la sua finiva per essere una storia militare solo istituzionale e interna: a Cesari interessava precisare la guerra ai briganti, mentre scompariva la guerra dei briganti. C’era un indubbio perfezionamento metodologico, anche in quella che era comunque una ‘storia di ufficio’, ma si cristallizzava anche un suo impoverimento tematico. Finalmente il lettore sapeva quanti e quali erano stati i reparti coinvolti, e – se già non lo sapeva – si rendeva conto che si era trattato di un impegno militare non secondo a quello di una guerra esterna, immobilizzando per anni fra la metà e un terzo della compagine militare del nuovo Stato nazionale. Ma perdeva completamente di vista le ragioni dell’avversario, né capiva più se le sue basi di forza erano politiche o sociali, e quanto forte era stato. Era una storia militare finalmente professionale, ma purtroppo solo tecnica. Antonio Lucarelli, Il sergente Romano. Notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese del 1860, Bari, Soc. tip. pugliese, 1922. Cfr. poi Id., Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860. Il sergente Romano, Bari, Laterza, 1946; e Id., Risorgimento, brigantaggio e questione meridionale, a cura di V.A. Leuzzi e A. Esposito, Bari, Palomar, 2010. 31 Cesare Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, cit. 30 La storiografia militare sul brigantaggio 189 32 33 Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, cit. Piero Pieri, Le forze armate nella età della Destra, cit. ©UNICOPLI 5. Lo studio degli aspetti militari del brigantaggio conobbe, dopo quello che poteva sembrare un avvio, una lunga stasi. Ciò avvenne per ragioni anche apparentemente opposte. Per un verso, dopo il 1922, in Italia lo sviluppo della ricerca storico-militare, che conobbe invece in altri Paesi d’Europa importanti evoluzioni, non poteva non essere condizionato dalle esigenze del regime fascista. E la dittatura non pareva il periodo migliore per studiare le insorgenze meridionali o la repressione del brigantaggio, tutti temi che avrebbero avuto eco preoccupanti per il regime. D’altronde, per un altro verso, quando dopo una sanguinosa guerra di Liberazione che ebbe inevitabilmente anche aspetti di guerra civile l’Italia archiviò il fascismo storico e visse la sua prima democrazia, lo studio della storia militare non incontrò molti sostenitori. Inoltre, di per sé, il grande brigantaggio meridionale rimaneva argomento controverso, che la storiografia liberale di matrice crociana, impegnata a riaffermare i valori dell’Italia liberale contro la ‘parentesi’ fascista, affrontava con molte difficoltà e che la storiografia di matrice cattolica studiava poco volentieri (visto che richiamava l’azione del Papato destabilizzatrice dello Stato liberale e del suo iniziale sostegno alle mene legittimistiche borboniche). Più pronta a cercare di capire le origini del brigantaggio, nei suoi aspetti di moto contadino, sarebbe stata la storiografia di matrice marxista e radicale, peraltro anch’essa in imbarazzo nel dover spiegare come l’egemonia di un moto di massa potesse essere stato preso da correnti reazionarie. A tutto questo, per gli aspetti storico-militari, si dovrebbe aggiungere che anche per la storia ufficiale degli Uffici storici di forza armata – nel dopoguerra votati a studiare le ragioni della sconfitta nella seconda guerra mondiale e massimamente impegnati con non poche difficoltà nel costruire un’immagine di istituzioni militari lontane dal fascismo e vicine al Paese – non pareva davvero il momento di riesumare le questioni della guerra ai meridionali combattuta nel primo decennio dopo l’Unità. Alcuni di questi imbarazzi possono essere letti in tutta la loro chiarezza persino nella maggiore, e monumentale, opera del maggiore degli storici militari italiani del tempo, la Storia militare del Risorgimento (1962) di Piero Pieri32. Nelle più di 850 pagine dedicate ai decenni fra la fine del Settecento e la guerra del 1866, non c’è né un capitolo né un paragrafo sul brigantaggio. Lo storico liberale democratico, che dalla sua fondazione collaborava con l’Istituto storico per la storia del Movimento di Liberazione in Italia di Ferruccio Parri, e quindi attraverso di esso con le componenti più democratiche del Paese e della storiografia italiana, trovò evidentemente difficile inserire nella sua opera la nascita e la repressione del brigantaggio contro lo Stato nazionale. È vero che qualcosa ne disse in un altro suo studio minore, edito nello stesso anno, Le forze armate nella età della Destra (1962)33, uscita nella serie L’organizzazione dello Stato. Collana di studi e testi nel centenario dell’Unità, diretta da Alberto M. ©UNICOPLI 190 Nicola Labanca Ghisalberti e coordinata da Alberto Caracciolo: ma anche qui non c’era molto. Ovviamente non era censura. Pieri era storico troppo attento ed esperto per non depositare nella Storia militare del Risorgimento importanti accenni interpretativi e richiami espliciti a quanto avvenne nel Meridione dopo l’Unità. Ma il tema conduttore del suo scritto era la critica politica della soluzione moderata data al Risorgimento italiano e la valorizzazione della corrente democratica e garibaldina, con la conseguente devalorizzazione del peso delle correnti reazionarie: non era lo scontro di classe fra popolo ed elite, fra contadini e borghesi. Si leggevano nelle sue pagine – e non era cosa da poco, in quegli anni, successivi alla grande discussione fra Romeo e Sereni – critiche di tipo gramsciano alla classe dirigente liberale moderata, apprezzata per la guida del movimento nazionale ma accusata di essere restia a fare sino in fondo la rivoluzione sociale e di dare la terra ai contadini. Ma, al di là degli accenni, Pieri non sviluppava la sua analisi del profilo sociale del brigantaggio e tantomeno di quello sociale della sua repressione: per lui le plebi meridionali erano rimaste quelle che avevano soffocato il tentativo di Pisacane, i reazionari erano incapaci di una vera tattica militare, e comunque il suo studio era dedicato alle forze militari regolari (al massimo garibaldine) e alle loro guerre, non alle azioni disordinate di bande di briganti, e tantomeno alle sanguinose repressioni da parte dell’esercito di un’Italia liberale appena formatasi. Dai pochi accenni e dagli evidenti molti imbarazzi del maggiore storico militare del tempo si capirà perché – in quegli stessi anni – la storia militare del brigantaggio e della sua repressione fu scritta, a suo modo, da Franco Molfese (1916-2001) che, a parte essere il vicedirettore della biblioteca della Camera dei deputati, poteva dirsi uno storico della politica e della società, ma non della guerra. Non possiamo qui soffermarci sulle molte qualità della sua Storia del brigantaggio dopo l’Unità (1964)34 né in generale né per quanto qui più ci concerne da vicino, la storia militare di un’insorgenza e della sua repressione. La lettura recente, non poco critica, del volume di Molfese ha insistito sull’approccio marxista, sulla lettura sociale del brigantaggio, sul ‘paradigma demaniale’35 ecc. Non sempre però si è riflettuto a sufficienza sul salto di qualità che la sua opera rappresentò rispetto ai tempi suoi, quando fu edita: indipendentemente dall’interpretazione, accettare invece con equilibrio questo giudizio di un testo che pare sia stato ristampato per vent’anni – poiché non aveva avuto nel frattempo rivali – dimostra tanto la vigoria e la qualità del libro di Molfese quanto la debolezza della ricerca italiana sul tema del brigantaggio. Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, cit. Si noti che l’autore aveva già pubblicato ampie anticipazioni del volume dal 1959 in avanti: Id., Il brigantaggio meridionale postunitario, in “Studi Storici”, a. 1 (1959-60) n. 5, pp. 944-1007 e a. 2 (1961) n. 2, pp. 298362. 35 Alessandro Capone, Il brigantaggio meridionale. Una rassegna storiografica, in “Le carte e la storia”, a. 2015 n. 2. 34 La storiografia militare sul brigantaggio 191 Quanto rimane dell’archivio della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio della Camera dei deputati, operante fra novembre 1862 e luglio 1863, viste le ampie dispersioni (originale della Relazione Massari inclusa) è adesso riscontrabile in https://archivio.camera.it/ inventari/struttura/commissione-d-inchiesta-sul-brigantaggio-1862-novembre-29-1863-luglio-23 . 37 Si veda sul punto, in questo volume, il contributo di Carlo Spagnolo. 36 ©UNICOPLI Per quanto concerne la dimensione storico-militare, la Storia del brigantaggio dopo l’Unità non era certamente esaustivo e non sostituiva una storia che avrebbe dovuto essere scritta (come pare ancora da scrivere). Ma, sulla base della ricchezza della documentazione raccolta, a partire dai carteggi per la ‘Relazione Massari’36, il volume offriva sia un’analisi cronologicamente differenziata del decennio del grande brigantaggio, sia una sua lettura geograficamente articolata, sia una affidabile rappresentazione dello scontro fra le posizioni politiche in gioco a livello centrale. Anche dal punto di vista della storia militare Molfese sapeva combinare una lettura rispettosa e non prevenuta della guerra dei briganti con una critica delle maggiori scelte della guerra ai briganti, delle decisioni dei grandi comandi e della loro evoluzione. Questa visione, diciamo, dal centro e dall’alto (che pure era allora fondamentale superando finalmente le apologie di Cesari), era accompagnata da Molfese con una quantità di spunti sia circa la composizione sociale delle bande, il loro rapporto con gli esponenti del ceto politico locale meridionale, e la loro condotta bellica sul territorio sia circa le operazioni di repressione portate avanti dalle truppe regolari nazionali, e in qualche parte dalle formazioni locali di sostegno come la Guardia nazionale. Certo, l’interpretazione generale di fondo che sorreggeva tutti questi spunti rimaneva la lotta politica soprattutto fra reazionari e nazionali, e in subordine fra liberali e democratici: una lotta politica rappresentata ruotante attorno alla questione ‘gramsciana’ della redistribuzione delle terre. Carlo Spagnolo, nel suo intervento al convegno di studi da cui questa pubblicazione prende le mosse, ha giustamente inquadrato questa interpretazione nei tempi politici e storiografici suoi, quelli dell’indomani delle grandi lotte contadine del 1943-1950 e dello scontro politico attorno alla ‘conventio ad excludendum’, nonché dei grandi dibattiti storiografici attorno alla discussione Romeo-Sereni37. È evidente che oggi non pochi di tali punti di riferimento siano superati e che la lezione sociale delle ragioni del grande brigantaggio, e ancor più quella prospettiva centrale adottata da Molfese possono essere considerati – prima che superati – non più esaustivi. Per dichiararli esauriti però ce ne vorrebbe almeno un altro altrettanto convincente e complessivo. Nel frattempo, mentre nel ventennio successivo la ricerca concreta storico-militare italiana sull’Unificazione e sul brigantaggio aggiungeva dettagli conoscitivi ma non produceva letture interpretative altrettanto potenti dei loro due volumi, i lavori di Pieri e Molfese avrebbero influenzato radicalmente quelli, anche assai importanti, successivi. È evidente che c’erano molto Pieri e molto Molfese nelle pagine dedicate al decennio 1860-1870 dalla Breve storia dell’e- ©UNICOPLI 192 Nicola Labanca sercito italiano (1977) di Giorgio Rochat e Giulio Massobrio38 (un’opera di sintesi che, assieme a quella firmata da Lucio Ceva nel 198139, avrebbe influenzato per decenni la ricerca storico-militare italiana) o dalle ricerche dedicate alla storia politica e sociale della coscrizione obbligatoria sotto l’Italia liberale di Piero Del Negro (1978)40. Col passare del tempo, nuove sensibilità storiografiche e nuovi temi si sarebbero aggiunti, a partire – dagli anni Novanta – da quelli sulla guerra civile. Non molti anni fa (2011) anche Fortunato Minniti raccontava la storia militare italiana di quel decennio come quella di un “esercito strumento di una guerra ingloriosa, combattuta sia contro soldati ormai senza uniforme, sia contro civili in armi (donne comprese, a volte) e i loro fiancheggiatori (“manutengoli” è la definizione dell’epoca), nonché contro intere comunità ritenute complici dei briganti”41: vi era evidente l’eco delle tematiche della ‘guerra ai civili’, importate dalla storiografia dedicata ad altri periodi storici e dalle discussioni pubblicistiche del presente, ma l’ossatura dell’interpretazione rimaneva ancora quella di Pieri e Molfese. 6. Talora, volumi fortunati hanno il pregio di durare nel tempo, ora guidando l’interpretazione ora inibendo o frenando altre ricerche. Ciò avviene soprattutto quando il campo di studi è alimentato da un numero ristretto di energie e di professionalità riconosciute. Proprio la esiguità di risorse umane, in sé e rispetto a quanto avveniva in altri Paesi europei, ha condizionato negli anni lo sviluppo della ricerca storico-militare in Italia. Ciò non ha impedito la sua maturazione e la produzione di singole ottime monografie, di livello internazionale. Ma molti campi di ricerca non sono stati arati come avrebbero meritato e come si sarebbe dovuto per via dello scarso numero di esperti. La fortuna dei due testi di Pieri e Molfese della prima metà degli anni Sessanta ebbe proprio questi effetti. Per decenni i pochi storici militari accademici della Penisola si sono dedicati ad altro: la storia dell’Italia liberale, le due guerre mondiali, il fascismo. A cavallo fra storia degli antichi Stati e storia dell’Italia unita, fra storia moderna e storia contemporanea, il periodo dell’Unificazione – bisogna ammetterlo – è stato di conseguenza piuttosto trascurato. Intendiamoci: le ricerche non sono mancate, e alla fine esse hanno contribuito ad uno straordinario rinnovamento del campo di studi (anche seguendo le correnti culturali e storiografiche del momento). Ma non hanno depositato studi complessivi, o monografie su casi specifici in grado di imprimere un mutamento di sguardo e di interpretazione generale. 38 Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, cit. Cfr. anche Daniela Adorni, Il brigantaggio, in Storia d’Italia. Annali. La criminalità, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1997, pp. 281-319. 39 Lucio Ceva, Le forze armate, Torino, Utet, 1981. 40 Piero Del Negro, Esercito, Stato, Società. Saggi di storia militare, cit. 41 Fortunato Minniti, Le forze armate, in Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto (a cura di), L’unificazione italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana Treccani, 2011. La storiografia militare sul brigantaggio 193 Schematizzando moltissimo, potremmo affermare che dagli anni Ottanta almeno tre filiere di studi hanno modificato il quadro delle conoscenze storico-militari sul tema del grande brigantaggio: le ricerche locali, l’evoluzione degli studi sugli antichi Stati con nuove ricerche di storia ‘risorgimentale’, certe nuove attenzioni più ‘tecniche’. Prima in ordine di tempo e in quantità delle tre filiere, la pubblicistica sul brigantaggio ha conosciuto una grande moltiplicazione di ricerche e indagini locali, che ha ampliato enormemente le conoscenze di dettaglio e ha contribuito ad evidenziare la differenziazione dei territori42. Per molti versi, gli studi di Tommaso Pedio43, Raffaele Colapietra44 o Alfonso Scirocco45 hanno rappresen- ©UNICOPLI 42 Convenzionalmente, si pensa all’incontro di studi e alla mostra mostra Brigantaggio, lealismo, repressione nel Mezzogiorno (1860-1870), Napoli, Macchiaroli, 1984, come spartiacque. 43 Ampia la sua produzione sul tema, a partire da Tommaso Pedio, Saggio bibliografico sulla Basilicata. Dalle origini del Risorgimento alla repressione del brigantaggio 1700-1870, Potenza, Dizionario dei patrioti lucani, 1961; a Id., Reazione alla politica piemontese ed origine del brigantaggio in Basilicata (1860-61), Potenza, La Nuova Libreria di Vito Riviello, 1961; Id., Reazione e brigantaggio in Basilicata, in “Archivio storico per le province napoletane”, a. 1983; per culminare in Id., Brigantaggio e questione meridionale, a cura e con introduzione di Mauro Spagnoletti, Bari, Levante, 1979; e (si noti la cronologia) Id., Brigantaggio meridionale, 1806-1863, Cavallino, Capone, 1987. Pedio (1917-2000) aveva anche curato l’edizione di fonti come Carmine Crocco, Come divenni brigante, e José Borjès, La mia vita tra i briganti, ambedue per Manduria, Lacaita, 1964; e Inchiesta Massari sul brigantaggio. Relazioni Massari-Castagnola, lettere e scritti di Aurelio Saffi, osservazioni di Pietro Rosano, critica della Civiltà Cattolica, Manduria, Lacaita, 1983. 44 Al di là di tanti spunti dispersi in una sterminata produzione cfr. almeno Raffaele Colapietra, Il brigantaggio postunitario in Abruzzo, Molise e Capitanata. Nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario, in “Archivio storico per le province napoletane”, a. 101 (1983), p. 287-309; e Id. con altri (a cura di), Benedetto Croce ed il brigantaggio meridionale. Un difficile rapporto, L’Aquila, Colacchi, 2005. Vari gli spunti anche nelle più brevi presentazioni, come a Tommaso La Cecilia, A caccia di briganti in terra di Puglia, a cura di Tommaso Nardella, con un saggio di Raffaele Colapietra, prefazione di Leonardo Sciascia,Manduria, Lacaita, 1985 (Quaderni del Sud); o Giuseppe Clemente (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe, 1861-1864, presentazione di Raffaele Colapietra, Roma, Archivio Guido Izzi, 1999 (Istituto per la storia del Risorgimento italiano, serie Fonti) 45 È noto il saggio di Alfonso Scirocco, Il brigantaggio meridionale post-unitario nella storiografia dell’ultimo ventennio, in “Archivio storico per le province napoletane”, a. 101 (1983), pp. 17-32; e Id., Il giudizio sul brigantaggio meridionale postunitario. Dallo scontro politico alla riflessione storica, introduzione alla Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1999. Ma cfr. anche Id., Briganti e società nell’Ottocento. Il caso Calabria, Cavallino, Capone, 1991. Cfr. poi un’ampia serie di interventi fra cui Id., Fenomeni di persistenza del ribellismo contadino. Il brigantaggio in Calabria prima dell’Unità, in “Archivio storico per le province napoletane”, a. 99 (1981), pp. 245-279; Id., Il brigantaggio post-unitario nella stampa italiana contemporanea 1861-1865, in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, a. 1975, pp. 138-156; Id., Briganti e potere nell’ottocento in Italia. I modi della repressione, in ivi, a. 48 (1981), pp. 79-97; Id., Briganti e potere nell’ottocento in Italia. I modi della repressione, Rieti, Il Velino, 1985; Id., Il brigantaggio meridionale nel Decennio e la repressione di ©UNICOPLI 194 Nicola Labanca tato il versante migliore degli studi, diciamo, post-Molfese. Ma numerosissime, per quanto non sempre storiograficamente controllate, sono state le pubblicazioni locali su vicende locali che sono state condotte e che andrebbero sistematizzate e non disprezzate, persino quando venate da tendenze nostalgicamente filo-borboniche (a condizione, ovviamente, che si tratti di ricerche vere e non di contraffazione di documenti e di recuperi selettivi di studi altrui). Certamente, a tutti piacerebbe confrontarsi solo con le magnifiche ricerche e con le finezze interpretative di studiosi o studiose eccellenti come Renata De Lorenzo46 e Anna Maria Rao47. Purtroppo non è così e gli scaffali negli ultimi quattro decenni si sono piegati sotto il peso di libri e libretti sul brigantaggio di questa o quella zona. Eppure, leggendole, anche pubblicazioni minori locali possono essere produttive (è quanto, meritoriamente, ha fatto poi Carmine Pinto). Parallelamente a questa prima filiera, quantitativa, si sviluppava una seconda, di notevole qualità storiografica. Sullo studio del Mezzogiorno a cavallo dell’Unità, già negli anni Ottanta, si assisteva ad una riscrittura aggiornata in chiave economico-sociale e politica delle vicende degli antichi Stati. Inoltre, soprattutto a partire dagli anni Novanta, prendeva avvio una radicale revisione di vecchi miti della tradizione storiografica risorgimentalista (“un campo di studi che pareva ormai obsoleto e dileggiato”, chiosava a ragione Enrico Francia48). Si sono così moltiplicati opere per cui “la storia dell’Ottocento italiano non doveva essere ricostruita in funzione dell’unificazione politica, ma piuttosto in relazione a fenomeni di più lungo periodo come la modernizzazione socioeconomica, la trasformazione delle elites, la formazione dello stato moderno” e soprattutto la Manhes, Della Capitanata e del Mezzogiorno, studi per Pasquale Soccio, Manduria, Lacaita, 1987, pp. 153-164; Id., Tra brigantaggio politico e banditismo nel 1815 nel Mezzogiorno, in Per la storia del Mezzogiorno medievale e moderno. Studi in memoria di Jole Mazzoleni, vol. II, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1998, pp. 859-875. 46 Riferimenti utili per i temi di queste pagine ad esempio in Anna Maria Rao, Esercito e società a Napoli nelle riforme del secondo Settecento, Pisa, Giardini, 1988; Ead., Il problema della violenza popolare in Italia nell’età rivoluzionaria, in Haim Burstin (a cura di), Rivoluzione francese. La forza delle idee e la forza delle cose, Milano, Guerini e Associati, 1990; Anna Maria Rao (a cura di), Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, Bari, Dedalo, 1998.Ead. (a cura di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, Roma, Carocci, 1999. 47 Riferimenti diretti e indiretti ai temi di queste pagine in Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, premessa di Alessandro Barbero, Roma, Salerno, 2013; ma anche in Ead., Murat, Roma, Salerno, 2011; Ead., Un regno in bilico. Uomini, eventi e luoghi nel Mezzogiorno preunitario, Roma, Carocci, 2001; Ead., Proprietà fondiaria e fisco nel Mezzogiorno. La riforma della tassazione nel decennio francese, Salerno, Centro studi per il Cilento e il Vallo di Diano, 1984. Ed anche in Ead., Memorialistica militare e risorgimento. Mariano D’Ayala e Giuseppe Ferrarelli, in “Archivio storico per le province napoletane”, a. 122 (2004), pp. 441-480. 48 Enrico Francia, Il Risorgimento in armi. Guerra eserciti e immaginari militari, Milano, Unicopli, 2012. Ma cfr. anche Id. 1848 la rivoluzione del Risorgimento, Bologna, Il mulino, 2012. La storiografia militare sul brigantaggio 195 Marco Meriggi, Gli stati italiani prima dell’unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il mulino, 2002. E ora il recentissimo Id., La nazione populista. Il Mezzogiorno e i Borboni dal 1848 all’Unità, Bologna, Il mulino, 2021. 50 A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino,Einaudi, 2000; Id., Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004; Id., L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal 18. secolo alla grande guerra, Torino, Einaudi, 2005. 51 Alberto Mario Banti, Paul Ginsborg (a cura di), Il Risorgimento, in Storia d’Italia. Annali, Torino, Einaudi, 2007. 52 A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011. 53 Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1997. 54 Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, cit. 49 ©UNICOPLI trasformazione degli immaginari e delle culture. Gli studi di Marco Meriggi49, di Alberto Maria Banti50, quelli contenuti nell’Annale risorgimentale della Storia d’Italia Einaudi (2002)51, sino alle ultime radicalizzate sintesi dello stesso Banti (Sublime madre nostra, 2011)52 con caratteri già colti per tempo da una introduzione storiografica di Lucy Riall (1997)53, hanno rappresentato certamente una straordinaria innovazione, anche quando si sono dedicate prevalentemente al solo aspetto delle culture diffuse e degli immaginari. Per la verità, rispetto al nostro tema, e cioè relativamente al brigantaggio e all’interagire in esso di guerre regolari e guerre irregolari, esse si sono applicate poco al tema, limitandosi ad uno ‘smontaggio’ di precedenti letture piuttosto che alla pratica di vere e proprie ricerche che sorreggessero la lettura nuova proposta, In ogni caso il loro influsso generale è stato di prim’ordine. Per certi versi le riflessioni di Salvatore Lupo sul processo di unificazione anche come ‘guerra civile’54 si presentano come la riflessione migliore, ancorché passibile di discussione, di questa filiera di studi. L’ultima filiera, che troppo sfugge a chi non pratica le ricerche e gli studi storico-militari, i quali risentono non solo degli sviluppi storiografici generali ma anche delle concrete esigenze delle forze armate, è infine quella di una certa rivalutazione tecnica dell’operato dei reparti regolari nella guerra ai briganti. Si tratta di un campo ovviamente più delimitato e con una produzione quantitativamente più ristretta delle altre due filiere, ma che pure ha prodotto alcuni risultati di rilievo e che in ogni caso in questa sede non può essere trascurata. Le origini di questa tradizione pubblicistica sono lontane nel tempo. Certamente la vecchia inclinazione apologetica della storia militare degli Uffici storici di forza armata nei confronti dell’operato delle istituzioni militari non è qui ininfluente. Sui problemi e sui limiti di quell’inclinazione storici militari indipendenti come Piero Pieri e Giorgio Rochat avevano molto insistito: ma va riconosciuto alla migliore di essa il raffronto con le fonti e una conoscenza dettagliata dell’operare delle istituzioni militari in combattimento. In questo campo, forse la più notevole pubblicazione di questa terza filiera (in assenza peraltro di una storia ufficiale della campagna meridionale che evidentemente ancora imbarazza) rimane Il brigantaggio nelle provincie meridionali dopo l’unita d’Italia, 1861-1870 ©UNICOPLI 196 Nicola Labanca (1982) del generale Luigi Tuccari55 che seppe comporre una buona dose di dati con una lettura d’assieme, ovviamente favorevole alla memoria dell’esercito. Già più critiche, e disposte ad accogliere elementi della lezione di Pieri, Rochat e Del Negro, furono le letture di altri autori militari, come Oreste Bovio con la sua Storia dell’esercito italiano 1861-1990 di (1996)56 e soprattutto come Ferruccio Botti con le sue ricerche sulla Logistica dell’esercito italiano, vol. II, I servizi dalla nascita dell’esercito italiano alla prima guerra mondiale, 1861-1918 (1991)57 e Mario Montanari con il suo primo volume di Politica e strategia in cento anni di guerre italiane dedicato a Il periodo risorgimentale (1996)58, che riprende tratti già visti nella pubblicistica militare, rispettando i risultati delle formazioni di briganti. Ma tanto Montanari (nato nel 1919) quanto Botti, Bovio e Tuccari, un poco più giovani, erano comunque alti ufficiali di una generazione la cui riflessione faceva ancora perno sulle vicende della seconda guerra mondiale. Negli anni Novanta e soprattutto Duemila, se non proprio nell’ultimo decennio, nel campo della pubblicistica storico-militare un’altra generazione stava avanzando. Ormai, a differenza dei generali sopra menzionati, le istituzioni militari contemporanee avevano peraltro ben altri problemi che il 1940-1943 con le sue campagne di Grecia o di Russia, d’Africa settentrionale o l’8 settembre, che pure ancora al tempo della Guerra fredda potevano avere un qualche uso. Al tempo delle guerre asimmetriche e della proiezione cinetica della forza militare dell’età postbipolare, nelle Accademie militari occidentali le grandi campagne degli enormi eserciti di metà Novecento interessavano sempre meno: si tornava invece a studiare, del passato militare, le guerre coloniali e – ecco il punto di nostro interesse – le campagne di controinsorgenza (interne o meno) delle potenze otto-novecentesche. D’altronde dopo le amare lezioni degli interventi nei Balcani e in Somalia, in Afghanistan e in Iraq degli anni Novanta-Duemila, quando vincere un conflitto non sembrava facile e istaurare un ordinato postconflitto e istituzioni statuali legittimate pareva quasi impossibile, gli intellettuali militari di tutto l’Occidente andavano a cercare di trarre lezioni dalle esperienze delle small wars, delle guerre di guerriglia e dell’antica funzione di stabilizzazione interna delle forze armate del passato. 55 Luigi Tuccari, Il brigantaggio nelle provincie meridionali dopo l’unita d’Italia, 18611870, Lecce, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Comitato di Lecce (Centro socio-culturale S. Ammirato del Comune di Lecce), 1982. 56 Oreste Bovio, Storia dell’esercito italiano, 1861–1990, Roma, Stato maggiore dell’esercito, Ufficio storico, 1996. 57 Ferruccio Botti, La logistica dell’esercito italiano, 1831-1981, vol. II, I servizi dalla nascita dell’esercito italiano alla prima guerra mondiale, 1861-1918, Roma, Stato maggiore dell’esercito, Ufficio storico, 1991. 58 Mario Montanari, Politica e strategia in cento anni di guerre italiane, vol. I, Il periodo risorgimentale, e vol. II, Il periodo liberale, 2 tt., Roma, Stato maggiore esercito, Ufficio storico, rispettivamente 1996 e 1999-2000. La storiografia militare sul brigantaggio 197 59 Federica Saini Fasanotti, Basilio Di Martino, Filippo Cappellano, Andrea Crescenzi, Alessandro Gionfrida, L’Esercito alla macchia. Controguerriglia italiana 1860-1943. L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla Seconda Guerra Mondiale, Roma, Stato Maggiore della Difesa, Ufficio storico, 2015. 60 M.G. Greco, Il ruolo e la funzione dell’esercito nella lotta al brigantaggio (1860-1868), Roma, Stato maggiore dell’esercito, Ufficio storico, 2011; Federica Saini Fasanotti, The Italian Royal Army’s Counterinsurgency Operations in Africa, 1922-1940, Annapolis, Maryland, Naval Institute Press, 2020. 61 Andrea Crescenzi, Alessandro Gionfrida, Guerriglia e controguerriglia nell’Italia meridionale. Il grande brigantaggio postunitario, 1860-1870, in Federica Saini Fasanotti, Basilio Di Martino, Filippo Cappellano, Andrea Crescenzi, Alessandro Gionfrida, L’Esercito alla macchia. Controguerriglia italiana 1860-1943. L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla Seconda Guerra Mondiale, cit. ©UNICOPLI Vista in queste prospettiva non deve stupire se anche in Italia alcuni militari storici o storici militari assai vicini agli Uffici storici di forza armata hanno tornato ad interessarsi alla repressione del brigantaggio. In forme più controllate ed elaborate (Federica Saini Fasanotti, Basilio Di Martino, Filippo Cappellano, Andrea Crescenzi, Alessandro Gionfrida, L’Esercito alla macchia59) o più vicine all’apologia (M.G. Greco, Il ruolo e la funzione dell’esercito nella lotta al brigantaggio (1860-1868); o Federica Saini Fasanotti, The Italian Royal Army’s Counterinsurgency Operations in Africa, 1922-194060) l’attività di controllo sociale interno svolte dai militari italiani lungo tutta la storia unitaria è stata riesaminata. In particolare, è emersa la rivendicazione di un contributo italiano ad una dottrina della controinsorgenza (Andrea Crescenzi, Alessandro Gionfrida, Guerriglia e controguerriglia nell’Italia meridionale. Il grande brigantaggio postunitario, 1860-187061) che non si vuole lasciare ai generali statunitensi del post-Iraq 2003. La Rand, che non se n’era accorta, è avvisata: in ogni caso l’onore nazionale è salvo. Anche se ci siamo un po’ intrattenuti sulla terza delle tre filiere, perché meno presente nelle rassegne storiografiche, è evidente che le altre, dagli anni Ottanta la prima, dagli Novanta la seconda, hanno cambiato l’indirizzo delle ricerche sull’Ottocento italiano ed anzi la sua stessa percezione storiografica. Sarebbe però difficile sostenere che hanno da subito rivoluzionato il quadro delle interpretazioni del grande brigantaggio e della sua repressione: diciamo che sono andate mettendone le indispensabili premesse. Hanno cioè contribuito in maniera decisiva a riflettere sulle categorie interpretative, sulle periodizzazioni, sugli spazi e sugli indirizzi della ricerca, avanzando diverse interpretazioni da provare poi sul piano della ricerca. La lettura sociale (economico-politica) del grande brigantaggio è parsa sempre meno attraente, ancorché non era stata perseguita sino in fondo ma poco più che enunciata da Molfese; quella culturale si è preparata a dilagare. Ma le vere e proprie nuove ricerche sono venute più tardi, sostanzialmente nel più recente decennio, con e dopo il centocinquantesimo dell’Unificazione. Sul punto specifico del brigantaggio l’intervento che coagulò i motivi che poi avrebbero finito per imprimere una svolta fu forse, come già accennato, quello ©UNICOPLI 198 Nicola Labanca di Salvatore Lupo del 200262, non a caso poi dallo stesso autore ripreso e consolidato nel 2011 in occasione del Centocinquantesimo63. La monografia che ha cercato di raccoglierne e svilupparne l’impostazione in un testo di sintesi è stata quella di Carmine Pinto del 201964. Tanto però era stato innovativo il primo, sia pure senza rompere con la precedente tradizione di studi, quanto il secondo invece – pur documentatissimo, fortemente critico delle insufficienze della tesi del brigantaggio come fenomeno sociale e insistente nel sottolineare il profilo culturale e le valenze locali dello scontro in atto nel Mezzogiorno – ha preso aspetti di una narrazione non poco tradizionale. Inoltre né Lupo né Pinto intendevano scrivere una storia militare del brigantaggio (il secondo dei due aveva però condotto ricerche sulle fonti militari ed aveva in precedenza pubblicato anche qualche saggio sul tema). Basterà notare che dal peraltro importante volume di Pinto manca persino un’indicazione chiara dell’entità numerica delle forze che si scontrarono per lunghi anni. Ancora una volta, anche nei punti migliori, si riverberava l’antico – e qui già segnalato – carattere della storiografia contemporaneistica italiana, cioè la difficoltà a far davvero dialogare gli studiosi di storia generale e quelli di storia militare: ovviamente, senza ombra di dubbio, per primaria colpa dei secondi, ma – bisognerebbe ammettere – con qualche responsabilità anche dei primi. Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, cit. Notevole era stato anche Id., Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, in “Meridiana”, 12, 1998, n. 32, pp. 17-52, dove però si leggeva ancora che “L’intreccio tra la questione nazionale, la questione sociale e la questione meridionale è evidente nella discussione sul brigantaggio postunitario, che rappresenta un momento fondante della nostra problematica” e del brigantaggio come “la sanguinosa guerriglia del 1861-63, la resistenza di massa contro l’ordine sociale e contro i valori patriottici, i cafoni che vilipendevano la proprietà e bestemmiavano la patria”: “Il brigantaggio indica il sordo muggire della questione sociale”. Di fatto nel 1998 come nel 2002, ci pare, la lettura di Lupo voleva mettere l’accento sul profilo politico – e quindi volontaria, soggettiva, scelta – della posizione raccolta attorno al brigantaggio/manutengolismo e temeva che il ritenerla ‘solo’ o prevalentemente sociale potesse rischiare di far perdere la dimensione di volontarietà sempre connessa con la politica. Non a caso insisteva, nel 1998: “quella del grande brigantaggio è una vicenda che non può non essere considerata politica, a meno che gli storici attuali non vogliano negare il diritto di un’opzione politica alle plebi”. La guerra civile non compariva ancora come categoria, era solo evocata citando una frase di Salvemini e un commento di Sturzo. Nel 2002 sarà invece l’asse centrale del discorso. Inclinavano invece in questo senso già i due interventi, di rottura, di J. Dickie, Una parola in guerra. L’esercito italiano e il brigantaggio (1860-1870), in “Passato e presente”, X, 1991, n. 26, pp. 53-74; e di N. Moe, “Altro che Italia!”. Il Sud dei Piemontesi, in “Meridiana”, 6, 1992, n. 15, pp. 53-89; nonché quello – rapido – Paolo Pezzino, Risorgimento e guerra civile. Alcune considerazioni preliminari, in Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 56-85. La Guerra fredda era finita e l’Italia stava cambiando. 63 Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli, 2011. 64 Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, cit. 62 La storiografia militare sul brigantaggio 199 65 Fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate nell’Archivio centrale dello Stato. Tribunali militari straordinari, a cura di Laura De Felice, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1998; Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, 3 voll., Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1999-2001; Piero Crociani (a cura di), Guida al fondo “Brigantaggio”, Roma, Stato maggiore dell’esercito, Ufficio storico, 2004. 66 Fra gli altri cfr. Silvia Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019), Roma, Viella, 2020 (di cui anche Ead., La guerra per l’indipendenza. Francesco II e le Due Sicilie nel 1860, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020). 67 Sul punto, si vedano in questo volume gli importanti contributi sulle diverse aree territoriali. ©UNICOPLI 7. Il Centocinquantesimo dell’Unificazione ha così rappresentato, nello studio del grande brigantaggio unitario, uno snodo decisivo. A quella data molte delle forze erano già apparecchiate, e dopo l’esito deludente di molte delle manifestazioni che lo caratterizzarono semplicemente si misero al lavoro di buona lena: i risultati si sono visti col tempo, e forse ancora devono vedersi nella loro interezza. Rappresentò uno snodo anche per l’uso pubblico, e spesso per la deformazione polemica, della ricerca storica: ma di questo parleremo in fine, perché continuiamo a ritenerlo il male minore. Trattandosi di una fase ancora in corso, saremo qui più rapidi. Il punto di partenza, maturata nella fase precedente la consapevolezza del ritardo complessivo degli studi, è stato forse offerto dall’amministrazione archivistica. Quella civile e di conserva quella militare hanno così pubblicato ben cinque importanti volumi che presentano i fondi archivistici disponibili nell’Archivio centrale dello Stato, negli archivi di stato provinciali e nel principale archivio militare65. Le centinaia e centinaia di pagine di questi volumi dimostravano quanto ancora gli storici potessero, e dovessero, fare. Per la verità queste guide archivistiche certificavano anche la dispersione dei fondi, e quindi la difficoltà del lavoro degli storici che avessero voluto consultare quelle carte al fine di superare certo localismo degli studi dei decenni precedenti. Comunque fosse, essi toglievano ai ricercatori ogni scusante qualora non le avessero utilizzate. L’incontro fra l’indicazione degli archivi e gli stimoli storiografici dei dibattiti generali sulla storia dell’Ottocento italiano degli anni Novanta e Duemila ha generato la nascita di molte ricerche originali e documentate. Non si può negare la spinta ‘salernitana’ di Pinto (aiutata da un recente progetto di ricerca d’interesse nazionale), ma non sarebbe esatto ridurre ad una sola provenienza geografica la messe di ricerche recenti. Esse si sono caratterizzate per l’esame di realtà geografiche delimitate, studiate assai nel profondo66, o per l’adozione di prospettive storiografiche nuove67. Inevitabilmente – ma segno dei tempi non meno che dello specifico dibattito storiografico sul Risorgimento e sul brigantaggio – non poco spazio hanno preso gli studi sulla memoria, sull’uso pubblico della storia e sul vero e proprio immaginario coevo che lo scontro meridionale aveva suscitato. Ma anche qui sarebbe inesatto correre a definire questi studi in tutto e per tutto studi di storia culturale: soprattutto quelli dedicati all’esame di specifici ©UNICOPLI 200 Nicola Labanca territori non trascurano la storia economica, sociale e ovviamente politica degli enjeu nei teatri locali del grande dramma meridionale. Semplicemente, non possono farne a meno. Altrimenti, rappresentazioni di cosa essi andrebbero a studiare? In molti di essi l’interpretazione sociale perde lo schematismo del più vecchio marxismo ortodosso e guadagna in concretezza di indagine degli spazi sociali locali, dei rapporti fra notabili e delle loro reti familiari, di uno sguardo alla società in travaglio fra tradizione e via nazionale. Talora la lettura di Molfese non è discussa o combattuta, è semplicemente archiviata. Di certo, e qui non si può non sottolinearlo, aspetti forse laterali in generale ma fondamentali per una storia militare del tema e del periodo raramente sono toccati: come i notabili locali e faziosi sostenevano concretamente le bande operanti? Queste bande da chi erano composte? Come erano armate? Quante azioni militari esse compivano? Quali rapporti i loro comandanti intrattenevano con i loro commilitoni? Molte di queste domande sulla guerra dei briganti rimangono ancora senza risposte. Ancora peggiore è la situazione per la guerra ai briganti. Quanti degli studi recenti si interrogano su chi formava i reparti militari regolari che combatterono nel Mezzogiorno? (C’è voluto uno studioso francese per notare quanto tempo questi reparti trascorressero nel Mezzogiorno e quanto nel resto della Penisola68.) E come combattevano? Davvero mettevano in pratica le dottrine tattiche di un Pallavicini di Priola, o le praticavano senza conoscerle e averle studiate? E davvero erano le loro azioni a scompaginare le bande, o era – ricordate i suggerimenti della Rand – le scelte politiche e sociali del nuovo Regno nazionale? Domande che forse qualcuno potrebbe considerare banali e scarsamente à la page, ma cui una risposta è necessaria per capire se davvero fu una guerra, e se la guerra fu vinta dalle forze armate (e dalla giustizia, militare o ordinaria69) o dalle forze politiche, economiche e sociali. Così come è necessario avere uno sguardo di lungo periodo, per capire se o meglio quanto il grande brigantaggio può essere confuso con un antico banditismo. Per tutto questo, a beneficio della stessa storia militare, un’analisi storico-economica e storico-sociale appare indilazionabile. Anche quando si è voluto proclamare “smantellato il potente schema interpretativo incentrato sulla lotta di classe” (per quanto per la verità non appaia consigliabile – visto lo stato delle conoscenze – una ‘politica della ruspa’ che qualche politico ha suggerito in altri campi) è poi stato ammesso che ancora “resta tuttavia in piedi il problema di un’analisi comparata delle proteste demaniali”70. Hubert Heyriès, Histoire de l’armée italienne, cit. Sulla repressione della giustizia ordinaria nonché di quella militare la discussione ha visto pareri diversi: cfr. almeno Roberto Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna, Il Mulino, 1980; Carlotta Latini, Cittadini e nemici. Giustizia militare e giustizia penale in Italia tra Otto e Novecento, Firenze, Le Monnier, 2010; Nicola Labanca, Pier Paolo Rivello (a cura di), Fonti e problemi per la storia della giustizia militare, Torino, Giappichelli, 2004. 70 Alessandro Capone, Il brigantaggio meridionale. Una rassegna storiografica, cit. 68 69 La storiografia militare sul brigantaggio 201 Aldo De Jaco (a cura di), Il brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell’Unita d’Italia, Roma, Editori riuniti, 1969. 72 Sul tema cfr. Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari, Laterza, 2012. Di recente solo Enzo Ciconte, La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Bari-Roma, Laterza, 2018. 73 Da ultimo, Gian Luca Fruci, I briganti son tutti gioani e belli?, in “Meridiana”, a. 2020 n. 99. 74 Per tutti, sarà sufficiente citare Pino Aprile e Gigi Di Fiore. Il primo autore, che aveva esordito con Elogio dell’imbecille. Gli intelligenti hanno fatto il mondo, gli stupidi ci vivono alla grande, Casale Monferrato, Piemme, 1997, ottenne un ampio successo di pubblico con Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Milano, Piemme, 2010; fra le sue annuali pubblicazioni, non sempre necessarie, si segnalano Id., Carnefici, Milano, Piemme, 2016, e il recente Id., Contro l’oblio. Giorno della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia, Napoli, Marotta & Cafiero, 2020. Partito prima, il secondo autore – dopo aver iniziato con Potere camorrista. Quattro secoli di malanapoli, Napoli, Guida, 1993, e La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime guerre, Torino, Utet, 2005 – si fece notare per Gigi Di Fiore, 1861 Pontelandolfo e Casalduini. Un massacro dimenticato, Napoli, Grimaldi, 1998, e poi a livello naizonale con Id., I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, Torino, Utet, 2004, cui fecero seguito Id., Gli ultimi fuochi di Gaeta 1860-61, Napoli, Grimaldi, 2004; Id., Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento, Milano, Rizzoli, 2007; Id., Gli ultimi giorni di Gaeta. L’assedio che condannò l’Italia all’unità, Milano, Rizzoli, 2010; Id., La nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddi71 ©UNICOPLI Sia pur senza dare risposte a domande anche cruciali per una comprensione storico-militare del grande brigantaggio postunitario, certamente queste ricerche recenti rappresentano una grande innovazione negli studi sul tema, e finalmente fanno ben sperare. Soprattutto se non si ricreeranno, in forma nuova, antiche ortodossie storiografiche. Rispetto alla ricchezza dello stato degli studi di quest’ultimo decennio, appare del tutto miserevole lo stato della pubblicistica per il largo pubblico. Una volta non era stata sottovalutata l’importanza di far progredire assieme consapevolezza accademica e storiografica e opinione pubblica: per questo, pochi anni dopo l’uscita del saggio di Molfese, Aldo De Jaco confezionava un volume pensato proprio per una diffusione più popolare71. Poi queste attenzioni sono state perse72, e certamente la divulgazione ha conosciuto non poche contraddizioni, come da qualche tempo si è incaricato di denunciare con insistenza Gian Luca Fruci73. Il fatto è che uno spazio è stato lasciato vuoto, o non presidiato: né pare vi attendano per il momento i nuovi storici. Intanto condizioni del tutto nuove nel frattempo createsi – dalla fine del sistema politico della Guerra fredda a quella dell’impegno meridionalistico dei governi, dall’avvitarsi di una parte del Mezzogiorno in un divario economico sempre più sensibile dal resto del Paese al sorgere di forze territorialiste ‘nordiste’, cui altre forze meridionali hanno pensato di ‘rispondere’ – insomma condizioni che sono oggi sotto gli occhi di tutti hanno creato un ampio spazio culturale per il radicarsi di miti ‘sudisti’ che si sono cementati proprio attorno alla rivalutazione del brigantaggio e della lotta legittimista anti-piemontese e anzi anti-nazionale. Queste forze politiche e culturali hanno all’uopo sviluppato anche propri pubblicisti di successo74 e persino 202 Nicola Labanca ©UNICOPLI autori che parlino di storiografia75. Talora, come nell’estate del 201776, queste forze e questi (piccoli) intellettuali organici hanno trovato persino ascolto presso le istituzioni77 o presso talune forze politiche in cerca di spazi di affermazione. Da qui molto della discussione pubblica recente sul neo-borbonismo. Sfogliando pubblicazioni nostalgicamente filo-borboniche e tardivamente pro-brigantesche e notandone (sempre, qui, solo sul campo storico-militare), con le loro imprecisioni, i loro errori, le loro sfacciate falsificazioni, e mettendole a confronto con la ricchezza delle ricerche più recenti, così come degli studi più classici, non v’è chi non veda la miseria culturale estrema di questa pubblicistica. Ovviamente, se ne è parlato e se ne dovrà parlare a livello di storia in pubblico, di divulgazioni, di battaglia delle idee nell’opinione pubblica. Ma a livello storiografico per esse non v’è spazio (nonostante da qualche sponda storiografica si sia tentato, anche di recente, di stabilire con questi ambienti qualche contatto e di stringere qualche alleanza78). Domande ancora aperte Come si è andati vedendo, il livello storico-militare delle conoscenze sul grande brigantaggio meridionale postunitario è ancora oggi piuttosto arretrato. Qualcuno potrebbe chiedersi allora perché applicarvisi, visto che è convinzione comune che il brigantaggio fu un fenomeno storico dalle ben profonde radici politiche e sociali, e non soltanto criminale, così che da sola la ‘maniera ste, Torino, Utet-De Agostini, 2015; sin a Id., Briganti! Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi, Milano, Utet, 2017. 75 Ci riferiamo a Rocco Biondi, Storiografia del brigantaggio postunitario, prefazione di Pino Aprile, Milano, Magenes, 2018. 76 Ancora assai utile, ancorché non più aggiornato e difficilmente raggiungibile dalla stessa home del sito, il dossier di documenti curato da Antonio Bonatesta, Christopher Calefati, Antonella Fiorio, Gian Luca Fruci, Paola Magnarelli, Federico Mazzini, Federico Palmieri, Carmine Pinto per la Sissco: https://www.sissco.it/articoli/dossier-una-giornata-per-le-vittime-del-risorgimento/ . 77 Ci riferiamo fra le altre alla mozione presentata da Nunzia De Girolamo (Forza Italia) alla Camera dei Deputati per “promuovere le opportune iniziative al fine di istituire una giornata nazionale in cui ricordare i cittadini meridionali che perirono in occasione dell’Unità d’Italia“ (28 febbraio 2017) e alla mozione di Antonella Laricchia (Movimento cinque stelle) per la “Istituzione di una giornata della memoria atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana” presentata il 14 febbraio 2017 al Consiglio Regionale della Puglia e alla fine da esso approvata (4 luglio 2017). S i segnala che persino chi aveva irriso la lettura sociale del brigantaggio (cfr. supra, nota 3) ha poi in questa occasione preso le distanze: cfr. Antonio Di Giacomo, Galli Della Loggia boccia i consiglieri regionali pugliesi: “Ignoranti. Hanno mai letto un libro?”, in “Corriere della sera”, 6 novembre 2017. 78 Nel 2011, anno del Centocinquantesimo, “Ventunesimo secolo” proponeva un’introduzione-editoriale di Fabio Grassi Orsini, Rivalutare il Risorgimento. Un confronto critico con il revisionismo, a. 10 (2011) n. 26, pp. 9-20, dove il sostantivo (“confronto”) in più di un punto sembrava prevalere sull’aggettivo (“critico”). La storiografia militare sul brigantaggio 203 Una registrazione audio-video degli atti del convegno è reperibile, parziale, in https:// www.sissco.it/articoli/dossier-una-giornata-per-le-vittime-del-risorgimento/ e, completa, su iniziativa dell’Università di Bari, in https://www.youtube.com/playlist?list=PLezo4E-F9ea9gGx2uGGSPXDvJu3iicXvW . 79 ©UNICOPLI forte’ non sarebbe riuscita a schiacciarlo. La risposta è semplice: perché ignorare, come non di rado è stato fatto, il livello dello scontro armato per dedicarsi solo all’immaginario o alla lotta di fazioni tradirebbe la stessa rilevanza del fenomeno storico di uno Stato centrale nascente messo in iscacco per anni da circoli politici, ambienti sociali e gruppi armati locali. Non si propone certo di tornare a Cesari, che vedeva soltanto la dimensione militare (peraltro, come abbiamo già visto, della sola guerra ai briganti, ignorando la dimensione militare della guerra dei briganti). Ma ignorarla non è consigliabile, perché fu quella a differenziare il caso italiano da tanti altri casi otto-novecenteschi di fazionalismo politico o di scontro sociale in comunità locali. Volendo, si può ignorare Molfese e le sue spiegazioni economiche e sociali (sia pur a rischio di non capire molte delle ragioni per le quali i briganti combattessero) ma – se davvero è stata una guerra per il Mezzogiorno – non si può non studiare chi guerreggiò. Anche a seguire chi sostiene si sia trattato di una guerra civile, le armi sono state impugnate e il sangue è corso: per questo la storia militare è non solo utile ma necessaria. Nessuno più degli storici militari odierni ritiene che le ragioni di un conflitto armato, esterno o interno, si trovino solo al livello delle armi: ma senza di quelle, quel conflitto non ci sarebbe stato. Persino la Rand ne era consapevole. Nonostante quindi qualche buona ragione li consigliasse, gli studi storico-militari sul grande brigantaggio sono ancora pochi. La conseguenza però è che molte domande sono ancora senza una accettabile risposta, e questo nonostante i più recenti riposizionamenti storiografici. L’antica riluttanza degli storici italiani a confrontarsi con la dimensione militare del proprio passato nazionale si ripete (rafforzata da certe tendenze della ricerca storico-militare ufficiale o meno innovativa). È un peccato, perché la ricerca sul grande brigantaggio avrebbe bisogno di un approccio di equipe, di gruppo di ricerca con competenze pluridisciplinari, di cooperazione fra i metodi di indagini. Storici economici e sociali – pur avendo al loro tempo fatto compiere alle conoscenze un enorme balzo in avanti rispetto a storici politici e militari storici del periodo precedente – senza storici degli immaginari hanno prodotto ritardi nella ricerca. Storici dell’immaginario senza storici militari rischiano di fare non diversamente, nonostante ogni migliore intenzione. Solo un lavoro congiunto di equipe, che tenga presenti le varie prospettive di indagine con le eccezionali differenziazioni territoriali del Mezzogiorno postunitario, come nei suoi limiti ha tentato di fare il convegno di studiose e studiosi da cui questo volume prende le mosse79, può fornire risposte all’altezza dei tempi. Potrebbe contribuire inoltre a smontare miti inventati o deformati diffusi fra l’opinione pubblica meno informata dell’evoluzione e della ricchezza del dibattito storiografico. ©UNICOPLI LE PUBBLICAZIONI DEGLI UFFICI STORICI MILITARI Alessandro Gionfrida 1 O. Bovio, L’Ufficio Storico dell’Esercito - un secolo di storiografia militare, Roma, Stato Maggiore Esercito-Ufficio Storico, 1987. 2 S. Trani, Il Regio Esercito e i suoi archivi-una storia di tutela e salvaguardia della memoria contemporanea, Roma, Stato Maggiore Difesa-Ufficio Storico, 2013, in particolare, pp. 351-439, pp. 580-588. 3 Sui caduti dell’esercito e le perdite in generale, cfr. A. Crescenzi-A. Gionfrida, Guerriglia e controguerriglia nell’Italia meridionale. Il grande brigantaggio post-unitario, p. 62, in F. Saini Fasanotti e B. Di Martino, F. Cappellano, A. Crescenzi, A. Gionfrida, L’Esercito alla macchia: controguerriglia italiana 1860-1843-L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla seconda guerra mondiale, a cura di F. Saini Fasanotti e B. Di Martino, Roma, Stato Maggiore Difesa-Ufficio Storico, 2015 (http://www.difesa.it/Area_Storica_HTML/editoria/2015/EI-macchia/Pagine/default.aspx#p=4); C. Pinto, La guerra per il mezzogiorno: italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Bari, Laterza, 2019, pp. 358-359. ©UNICOPLI Nell’ambito della propria forza armata, l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito svolge, fin dalle origini, nel 1856, la duplice funzione di centro di studi per la storia militare nazionale1 e di archivio storico2, che, fra l’altro, conserva anche le fonti sulla repressione del brigantaggio. L’Ufficio storico ha, tra i suoi compiti, quello di redigere le relazioni ufficiali delle campagne di guerra alle quali ha preso parte la forza armata. Il peso indiscusso avuto dall’Esercito unitario nella repressione del grande brigantaggio è ormai un dato acquisito da tutta la storiografia, eppure ancora ad oggi non è stata redatta una relazione ufficiale completa su quella campagna, mancano anche le cifre certe sul numero dei caduti dell’Esercito e delle forze di difesa durante la repressione, per non parlare di quelle dei briganti e della popolazione civile3. La risposta appare evidente, la prima guerra combattuta dall’Esercito italiano, dopo l’Unità, è stata una guerra civile in piena regola, sanguinosa, durissima ma non edificante da raccontare e, dal punto di vista dottrinale, poco utile, secondo i parametri dell’epoca, per trarre degli insegnamenti militari. I briganti non erano certo un esercito regolare di una grande potenza europea, non s’impiegavano grandi unità o si schieravano ingenti forze delle varie armi. Dal 1875 al 1912, l’Ufficio storico-allora Sezione storica del Comando del Corpo di Stato Maggiore- pubblicò le relazioni ufficiali delle tre guerre d’indipendenza, ignorando quasi del tutto la lotta al brigantaggio. Il colonnello Carlo ©UNICOPLI 206 Alessandro Gionfrida Corsi, nella sua campagna del 1866 in Italia, accennò a quelle operazioni, giudicandole utili per sviluppare capacità d’iniziativa dei graduati e soldati ma erano altrettanto dannose “per l’istruzione tattica come per la disciplina, e singolarmente per coloro che esercitavano comando cui non erano stati prima preparati da una sufficiente pratica di buona guerra ordinata”4. Le operazioni contro i briganti furono condotte da piccole unità che davano la caccia ai banditi “senza quei vincoli che legano le vere operazioni di guerra e ne costituiscono forse la difficoltà maggiore”. Eppure alcuni ufficiali, di propria iniziativa ma sempre nell’ambito della pubblicistica dell’Esercito, sentirono l’esigenza di studiare il fenomeno dal punto di vista militare, influenzando così la successiva attività editoriale dell’Ufficio storico. Nel 1920 il colonnello Cesare Cesari che già nel 1917 aveva pubblicato un primo risultato delle sue ricerche sulla “Rivista militare italiana”5, ed era presumibilmente a conoscenza dei precedenti saggi del capitano Eugenio Massa6 e del tenente colonnello Temistocle Mariotti7, pubblicati precedentemente nello stesso periodico, dava alle stampe la monografia, Il Brigantaggio e l’opera dell’Esercito italiano dal 1860-18708. Quella che doveva essere, secondo l’autore, la relazione ufficiale dello Stato Maggiore sulla “campagna contro la reazio- C. Corsi, La campagna del 1866 in Italia, Roma, Comando Corpo di Stato Maggiore-Sezione storica, tomo I, Roma 1875, pp. 8-9. 5 C. Cesari, L’Esercito italiano nella repressione del Brigantaggio (1860-1870), pp. 309324, in “Rivista militare italiana”, Anno LXII, 1917. 6 Capitano E. Massa, Vittime dimenticate: ai gloriosi caduti per la repressione del brigantaggio in Italia, in “Rivista militare italiana”, Anno LVI, Dispensa VII, 16 luglio 1911, pp. 1447-1467 e Anno LVI, Dispensa VIII, 16 luglio 1911, pp. 1703-1723. Fu il primo serio tentativo di definire il contenuto di una possibile relazione ufficiale sulla campagna di guerra contro il brigantaggio che, secondo Massa, doveva trovare il posto tra le altre relazioni sulle campagne risorgimentali; su Massa, cfr. E. Cinnella, Carmine Crocco Un brigante nella grande storia, Pisa-Cagliari, Della Porta, 2010, pp. 16-17; A. Gionfrida, La storiografia militare sul grande brigantaggio post-unitario, Appendice 1, pp. 471-530 (in particolare pp. 471-477), in F. Saini Fasanotti, B. Di Martino, F. Cappellano, A. Crescenzi, A. Gionfrida, L’Esercito alla macchia: controguerriglia italiana 1860-1843-L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla seconda guerra mondiale, cit. 7 T. Mariotti, Una pagina del brigantaggio in Capitanata negli anni 1862-1865, pp. 116136 e pp. 240-258, in “Rivista militare italiana”, Anno LIX, Dispensa I, 1914; su Mariotti, cfr. P. Soccio, Unità e brigantaggio in una città della Puglia, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1980, pp. 243-258; A. Gionfrida, La storiografia militare sul grande brigantaggio post-unitario, Appendice 1 pp. 477-481 in in F. Saini Fasanotti, B. Di Martino, F. Cappellano, A. Crescenzi, A. Gionfrida, L’Esercito alla macchia: controguerriglia italiana 1860-1843-L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla seconda guerra mondiale, cit. 8 Cfr. C. Cesari, Il Brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860-1870, Roma, Ausonia, 1920. Su Cesari storico del brigantaggio si veda A. Scirocco, Introduzione, pp. XIII-XXXVIII (in particolare pp. XIII-XIV), in pubblicazioni degli archivi di stato-strumenti CXXXIX, Guida alle fonti per la storia del Brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali-Ufficio centrale per i beni archivistici, 1999. 4 Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 207 C. Cesari, Il Brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano, cit., p. 4. Ivi, p. 5. 11 Ivi, p. 5-9. 12 Ivi, p. 61-79. 9 10 ©UNICOPLI ne nell’Italia meridionale”, non fu pubblicata direttamente dall’Ufficio Storico, probabilmente ancora una volta, le “ragioni di opportunità politica imposero al governo di non considerare quella lotta come una campagna di guerra”9. Per Cesari, invece, era giunto il momento di giudicare “quegli avvenimenti con equanimità e soprattutto serenità”10. Cesari considerava il brigantaggio come lo sforzo del governo borbonico di disarticolare il processo unitario ma approfondiva il discorso sulle cause sociali del fenomeno11. Queste, secondo l’autore, furono molteplici e di diversa natura - strutturale e contingente - tra le prime, frutto del passato regime, fu l’atavica sfiducia delle popolazioni rurali verso la burocrazia, ritenuta strumento delle elitès terriere locali, aristocratiche e borghesi. La nascita del regno d’Italia nel 1861 fu sentita essenzialmente come un semplice cambiamento di regime, ritenuto allora, da molti sudditi napoletani, non definitivo, infatti sia nel 1799, sia dopo il periodo murattiano, i Borboni erano ritornati al potere, anche con l’aiuto di bande di briganti. La repressione militare, ammetteva Cesari, non fu coordinata con una parallela azione preventiva “per aiutare gli indigenti, per aprire scuole, per sorreggere il clero, completare i lavori pubblici d’immediata utilità”. Fu, inoltre, commesso l’errore di sciogliere immediatamente l’esercito del regno delle due Sicilie, lasciando senza sostentamento moltissimi sottufficiali e soldati napoletani che poi alimentarono il brigantaggio. Le prime bande erano formate quasi tutte da ex militari borbonici. Cesari distinse nel brigantaggio post-unitario due forme: quello politico e quello criminale, il primo “scoppiò subito nel 1860, durante il periodo in cui la corte borbonica era chiusa in Gaeta e perdurò fino al 1863”, il secondo “ebbe un momento di contemporaneità al precedente, fra il 1862 e il 1863, poi si protrasse per alcuni anni fino a scomparire con l’unificazione d’Italia nel 1870”. L’autore, nel condannare storicamente il principio del legittimismo, sottolineava come fosse mancata una direzione unica nel brigantaggio meridionale legittimista e una figura carismatica di un capo, magari della stessa casata deposta, che avrebbe potuto rappresentare la tradizione secolare della causa borbonica. Del resto il brigantaggio fin dall’inizio ebbe l’appoggio delle popolazioni rurali e delle autorità locali che controllavano le amministrazioni comunali. Di fronte a quella difficilissima situazione, “l’unico elemento d’ordine nelle provincie meridionali – secondo il Cesari - fu dunque l’Esercito italiano”. L’autore, analizzando il ruolo dell’amministrazione unitaria nelle provincie napoletane di fronte al brigantaggio, non nascondeva le carenze di quest’ultima nell’azione civile “saltuaria e spesso isolata”, influenzata negativamente dalle autorità locali, rappresentate dal ceto dei proprietari terrieri, i cosiddetti galantuomini12. Gli errori dell’amministrazione unitaria nacquero, sostanzialmente, dalla pregiudiziale antidemocra- Alessandro Gionfrida ©UNICOPLI 208 tica e antigaribaldina che caratterizzò prima l’operato dei vari luogotenenti e poi, in seguito all’abolizione della Luogotenenza delle provincie napoletane, l’operato dei prefetti. La ferma volontà di smentire le promesse fatte da Garibaldi, abolendo immediatamente tutti i decreti dittatoriali, soprattutto quelli finalizzati ad una più equa distribuzione delle terre demaniali, alienarono completamente le simpatie dei ceti artigiani e rurali verso il nuovo stato unitario13. Nei capitoli successivi, Cesari, analizzando gli aspetti più propriamente militari, ricostruiva le principali vicende del brigantaggio, che ripartiva, secondo uno schema, utilizzato poi da altri studiosi di storia militare, in tre fasi, determinate dal tipo di guerriglia e controguerriglia14. Secondo questo schema, la prima fase si estese a tutto il 1861 ed ebbe un carattere essenzialmente militare, era il proseguimento della campagna del 1860-1861 contro le truppe regolari borboniche. La seconda, durata dal 1862 al 1866, fu caratterizzata dall’applicazione delle Legge Pica, l’aumento dei contingenti nell’Italia meridionale e la costituzione di una fitta rete di comandi territoriali con funzioni di lotta alle bande. Questa seconda fase ebbe “forme e caratteristiche di un servizio, per quanto eccezionale, di pubblica sicurezza”. La terza, quella conclusiva, dal 1866 al 1870, “non fu che uno strascico” del precedente servizio di pubblica sicurezza, posto, però, alle esclusive dipendenze dell’amministrazione civile, “come un sistema di distaccamenti ordinari, maggiormente frequenti e rinforzati, per la tutela dell’ordine pubblico”. Cesari considerava molto efficace la tattica di guerriglia, utilizzata dai briganti15 e di fronte a quella situazione la risposta delle forze di sicurezza non fu inizialmente adeguata. Ammetteva, senza mezzi termini, che nell’Esercito si notò la medesima impreparazione riscontrata in tutte le amministrazioni dello Stato, “impreparazione organica per una guerriglia di bande, impreparazione tecnica e scientifica per quanto riguardava i mezzi e la conoscenza dell’ambiente e del teatro di operazioni”. Ricordava la mancanza di un’adeguata dotazione cartografica e la scarsa conoscenza geografica del territorio dei comandi d’allora. Cesari poi passava a descrivere l’azione dell’Esercito16. Nel 1860-1861, secondo l’autore, le prime operazioni contro il brigantaggio furono condotte con l’impiego di colonne mobili, costitute da fanteria, piccole aliquote di cavalleria e artiglieria. Queste formazioni, poste sotto il comando generale del corpo di spedizione sardo destinato ad occupare il Regno delle Due Sicilie, avevano il compito di eliminare gli ultimi nuclei di truppe borboniche che ancora resistevano, come Civitella del Tronto, coprire i fianchi e le spalle delle truppe italiane che assediavano Gaeta e soprattutto reprimere le prime forme di insorgenza popolare antiunitaria che si diffondevano ovunque. A quella prima fase subentrò la successiva, diretta dai luogotenenti e dei comandanti generali delle truppe nelle provincie meridionali, con l’aumento delle forze nel Sud e la dislocazione di distaccamenti 13 14 15 16 Ivi, p. 74-75. Ivi, pp. 81-82. Ivi, pp. 101-122. Ivi, pp. 86-91 e 98-138. Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 209 17 Ivi, p. 138. Cesari tornava sul quest’argomento in una breve risposta nella rubrica dedicata ai lettori nel “Bollettino dell’Ufficio Storico” del 1929 al quesito, Bersaglieri a cavallo (p. 440) relativo all’impiego di formazioni di bersaglieri montati in funzione di controguerriglia. 18 Ivi, p. 162. 19 Ibid, pp. 242, 166-174. Sulle onorificenze, il Cesari dava dei dati molto precisi ma nello stesso tempo, con una certa vena polemica, ammetteva che per scelte politiche del governo, che considerava quella guerra “una piaga interna della nazione”, le ricompense concesse erano poche in proporzione alle forze impegnate e alla durata della campagna, così com’era avvenuto per l’Aspromonte e per Adua “Per il brigantaggio furono concesse: 4 medaglie d’oro, 2375 medaglie d’argento 5012 menzioni onorevoli”. 20 Ivi, p. 86. ©UNICOPLI su tutto il territorio napoletano. Tra i protagonisti nella repressione del brigantaggio, Cesari, in linea con il suo orientamento liberal-democratico, apprezzava il Generale Cialdini, il quale benché “autoritario nel comando, sapeva accoppiare la maggiore energia coi sistemi dell’antica guerriglia spagnola”. Il giudizio sul generale La Marmora era meno positivo, poiché considerava la guerra ai briganti come un semplice servizio di pubblica sicurezza. Più attento era stato il generale Govone che, per quanto riguarda l’equipaggiamento delle truppe, pesante fino a 30 kg e inadatto alle operazioni contro il brigantaggio, aveva diramato apposite istruzioni per alleggerirlo affinché i soldati potessero operare più agilmente nei territori boscosi e montuosi in cui si muovevano i briganti. Se la risposta militare contro il brigantaggio della prima fase fu l’impiego di robuste colonne mobili, nella seconda fase il governo cercò di combattere la guerriglia organizzando un controllo capillare del territorio. Questo fu progressivamente raggiunto istituendo, dal 1862 al 1870, comandi di zone e sottozone militari in tutte le provincie del mezzogiorno continentale. Proprio il controllo capillare del territorio unito a un oculato impiego della fanteria rappresentava il sistema per fronteggiare le bande. Il Cesari, dal punto di vista tattico, riteneva molto più redditizio impiegare “grossi reparti di fanteria e di formare con essi colonne volanti” invece che impiegare analoghe formazioni di cavalleria il cui impiego si era dimostrato inadatto per il terreno montuoso e boscoso delle provincie meridionali17. La costituzione nel 1867 del Comando generale per la repressione del brigantaggio nelle provincie di Terra di lavoro, Aquila, Molise, Benevento, Salerno, Avellino e Basilicata, al cui vertice fu posto il generale Emilio Pallavicini di Priola, rappresentò il colpo di grazia per la guerriglia già declinante. Utilizzando le informazioni dei manutengoli e parenti dei banditi che, dietro premi in denaro e protezione, decidevano di collaborare e una “saggia dislocazione di truppe nei luoghi più battuti dai briganti con frequenti e forti colonne mobili”, Pallavicini riuscì a debellare completamente i resti della guerriglia18. Cesari, secondo la tradizione storico-militare ufficiale, terminava Il Brigantaggio e l’opera dell’Esercito italiano dal 1860-1870, presentando i dati relativi alle perdite, alla forza impiegata e alle onorificenze concesse19. Per Cesari comunque l’Esercito “rappresentò in quei dieci anni di lotta il solo elemento unificatore (…) di fronte al quale le critiche meschine perdono ogni valore sostanziale”20, ©UNICOPLI 210 Alessandro Gionfrida comprese quelle relative alla tremenda rappresaglia scatenata contro il paese di Pontelandolfo, dopo il massacro del distaccamento del 36° Reggimento fanteria, in quanto “la ferocia e la gravità del fatto le giustificarono”21. Cesari ritornò sulla questione del brigantaggio post-unitario, nella sua monografia, edita dall’Ufficio Storico: L’assedio di Gaeta e gli avvenimenti militari del 1860-1861 nell’Italia meridionale22. Nel 1924 il colonnello Attilio Vigevano pubblicava con l’Ufficio storico una monografia sulla legione ungherese in Italia, dedicando alcuni paragrafi alle operazioni svolte contro i briganti23. La legione ungherese fu impiegata contro i briganti in due periodi, il primo, dall’aprile 1861 all’agosto 1862, nelle province di Avellino, Salerno e Potenza, il secondo, dall’ottobre 1865 al giugno 1866, in Abruzzo nella provincia di Chieti. Secondo Vigevano, la legione ungherese diede dei buoni risultati nelle operazioni contro i briganti, in particolare nel primo periodo quando, impiegata in grosse formazioni, si distinse in alcuni combattimenti come quello di Montefalcione (10 luglio 1861). Era proprio la formazione della legione ungherese, equivalente ad una brigata interarma, formata dal battaglione di fanteria di linea Honwed (16 ufficiali e 121 uomini di truppa), dal battaglione cacciatori (2 ufficiali e 105 uomini di truppa), dal 1° Reggimento ussari (146 cavalieri), da 1 batteria da montagna (7 pezzi), che la rendeva una formidabile colonna mobile, adatta alle operazione di controguerriglia. Nell’ambito, poi della Legione, i cacciatori, ottimi tiratori, che attaccavano in ordine sparso e gli ussari, cavalleria leggera, efficace sia come arma d’urto che nell’esplorazione, si dimostrarono particolarmente adatti alla lotta contro le bande. Nel 1938 il generale Tito Battaglini, che aveva prestato servizio presso l’Ufficio storico, pubblicava, in due volumi, Il Crollo militare del Regno delle Due Sicilie24. Nel secondo volume il brigantaggio venne considerato l’ultimo tentativo militare della dinastia borbonica per recuperare il trono perduto. Il “brigantaggio politico borbonico finiva - secondo l’autore - nel 1865”, sopravvivendo in 21 Ivi, p. 113: “La repressione e la punizione inflitta dal Negri al paese furono esemplari, molte case vennero incendiate, innumerevoli furono gli arresti. Tuttavia la ferocia e la gravità del fatto le giustificarono”. 22 Ministero della guerra -Stato Maggiore R. Esercito-ufficio storico, L’Assedio di Gaeta e gli avvenimenti militari del 1860-1861 nell’Italia meridionale, Roma, 1926 (ristampa anastatica 2010), pp. 105, 116-118, 186-195. Nella seconda pagina è scritto “attese a questo studio e compilò questa relazione il colonnello Cesare Cesari”. 23 A. Vigevano, La legione ungherese in Italia (1859-1867), Roma, Ministero della guerra-Stato Maggiore Centrale-Ufficio Storico, 1924. Riguardano le operazioni contro il brigantaggio il capitolo IV, § 15: Ungheresi e briganti pp. 106-114 e il capitolo VII, § 27: La legione contro il brigantaggio, pp. 184-189. Sulla legione ungherese si veda anche A. Carteny, La legione ungherese contro il brigantaggio, vol. I, I documenti dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (1860-1861), Roma, Nuova cultura, 2013. 24 T. Battaglini, Il Crollo militare del Regno delle Due Sicilie, Modena, Società tipografica modenese, 1938 (vol. I, Dalla catastrofe siciliana al Volturno; vol. II, Da Gaeta al Brigantaggio politico). Il lavoro, come spiegava lo stesso autore nella prefazione, era stato già pubblicato, con il titolo fine di un esercito, a puntate, dal 1913 al 1915, nella “Rivista militare italiana “. Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 211 25 T. Battaglini, Il Crollo militare del Regno delle Due Sicilie, vol. II, Da Gaeta al Brigantaggio politico, cit., p. 168. 26 Ivi, vol. I, premessa, pp. 3-5. Sull’argomento A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 271-282, 344-346. 27 A. Lucarelli, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860: il sergente Romano, Bari, Laterza, 1946 (1ª edizione 1922). 28 T. Battaglini, Il Crollo militare del Regno delle Due Sicilie, cit., vol. I, premessa, p. 2. 29 Ivi, vol. II, p. 1116-117: “Il comandante del battaglione bersaglieri fu inesorabile, come doveva essere, nella sua opera di repressione e di punizione, facendo incendiare anche molte abitazioni di colpevoli ed eseguendo un arresto generale di massa”. 30 Lo stesso Giustino Fortunato nella sua corrispondenza con il Croce aveva parlato del brigantaggio come di un Vandea napoletana; cfr. A. De jaco, Il brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 2005 (1ª edizione, 1969), pp. 15-18. 31 E. Scala, Storia delle fanterie italiane, vol. III, Le fanterie nel periodo napoleonico e nelle guerre del Risorgimento, Roma, Stato Maggiore Esercito-Ispettorato di fanteria, 1952, cap. IV, La fanteria contro il brigantaggio (1860-1870), pp. 466-473. La collana è stata recentemente ristampata dal “Giornale” grazie ad accordi stabili con l'Ufficio storico SME. ©UNICOPLI seguito come “malandrinaggio comune”25, ma fino a quell’anno andava considerato come un’appendice della campagna del 1860-1861 per l’annessione delle provincie meridionali. Battaglini, largamente debitore del Cesari per gli aspetti militari del fenomeno, tenne conto della storiografia borbonica26, e, presumibilmente, a conoscenza degli studi del Lucarelli27, considerava il brigantaggio come una vera e propria guerra civile. In quel conflitto, gli italiani si trovarono “per l’ultima volta nella Storia, gli uni contro gli altri armati e combattenti, come appunto in quella finale delle nostre lotte fratricide del passato, che fu quella del ’60 e ’61 nel reame di Napoli”28. Nell’interpretazione di Battaglini, proprio la “controrivoluzione borbonica” nel 1861 rappresentò il più serio tentativo attuato dagli ex reali delle due Sicilie di cambiare la situazione e, di fronte a quel pericolo, giustificava anche l’utilizzo di misure eccezionali, compresa la durissima rappresaglia di Pontelandolfo29. Il Battaglini rappresentava il punto di arrivo di una storiografia militare, ufficiosa più che ufficiale, di orientamento liberale, iniziata da Massa, e culminata con Cesari che considerava il brigantaggio come una vera campagna di guerra, una guerra civile contro la “reazione”30. Secondo questi autori, ancora una volta, l’Esercito aveva dato il suo contributo fondamentale al processo unitario e quindi, senza falsa retorica, la relazione ufficiale sulla repressione del grande brigantaggio doveva trovare il suo giusto posto tra le altre relazioni sulle guerre risorgimentali. Dopo la campagna 1848-1849, 1859, 1860-1861, andava inserita la campagna contro il brigantaggio meridionale che, con le campagne del 1866 e del 1870, costituiva il complesso delle guerre per l’indipendenza nazionale. Nel 1952, nella collana: Storia delle fanterie italiane, il generale Edoardo Scala, pur dedicando poche pagine all’impiego dei reparti di quell’arma nella lotta al brigantaggio31, nel volume dedicato ai bersaglieri, invece, ci ha lasciato ©UNICOPLI 212 Alessandro Gionfrida delle interessanti riflessioni sulla loro capacità nel condurre la controguerriglia nell’Italia meridionale32. Negli anni sessanta lo studio di Franco Molfese33 ha significato un punto di arrivo da cui non si può prescindere, perché, nonostante la sua interpretazione del fenomeno in chiave sociale sia stata rivista, rimane il tentativo più articolato di rappresentare il brigantaggio meridionale nell’ambito della formazione del nuovo stato unitario, a cui, ora, si affianca la monografia di Carmine Pinto34. La storiografia sul brigantaggio, dopo l’opera di Molfese si è sviluppata secondo tre filoni fondamentali di ricerca, individuati da Alfonso Scirocco35: la “storia locale”, l’azione svolta dal “governo borbonico in esilio” e “la risposta al brigantaggio delle forze politiche del giovane regno”, a cui in questi ultimi anni se ne è aggiunto un quarto che potremmo definire genericamente “neoborbonico”36. La storiografia militare sul brigantaggio s’inserisce, in un certo senso, pur con la sua peculiarità, nel terzo filone di ricerca, perché ha studiato e studia il ruolo dell’Esercito quale principale strumento del giovane Stato unitario nella repressione della guerriglia meridionale. Nel 1976 l’allora maggiore Pier Giorgio Franzosi pubblicava sulla “Rivista Militare” un breve saggio sulla campagna contro il brigantaggio37, nel quale utilizzava gli insegnamenti appresi nella lotta alla guerriglia elaborate dalle forze armate americane in Indocina e accettava l’interpretazione del fenomeno in chiave sociale, proposta da Molfese. Franzosi propose per la storia del brigantaggio le tre fasi di sviluppo della guerriglia, teorizzate da Mao Tse-Tung nella 32 E. Scala, Storia delle fanterie italiane, vol. VII I bersaglieri, Roma, Stato Maggiore Esercito-Ispettorato di fanteria, 1954, cap. IX, Contro il brigantaggio, pp. 121-135. 33 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1972 (prima edizione 1964). Indiscutibilmente d’impostazione gramsciana, Molfese interpreta il brigantaggio in una chiave essenzialmente sociale: “come manifestazione estrema, armata, di un movimento rivendicativo e di protesta che si eleva fino a rozze forme di lotta di classe, da parte di una classe contadina arretrata, nel contesto di una società arretrata, con forti sopravvivenze feudali, (…) come la sola guerra che la classe contadina riesce a condurre quando lotta da sola: la guerriglia priva di direzione centralizzata, per obbiettivi limitati e aspetti anarcoidi” (p. 342). Nel suo giudizio finale comunque Molfese riconobbe che: “l’Esercito apparve e in talune estreme contingenze lo fu realmente, il solo baluardo del regime unitario (…)”(p. 186). 34 C. Pinto, La guerra per il mezzogiorno: italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Bari, Laterza, 2019. 35 A. Scirocco, Introduzione, pp. XIII- -XXXVIII (in particolare pp. XIII-XIV), in pubblicazioni degli archivi di stato-strumenti CXXXIX, Guida alle fonti per la storia del Brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, cit. 36 Cfr. A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 292-316; si veda anche l’Europeo n. 4, aprile 2012, anno XI, Anche i neoborbonici non scherzano, intervista di Valeria Palumbo ad Alessandro Barbero, pp. 47-58. Per comprendere meglio il punto di vista neo-borbonico, il saggio di R. Biondi, Storiografia del brigantaggio post-unitario dal 1860 ai giorni nostri (Milano, Magenes, 2018) è sicuramente di interesse, perché contiene le recensioni delle principali pubblicazioni sull'argomento, interpretate dal loro punto di vita. 37 Pier Giorgio Franzosi, La campagna contro il brigantaggio meridionale postunitario, in “Rivista militare” II, 1976, pp. 70-80. Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 213 L. Tuccari, Il Brigantaggio nelle provincie meridionali dopo l’Unità d’Italia (18611870), Lecce, istituto per la storia del risorgimento italiano- sezione di Lecce, 1982, in particolare pp. 177-206. 39 L. Tuccari, Memorie sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio dopo l’unità (1861-1870), in “Studi storico-militari 1984”, Roma, Stato Maggiore Esercito- Ufficio storico, 1985, pp. 203-272 (il saggio era stato già pubblicato nel 1983 in “Archivio storico per le province napoletane”, a cura della Società di storia patria, Anno 101, 1983, pp. 333-396). Tuccari, poi approfondì gli aspetti politici in un altro saggio pubblicato sempre con l’Ufficio storico: L. Tuccari, Brigantaggio post-unitario: il legittimismo europeo a sostegno della reazione napoletana, in “Studi storico-militari 1991”, Roma, Stato Maggiore Esercito-Ufficio storico, 1993, pp. 279-292 40 L. Tuccari, Memorie sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio, cit. p. 210. 41 Ibid., p. 213. 38 ©UNICOPLI sua concezione della guerra rivoluzionaria, affermando che delle tre fasi classiche si svilupparono nelle provincie meridionali solo la prima e la seconda, “cioè l’insorgenza di deboli forze dapprima, seguita da una sollevazione di massa agevolata da una ricca fonte di alimentazione esterna”, poi “dal 1864 al 1870, la reazione perdette il suo carattere popolare, (…) perciò non si trattò di guerriglia, ma di volgare delinquenza”. In sostanza il brigantaggio, secondo Franzosi, fu debellato perché perse l’appoggio popolare non perché fu sconfitto militarmente. Nel 1982 il generale dei carabineri Luigi Tuccari pubblicò una monografia che affrontava in modo specifico gli aspetti militari della repressione del brigantaggio, analizzando gli ordinamenti e le tecniche delle forze (Esercito, Carabinieri, corpo delle guardie pubblica sicurezza, Guardia nazionale) impiegate contro le bande38. Nel 1984 riprendeva e approfondiva gli aspetti tecnico-operativi sulla lotta al brigantaggio in un saggio pubblicato dall’Ufficio storico, che rimane a oggi lo studio più completo sull’argomento39. Anche per Tuccari, l’Esercito, su cui ricadde tutto il peso della repressione, “dovette affrontare una vera e propria guerra civile contro masse d’insorti che rifiutavano il regime unitario e grosse formazioni armate che lo combattevano”40. La risposta militare a quell’emergenza è al centro del suo lavoro. I generali che si avvicendarono al vertice del comando del VI Gran comando di dipartimento, da cui dipendevano tutte le truppe stanziate nel Sud dell’Italia, dovettero “modificare progressivamente dispositivi e procedimenti per adeguare lo strumento al particolare ambiente di lotta”41. Il generale Enrico Della Rocca, al vertice del comando delle truppe italiane nel sud dal novembre 1860 all’aprile 1861, dovette fronteggiare il momento iniziale in cui le rivolte antiunitarie si saldavano a un’estesa guerriglia. Utilizzò le truppe, secondo “il criterio del massimo accentramento delle forze e dell’intervento a massa”, attaccando sistematicamente le zone occupate dagli insorti “con dispositivi a livello di reggimento o raggruppamento di armi e specialità diverse per operazioni di rastrellamento”. Erano le così dette colonne mobili, veri e propri raggruppamenti tattici, costituiti da un nucleo principale di fanteria (dal livello di brigata a quello di compagnia) con l’aggiunta eventuale di reparti bersaglieri (dal livello di battaglione a quello di plotone), aliquote di caval- Alessandro Gionfrida ©UNICOPLI 214 leria (a livello di uno o più squadroni), artiglieria (1 o più batterie), eventualmente del genio (massimo 1 compagnia). Il generale Giovanni Durando (maggio - luglio 1861), di fronte alla diffusione del brigantaggio e all’estensione della rivolta contadina, ombra minacciosa di un nuovo 1799, assunse un atteggiamento difensivo, anche per la limitata disponibilità di forze. Utilizzò le colonne mobili, di livello organico variabile, per battere periodicamente determinate zone particolarmente infestate, “in funzione essenzialmente preventiva, intesa cioè a dimostrare alle popolazioni in rivolta la forza del nuovo stato unitario”, ma senza riuscire effettivamente a limitare l’estendersi del brigantaggio che anzi raggiunse livelli allarmanti, assumendo il ruolo di forza trainante delle insurrezioni popolari. La svolta si ebbe con il generale Enrico Cialdini (12 luglio-31 ottobre 1861) che riunì nelle proprie mani le funzioni di luogotenente generale per le provincie napoletane e di comandante del VI Dipartimento. Rese operativa una rete di comandi militari di zona destinati alla lotta al brigantaggio, già predisposta da Durando, ai quali faceva capo una rete di presidi fissi nei maggiori centri cittadini e di colonne mobili per il controllo delle campagne. Riorganizzò inoltre la Guardia nazionale, costituendo 69 compagnie di Guardia nazionale mobile, reclutate su base volontaria (privilegiando gli ex garibaldini), poste alle dipendenze dei comandi militari territoriali e impiegate in operazioni insieme a reparti dell’Esercito. Il dispositivo di Cialdini significò l’adozione di una tattica aggressiva che spezzò la saldatura tra insurrezione filoborbonica e guerriglia. Per Tuccari, “questi provvedimenti riuscirono a contenere l’espansione del grande brigantaggio e costrinsero le bande ad abbandonare i paesi e trasferirsi in montagna”42. Il generale La Marmora (novembre 1861-settembre 1864) confermando l’organizzazione militare creata da Cialdini, incrementò il numero delle zone militari e le frazionò a loro volta in sottozone, al fine di un controllo più capillare del territorio, istituendo inoltre basi operative di colonne mobili anche in piccoli centri rurali e masserie isolate con il criterio di dislocare le unità d’impiego al centro delle aree più minacciate. Inizialmente l’organizzazione di La Marmora, più capillare e dispendiosa, non fu sostenuta da un adeguato supporto di forze, essendo quindi “costretta a subire l’iniziativa delle grosse bande che inflissero dure perdite ai reparti militari”, solo con l’arrivo di rinforzi, i comandi ripresero l’iniziativa. Parallelamente all’organizzazione operativa e di comando si sviluppava, grazie alle direttive emanate dai principali protagonisti della lotta: i generali Cadorna, Franzini e soprattutto Pallavicini, la dottrina d’impiego. La figura di Pallavicini rimane centrale, anche nell’analisi del Tuccari, che, attraverso circolari emanate durante la sua attività di comando delle provincie meridionali, ha profondamente influenzato l’evoluzione della tattica militare negli anni del brigantaggio. Durante il periodo di comando della Zona militare di Benevento e Molise (settembre –dicembre 1863), conclusa con la distruzione della famigerata banda di Michele Caruso, emanava la circolare del L. Tuccari, Il Brigantaggio nelle provincie meridionali dopo l’Unità d’Italia, cit., pp. 115-121. 42 Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 215 43 Circolare, a stampa, del Comando generale della zona militare di Benevento e Molise, in data 24 novembre 1863, a firma del maggiore generale Pallavicini, in Aussme, fondo G-11 Brigantaggio, busta 51, fascicolo 1, cc. 1-1-25, pubblicata in L. Tuccari, memorie sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio, cit., appendice 2, pp. 246-248. 44 Circolare, a stampa, del comando generale della colonna di operazioni della provincia di Bari, in data 30 dicembre 1863, in Aussme, fondo G-11 Brigantaggio b. 63, fasc. 14, c. 6, pubblicata in L. Tuccari, memorie sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio, cit. appendice 3, pp. 249-253, si veda anche pp. 223-224. 45 L. Tuccari, memorie sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio, cit., pp. 224-225. 46 Ivi, pp. 227-228. Il 18 maggio 1865, Pallavicini emanava una circolare a stampa, relativa alle istruzioni sulla lotta al brigantaggio non menzionata dal Tuccari (Aussme, Fondo G-13, Carteggio confidenziale del ministro, busta 5, fascicolo 183). ©UNICOPLI 24 novembre 1863, che prevedeva l’istituzione nel territorio di giurisdizione “di una rete di servizi perlustrativi, svolti da numerose colonne mobili in movimento, collegate fra loro, con il comando superiore” e con posti fissi nei punti di passaggio obbligatorio (guadi, nodi stradali, ponti, ecc.)43. Questo sistema fu utilizzato dal generale Pallavicini anche quando, dal dicembre 1863 al giugno 1864, fu al comando della Colonna mobile di operazioni nella provincia di Bari, riuscendo ad annientare la Banda del feroce Nicco Nanco. Dal suo comando tattico a Spinazzola, Pallavicini emanava la circolare del 30 dicembre 1863, dove, nel ribadire le precedenti tecniche relative alle operazioni di controguerriglia, aggiungeva un nuova serie di norme sulla necessità dell’organizzazione di un valido servizio informazioni44. Dal luglio 1864 al marzo 1865, il Pallavicini affrontava forse una delle prove più impegnative, assumendo il comando della Zona militare di Melfi-Lacedonia e Bovino da cui dipendevano 2 battaglioni di fanteria, 6 di bersaglieri e 3 squadroni di cavalleria, con il compito di distruggere la banda Crocco e le altre a lui affiliate45. Scompaginava le grandi bande del momento al seguito di Crocco, non riusciva a catture il Donatelli, ma nell’agosto del 1864 lo costringeva ad uscire di scena per fuggire in territorio pontificio. Il successo questa volta era frutto non solo “della sua tattica dinamica, tenace e aggressiva, diretta ad assicurare la copertura totale del territorio”, ma era dovuto soprattutto alla collaborazione dell’ex capo brigante Peppe Caruso, già alleato di Crocco e alla forte pressione esercitata sui presunti “manutengoli”, tra i quali alcuni potenti notabili locali. Durante il ciclo operativo nella zona di Melfi, il generale Pallavicini non emanò altre circolari a stampa, cosa che invece avvenne durante il successivo periodo di lotta al brigantaggio in Calabria, quando, dall’aprile 1865 ai primi mesi del 1866, assunse il comando della Divisione militare territoriale di Cosenza, avendo a disposizione una forza di 1 reggimento granatieri, 2 battaglioni di fanteria, 3 di bersaglieri e 1 squadrone di cavalleria46. Nel 1867 a capo del nuovo Comando generale delle truppe per la repressione del brigantaggio fu posto ancora una volta, il generale Pallavicini con il compito di distruggere le bande capeggiate dai briganti Fuoco, Pace, Ciccone, Fontana, Cedrone e altre minori a loro affiliate che imperversano lungo l’Appennino centro-meridionale, sconfinando tra una provincia e l’altra. L’azione del generale Alessandro Gionfrida ©UNICOPLI 216 Pallavicini non si svolgeva più in un contesto giuridico eccezionale, in quanto, a partire dal 1° gennaio 1866, le leggi Pica e Peruzzi avevano cessato completamente i loro effetti. Al vertice del nuovo comando, il generale Pallavicini emanò un complesso di circolari che non si limitarono, come nelle passate esperienze, a determinare le modalità di condotta delle operazioni contro i briganti, apprese direttamente dall’esperienza di comando nelle provincie meridionali, ma rappresentarono, in quel momento storico, un tentativo di elaborazione di una dottrina sulla controguerriglia47. Tuccari in conclusione, dal punto di vista strettamente militare, giudicò positiva per l’Esercito l’esperienza della lotta al brigantaggio perché dimostrò l’importanza dell’iniziativa individuale e dell’ordine sparso e diede uno scossone all’impalcatura troppo formalistica ereditata dall’esercito piemontese. Nel 1995, l’allora capo Ufficio Storico, il colonnello Riccardo Trepiccione pubblicava un saggio sul brigantaggio in cui, affrontando gli aspetti più tecnici della lotta, cercava di valorizzare il ricco patrimonio documentario dell’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, suggerendo anche nuove prospettive di ricerca48. Trepiccione sostenne che l’azione del generale Pallavicini, sicuramente efficace contro il brigantaggio, andasse vista come il punto di arrivo di tattiche sperimentate, prima di lui, da altri ufficiali impegnati in quella lotta. A tal proposito citava l’Istruzione49 diramata alle truppe dal generale Ferdinando Pinelli, comandante generale delle truppe italiane nell’Ascolano e negli Abruzzi nel febbraio 1861 che, in 14 sintetici punti, fissava le norme per la lotta al brigantaggio. Secondo Trepiccione, l’Istruzione del generale Pinelli anticipava i criteri fondamentali della lotta alla guerriglia, basati “sull’impiego di forze consistenti, sicurezza, obiettivi mirati, terra bruciata intorno alle bande, azioni combinate, comando unico con poteri eccezionali”50, ripresi poi successivamente dal generale Pallavicini. Quest’ultimo, infatti, con il grado di colonnello, aveva parteci- Il Tuccari citava la circolare n. 56 del 15 luglio 1868 e quella del 20 giugno 1869, riportata anche in appendice n.4, (L. Tuccari, Memorie sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio, cit., pp. 229-232 e appendice 4, pp. 253-268) non cita invece l’Istruzione teorica, pubblicata il 29 marzo 1868 (Comando generale delle truppe per la repressione del brigantaggio, Istruzione teorica ad uso delle truppe destinate alla repressione del brigantaggio nelle provincie di Terra di lavoro, Aquila, Molise e Benevento, Caserta, Stabilimento tipografico del Commendatore Gaetano Nobile e c. corte prefettura, 1868, in Aussme, Fondo G-11 Brigantaggio, b. 129, fasc. 1, s.fasc. 1; l’istruzione è stata ristampata tale e quale in: generale Emilio Pallavicini di Priola, Manuale di controguerriglia, Effepi, Genova, 2012). 48 R. Trepiccione, Il Brigantaggio sui documenti dell’Ufficio storico (1860-1870), in “Studi storico militari 1995”, Roma, Stato Maggiore Esercito, 1998, pp. 103-137. 49 Istruzione, Aussme, Fondo G-3, Campagna 1860-1861, vol. 62, c. 176. In essa il generale Pinelli affrontava cinque aspetti fondamentali della controguerriglia: la condotta delle operazioni, le misure di polizia, la raccolta delle informazioni sul nemico, i rapporti con le autorità civili e l’organizzazione di un comando unico politico-militare che fu anche proposto da Pinelli direttamente a Cavour, cfr. C. Benso di Cavour, La liberazione del Mezzogiorno. carteggi di Camillo Cavour, III, Bologna, 1952, lettera a Cavour 16 gennaio 1861, pp. 227-228. 50 R. Trepiccione, Il Brigantaggio sui documenti dell’Ufficio storico, cit., p. 131. 47 Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 217 O. Bovio, Storia dell’Esercito italiano (1861-1990), Roma, Stato Maggiore Esercito-Ufficio storico, 1996 (1ª edizione), cap. III Brigantaggio, pp. 54-68. Nel 2010 è stata stampata una seconda edizione, aggiornando la storia dell’Esercito fino al 2000. 52 Questa categoria, già utilizzata da Battaglini e riscoperta da Pezzino (Mi riferisco agli studi di Pezzino del 1994, anche se non sono stati citati esplicitamente da Bovio: P. Pezzino, Risorgimento e guerre civile, pp. 56-86, in G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994) che la mutuava dalla storiografia borbonica del periodo, era stata sviluppata, ognuno con diverse sfaccettature, da Adorni (D. Adorni, Il Brigantaggio, in “Storia d’Italia”, Annali 12, La Criminalità, a cura di L. Violante, Einaudi, Torino 1997, pp. 283-319), Lupo (S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in “Storia d’Italia”, Annali 18, Guerra e Pace, a cura di W. Barberis, Einaudi, Torino 2002, pp. 462-502; Id., L’unificazione italiana: mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Roma, Donzelli editore, 2011) e Davis (J. A. Davis, Le guerre del brigantaggio, pp. 738-752, Gli italiani in guerra: conflitti, identità, memorie dal risorgimento ai nostri giorni, vol. I, Fare l’Italia. unità e disunità nel risorgimento, a cura di M. Isnenghi ed E. Cecchinato, Torino UTET, 2008). Su questo tema storiografico, si veda: A. Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, pp. 33-39, in “Le carte e la storia”, n. 2, 2015 e E. Di Rienzo, Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico, pp. 26-42, Nocera inferiore, D'Amico editore, 2020. 53 O. Bovio, Storia dell’Esercito italiano, cit., p. 55. 54 Ivi, p. 56. “La reazione del battaglione bersaglieri fu naturalmente dura, forse brutale, ma la severità del giudizio potrebbe essere attenuata se si volesse considerare con sufficienza equanimità la reazione del comandante alla vista di tanta efferatezza, reazione opinabile e forse censurabile su un piano strettamente giuridico, ma largamente comprensibile sul piano umano”. In realtà non vi era solo la reazione a caldo dei commilitoni, di fronte alla vista dei loro compagni trucidati, ma le disposizioni di Cialdini che voleva dare un severo esempio a quelli che lui considerava degli spietati i reazionari e legittimisti; sull’argomento: C. Pinto, La guerra per il mezzogiorno: italiani, borbonici e briganti 1860-1870., cit., pp. 132-134. 51 ©UNICOPLI pato alle operazioni di repressione del brigantaggio nell’Ascolano e in Abruzzo, nei primi mesi del 1861, proprio sotto il comando del generale Pinelli. Nel 1996 il generale Oreste Bovio, nella sua storia dell’Esercito italiano edita dall’Ufficio storico51, dedicava un capitolo al brigantaggio post-unitario nel quale, tenendo conto degli studi di Cesari e Tuccari sull’argomento, utilizzava, per interpretare quel conflitto, la categoria di “guerra civile”, mutuata dalla recente storiografia52. Bovio considerava il brigantaggio come uno scontro fratricida, in sostanza “l’efferatezza del comportamento delle bande brigantesche e delle plebi rurali inferocite determinarono fatalmente le direttive sempre più drastiche dei comandi e le modalità di impiego sempre più duramente repressive dei reparti con il seguito di errori ed orrori che ogni guerra civile comporta”53. Esempio emblematico di quella situazione fu il fatto di Pontelandolo dell’11 agosto 1861, dove alla violenza dei rivoltosi che avevano trucidato un distaccamento di 50 soldati del 36° Reggimento fanteria, facendo scempio dei loro cadaveri, seguì una durissima, ma, secondo Bovio54, comprensibile rappresaglia del XVIII Battaglione bersaglieri che distrusse il paese. Nel ribadire l’iniziale impreparazione dell’Esercito, Bovio ricordava come molti militari, impegnati nella repressione, ebbero la capacità di dare una attenta lettura del fenomeno, tra questi il generale Govone, che considerava l’estrema indigenza dei contadini meridionali e la ©UNICOPLI 218 Alessandro Gionfrida prepotenza dei galantuomini verso questi ultimi una delle principali cause del brigantaggio55. Tra il 2000 e il 2006, Ferruccio Botti, nella sua monumentale opera in tre volumi sul pensiero militare italiano, pubblicata sempre dall’Ufficio storico, dedicò alcune pagine alla questione della repressione militare del brigantaggio post-unitario56. Il Botti prendeva in considerazione i principali autori contemporanei che avevano scritto sugli aspetti militari della lotta al brigantaggio, la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta e alcune delle voci opposte del campo filo-borbonico. Degli autori allora contemporanei agli avvenimenti, prendeva in considerazione le opere di Marc Monnier57, di Enrico della Rocca58, di Giacomo Oddo59 e soprattutto di Alessandro Bianco di Saint Jorioz60 e Vincenzo Molinari61. Questi ultimi due autori, soprattutto il Molinari, furono considerati particolarmente innovativi dal Botti perché compresero l’importanza della stretta connessione che doveva esistere tra azione militare, controllo del territorio e riforme sociali, le operazioni militari dovevano essere accompagnate da una politica d’intervento a favore delle popolazioni62. Nel 2004 l’Ufficio storico, stimolato dall’iniziativa editoriale degli Archivi di Stato che pubblicarono una guida alle fonti per la storia del brigantaggio post-uO. Bovio, Storia dell’Esercito italiano, cit., pp. 57-60. F. Botti, Il pensiero militare e navale italiano dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale (1789-1915), vol. II, Dalla prima guerra d’indipendenza a Roma capitale (1848-1870); Roma, Stato Maggiore Esercito, 2000, cap. III: L’intervento dell’Esercito nell’Italia meridionale dal 1860 al 1870: repressione del brigantaggio o controguerriglia? pp. 143-194 e vol. III Dalla guerra franco-prussiana alla prima guerra mondiale(1870-1915), Roma, Stato Maggiore Esercito, 2006, pp. 599-621. 57 M. Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di fra diavolo sino ai giorni nostri, aggiuntovi l’intero giornale di Borjes finora inedito, Firenze, Barbera, 1862. 58 E. della Rocca, Autobiografia di un veterano, Bologna, Zanichelli, 1898, vol. II (1859-1893). 59 G. Oddo, Il brigantaggio o l’Italia dopo la dittatura di Garibaldi (3 volumi), Milano, Giuseppe Sforza di Nicola, 1863-1865. L’opera di Giacomo Oddo spiegava il brigantaggio come un fenomeno di reazione borbonico-clericale, creato e tenuto in vita da Pio IX e Francesco II a Roma. 60 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano, G. Daelli e C., 1864. 61 Autore dell’Arte militare, pubblicata nel 1871; cfr. F. Botti, Il pensiero militare e navale italiano, cit.dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale (1789-1915), vol. III, pp. 613-619. 62 Il Botti nel suo lavoro ha tralasciato le opere di altri due ufficiali: Giuseppe Bourelly, luogotenente dei bersaglieri che dal 1862 al 1865 prestò servizio nel XXXVI Battaglione del 5° Reggimento Bersaglieri a Rionero, prendendo parte alle operazioni dirette del Pallavicini di cui era un grande estimatore e pubblicò: Il brigantaggio nelle zone militari di Melfi e Lacedonia dal 1860 al 1865 (Napoli, Di Pasquale, 1865), Angelo De Witt, luogotenente del 36° Reggimento fanteria, che pubblicò Storia politico-militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia (Firenze, Coppino, 1884), relativa alle operazioni di controguerriglia nel Molise, Aldobrando Allodi, La Capitanata nelle reminiscenze di un ufficiale subalterno del 49° Reggimento fanteria Brigata Parma 1859-1863, a cura di Tommaso Nardella, S. Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 2005. 55 56 Le pubblicazioni degli Uffici storici militari 219 L. De Felice (inventario a cura di), Fonti per la storia del brigantaggio conservate nell’Archivio Centrale dello Stato- Tribunali militari straordinari, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali- Ufficio centrale per i beni archivistici, 1998; Guida alle fonti per la storia del Brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Voll. I-III, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali-Ufficio centrale per i beni archivistici, 1999, già citato. 64 P. Crociani, Guida al fondo “Brigantaggio”, Roma, Stato Maggiore Esercito- Ufficio storico, 2004; molto interessante è l’introduzione (pp. 3-37). 65 P. Crociani, L’Esercito e il Brigantaggio, pp. 47-63, in Commissione italiana di storia militare, Le forze armate e la nazione italiana (1861-1914): atti del convegno di studi tenuti a Palermo nei giorni 24-25 ottobre 2002, a cura di R. H. Rainero e P. Alberini, Roma 2003 e P. Crociani, Il Brigantaggio: il primo impegno del nuovo stato, pp. 327-334, in Commissione italiana di storia militare, 1861-1871, il nuovo Stato: congresso di studi storici internazionali, CISM, Roma 15-16 novembre 2011, a cura di A. Fighera, P. Alberini e P. Formiconi, Roma 2012. 66 M. G. Greco, Il ruolo e la funzione dell’Esercito nella lotta al brigantaggio (1860-1868), Roma, Stato Maggiore-Ufficio Storico, Roma 2011. 67 A. Crescenzi-A. Gionfrida, Guerriglia e controguerriglia nell’Italia meridionale. Il grande brigantaggio post-unitario, pp. 21-63, in F. Saini Fasanotti, B. Di Martino, F. Cappellano, A. Crescenzi, A. Gionfrida, L’Esercito alla macchia: controguerriglia italiana 1860-1843-L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla seconda guerra mondiale, cit. Nel 2013 Federica Saini-Fasanotti, ha pubblicato su “Rivista militare” un articolo nel quale esamina le Istruzioni ad uso delle truppe destinate alla repressione del brigantaggio, emanate nel 1868 dal generale Pallavicini, alla luce della dottrina di controguerriglia contemporanea. L’autrice ha sottolineato come alcuni principi della dottrina di controguerriglia (la necessità di dividere guerriglieri dai civili, il disarmo della popolazione, la logistica, la sorpresa, l’intelligence) siano rimasti immutati nel corso dell’evoluzione dell’arte bellica, fino a trovare conferma nel manuale del 2007 dei generali statunitensi David H. Petraeus e James F. Amos (F. Saini-Fasanotti, Prodromi di counterinsurgency: applicazioni del pensiero del generale Pallavicini alla dottrina moderna, pp. 68-75, in “Rivista militare” n. 2, aprile-giugno, 2013). 63 ©UNICOPLI nitario63, ha voluto valorizzare le fonti conservate nel proprio archivio con la pubblicazione della Guida al fondo brigantaggio di Piero Crociani64. La Guida che è sostanzialmente un elenco analitico, corredato di utilissimi indici dei nomi, dei luoghi e dei comandi e reparti italiani, del fondo G-11 Brigantaggio, conservato presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, è divenuto uno strumento indispensabile e un insostituibile ausilio alla consultazione delle carte, promovendo una nuova stagione di studi. Tra l’altro Crociani ha contribuito allo studio del fenomeno dal punto di vista militare, partecipando ai convegni organizzati dalla Commissione italiana di storia militare65. Nel 2011 è stata pubblicata una selezione di documenti dell’Archivio dell’Ufficio Storico, anche questi conservati nel fondo G-11 Brigantaggio, in un’edizione critica a cura di Maria Grazia Greco66. Nel 2015 l’Ufficio storico dello Stato Maggiore Difesa ha dato alle stampe, L’Esercito alla macchia, una monografia, di più autori, curata dal generale Basilio Di Martino e da Federica Fasanotti, sulla storia delle operazioni e della dottrina italiana di controguerriglia dal 1860 al 1943. Il primo capitolo è dedicato alla repressione del brigantaggio nell’Italia meridionale e all’evoluzione interna di una dottrina di controguerriglia, elaborata, non a livello centrale ma periferico, dai comandanti delle unità incaricate della stessa repressione67. Anche se- ©UNICOPLI 220 Alessandro Gionfrida condo gli autori, la figura che in qualche modo rappresentò il punto di arrivo di quell’esperienza, riuscendo a tradurre in una vera e propria dottrina, le lezioni apprese sul campo dal 1861 al 1870, fu il generale Pallavicini. La sua Istruzione teorica ad uso delle truppe destinate alla repressione del brigantaggio nelle provincie di Terra di lavoro, Aquila, Molise e Benevento del 186868, che, tra l’altro, prevedeva la costituzione di piccole unità altamente addestrate e capaci di condurre operazioni non convenzionali, anticipatrici dei reparti speciali moderni, ha rappresentato quella che fu la prima tappa nell’evoluzione di una dottrina italiana sulla controguerriglia. Una dottrina che, come quella francese69, nacque in un conteso di guerra civile interna, si sviluppò in un successivo ambito coloniale, passando per le occupazioni dei territori balcanici nel 1941-1943. Chiudiamo questa rassegna, ricordando l’articolo di Carmine Pinto sulle pratiche di controguerriglia, pubblicato nel “Bollettino dell’Ufficio Storico” del 201870. In questo studio le direttive per combattere i briganti emanate dai generali italiani, tra questi Pallavicini, vengono inserite in un contesto di guerra civile generale, alla luce dei nuovi orientamenti storiografici. La dottrina italiana di controguerriglia è analizzata non solo dal punto di vista tecnico-militare ma si sottolinea, in un contesto di legislazione speciale (legge Pica), l’importanza del lavoro d’intelligence e della collaborazione con le formazioni “paramilitari” (Guardia nazionale, contro bande di volontari, ecc.) che, secondo Pinto, ebbero un ruolo importantissimo del distruggere il brigantaggio e furono la testimonianza di quella considerevole parte della società meridionale che credeva e si identificava con il processo di unificazione71. Dai tempi di Massa e Cesari sono stati fatti sicuramente molti passi avanti nell’ambito della produzione editoriale dell’Ufficio Storico sul brigantaggio ma continua a mancare, dopo oltre 150 anni dall’unità d’Italia, una relazione ufficiale dello Stato Maggiore su quella campagna militare. Sulla dottrina di controguerriglia attuale cfr. G. Bonci, controguerriglia-un’analisi di casi storici, Gorizia, LEG, 2019, pp. 9-30. 68 L’istruzione del generale Pallavicini, pp. 44-50 in L’Esercito alla macchia: controguerriglia italiana 1860-1843-L’esperienza italiana di controguerriglia dal brigantaggio alla seconda guerra mondiale, cit. 69 J.M. Lafon, Impérialisme et décolonisation XIXe-XXe Siecles: L’emergence d’une école fancoise de conto-insurrection ?, pp. 63-75, in CIHM, Insurgency and counterinsurgency: irregular warfare from 1800 to the present, Amsterdam, 29 august-03 september 2010, Netherlands Institute of Military History, The Hague, 2011. L’autore fa riferimento all’esperienza della Vandea come inizio della dottrina francese della controguerriglia. 70 C. Pinto, Le pratiche di controguerriglia italiana nella guerra del grande brigantaggio (1861-1866), pp. 279-306 in autori vari, “Bollettino dell’Ufficio Storico” 2018, Roma, Ufficio Storico SME, 2019. Ricordiamo infine l’articolo di M. Landi, Il tribunale militare di Potenza e la guerra al brigantaggio fra il 1863-1865, pp. 181-223 recentemente pubblicato nel “Bollettino dell'Ufficio storico” 2019-2020 , a cura di F. Giardini, D. Spoliti, E. Tirone, Roma, SME, 2021. 71 Questi aspetti sono stati ripresi e approfonditi dall’autore nel suo recente volume: cfr C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno: italiani, borbonici e briganti 1860-1870, cit., pp. 219229, 270, 348-354. PUBBLICA SICUREZZA, GUARDIE NAZIONALI E BRIGANTAGGIO TRA MEMORIALISTICA E STORIOGRAFIA Emilio Scaramuzza Su tutti valga senz’altro citare il volume di Enrico Francia, Le Baionette intelligenti. La guardia nazionale nell’Italia liberale (1848-1876), Bologna, Il Mulino, 1999, cui si può aggiungere relativamente al Mezzogiorno, e a Napoli in particolare, Patrizia De Riccardis, Una Guardia nazionale inquinata: primo esame delle fonti archivistiche per Napoli e provincia, 1861-1870, in “Quaderni dell’Istituto universitario orientale. Dipartimento di scienze sociali”, (II) 2, 1988, pp. 191-204, oltre a Marco De Angelis, Un’istituzione borghese rivoluzionaria: la Guardia nazionale nel Mezzogiorno (1799-1861), in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 3, 2013, pp. 75-93. 1 ©UNICOPLI Trattare del brigantaggio e del suo rapporto con la polizia è compito non da poco, anche a livello storiografico. Nei decenni, infatti, malgrado il ricorrente interesse per il fenomeno in sé, riletto in chiave politica, sociale e culturale – o semplicemente polemica nei confronti del processo unitario – il tema del coinvolgimento della pubblica sicurezza nelle vicende legate alla sua repressione è stato spesso considerato marginale. L’interesse per l’azione dell’esercito o dei carabinieri nel Mezzogiorno nel decennio successivo all’unificazione ha relegato la polizia in secondo piano. Certo, non si può negare che anche la pubblica sicurezza abbia avuto un ruolo in quegli eventi, ma in che misura vi abbia preso parte non è chiaramente determinabile, tanto più se la categoria applicata è unicamente quella della repressione. Ci si trova cioè di fronte a un panorama frammentato, dove alcune figure di prefetti, questori e militari sono state studiate e descritte con dovizia di particolari, ma nel quale si stenta a riconoscere il quadro d’insieme delle pratiche della polizia. In parte, ma non del tutto, differente è il discorso relativo alla guardia nazionale, per la quale esistono studi, anche recenti, complessivi1, nei quali il tema del contrasto al brigantaggio costituisce un passaggio chiave nella secolare storia dell’istituzione (insieme alla sua nascita con la Rivoluzione francese e al rapido sviluppo seguito al 1848). A fronte di tutto ciò non si può non rimarcare il peso, anche a livello storiografico, delle molteplici pubblicazioni relative a questioni di ordine pubblico che videro la luce prima, durante e dopo l’unificazione. Distinte tra manualistica, pubblicistica, o ancora memorialistica, esse concorrono a ricostruire un passaggio sicuramente controverso della storia d’Italia. Perciò, può rivelarsi utile partire da queste fonti ottocentesche per cercare di individuare, e seguire, i fili ©UNICOPLI 222 Emilio Scaramuzza che legano l’attività delle forze dell’ordine, e in particolare della polizia e della guardia nazionale, al contrasto dell’attività criminale e sovversiva all’indomani dell’Unità. Nel 1862, nel momento di maggiore virulenza della reazione nel Mezzogiorno, le istituzioni centrali cercarono, attraverso lo strumento dell’inchiesta parlamentare – una delle prime del regno d’Italia –, di indagare le cause di un fenomeno che stava mettendo alla prova la tenuta del nuovo Stato al Sud. Nasceva così, con l’obiettivo di “studiare le cagioni e lo stato del brigantaggio nelle provincie meridionali, e di additare gli opportuni rimedi”2, la commissione presieduta dal generale garibaldino Giuseppe Sirtori. I suoi lavori sarebbero durati più di sei mesi. Nelle conclusioni, rese pubbliche attraverso la relazione, del 1863, a firma di Giuseppe Massari e Stefano Castagnola, venivano messi in luce quelli che la commissione aveva ritenuto essere i motivi scatenanti l’esplosione del fenomeno brigantesco3. Tra le cause individuate vi erano le difficili condizioni dei ceti subalterni, in particolare dei contadini, aggravate dal malgoverno borbonico, e il fattore “geografico”, che dopo il 1860 aveva avuto il suo peso nel rilanciare e amplificare l’azione dei briganti4. L’assenza di istituzioni stabili e capillarmente diffuse sul territorio aveva fatto il resto: “Nelle incertezze adunque dell’indirizzo governativo, nei facili e continui mutamenti di persone, nelle apparenze d’instabilità dell’attuale ordine di cose, il brigantaggio attinge ragioni di forza e di durata”5. Su un punto in particolare Massari si soffermava: l’assenza, fatte salve alcune rare eccezioni, di capaci forze di polizia a presidio delle province meridionali. Scriveva infatti il deputato pugliese: “La molla essenziale e principale di qualsiasi azione contro il brigantaggio manca, vale a dire, non c’è polizia”6. E aggiungeva poco oltre: L’azione incessante e ben diretta di una polizia oculata e sagace è ostacolo poderoso ai progressi del brigantaggio, il quale attinge ragioni di forza e di durata appunto nella mancanza di quell’azione. Il brigantaggio non potrebbe sussistere in campagna, se non avesse complici nella città e negli abitati; e per conoscere e colpire costoro non v’ha altro mezzo che non sia quello della polizia7. Massari individuava quindi – a prescindere dalla necessità, ovvia e immediata, di reprimere militarmente le bande di briganti – nel ruolo preventivo (la raccolta di informazioni, le perquisizioni mirate, in una parola l’attività che oggi Giuseppe Massari, Stefano Castagnola, Il brigantaggio nelle provincie napoletane, Napoli, stamperia dell’Iride, 1863, p. 1. 3 Sulla relazione Massari il rimando è a Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 107-108 e pp. 262-265. 4 Giuseppe Massari, Stefano Castagnola, Il brigantaggio, cit., pp. 10-14. 5 Ivi, p. 34. 6 Ivi, p. 43. 7 Ibidem. 2 Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 223 potremmo dire di intelligence) della pubblica sicurezza uno di quegli elementi necessari, eppure alla luce dei fatti mancante, per garantire allo Stato il successo nella lotta al brigantaggio. E per ciò che concerne la guardia nazionale, gli interrogativi sono i medesimi o vanno in qualche misura modificati e adattati (anche in ragione del maggiore successo che aveva incontrato la diffusione di quell’istituzione un po’ in tutta la Penisola dopo l’Unità)? Merita quindi partire da qui, dall’interrogativo sulla presenza o meno, e sull’azione, delle forze di polizia nel Mezzogiorno per sviluppare una breve analisi delle pubblicazioni consacrate alla parte avuta dalla pubblica sicurezza e dalle guardie nazionali nel contrasto al brigantaggio durante il primo decennio postunitario. Le pubblicazioni coeve Cfr. ad esempio (Carlo Melegari), Cenni sul brigantaggio. Ricordi di un antico bersagliere, Torino, Roux Frassati & c., 1897. 9 Per riferimenti puntuali si rinvia a Gastone Breccia, Nei secoli fedele. Le Battaglie dei carabinieri (1814-2014), Milano, Mondadori, pp. 43-83. 10 Per un quadro preciso in proposito si rinvia al già citato Enrico Francia, Le baionette, cit., pp. 182-195. 8 ©UNICOPLI L’ampiezza del periodo considerato, che va dagli anni Sessanta dell’Ottocento sino al giorno d’oggi, pone non pochi problemi riguardo al tipo di materiale da studiare: se infatti per i primi decenni ci si può concentrare sui manuali e su una limitata produzione memorialistica, per poter individuare una vera e propria storiografia sul tema occorrerà attendere il principio del Ventesimo secolo. Per ciò che riguarda le opere a stampa diffuse quando il brigantaggio era un fenomeno capace di minacciare l’esistenza stessa del nuovo Stato, bisogna molto spesso rifarsi a scritti di ufficiali dell’esercito, dei carabinieri o di magistrati e prefetti. Qui però s’incontra una prima difficoltà: a fronte della relativa abbondanza di memorie di componenti di dati reparti dell’esercito8 o dell’arma dei carabinieri9, nonché della guardia nazionale10, le pubblicazioni coeve sulla polizia sono poche, in parte per gli stessi motivi illustrati da Massari nella sua relazione, in parte per il ruolo effettivo che le forze dell’ordine ebbero in quegli anni nel Mezzogiorno. Per aggirare il problema e trovare una risposta all’interrogativo iniziale bisogna allora cercare di determinare i compiti e le attività della polizia, e di conseguenza cogliere quale fosse il reale grado di coinvolgimento della pubblica sicurezza nella lotta al brigantaggio. Occorre allora distinguere tra due differenti livelli di polizia: uno più generale, all’interno del quale classificare l’azione, spesso congiunta, delle diverse forze dell’ordine (compreso l’esercito), e uno particolare, relativo alla pubblica sicurezza e alla guardia nazionale intese come istituzioni. ©UNICOPLI 224 Emilio Scaramuzza Nel 1868, Emilio Pallavicini di Priola, “il protagonista della repressione nelle province meridionali e il principale teorico della contro insurrezione italiana”11, pubblicava a Napoli un lungo opuscolo concepito come istruzione teorica per le truppe (di presidio, per la sicurezza degli stradali, a guardia dei Block-haus, ecc.) destinate alla repressione del brigantaggio12. I militari operavano in pratica in “servizio speciale di pubblica sicurezza”, che si divideva in ordinario e straordinario (scorte e traduzione di prigionieri, perlustrazioni, sorprese, appiattamenti, blocchi di paesi, movimenti generali). Ciò che più colpisce a un primo sguardo è la colpevole assenza nel testo del termine polizia. Il ruolo attivo nel contrasto al brigantaggio della pubblica sicurezza – che pure era presente nei centri più o meno grandi, malgrado non lo fosse nelle campagne, dove agivano i briganti e operavano i militari – era semplicemente taciuto dal generale. Non una parola era dedicata all’autorità civile (delegati, questori e prefetti) e a quella giudiziaria, a sottolineare una precisa attitudine dei comandi militari nei confronti dell’autorità politica, cui pure avrebbero dovuto rispondere o, quanto meno, con cui avrebbero dovuto rapportarsi per contrastare più efficacemente il fenomeno. Alcuni anni prima, nel settembre del 1863, aveva visto la luce a Benevento, per gli stessi tipi di Gaetano Nobili, un altro opuscolo, molto più breve, ma di sicuro interesse. L’autore, il modenese Fabio Papazzoni de’ Manfredi13 – che avrebbe svolto una lunga carriera di funzionario in seno all’amministrazione civile, fino a divenire sottoprefetto nel Principato citeriore nei primi anni Settanta dell’Ottocento – aveva steso una lucida analisi sull’organizzazione delle forze contro il brigantaggio14. Fin dal principio, egli poneva l’accento sulla subordinazione di fatto delle autorità civili rispetto a quelle militari: “A combattere codesto brigantaggio prevale l’elemento militare sul cittadino e politico, che dovrebbero però sempre andare di pari passo e muovere energici e concordi al medesimo fine”15, cioè allo scopo di “costituire un insieme compatto, omogeneo, veramente patriottico e nazionale”16. In pratica, quello che Papazzoni de’ Manfredi auspicava era un’improbabile convergenza di interessi, e di conseguenza un effettivo coordinamento, tra i numerosi attori presenti sulla scena meridionale al fine di debellare il brigantaggio dal territorio. Tuttavia, la realtà dei fatti 11 Carmine Pinto, La dottrina Pallavicini. Contro insurrezione e repressione nella guerra del brigantaggio (1863-1874), in “Archivio storico per le province napoletane”, CXXXII (2014), p. 71. 12 Emilio Pallavicini Priola, Istruzione teorica ad uso delle truppe destinate alla repressione del Brigantaggio nelle province di terra di lavoro. Aquila, Molise e Benevento, Napoli, st. tip. Gaetano Nobile, 1868. 13 Nato nel 1826, Papazzoni era stato a lungo consigliere di prefettura nel Mezzogiorno. 14 Fabio Papazzoni de’ Manfredi, Dell’organizzazione delle forze contro il Brigantaggio, Benevento, st. tip. Gaetano Nobile, 1863. Il corsivo è dell'autore. 15 Ivi, p. 1. 16 Ivi, p. 10. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 225 17 Sul punto si veda il recente volume di Giuseppe Ferraro, Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (1861-1865), Firenze, Le Monnier, 2016. 18 Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, Il Brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Studio storico-politico-statistico-morale-militare, Milano, Daelli e c., 1864. 19 Ernesto Ravitti, Francesco II ed il conte di Saint-Jorioz. Dal giornale triestino Il Diavoletto (Numeri 189, 190, 191 e 192 dell’anno 1864), Trieste, tip. del Lloyd Austriaco, 1864, p. 4. Si veda inoltre la recensione apparsa sulla “Gazzetta del Popolo di Torino”, suppl. al n. 128 del 9 maggio 1864. 20 Sull’azione del generale Govone nel Mezzogiorno si veda Marco Scardigli, Lo scrittoio del generale. La romanzesca epopea risorgimentale del generale Govone, Torino, UTET, 2006. 21 “Gazzetta del popolo di Torino”, 9 maggio 1864. 22 Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, Il Brigantaggio, cit., p. 41. Riguardo alla presenza dei delegati di PS nel Mezzogiorno postunitario può essere utile rifarsi al recente saggio di Andrea Azzarelli, Un type de police européenne particulier : la présence sur le territoire de la Pubblica Sicurezza italienne et le cas de la Sicile (1862-1914), in “Crime, Histoire & Sociétés”, 2019, 23, 1, pp. 65-90. ©UNICOPLI era ben più complessa, come avrebbe evidenziato di lì a breve lo scontro tra il prefetto di Reggio Calabria Enrico Guicciardi e il generale Pallavicini17. Una parziale eccezione alla mancanza di materiale relativo al tema poliziesco è rappresentata dal noto volume del 1864 del conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, allora capitano dell’esercito italiano, Il brigantaggio alla frontiera pontificia18, e da una polemica risposta indirizzata all’autore da uno dei funzionari di pubblica sicurezza chiamati in causa nel libro. Nel suo scritto – nato, secondo un critico “legittimista”, “col duplice scopo di additare ancora una volta all’esecrazione dell’universo mondo il Governo dei Borboni di Napoli, e di sminuire nella pubblica opinione il significato del così detto Brigantaggio, che da quattro anni infierisce nelle provincie meridionali dell’attuale Regno d’Italia”19 – l’ufficiale piemontese figlio del teorico della guerra d’insurrezione per bande analizzava cause, problematiche e mezzi (repressivi) da utilizzare nella guerra ai briganti. Il testo, che si voleva una narrazione coerente scaturita dai dati raccolti durante l’attività svolta come ufficiale dello Stato Maggiore, era dedicato al generale Govone, alto ufficiale sabaudo, anch’egli impegnato nella repressione al brigantaggio alla frontiera pontificia, prima di essere destinato in Sicilia20. Come rilevava una breve recensione apparsa sul quotidiano moderato la “Gazzetta del popolo di Torino” nel maggio del 1864, il volume andava letto parallelamente alla relazione della commissione d’inchiesta sul brigantaggio apparsa l’anno prima21; i due scritti infatti si contemperavano e si completavano. Gli elementi sottolineati nei testi erano i medesimi, sebbene venissero descritti in maniera differente: le profonde cause sociali del malessere contadino che aveva originato il brigantaggio, l’incuria delle istituzioni preunitarie che le aveva acuite, la natura del terreno che agevolava le imprese brigantesche e, in ultimo, il punto che più ci interessa ai fini dell’analisi sulle forze di pubblica sicurezza nel Mezzogiorno – un dato, seppur minuscolo, di fondo – ovvero la quasi totale assenza di forze di polizia22. Questa veniva letta come un ulteriore elemento a riprova dell’imbar- Emilio Scaramuzza 226 barimento causato al Sud dal malgoverno borbonico: “Ma quando non vi sono nè istituzioni, nè leggi, nè magistrati, nè tribunali, nè polizia, nè amministrazione, né amministratori, come volete moralizzare un popolo singolarmente guasto dalle cattive leggi e dai cattivi esecutori di esse?”23. La conclusione dell’ufficiale piemontese era quindi lampante, e ricalcava grossomodo le riflessioni di Papazzoni de’ Manfredi: ©UNICOPLI Ottimi talora e operosissimi Generali non riuscirono, nè in Basilicata nè nel Beneventano, a nessun serio progresso in tre anni; e il Pallavicino (sic) stesso non ce ne dà ora maggior fiducia nelle Provincie in cui agisce, se non perché vi si vede operare d’accordo col Prefetto e con la Polizia. Ogni buon effetto e duraturo si vede dunque evidentemente risultare in questa guerra da un’opera complessa, in cui lo sforzo militare non tiene guardati gli effetti, il luogo principale24. In pratica, come il consigliere di prefettura modenese, Bianco di Saint-Jorioz era giunto alla conclusione che il fenomeno del brigantaggio sarebbe stato sconfitto solamente mediante il concorso, quella che lui definiva “un’opera complessa”, di tutte le forze dello Stato presenti sulla scena, compresa la polizia, che tuttavia secondo lui scontava il “peccato originale” di essere composta da individui inetti o, peggio, da criminali. In particolare, nel secondo capitolo del suo libro, dedicato a “prefetti, sotto-prefetti di circondario, giudici di mandamento, delegati di Pubblica sicurezza ed altri impiegati”25, Bianco di Saint-Jorioz si soffermava sulla necessità dei militari di oltrepassare le proprie prerogative, in pratica le “regole d’ingaggio”, date le circostanze eccezionali nelle quali si trovavano a operare, di fatto scavalcando l’autorità civile. Malgrado infatti la loro profonda onestà e preparazione, prefetti e autorità di polizia in genere non erano in grado, secondo Bianco di Saint-Jorioz, di superare l’impasse normativa per sconfinare talvolta nell’illegalità, unico modo per venire a capo della questione. Egli non ammetteva quindi, al pari della maggioranza dei suoi colleghi, alcuna subordinazione dei militari all’autorità civile. Scriveva dunque: “Se l’Autorità militare avesse a dare ascolto ai Sotto Prefetti e Prefetti, bisognerebbe tenere un esercito ad ogni miglio, e le bande brigantesche avrebbero le proporzioni dell’esercito di Serse. Mandano telegrammi a pioggia colle notizie le più sformate e stolte” e aggiungeva, con intento polemico, “del resto i Prefetti non saranno mai informati del vero, finché avranno al loro fianco, per consiglieri e per amici dei delegati di Pubblica Sicurezza come Esperti, Tofani, Colombo, Mazza e compagnia bella”26. La naturale avversione dell’ufficiale di Stato Maggiore per la lentezza e l’inefficacia dell’autorità civile sfociava qui nello scontro personale. 23 24 25 26 Ivi, p. 22. Ivi, p. 260. Ivi, p. 149. Ivi, p. 153. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 227 Ivi, p. 355. Ivi, p. 363. 29 Ivi, p. 355. 30 Ibidem. 31 Ivi, p. 344 32 Ivi, 344-345. 33 Ivi, p. 57. 34 Ivi, p. 82. 35 Vincenzo Tofani, Il Brigantaggio alla frontiera pontificia. Lettera del Delegato di Pubblica Sicurezza Vincenzo Tofani, in risposta al libro del Conte Bianco di Saint-Jorioz, Napoli, Tipografia del Giornale di Napoli, 1864. 36 Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, Il Brigantaggio, cit., p. 166. 27 28 ©UNICOPLI Ancora in conclusione Bianco di Saint-Jorioz riprendeva la sua disamina sugli ufficiali di polizia sottolineandone i difetti: “Volerne nuovamente e partitamente enumerare gli abusi di potere, le soperchierie, ed il mal costume, è cosa anziché ardua impossibile (…). Quello che puossi aggiungere al gravissimo già detto si è, che gl’individui che la compongono sono il fecciume di quanto avvi d’immorale e di perverso nelle fogne e nei postriboli di Napoli”27. Le sue considerazioni sulle condizioni del corpo e dei suoi componenti si condensavano perciò nell’invito a procedere una “riforma radicale della Magistratura e delle Guardie di Pubblica Sicurezza”28, al fine di licenziare il maggior numero possibile di poliziotti “altrimenti il prestigio di quella instituzione, ora del tutto perduto e d’altronde tanto necessario a mantenersi, non risorgerà mai più”29. Al più che severo giudizio del piemontese sulla polizia faceva da contraltare un sentito ringraziamento all’arma dei carabinieri la cui “condotta morale, il modo urbanissimo col quale disimpegna il suo servizio, il suo contegno è superiore ad ogni elogio”30. Mentre ancora differente è il caso della guardia nazionale, sulla quale l’ufficiale non riusciva ad esprimere un giudizio univoco proprio in virtù della sua esperienza passata. Infatti, se “la guardia nazionale di Castelforte non mancò mai all’appello delle truppe per eseguire perlustrazioni”31 e “quella di San Donato si distinse pure in varie occasioni per buona volontà e per energia”32 a Rocca d’Arce “la guardia nazionale serve poco e male”33, mentre a Galluccio l’intera aliquota presente in “tutto quel comune è cattiva”34. Inutile dire che tutto ciò derivava dalla particolare composizione (locale) del corpo, nonostante il quadro normativo nazionale. Va da sé, inoltre, che anche la guardia nazionale avrebbe dovuto rimanere, nell’ottica di chi scriveva, subordinata ai militari. Le accuse contenute nel volume di Bianco di Saint-Jorioz e il suo giudizio a dir poco tranchant sull’operato e la composizione della pubblica sicurezza nel Mezzogiorno trovarono parziale risposta in un acceso pamphlet pubblicato a Napoli in quello stesso 1864 dal delegato di pubblica sicurezza Vincenzo Tofani, direttamente chiamato in causa, del resto, dall’ufficiale piemontese35. Nella sua accesissima replica, il poliziotto accusato nel volume di appropriazione indebita e malversazioni rispondeva punto su punto agli addebiti36. È sicuramente da rimarcare come le due opposte ricostruzioni comparissero rispettivamente a Milano e a Napoli, là dove avrebbero in definitiva trovato migliore accoglienza, ©UNICOPLI 228 Emilio Scaramuzza come d’altronde testimonia la già citata positiva recensione che la “Gazzetta del Popolo” di Torino aveva riservato allo scritto del capitano piemontese. Nel suo pamphlet, Tofani, punto sul vivo, insisteva nel dire che unico scopo dell’opera di Bianco di Saint-Jorioz era quello di “malignare a speculazione”37. La risposta ai giudizi tanto negativi quanto parziali di Bianco di Saint-Jorioz non poteva che configurarsi come una replica in cui si evidenziavano tutti gli elementi della contrapposizione tra un Sud arretrato e un Nord civilizzato e civilizzatore contenuta nel libro: “signor Conte, chi siete voi, che vi levate a censore d’una sì gran parte d’Italiani, e, spirito purificato, aguzzate lo sguardo in tante sozzure, senza punto lordarvi?”38. Mosso dalla volontà di difendere la propria dignità di funzionario ferita Tofani ci offre purtuttavia una bella descrizione dei mesi a cavallo tra il 1861, ovvero da quando era stato nominato delegato di pubblica sicurezza in Terra di Lavoro, e il 1864. Finalmente ci si apre dinanzi uno spaccato, da vagliare attentamente, sul ruolo e l’azione di un ufficiale di polizia nel pieno Mezzogiorno postunitario. Nel suo scritto, egli forniva infatti notizie sulle operazioni di polizia – certo di minore portata rispetto a quelle militari – e sull’utilizzo di una “squadra mobile” da dirigere ove si fossero verificate particolari tensioni o si fossero registrati attacchi di briganti. Alle puntuali accuse che Bianco di Saint-Jorioz gli aveva rivolto, egli rispondeva adducendo precise testimonianze che palesemente contraddicevano la ricostruzione, a larghi tratti superficiale, del conte e concludeva accusando il piemontese di non essere altro che un “vile mentitore, un calunniatore”39. Come che sia, lo scontro a distanza tra il poliziotto Tofani e il militare Bianco di Saint-Jorioz testimonia di due diverse maniere di intendere il proprio ruolo e in generale il ruolo delle forze armate e dell’autorità politica, ancorché in un contesto di eccezionalità come quello del Mezzogiorno postunitario. Si scontravano cioè non solo due visioni differenti del Sud, ma soprattutto due pareri, se non opposti, comunque discordi, sui metodi da applicare nella lotta al brigantaggio. Da un lato vi era infatti la percezione di un’alterità del Mezzogiorno propria di un ufficiale piemontese che non era punto capace di ricondurre ai propri schemi mentali e culturali la società meridionale – per cui non riusciva a dar una risposta (anche teorica) che non fosse unicamente repressiva al fenomeno –, dall’altro un gioco neanche tanto sottile a richiamare l’italianità di quelle regioni, nonostante i mali che le affliggevano in quel momento. Nel mezzo, vi era la realtà di un Sud ferito, vittima delle mille contraddizioni di una troppo rapida unificazione. Una terza possibile interpretazione della questione è quella che ricorre nelle pagine di un lungo opuscolo pubblicato a Firenze nel 1865 dal deputato bellunese Filippo De Boni – esponente di primo piano della democrazia risorgimentale – rimasto a Napoli dopo la spedizione garibaldina del 1860 e quindi discreto co- 37 38 39 Vincenzo Tofani, Il Brigantaggio, cit., p. 5. Ivi, p. 6. Ivi, p. 49. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 229 noscitore della realtà meridionale. Il pamphlet costituiva un articolato indirizzo del deputato ai suoi elettori del collegio lucano di Tricarico. In esso, l’antico mazziniano sottolineava le storture e le incongruenze dell’unificazione e della forzata “piemontesizzazione” del Mezzogiorno, aggravate dopo il 1862 dall’incapacità di far fronte al brigantaggio se non con mezzi repressivi: Scemarono dentro le nostre forze, violando le leggi, sconvolgendo le istituzioni, torturando muti perché parlino, affumicando creature umane, a poco a poco consegnando la Toscana in mano de’ Paolotti, scacciando i buoni impiegati e premiando i tristi, industriandosi ad erigere una polizia secondo gli usi borbonici40. Con tale serie maravigliosa di errori alienate quelle provincie, dispersa la parte liberale, stabilito il brigantaggio, si dié la cura di soffocarlo unicamente all’esercito. Il quale per l’opera governativa si trovò solitario, talora malvisto in mezzo a quell’ignoto labirinto di valli, di campagne, di sassi e di boschi, ricinto da insidie e pericoli42. Concludeva De Boni laconicamente, aprendo tutt’altra prospettiva politica: “Torino scontenta al pari di Napoli”43. Quali furono dunque le risposte che lo Stato unitario seppe mettere in campo per risolvere un problema ricondotto semplicemente e pervicacemente a mera questione di ordine pubblico? Legge, ordine, politica e repressione Nel periodo che va dal dicembre del 1862 a tutto il 1865, almeno otto progetti legislativi videro la luce in risposta alla diffusione del brigantaggio; di questi cinque divennero legge, a partire dalla cosiddetta legge Pica44 –, che recepiva buona parte delle indicazioni della commissione d’inchiesta presieduta dal generale Sirtori. Al tempo stesso avevano seguito il loro iter in Parlamento altri provvedi- Filippo De Boni, Agli elettori di Tricarico. Ricordi, Firenze, Ciampi, 1865, p. 49. Cfr. Roberto Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio, 1861-1865. Bologna, il Mulino, 1980, p. 142ss. 42 Filippo De Boni, Agli elettori, cit., p. 33. 43 Ibidem. 44 Sul punto si veda Mario Sbriccoli, La commissione di inchiesta sul brigantaggio e la legge Pica, in Storia del diritto penale e della giustizia, t. I, Giuffrè, Milano, pp. 467- 483. 40 41 ©UNICOPLI Su un punto in particolare De Boni concordava con Bianco di Saint-Jorioz, sul problema della composizione della polizia, nella quale permanevano elementi legittimisti, abilmente mascherati da conservatori41. I governanti infatti non erano stati in grado di giudicare la realtà politica e sociale del Mezzogiorno. La repressione a mezzo dell’esercito, con i suoi limiti, era la naturale conseguenza di tutto ciò: ©UNICOPLI 230 Emilio Scaramuzza menti relativi al riordino e alla riforma del personale di pubblica sicurezza, della guardia nazionale45, o ancora dei carabinieri, e numerosi regolamenti organici erano stati approvati. Di tutto ciò si trova traccia nei manuali e nei periodici dedicati alle forze dell’ordine. Per quanto concerne la guardia nazionale, Enrico Francia ha evidenziato come, nel primo decennio post-unitario, non meno di sei testate – con varia periodicità – dedicate a quell’istituto videro la luce. Esse si “proponevano di spiegare il ruolo della milizia all’interno del nuovo Stato, sollecitarne l’organizzazione, fungere da strumento di alfabetizzazione normativa per i responsabili della milizia”46. La funzione di educazione normativa, unita alla dimensione addestrativa, rientrava quindi nella stampa, solitamente a livello squisitamente locale, di manuali. Dopo il 1860 si registrò un’impennata di questo tipo di pubblicazioni, al Nord come al Sud47. Nel Mezzogiorno in special modo, la trattatistica coeva non poteva esimersi dal considerare il problema del brigantaggio e le conseguenti ricadute operative per la guardia nazionale. Così il Vade Mecum della Guardia Nazionale, che aveva avuto già due edizioni a Napoli nel 1861 e nel 1862, l’anno successivo usciva, sempre nella città partenopea, con un’appendice di una quindicina di pagine relativa alla “Repressione del brigantaggio”48. In essa si trovavano raccolti tutti i principali provvedimenti legislativi adottati nel frattempo dal governo per far fronte alle crescenti difficoltà riscontrate nel Mezzogiorno dall’esercito italiano49, oltre a una serie di consigli operativi da applicare alla lotta ai briganti e motivati dalla seguente considerazione: La guerra contro il brigantaggio è una lotta speciale, la quale non può aver regole ben definite, ma soltanto norme particolari, come quella che esce da tutti i dati ammessi nella buona guerra, vale a dire tra soldati e soldati. I nemici che si hanno a combattere sono bande organizzate di assassini, e di uomini posti fuor della legge per gli orribili delitti di cui sono insozzati. È d’uopo perciò che gli ufficiali delle Guardie Nazionali adoperino quegli strattagementi che vengono imposti dalle circostanze.50 Non fa differenza il caso della polizia, se non per il minor numero di pubblicazioni. Nel Manuale del funzionario di pubblica sicurezza, meglio noto come 45 Per un quadro più preciso merita rifarsi a Enrico Francia, Profilo di un’istituzione liberale: la guardia nazionale in Italia (1848-1876), in “Storia Amministrazione Costituzione. Annale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica”, 1/1993, pp. 107-134. 46 Id., La stampa per la guardia nazionale (1860-1870), in Nicola Labanca (a cura di), Fogli in uniforme. La stampa per i militari nell’Italia liberale, Milano, Unicopli, 2016, p. 33. 47 Cfr. Id., Le baionette, cit., pp. 99-101. 48 Vade Mecum della Guardia nazionale. Manuale completo, Napoli, 1863. L’appendice sul brigantaggio consta di diciassette pagine. 49 Erano tra l’altro menzionati il Progetto della commissione nominata per i rimedii da proporsi contro l’estensione del Brigantaggio, il regio decreto 15 agosto 1863, controfirmato dal ministro Peruzzi, e due circolari dello stesso (una relativa alla formazione di squadre di volontari, l’altra inerente agli Ispettorati provinciali della guardia nazionale). 50 Vade Mecum, cit., appendice, p. x. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 231 Nicola Labanca, Michele Di Giorgio, Una cultura professionale per la polizia dell’Italia liberale. Antologia del “Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria” (1863-1912), Milano, Unicopli, 2015, p. 91. 52 Ivi, p. 13. 53 Per una breve sintesi si veda John Anthony Davis (a cura di), Gramsci and Italy’s passive revolution, Londra, Croom Helm, 1979. 54 Napoleone Colajanni, Nel Regno della mafia. Dai Borboni ai Sabaudi, Roma, Rivista Popolare, 1900. 51 ©UNICOPLI “Manuale Astengo” (dal nome del suo fondatore e principale animatore), rivista apparsa per la prima volta nel 1863, negli stessi anni cioè in cui il brigantaggio toccava il suo apice, sono pochi i riferimenti diretti al fenomeno. Al più si trattava, come nel caso della guardia nazionale, di rimandi alla normativa vigente. La formula del manuale del funzionario di pubblica sicurezza era infatti semplice: “pubblicare leggi, circolari, direttive e sentenze accompagnandole con commenti, moderati ma indipendenti, cauti ma fermi”51. Per la sua particolare natura tuttavia, come ha scritto Nicola Labanca, esso si configura come una “fonte documentaria di più storie: storia della polizia, ovviamente, ma anche storia della criminalità, storia della società italiana, storia delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche, storia dei corpi di amministratori che hanno fatto la storia d’Italia”52 e in tal senso va letto. Il “Manuale Astengo” restituisce cioè il polso di un’epoca, quella dell’Italia liberale, vista attraverso il prisma della polizia. Malgrado la sua analiticità, né il manuale, né, di conseguenza, l’antologia edita di recente si soffermano più di tanto sulla questione del brigantaggio, pure coincidente con i primi anni di vita del periodico. È interessante notare come, parallelamente alla diminuzione della virulenza degli attacchi di briganti nel Mezzogiorno, anche sulla rivista a partire dal 1863 diminuiscano i riferimenti al tema (solo otto nel 1863, sei nel 1864, tre nel 1865, e così via). In pratica anche l’attenzione all’aspetto meramente normativo (leggi, regolamenti, circolari) venne meno di pari passo con lo scolorimento del fenomeno stesso. Solo il passaggio tra l’Otto e il Novecento avrebbe mutato il paradigma di analisi sulla “questione meridionale”53 e sul brigantaggio, in ragione soprattutto del confronto tra le forze di pubblica sicurezza e nuovi e temibili avversari come la “criminalità organizzata”, mafia e camorra in particolare, o ancora a causa della diffusione del verbo socialista. L’autore di Nel regno della Mafia54, Napoleone Colajanni, in un discorso alla Camera dei deputati del 1902, aveva descritto, relativamente alla Sicilia, gli annosi problemi relativi alla composizione del corpo delle guardie di pubblica sicurezza, ai conflitti di competenza con altri corpi dello Stato, come i carabinieri reali, ai rapporti con i proprietari terrieri e all’intervento quasi esclusivamente repressivo della polizia, ovvero all’utilizzo al solo fine elettorale delle forze dell’ordine. La conclusione del deputato siciliano era lampante e chiamava in causa le radici profonde di un malessere comune a tutto il Sud: 232 Emilio Scaramuzza ©UNICOPLI Le stesse cose si possono dire del Mezzogiorno, dell’Italia Continentale. Dalla repressione del brigantaggio fino all’ultima lotta elettorale provinciale di Napoli, noi abbiamo una serie di atti che servono a confermare nelle popolazioni il concetto che la giustizia è una parola vana, che l’interesse parlamentare è quello che s’impone su questa o su quell’altra questione”55. Il deputato siciliano legava quindi la “questione meridionale” come era venuta configurandosi sul finire dell’Ottocento a un determinato modo di agire delle autorità centrali e locali, a una ben precisa volontà politica, e poliziesca, che gli epigoni dei primi governi unitari avevano trasposto nel nuovo secolo. Non è inutile qui sottolineare come soprattutto la lettura gramsciana della “questione meridionale” tragga spunto da simili considerazioni. Per Antonio Gramsci, negli anni successivi al 1860 si era presto delineata un’alleanza tra i proprietari del Sud e le classi dirigenti del Nord, alleanza di cui avevano fatto le spese i ceti subordinati, alla costante ricerca di una soluzione agli annosi problemi della redistribuzione delle terre e del ripristino degli usi civici e gravemente indeboliti dallo sviluppo del latifondo nel cuore dell’economia agricola del Mezzogiorno. In tutto ciò, egli leggeva l’intervento delle forze dell’ordine come un ulteriore elemento a riprova della volontà repressiva delle classi dirigenti sabaude, malgrado le giuste rivendicazioni dei contadini56. Con tutta probabilità egli leggeva nei volti dei poliziotti e dei carabinieri chiamati a raffrenare i ceti popolari, quella “smorfia di Gwymplaine” imputata a un odio di classe di lunga data57. A maggior ragione tale discorso sarebbe stato inverato dalla politica del ventennio fascista per cui non molto distanti a livello interpretativo, sebbene provenienti da altra matrice politica, sono due scritti del 1952 che merita qui citare. In quell’anno, il senatore repubblicano Giovanni Conti, avvocato e giornalista antifascista, prossimo a lasciare l’incarico parlamentare alla naturale scadenza della legislatura l’anno successivo, dava infatti alle stampe due lavori, il primo dedicato alla giustizia, tema d’attualità e particolarmente vicino ai suoi interessi, pubblicato a Roma dalla Casa editrice italiana, e il secondo, ben più interessante ai nostri fini, apparso per i medesimi tipi con il titolo evocativo di L’Italia nella servitù, pagine di storia, dove il sottotitolo introduceva un’ulteriore specifica ed elencava i temi toccati nel volume: “Brigantaggio politico, mafia, camorra, po- 55 APCD, XXI Legislatura - 2.a Sessione, 1902, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1902, p. 4658. 56 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, vol. 5, Il Risorgimento, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2012, pp. 242-243. 57 Così in un articolo apparso nel 1921: “Gli agenti dello Stato addetti al mantenimento dell’ordine pubblico sentono attorno a sé il disprezzo che tutta la classe lavoratrice ha per i rinnegati, per quelli che sono passati nell’altro campo, per i mercenari che impegnano ogni loro energia per soffocare qualsiasi movimento del proletariato” (in “L’Ordine Nuovo”, 30 agosto 1921, I, n. 241). Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 233 I modi di governo determinano modi di funzionamento di tanti organismi dello Stato. Senza riandare troppo nei tempi si considerino i modi di governo del regno, dopo il 1860, quelli della destra, quelli della sinistra, e i modi di governo attuali, nella lotta contro il banditismo, contro la mafia in Sicilia, contro la criminalità e contro illegalismi in tutto il Paese; sono sempre gli stessi, seppure contenuti e controllati, ma non mai rettificati utilizzando come elementi preziosi di rinnovamento le nascenti energie popolari, non più respinte, ma elevate a dignità civile, dalla Costituzione della Repubblica61. Anche in questo caso faceva premio su un giudizio bilanciato del brigantaggio e della sua repressione la lettura che vedeva esclusa e offesa dal discorso nazionale parte rilevante della popolazione italiana, nonostante o forse proprio in ragione delle radici profondamente ancorate nel pensiero repubblicano dell’autore di queste righe. 58 Giovanni Conti, L’Italia nella servitù. Brigantaggio politico, mafia, camorra, polizie, governi. Pagine di storia, Roma, Casa editrice italiana, 1952. 59 Ivi, p. 20. 60 Ivi, p. 28. 61 Ivi, p. 29. ©UNICOPLI lizie, governi”58. Questa raccolta di scritti di vari autori, tra cui Ulloa, Capuana, Mosca, Franchetti e altri, era stata pensata per rispondere agli stimoli della vita politica italiana dei primi anni Cinquanta. In essa erano volutamente accostati i termini di brigantaggio, polizia e mafia. Conti avrebbe quindi fatto suo malgrado da apripista per una rilettura, che oggi definiremmo di marca revisionista ma che a ben guardare offre sollecitazioni differenti e più profonde, delle vicende italiane dei novant’anni allora trascorsi. Nell’introduzione al volume la sua critica principale era rivolta alla ormai nota questione della repressione, che aveva caratterizzato l’attività delle forze dell’ordine in Italia fin da prima dell’Unità: “Il rimedio meno efficace si è rivelato quello della repressione affidata alle forze di polizia e militari. La repressione non elimina il male: ne tronca la manifestazione esterna, visibile, quella che offende nell’ora che passa, non ne tocca la radice”59. Perciò, “la polizia doveva essere svincolata, liberata da ogni legame col passato, per divenire un istituto stimato dal Paese e capace di concorrere, con la sua azione, non solo alla tutela della pubblica pace, ma alla riforma morale, che è premessa di civiltà”60. La conclusione cui Conti era giunto, sulla base delle letture presentate nel volume, era quella che vi fosse una continuità profonda, non solo nell’azione della polizia, ma nella vita stessa delle istituzioni, tra l’Italia liberale e l’Italia uscita dal fascismo e dalla guerra: 234 Emilio Scaramuzza ©UNICOPLI Polizia e storiografia Un rilancio della prospettiva liberale si registrò alcuni anni più tardi a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Il 37° congresso di storia del Risorgimento, tenutosi a Bari più di sessant’anni fa, sul finire del mese di ottobre del 1958, rappresentò una buona occasione per rivisitare il tema, tra gli altri molto sentito, della questione meridionale, riletto però dalle posizioni del liberalismo moderato. Tuttavia, i tempi non erano ancora maturi perché la storia della pubblica sicurezza potesse trovare vasta eco nella storiografia italiana. Nel 1966 vedeva la luce il lavoro, questo sì dedicato specificamente al brigantaggio, e a tutt’oggi in buona misura ancora insuperato, di Franco Molfese, il primo in grado di proporre uno studio organico del fenomeno. Anche in questo lavoro, tuttavia, il ruolo principale, et pour cause, fra gli attori impegnati nel contrasto ai briganti è quello ricoperto dall’esercito, fin dall’inizio “chiamato a presidiare l’intera area del Mezzogiorno, in un momento di gravi convulsioni, con forze del tutto insufficienti”62; da qui l’utilizzo di metodi extralegali per riportare l’ordine e, a partire dalla primavera del 1861, il costante afflusso di nuove forze per far fronte al problema. Tuttavia, l’opzione militare, ovvero l’unica risposta che le autorità probabilmente erano in grado di concepire, specie all’inizio non fu sufficiente per risolverlo: “Cialdini, malgrado la giusta comprensione “globale” del fenomeno del brigantaggio, fu costretto a lottare contro la guerriglia prevalentemente sul terreno militare, dove più aleatori ed effimeri erano i risultati”63. In pratica, volendo riassumere, al di là della lettura sociale dell’opera di Molfese, i protagonisti degli scontri e delle operazioni nel Mezzogiorno sono e rimangono i militari e, in maniera subordinata, le guardie nazionali64. Della polizia, o meglio delle guardie di pubblica sicurezza, quasi non si rinviene traccia nel volume. Infatti, solo in seguito alla pubblicazione dei risultati dell’inchiesta sul brigantaggio – sostiene Molfese – anche la polizia divenne interessante per il governo. Sulla scorta delle considerazioni di Massari e di altri componenti della commissione parlamentare si intervenne al massimo livello per riformare l’istituzione: La principale cura del ministro dell’interno andava alla riorganizzazione della polizia nelle provincie meridionali. La commissione parlamentare d’inchiesta aveva raccolto pareri quasi unanimi sulla insostituibilità di una efficiente polizia per una efficace repressione del brigantaggio, a cui facevano contrasto le numerose testimonianze sulla 62 Franco Molfese, Storia del brigantaggio, cit., p. 36. Sull’importanza del ruolo dei militari nella ricostruzione di Molfese, basti citare il titolo molto eloquente di un paragrafo del suo libro “L’esercito, protagonista della repressione” (ivi, p. 177). 63 Ivi, p. 91. 64 Sul punto si veda Enrico Francia, Le baionette, cit., p. 187. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 235 inefficienza o addirittura sulla corruzione di molti funzionari di polizia e in particolare degli agenti del corpo delle guardie di pubblica sicurezza65. Franco Molfese, Storia del brigantaggio, cit., p. 247. Finalmente, nella sua documentatissima analisi, Molfese riapriva una parentesi sulla polizia in relazione alla repressione del brigantaggio. Rileggendo l’operato delle autorità centrali, emerge la necessità dopo il 1862 di una riforma ed epurazione del corpo di pubblica sicurezza nel Mezzogiorno in seguito alla convinzione di Peruzzi e Spaventa che “gran parte dell’inefficienza della repressione del brigantaggio fosse dovuta alla disorganizzazione della polizia” (ivi, p. 248). 66 Ivi, p. 340. 67 Nicola Labanca, Per lo studio delle polizie nell’Italia contemporanea, in Pasquale Marchetto, Antonio Mazzei (a cura di), Pagine di storia della Polizia italiana, Torino, Neos, 2004, p. 13n. 68 Aldo Berselli, Amministrazione ed ordine pubblico dopo l’Unità, in Atti del LII Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Roma, Istituto di Storia del Risorgimento, 1986, pp. 167-213. 69 Alfonso Scirocco, Il Regno delle Due Sicilie, ivi, pp. 297-323. 65 ©UNICOPLI Si ritrovano qui, recepiti dallo storico, i medesimi elementi che avevano dato luogo all’accesa polemica tra Alessandro Bianco di Saint-Jorioz e Vincenzo Tofani, a cominciare dalla necessità di riformare la polizia a causa dell’inefficienza e della corruzione diffusa nel corpo, cui si aggiungevano contrasti, talvolta latenti, talaltra manifesti tra il corpo delle guardie di pubblica sicurezza e i carabinieri. Molfese dedicava quindi poche pagine alla polizia in sé, essendo giustamente la sua ricostruzione dominata dallo studio del quadro di eccezione – sotto più punti di vista – della lotta al brigantaggio nel Mezzogiorno: la legislazione di emergenza e lo stato d’assedio furono infatti le armidi cui disposero i governi della destra moderata per aver ragione dei democratici (e quindi dei garibaldini fermati sull’Aspromonte) e dell’opposizione antiunitaria, per passare poi all’offensiva contro i briganti66 e ottenere un successo pagato a carissimo prezzo. Negli anni Settanta e poi, con maggiore decisione, a partire dagli anni Ottanta, tornò a riaffacciarsi la questione dell’ordine pubblico in relazione ad eventi politici di portata maggiore, come l’unificazione italiana, anche sulla scorta delle nuove tendenze storiografiche che avevano attecchito oltralpe. In tale rinnovato contesto rientrano appieno i lavori del 52° congresso di storia del Risorgimento italiano, tenutosi a Pescara nel 1984. Per la prima volta il termine polizia appariva al centro della riflessione degli storici convenuti nel capoluogo abruzzese. Gli atti pubblicati nel 1986 riassumono bene il calendario dei lavori ma testimoniano anche dell’incompiuto del tentativo di fondere nella medesima analisi la questione dell’ordine pubblico e quella nazionale. E tuttavia quel convegno, sottolineando “la rilevanza del tema e l’inadeguatezza al tempo degli studi italiani”67, avrebbe fatto da apripista per ulteriori lavori sulla pubblica sicurezza nell’Italia del Risorgimento. Nel volume, due interventi in particolare si segnalano alla nostra attenzione: quello di Aldo Berselli, intitolato Amministrazione ed ordine pubblico dopo l’Unità68 e quello di Alfonso Scirocco relativo al regno delle Due Sicilie69. Nel primo prevale un’impostazione di storia istituzionale, che ©UNICOPLI 236 Emilio Scaramuzza ha come matrice il lavoro di Claudio Pavone su Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), apparso per i tipi di Giuffré nel 1964, e il volume uscito poco prima nella stessa collana di Alberto Aquarone sull’unificazione legislativa del regno70. Nessuna attenzione era riservata nel saggio di Berselli alla questione del rapporto tra pubblica sicurezza, ritratta qui in prevalenza nelle grandi città, e brigantaggio. Un po’ più spazio ebbe tale tema, per motivi in primis di prossimità geografica, nel contributo di Scirocco, sebbene anche qui la trattazione finisse per prendere in esame questioni che rimandavano all’eccezionalità nel contrasto al fenomeno del brigantaggio e alla repressione manu militari da parte delle autorità centrali. In conclusione Scirocco, autore di molti saggi sul Mezzogiorno post-unitario, evidenziava una stretta continuità di pratiche – repressive – tra il defunto Stato borbonico e il nuovo Stato italiano, sottolineando al contempo il peso della componente normativa in due mondi – si supponeva – molto diversi tra loro. Di questioni meramente normative si era occupato anche Guido Corso nel suo volume sulle forze dell’ordine del 197971, mentre per guardare alla questione dell’ordine pubblico e all’azione della polizia sul lungo periodo non si può fare a meno di menzionare l’opera dello storico britannico John Davis (e in particolare il suo libro Conflict and Control, il cui capitolo relativo alla “guerra civile” nel Mezzogiorno non prendeva però minimamente in considerazione il ruolo della pubblica sicurezza)72. Merita a questo proposito ricordare anche il volume di Roberto Martucci, legato a una precisa linea interpretativa in cui si sottolinea la continuità di pratiche di polizia e controllo politico tra Otto e Novecento, su Emergenza e tutela dell’ordine pubblico73, che era stato d’ispirazione per Davis. In tutti questi lavori, fossero essi ascrivibili a un filone istituzionale o di storia politica o sociale, l’intervento della polizia nella lotta al brigantaggio non emerge altrettanto nitidamente – per i suaccennati motivi del resto – rispetto a quello dell’esercito o ancora dei carabinieri. Bisognava attendere anni a noi più prossimi perché un rinnovato interesse per la polizia portasse a nuove ricerche e alla pubblicazione di saggi che avrebbero finalmente modificato il paradigma interpretativo sulle forze dell’ordine italiane dell’Ottocento. Dapprima sarebbero stati ancora una volta storici anglosassoni come Jensen o Hughes a riportare d’attualità la questione74, poi sarebbe 70 Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano, Giuffré, 1964; Alberto Aquarone, L’Unificazione legislativa e i codici del 1865, Milano, giuffré, 1960. 71 Guido Corso, L’ordine pubblico, Bologna, Il Mulino, 1979. 72 John Anthony Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano, Franco Angeli, 1989 (trad. it.). 73 Roberto Martucci, Emergenza, cit., il Mulino, 1980. 74 Richard Bach Jensen, Liberty and order. The theory and practice of Italian public security policy. 1848 to the crisis of the 1890s, New York, Garland, 1991 e Steven C. Hughes, Crime, disorder, and the Risorgimento. The politics of policing in Bologna, Cambridge, Cambridge University Press, 1994. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 237 Ne sono un esempio le numerose pubblicazioni dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Cfr. supra il saggio di Alessandro Gionfrida. 76 Esemplare a questo proposito è la pressoché totale assenza di articoli di approfondimento sulla questione nelle riviste “Polizia moderna” e “Fiamme d’oro”, che pure hanno o hanno avuto rubriche storiche. 77 Raffaele Camposano (a cura di), Poliziotti d’Italia tra cronaca e storia prima e dopo l’Unità, Roma, Ufficio Storico della Polizia di Stato, 2013. 78 Vincenzo Cuomo, Il Corpo delle Guardie di P.S. a Napoli dopo l’Unità d’Italia, ivi, pp. 95-101. 79 Piero Crociani, un episodio della lotta al brigantaggio, ivi, p. 103. 80 Stefano Ales, La Guardia nazionale italiana. 1861-1876, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, 1994. 75 ©UNICOPLI stata la volta dei ricercatori italiani. Si vennero così a determinare grossomodo due filoni storiografici: un primo indirizzo, che si potrebbe definire istituzionale, che insiste, specialmente per il Mezzogiorno, sullo studio dell’istituzione prefettizia, e un secondo filone, che si potrebbe dire “istituzionale tout court”, perché originato dall’impulso fornito dagli uffici storici dei singoli corpi75. Si tratta in questo caso di descrizioni puntuali di operazioni, reparti e figure, che tuttavia a volte possono correre il rischio, proprio in virtù del carattere particolare che le ispira, di cadere nell’autoreferenzialità, mancando loro l’attenzione al contesto storiografico italiano e internazionale, da cui spesso non sono punto recepite. La parziale mancanza, a dispetto di altri corpi e armi, come quella dei carabinieri, di scritti dedicati alla questione del brigantaggio76 è stata colmata almeno in parte da alcune pubblicazioni dell’Ufficio storico della polizia; una in particolare, curata dal suo direttore, Raffaele Camposano, merita cenno, Poliziotti d’Italia tra cronaca e storia prima e dopo l’Unità77. Sono sicuramente da segnalare tra i contributi raccolti nel volume il saggio di Vincenzo Cuomo sulle guardie di pubblica sicurezza a Napoli dopo l’Unità78 e quello di Piero Crociani su Un episodio della lotta al brigantaggio, in cui l’autore, pur riuscendo a ricostruire un caso specifico, sottolinea la scarsità di documenti rinvenuti tra le carte dell’archivio dello Stato Maggiore dell’esercito “che vedano coinvolta la subblica sicurezza nella repressione del brigantaggio”79. La risposta che Crociani, il quale del resto ben conosce il “fondo brigantaggio” di quell’archivio, dà alla questione della pochezza del materiale disponibile rimanda in primo luogo a un problema di ordine geografico – ovvero al fatto che la polizia a differenza di esercito, carabinieri e guardie nazionali, operasse prevalentemente in città – e secondariamente rilancia il tema della scarsa o nulla collaborazione tra autorità militare e autorità civile, tra esercito e pubblica sicurezza. Per quanto riguarda invece la guardia nazionale, oltre al volume di Enrico Francia del 1999, che ha il pregio di fornire una lettura d’insieme dell’istituzione nei decenni a cavallo dell’Unità e che rappresenta di fatto uno spartiacque in Italia per gli studi sul tema, non si può non menzionare il volume di Stefano Ales pubblicato a Roma nel 1994, nel quale è un ampio e accurato apparato iconografico80. A differenza che nel caso transalpino, o ancora nei casi spagnolo e tedesco, però, come ha di recente rilevato Marco De Angelis, la storiografia ita- ©UNICOPLI 238 Emilio Scaramuzza liana pare essere rimasta ferma al palo, avendo dedicato finora “scarso interesse a questa istituzione”81, nonostante essa si presti bene al pari e forse ancor meglio della polizia a rileggere e interpretare la storia della penisola, in particolar modo nel momento culminante del Risorgimento. Tale considerazione accenna da un lato agli ampi spazi di ricerca praticabili, dall’altro dimostra però la scarsa attenzione dell’accademia italiana rispetto alle prospettive storiografiche da tempo inaugurate in Europa82. È viceversa piuttosto ricco il panorama degli studi sui prefetti, “protagonisti della vita politica in provincia”83 dopo l’Unità. Da trent’anni a questa parte84, essi concorrono almeno in parte a colmare un vuoto palese della storiografia sulla polizia relativamente al Mezzogiorno e al brigantaggio. Illustra un caso di studio particolare il volume di Raffaele Giura Longo (già professore a Bari), pubblicato nel 1988, sui prefetti nella Basilicata dell’Ottocento85, in cui l’autore mostrava bene il pragmatismo dell’azione dei rappresentanti dello Stato durante la lotta ai briganti. Nel 1996 vedeva la luce il lavoro di un altro storico attivo in un’università pugliese, Mario Casella, professore a Lecce, su tre prefetti meridionali86. Negli anni successivi, a significare l’interesse che ancora rivestiva lo studio dell’istituzione in Italia, apparivano in un breve volgere di tempo alcuni nuovi volumi di analisi, come quello di Nico Randeraad sull’Italia liberale87, organizzato in maniera tematica, quello di Andrea Proietti su Benedetto Maramotti88, attivo nella provincia di Teramo, e quello di Paolo Varvaro, incentrato più in generale sulla figura prefettizia nel Risorgimento89. E tuttavia in questi lavori il ruolo della pubblica sicurezza risultava essere sempre subordinato all’attività politica del prefetto, alla questione sociale o economica di una data provincia e lo stesso fenomeno del brigantaggio veniva considerato da altri punti di vista che non erano quelli polizieschi. Marco De Angelis, Un’istituzione, cit., p. 76. Cfr. ad esempio per il caso francese Roger Dupuy, La Garde nationale (1789-1872), Parigi, Gallimard, 2010 e il precedente lavoro di Georges Carrot, La Garde nationale (17891871). Une force publique ambiguë, Parigi, L’Harmattan, 2001. 83 Cosi Guido Melis nell’introduzione al volume di Paolo Varvaro, L’orizzonte del Risorgimento. L’Italia vista dai prefetti, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2001, p. xi. 84 Riguardo alla vasta letteratura sui prefetti, il riferimento è ai lavori di Marcello Saija, Vincenzo Pacifici, Fausto Fonzi, Enrico Gustapane, Livio Antonielli e Donato D’Urso, o ancora al volume precorritore di queste analisi di Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1967. 85 Raffaele Giura Longo, Le fonti della storia. Demani e prefetti “comunisti” nella Basilicata dell’Ottocento, Matera, BMG, 1988. 86 Mario Casella, Prefetti dell'Italia liberale. Andrea Calenda di Tavani, Giannetto Cavasola, Alessandro Guiccioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1996. 87 Nico Randeraad, Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell’Italia liberale, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1997. 88 Andrea Proietti, Benedetto Maramotti. Prefetto e politico liberale (1823-1896), Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1999. 89 Paolo Varvaro, L’orizzonte, cit. 81 82 Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio 239 Carmine Pinto, La dottrina Pallavicini, cit., p. 74. Id., La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti (1860-1870), Roma-Bari, Laterza, 2019. Sul ruolo della questura di Napoli e della polizia più in generale si vedano le pp. 130-131, 143 e 327. 92 Nicola Labanca, Michele Di Giorgio, Una cultura professionale, cit., p. 21. 93 Ivi, p. 22. 90 91 ©UNICOPLI Venendo ad anni più recenti, si possono citare i lavori di Giuseppe Ferraro incentrati sulle prefetture calabresi negli anni immediatamente successivi all’Unità (in particolare sulla figura di Enrico Guicciardi), studi in cui ancora una volta risulta evidente la conflittualità in essere all’indomani dell’unificazione tra potere politico e militari. Nondimeno, tanto nei suoi saggi, sicuramente informati, quanto nel suo volume edito nel 2016 con il titolo evocativo Il prefetto e i briganti, emergono soprattutto le figure del prefetto e del suo alter ego il comandante militare provinciale, mentre solo in minor misura si registra un’attenzione alle pratiche, concrete, della polizia. Se Ferraro si è molto soffermato sul prefetto valtellinese Guicciardi, Carmine Pinto all’opposto ha trattato diffusamente di Emilio Pallavicini Priola, “ufficiale capace di misurarsi con la guerra irregolare e con problemi politicamente delicati”90, e della sua dottrina militare in campo di counter-insurgency in particolare in un articolo pubblicato sull’“Archivio storico per le province napoletane”, che evidenzia il ruolo ancillare della polizia rispetto all’esercito nel contrasto al brigantaggio. Tale interpretazione, ampiamente condivisibile e che rappresenta un valido punto di partenza per ulteriori ricerche, ritorna, più sfumata, anche nel volume di sintesi La guerra per il Mezzogiorno, che Pinto ha di recente pubblicato91. Come si è visto, a fronte di una serie di questioni sicuramente affascinanti, che a loro volta si prestano a molteplici interpretazioni, il panorama italiano degli studi in materia di forze di polizia è ancora limitato. Ciò è tanto più evidente qualora si consideri la questione del brigantaggio. Quello che in conclusione si ritiene auspicabile è una maggiore attenzione degli addetti ai lavori non tanto alla storia istituzionale della polizia – non mancano infatti lavori sul tema – quanto piuttosto a quella delle pratiche messe in atto dagli attori polizieschi. Come ha sottolineato Nicola Labanca, “al di là di storie di corpo e di storie giuridiche, in Italia ci fu ben poco”92. Occorre quindi operare nel senso di una apertura verso una “prospettiva internazionale, europea, comparata”93. Uno sguardo agli impulsi provenienti dall’estero e una rinnovata attenzione al tema delle pratiche da un lato porterebbero al superamento dell’impasse dovuta talvolta all’assenza di materiale documentario e dall’altro permetterebbero alla storiografia italiana sulla polizia di ritagliarsi il proprio spazio sullo scenario globale. Ne beneficerebbero altresì gli studi sul brigantaggio, dove l’analisi ad esempio dei rapporti dei delegati di pubblica sicurezza, presenti sul territorio, e di quelli di altri protagonisti della vita politica e sociale del tempo, come i comandanti di piccoli reparti della guardia nazionale, o ancora dei carabinieri, permetterebbe di osservare il fenomeno da un nuovo angolo di visuale. Per rispondere alla questione iniziale: i poliziotti e, a maggior ragione, le guardie nazionali erano ben 240 Emilio Scaramuzza ©UNICOPLI presenti nel Mezzogiorno postunitario; è l’occhio dello storico che a volte non vi si è soffermato. L’interrogativo allora evolve e si specifica ulteriormente: Quale fu concretamente il ruolo di queste forze? Come agirono al Sud dopo l’Unità? Quali furono, infine, le pratiche attuate, i loro limiti, i risultati conseguiti? Parte terza LA GUERRA DEI BRIGANTI. SOGGETTIVITÀ SOCIALI, POLITICHE E CULTURALI ©UNICOPLI ©UNICOPLI LA GUERRA DEI BRIGANTI TRA QUADRI TERRITORIALI, SENTIMENTI, RAPPRESENTAZIONI Renata De Lorenzo I brani, spesso in collaborazione con Carlo D’Angiò, sono Brigante se more (La lotta); Canzone per Iuzzella (L’amore); Vulesse addeventare nu brigante (I); Quanno sona la campana (La fuga); Quanno ‘o Sole è ddoce (L’emigrazione); Moresca terza (La magia); Vulesse addeventare nu brigante (II) (La promessa); Quanno sona la campana (strumentale); Tema di Isabellina; Canzone per Iuzzella (strumentale); Tema per flauto dolce; Il cammino del brigante; Il brigante Carmine Crocco; Moresca terza (strumentale); A la terra di Basilicata. Eugenio Bennato è autore di altri testi sul tema del brigantaggio come “Ninco Nanco”, “Il Sorriso di Michela” e “Vulesse addeventare nu Brigante”. Sul patrimonio canoro pro e contro il Risorgimento, cfr. A. Crocco, Il Risorgimento tra rivoluzioni e canzoni, Civitavecchia, Prospettiva editrice, 2016, Ma si veda anche il percorso cinematografico sul tema, cfr. M. Marmo, Il grande brigantaggio nel cinema Dalla prima alla seconda repubblica, in “Storicamente”, a. VII (2011), https://storicamente.org/marmo_film_brigantaggio. Su questi aspetti ved. anche “Meridiana. 99. Briganti: narrazioni e saperi”, 2000. 2 Nitti considerava la tendenza alla eroicizzazione, cioè a cercare in individui speciali la soluzione per risolvere le problematiche di un popolo, come segno di un paese che non era stato capace di responsabilizzare i propri cittadini e non aveva raggiunto un soddisfacente “grado di sviluppo e di solidarietà” e di “valore sociale”. Dove invece «l’educazione popolare è elevata, … la coscienza collettiva si è formata, dove tutti facciano il loro dovere», non c’era bisogno di eroi. Cfr. http://www.anticabibliotecarossanese.it/wp-content/uploads/2017/05/ Nitti-F.S.-Eroi-e-briganti.pdf, p. 5. 1 ©UNICOPLI L’album di Eugenio Bennato Brigante se more, del gruppo Musicanova, colonna sonora dello sceneggiato televisivo L’eredità della priora, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello, offre una visione eroica e martirologica “dalla parte dei briganti”1. Ma è davvero così manicheo il giudizio sul tema, in base ai risultati della storiografia? Racconti, leggende sui singoli personaggi, sia in positivo che in negativo, sono spesso rispondenti a modi di inquadrare il fenomeno che tendono alla mitizzazione o alla criminalizzazione, precocemente polarizzatesi fin dai primi anni postunitari e evidenziati già da Francesco Saverio Nitti nel 1898 in Eroi e briganti2. Narrazione, presente in tutti i contesti regionali, che deve il suo successo anche a canali mediatici, rappresentazioni teatrali, manifestazioni folkoristiche e così via, veicolando con questi strumenti una più generica contestazione dell’Unità italiana. Il principale limite di questo approccio è la monocausalità del fenomeno, mentre recenti contributi scientifici e ricerche in corso, come quelle di questa ©UNICOPLI 244 Renata De Lorenzo sezione, hanno evidenziato ciò che anche in passato analisi più articolate3 avevano consentito di rilevare, che l’errore fondamentale è riportare la complessa configurazione del brigantaggio ad un’unica spiegazione. La stessa categoria di guerra civile, usata per qualificare queste lotte, comporta che ci si ponga dalla visuale dei briganti in maniera più articolata del semplice rivendicazionismo, nel loro essere una parte degli “altri” del Risorgimento4. Quale immagine hanno essi della patria napoletana pre e post 1860? E come accolgono la conquista di Roma nel 1870, con la conseguente fine dell’appoggio dello Stato della Chiesa alla causa borbonica, soprattutto in zone, come quelle abruzzesi? Qui la reazione, manifestatasi già il 1 ottobre 1860 con la partecipazione a Castel di Sangro di cittadini comuni e militari fedeli ai Borboni, vide, in particolare nelle zone della Majella e della Val di Sangro, costanti disordini per tutto il primo decennio postunitario. Nove anni dopo il 1860 fu l’economista Ludovico Bianchini, funzionario borbonico, nel 1859 titolare della cattedra di Commercio e di Economia pubblica dell’Università di Napoli, durante la spedizione dei Mille destituito da Garibaldi di ogni incarico, a darne una valutazione complessiva. Facendo sue le critiche legittimiste al Regno d’Italia e “la natura tutta strumentale dell’adesione piemontese all’idea nazionale”, ma senza intenti sovversivi, evidenziava le difficoltà della società meridionale in molteplici campi5, commercio, industria, scarso impegno dei proprietari fondiari nell’apportare miglioramenti e bonifiche, mancanza di capitali, peso fiscale, frustrazione in tutti i gruppi sociali. Si aggiunga un’immagine della “nazione napoletana” non aliena da sottolineature razziali, simili a quelle usate per i polacchi oppressi dai russi. Le responsabilità dei governi unitari nel dilagare del fenomeno era sottolineata senza esagerazioni polemiche, ma inopportune azioni come lo scioglimento dell’esercito borbonico, una leva impopolare e attuata con spietata durezza, il “clima poliziesco dominante”, libertà costituzionali non attuate, alienavano allo Stato italiano il consenso sia dei gruppi meno abbienti che di nobiltà, clero, borghesi, proprietari. A queste argomentazioni, diffuse fra i nostalgici del Regno scomparso, si aggiungevano, da parte di Bianchini, due interessanti precisazioni: 1) non confondere la feroce repressione antibrigantesca degli anni Sessanta, da parte del governo italiano, con quella egualmente dura del generale Charles Antoine 3 Rimane fondamentale il numero dell’“Archivio storico per le province napoletane“, vol. 101, 1983, con i saggi di G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud (pp. 1-15) e di A. Scirocco, Il brigantaggio meridionale postunitario nella storiografia dell’ultimo ventennio (pp. 17-32). Cfr. anche, per una recente sintesi delle varie interpretazioni, M. Vigna, Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita, pref. di A. Barbero, Novara, Interlinea, 2020; E. Di Rienzo, Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico, Nocera Superiore, D’Amico, 2020. 4 G. Zichi, Gli Altri del Risorgimento. Disertori, insubordinati e briganti nelle carte di un «difensore», Milano, FrancoAngeli, 2016. 5 L. Bianchini, Nove anni del Regno d’Italia, edizione critica a cura di A. Esposito, Padova, Cedam, 1996, pp. 5, 68- 74. La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 245 Manhès in Calabria durante il Decennio francese, in quanto quest’ultima si era accompagnata ad una vasta attività di riforma in ogni settore della vita civile6; 2) evidenziare il differente atteggiamento delle potenze europee di fronte agli eccidi commessi dai militari rispetto a simili episodi accaduti durante la guerra di Crimea, dove l’incendio di un villaggio era stato giudicato come atto di barbarie, mentre nel Mezzogiorno la distruzione di molti paesi, l’uso della tortura e di bombe non generavano una eguale reazione. Considerazioni che non impedivano a Bianchini di comprendere che il brigantaggio “come anarchica ribellione delle province meridionali” era destinato comunque al fallimento, rispetto a un contesto internazionale in prevalenza ostile ai Borboni. Sfuggivano tuttavia al funzionario, intellettuale napoletano, per quanto più disincantato di altri, il carattere complesso del fenomeno e le sue radici in situazioni di molto antecedenti il 1860. La dilatazione temporale del brigantaggio è stata spesso sottolineata o ricordando il suo uso in chiave politica da parte di gruppi dell’aristocrazia napoletana contro il potere centrale7 o nel considerarlo “ultimo atto di una storia di rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre civili, cominciato nel 1799 e indissolubilmente intrecciato con il processo di creazione di istituzioni liberali e di un Stato nazione”.8 La lunga durata del fenomeno, che aveva radici nella storia del regno, non era negata e le analogie tra un brigantaggio di periodo borbonico e quello degli anni sessanta, tramite la persistente presenza di capibanda come Palma e Carmine Franzese, era sottolineata da Scirocco. Ciò non esclude che vi fosse anche la consapevolezza di un’occasione perduta da parte dello Stato italiano e della differenza tra le forme di protesta post 1860 e quelle precedenti, in quanto si era ampliato il quadro protestatario del paese ad altri motivi di scontento. Lo scioglimento dell’esercito garibaldino, l’estensione dalla costrizione obbligatoria, la soppressione di specifici ordini religiosi, gli episodi di Aspromonte e Mentana, la terza guerra d’indipendenza, l’insurrezione siciliana e così via, facevano parte di un decennio problematico in cui una parte della popolazione italiana vedeva il quadro nazionale “dalla parte dei briganti” o lo contestava e in cui la stampa, accanto al processo riformistico del paese Italia, era costretta a dedicare spazi ad un “disordine” presentato come una costante non ignorabile, presente anche 6 1991. Cfr. A. Scirocco, Briganti e società nell’Ottocento: il caso Calabria, Cavallino, Capone, G. Galasso, Unificazione italiana, cit. S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e linguaggio di una guerra civile, in Storia d’Italia. Annali, XVIII, Guerra e pace, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi, 2002, pp. 493, 502 (ma 495). Cfr. anche C. Pinto, Conflitto civile, patriottismi opposti, comunità politiche. Un problema storiografico, in “Meridiana”, n. 76, 2013, pp. 71 e sgg. 7 8 ©UNICOPLI Una tematica di lungo periodo ©UNICOPLI 246 Renata De Lorenzo in altre zone d’Italia, ma configurato come grave e pressante soprattutto nei territori dell’ex regno borbonico. Il concentrarsi dell’attenzione soprattutto mediatica sugli anni Sessanta del secolo XIX, con toni antipiemontesi e antitaliani, non può circoscrivere un fenomeno di lunga durata, che rimanda a episodi del Cinquecento9. Miseria, assenza di commercio, isolamento dei centri abitati, paesaggio boscoso, ma anche odi municipali e uso delle bande per interessi di parte erano denunciati infatti come fenomeni antichi e strutturali da Enrico Pani Rossi per spiegare la crescita delle bande in Basilicata, dove le forze legittimiste erano sostenute da grossi proprietari locali e incisiva fu azione del clero. Tuttavia nella regione, “caso di studio” per i riflessi che vi ebbero le politiche nazionali volte a debellare il fenomeno, per la prima volta a Potenza, come ci ricorda Alessandro Albano, fu proclamata l’unità nazionale in quanto era presente “una solidarietà patriottica”. Fra 1799 e 1870 il brigantaggio si focalizza intorno alla dinastia borbonica con una viva presenza in alcune zone, come la Calabria, tra fine Settecento e Decennio francese, quando le motivazioni politiche di Ferdinando IV e Maria Carolina in esilio in Sicilia spinsero all’uso antigallico delle forme di ribellismo già presenti nel regno, mescolando delinquenza ed emarginazione sociale con scopi politici, aizzando gli istinti rivoluzionari delle masse a proprio vantaggio. Estremi cronologici (1799 e 1870) caratterizzati entrambi da fuga dei sovrani, sconfitta militare, esercito disciolto che si unisce alle bande, molti morti e devastazioni da ambedue le parti in campo, odi diffusi e vendette; si evidenzia un continuum che nei momenti nevralgici della storia del regno napoletano dà spazio alla contrapposizione tra gli aderenti a nuove configurazioni statuali e i fedeli al re “legittimo”, propensi a trovare nell’adesione al brigantaggio, al centro e in periferia, uno sbocco quasi naturale. Da fine Settecento il controllo del territorio d’altra parte è espressione di un nuovo discorso politico, che pone la necessità dell’ordine alla base della configurazione della forma di Stato, auspicata dal patriottismo liberale. Le monarchie di antico regime, anche quando accettano i principi della modernizzazione statuale napoleonica, come nel caso del Regno delle Due Sicilie, per recuperare il potere nei momenti rivoluzionari, dalla reazione del 1799 alla lotta contro i governanti francesi, alla destabilizzazione delle rivoluzioni del 1820 e del 1848, fino al 1860, contano invece su un potenziale disordine. In questa ottica il persistente ribellismo è un dato, ora da controllare, ora da cavalcare e potenziare secondo i momenti. Da Ferdinando IV a Francesco II i Borboni infatti lo combattono ma all’occorrenza se ne servono.“Rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili”, passaggi attraverso i quali si afferma il liberalismo, con le sue aspirazioni alla creazione della nazione, maturano anche attraverso una moltitudine di forme di opposizione, legate alla formazione delle bande (uomini costretti con la forza dai briganti stessi, renitenti alla leva, individui in attesa di una collocazio- E. Ciconte, La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Bari-Roma, Laterza, 2018, concentrato soprattutto su coloro che guidarono ed attuarono la repressione. 9 La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 247 10 N. Cadet, Honneur et violences de guerre au temps de Napoléon. La campagne de Calabre, Paris, Éditions Vendémiaire/Fondation Napoléon, 2015. Cfr. anche la introduzione di A. Buttiglione alla traduzione di M. Finley, La più mostruosa delle guerre. La guerriglia napoleonica nel Mezzogiorno d’Italia tra il 1806 ed il 1811, a cura e con un saggio introduttivo di A. Buttiglione, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 2020. 11 Dire, (d)écrire et représenter la violence. Approche pluridisciplinaire d’un concept, Actes du colloque organisé a Limoges les 24 et 25 septembre 2015, sous la direction de H. Caillaud et A. Roger, Limoges, Pulim, 2017. 12 Cfr. G. Mazza, Tra storia e storie. Banditismo, brigantaggio e milizie civili nel Meridione d’Italia dal XVI al XIX secolo, presentazione di M. Marmo, Roma, Aracne, 2016. Il testo è concentrato sul comune di Sarno, ove un «proletariato agricolo povero e aduso a pratiche delinquenziali” si avvicina al mondo brigantesco per motivi svariati (M. Marmo, ivi, p. 17); E. Del Lago, Civil War and Agrarian unrest: The Confederate South and Southern Italy, New York, Cambridge University Press, 2018. 13 S. Visciola, Campagnes et sociétés rurales en Italie aux XIXe et XXe siècles: un problème d'historiographie, in J.- C. Caron - F. Chauvaud (dir.), Les campagnes dans les sociétés européennes, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2005, pp. 55-75. ©UNICOPLI ne, sbandati alla ricerca di certezze, e così via), con una configurazione politica rafforzata dal peso della componente religiosa. Il tema non può quindi essere affrontato come aspetto delinquenziale isolato, in quanto conflittualità riportabili a tradizionali tensioni locali, solite a sfociare nella violenza privata, si caricano anche di significati pubblici legati a specifiche congiunture. La campagna calabrese di età napoleonica ad esempio non si qualifica come una semplice operazione militare, ma mescola violenza e senso dell’onore comuni ad ambedue le parti in campo10, che la narrazione e la rappresentazione hanno il potere di legittimare11. Società che registrano abitualmente forme di latrocinio, con pratiche che si perpetuano nel tempo, vedono anche il mondo contadino coinvolto in questo reato per i problemi connessi nei primi anni Sessanta al nuovo quadro statale, alle pressioni della leva di massa. Ne consegue l’adesione a bande abituate a tradizionali forme di saccheggio e sequestri di persona, ora praticate a sostegno del legittimismo borbonico, con un “brigantaggio di continuità” con il proletariato rurale e una significativa “effervescenza popolare” che coinvolge sia il profilo sociale che gli insediamenti, di pianura e di montagna, e configura una specifica “guerra civile”12. Ne deriva la necessità di un confronto aggiornato con la storiografia sui contesti rurali e le campagne, a livello europeo, che negli ultimi decenni in Italia ha registrato un calo di interesse13. Questo mondo con molti nemici, dai proprietari terrieri ai grandi allevatori, ai tradizionali antagonisti sociali sulla base di ricchezze detenute, agli impiegati pubblici, ai giudici, alla guardia nazionale, è abituato alla violenza, su cui si configurano le sue azioni e i suoi spazi, dalle distruzioni dei ritratti di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi all’assalto alle terre e alle sede dei comuni, all’incendio delle case dei liberali, con te deum in onore dei sovrani borbonici. Efferatezze dei briganti che hanno come risposta la violenza dei soldati quando riconquistano i luoghi. ©UNICOPLI 248 Renata De Lorenzo La recrudescenza del brigantaggio nella fase 1860-1870 ne amplia la capacità di comprendere molte dinamiche, che non sono esplicitamente ad esso riconducibili. Lo Stato italiano si impegnò militarmente in azioni capillari con grande dispendio di risorse e di quadri, fra esercito regolare, corpi volontari, forze paramilitari e forze di polizia, che condivisero l’impegno repressivo. Un certo tipo di narrazione propende ad evidenziare il carattere vessatorio delle truppe italiane verso le popolazioni, le crudeltà dell’esercito. Rispetto alla iniziale colpevolizzazione degli insorti associati alla delinquenza comune, nell’ambito di una vera “guerra” che lo Stato è costretto a condurre quando decide interventi radicali, questo approccio ha rischiato di evidenziare più la violenza di una parte che il clima complessivo, da esaminare come “storia culturale della guerra”, che coinvolge lo Stato, le istituzioni centrali e periferiche, i comuni, le famiglie. Molte guerre quindi alla base di molte forme di brigantaggio, che riflettono articolazioni e vocazioni territoriali difficilmente omologabili. Brigantaggio e anticentralismo. Recuperare le identità periferiche Il brigantaggio postunitario, da analizzare in connessione con più ampi coevi riferimenti di carattere politico, economico e sociale, esprimeva anche le esigenze di gruppi socialmente non emarginati, portatori invece di una visione anticentralista e antinapoleonica, fatta propria dopo il 1815 dal mondo conservatore, stretto attorno ad una immagine protettiva del sovrano, tipica dell’antico regime. La volontà di espungere dal proprio passato la rivoluzione del 1789 e la connessa cultura politica fu un aspetto condiviso dalla maggior parte della popolazione italiana, che andò oltre il clima della Restaurazione; della sua esistenza occorre tener conto anche quando la nostra attenzione si orienta a valorizzare il mondo che visse questa stessa fase fino al 1860 nell’attesa di cambiamenti che la lezione del 1789 invece la riproponessero, adeguata alle attese e ai parametri ottocenteschi. Nelle linee del pensiero antirivoluzionario si riflette “una mentalità collettiva diffidente non tanto verso il moto risorgimentale in sé, quanto nei confronti della nuova forma di statualità, invadente e livellatrice, cui il processo di unificazione della penisola si riteneva avrebbe finito comunque per condurre”14. La difficile convivenza con processi di “modernizzazione” non alieni da conseguenze penalizzanti per la quotidianità e la sopravvivenza di molti gruppi incide su reti, mentalità, convivenze e conflitti, che qualificano la “guerra dei briganti” con una connotazione regionale, spesso non uniforme all’interno delle sue realtà provinciali. Chi decide o è costretto a fare scelte di vita che lo Stato definisce brigantesche conduce una sua lotta caratterizzata dal filtro della personale percezione di conflittualità interne al territorio che ben conosce; la sua guerra è A. De Francesco, Ideologie e movimenti politici, in Storia d’Italia, vol. I, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 270. 14 La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 249 15 R. Romani, Sensibilities of the Risorgimento. Reason and Passion in Political Thought, Leiden-Boston, Brill, 2018; E. Caroppo, I canali della politicizzazione del Mezzogiorno d’Italia. Bande civiche e messaggio risorgimentale in Terra d’Otranto tra gli anni Venti e l’Unità, in M. Manfredi, E. Minuto (a cura di), La politica dei sentimenti. Linguaggi, spazi e canali della politicizzazione nell’Italia del Lungo Ottocento, Roma, Viella, 2018, pp. 97-115; E. Caroppo, Fratture politiche e violenza sociale in Terra d’Otranto nella transizione dai Borbone ai Savoia (1860-1865), “Società e storia”, a. 2019 n. 164, pp. 253-288. 16 Q. Deluermoz et A. Glinoer (dir.), L’insurrection entre histoire et littérature, Paris, Publications de la Sorbonne, 2015. 17 Cfr. N. De Blasi, «Col mio debole e rozzo scritto». Che cosa e come scrivevano i briganti della Basilicata, in E. Banfi, P. Cordin (a cura di), Storia dell’italiano e forma dell’italianizzazione, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 373-399; Id., «Carta, calamaio e penna». Lingua e cultura nella Vita del brigante Di Gé, Potenza, Il Salice, 1991, sulla esemplare vicenda del brigante di Rionero Michele Di Gé, arrestato nel 1867, che in galera imparò a leggere e scrivere e nel 1911 promosse la stampa della sua autobiografia, con numerose edizioni. ©UNICOPLI contro i nemici di sempre, siano ora essi liberali o conservatori, che gestiscono un potere locale o per antica pratica o per le nuove occasioni di arricchimento e cambiamento di status che la fase fine Settecento-inizio Ottocento ha consentito a molti intraprendenti homines novi. Ma la guerra personale del brigante si adatta alle circostanze, cerca gli spazi ove inserirsi in rapporto al mutare delle situazioni politiche e può dare adito ad un protagonismo e ad un riconoscimento di status da parte delle stesse autorità tenute a mantenere l’ordine. I percorsi di vita di molti che agiscono nel periodo in esame rivelano il frastagliamento delle esperienze personali e la complessa definizione di una mentalità e di una “carriera” brigantesca, intrisa di atteggiamenti psicologici individuali, occasioni ambientali e circostanze, aspirazioni e delusioni. Porsi nell’ottica di chi, in particolare dopo il 1860, si presenta come difensore della legittimità dinastica, significa rintracciare gli argomenti di una controstoria rispetto alla criminalizzazione liberale. Controstoria che, al di là dei classici autori attenti alle dinamiche di “classe” (Molfese , Gramsci, Pedio) si costruisce molto sui profili biografici, sulle contestualizzazioni ambientali e geopolitiche delle scelte o degli approdi, che lascino spazio anche ai sentimenti e al linguistic turn, nel suo articolare insieme storia e letteratura, come aspetto della politicizzazione dell’Italia ottocentesca.15 Si tratta di processi interessanti perché sottraggono il fenomeno alla classica visione oppositiva briganti patrioti-briganti criminali e sfruttano una documentazione che illumina pratiche, reti, attraverso fonti soprattutto giudiziarie e la memorialistica dei protagonisti, facendo dialogare i tempi della scrittura / narrazione e quelli degli eventi. Si aprono scenografie, che vedono come protagonista il popolo insorto, attraverso canti, poesie, poemi insurrezionali16, con conseguente esame di lingua e cultura di coloro che lasciano una testimonianza letteraria di sé, anche grazie alla possibilità di imparare in carcere a leggere e scrivere, qualifica che diventa un canale di riabilitazione.17 250 Renata De Lorenzo ©UNICOPLI Fonti e quadri territoriali regionali Puglie, Basilicata, Calabria, Campania, Abruzzo, regioni con specifiche struttura geologica e vocazioni ambientali e occupazionali, pur nella costante preminenza di società agricole e pastorali, configurano diverse immagini di sé degli abitanti e diverse opportunità e volontà brigantesche. I luoghi interessati, entità non immobili, arricchiscono la loro fisionomia sociale e culturale non solo grazie alle tradizionali pratiche lavorative, mercantili, socializzanti e condivise, ma seguendo differenziati percorsi di appartenenza; essi sono basati anche su aspetti conflittuali, gestiti nei tribunali, in spazi istituzionali e non, che vengono ridefiniti in continuazione, frammentandoli e ricomponendoli. Le fonti locali sono una miniera ancora da scavare per individuare la incredibile ricchezza delle situazioni e della casistica di mondi in bilico tra nostalgia del passato e nuove attese, con la loro capacità di creare attori, di evidenziare la pluralità degli intrecci, di riflettere ma anche di “produrre località”.18 Preziosa perciò la ricca bibliografia su piccoli episodi, bande di varie dimensioni, moltiplicatasi dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, spesso frammentaria, basata su un singolo episodio, senza ambizioni interpretative e, come nota Giuseppe Ferraro, destinata ad un circuito ristretto, in quanto basata su pubblicazioni non catalogate su SBN e prive di un ISBN. Archivi pubblici, diocesani, privati, testimonianze letterarie e teatrali e così via, con una opportuna rilettura dei documenti già noti, da quelli ufficiali a quelli prodotti dalle élite, incidono sul moltiplicarsi dei campi di indagine di cui i saggi qui presenti sono testimonianza. Le fonti utilizzate per le Puglie da Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo19 consentono ad esempio di registrare le testimonianze dei membri delle bande (non solo dei capi, ma anche dei protagonisti minori), per lo più analfabeti, e restituiscono una quotidianità di “pratiche sociali, reti di relazioni, pregiudizi, ideologie e obiettivi delle parti in causa”. Acquistano spessore conflitti e dinamiche interni a specifici quadri di riferimento territoriale, sociale, anche su spazi molto ridotti e per una molteplicità di aspetti, come evidenzia Nunzio Mezzanotte per la storiografia abruzzese. “Carte” prodotte da organi dello Stato, dalle forze armate alle varie branche dell’amministrazione, riflettono sia orientamenti del centro sia dinamiche locali, si confrontano con narrazioni prodotte da persone che vogliono lasciare traccia non solo di sé, ma di un mondo composito, eterogeneo, violento e tuttavia solidale: l’interruzione obbligata di rapporti tradizionali legati al lavoro e alla famiglia per aderire a una vita di gruppo, che conta su scorrerie, battaglie per la sopravvivenza, è per molti anche un investimento rispetto ad un futuro incerto. 18 A. Torre, Luoghi. La produzione della località in età moderna e contemporanea, Roma, 2011. 19 Cfr. per l’uso proficuo di fonti giudiziarie anche G. Tatasciore, Bandito o brigante? Il caso di Nunziato Di Mecola nella provincia di Chieti (1860-1863), in “Storicamente”, a. 2013 n. 9, https://storicamente.org/tatasciore_brigantaggio. La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 251 20 C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Roma-Bari, Laterza, 2019. 21 Cfr. G. Ferraro, Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (1861-1865), Firenze, Le Monnier, 2016, pp. 55-61. 22 N. Misasi, Racconti calabresi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 (originale, quinta ed. con aggiunte, Napoli, Salvatore Romano, 1905); Id., Cronache del brigantaggio, a cura di M. Petrella, Lanciano, Carabba, 2016; M. Petrella, Geografia del romanzo politico del secondo ©UNICOPLI Ne deriva una rappresentazione immaginata degli ambiti regionali, sia da parte dei briganti che delle forze militari e del terzo attore, la popolazione civile che abita i luoghi. Cambiano la percezione spaziale da parte dei protagonisti e la nozione di distanza, fisica e mentale, dai luoghi e dagli obiettivi della propria azione. Mutano gli intervalli fisici o simbolici che regolano i rapporti fra le persone e col potere, anche perché molti protagonisti sono capaci di dominare un territorio che copre più province. La eterogeneità degli oppositori allo Stato italiano, che furono ex soldati borbonici, accanto a gruppi di varia origine e con diversa percezione della patria e della necessità della sua difesa, in possesso di uno specifico senso dell’onore, acuisce la difficoltà di elaborare un quadro uniforme. Il lavoro di Carmine Pinto20, documentando la varietà dei casi ma anche recuperando una qualche tipologia “regionale”, capace di determinare stagionalità e persistenze delle insurrezioni come dell’operatività dei protagonisti, ha articolato queste percezioni. I quattro punti che Viviana Mellone indica per la Campania, riportabili alle zone di Avellino, Salerno, confine con lo Stato pontificio e alta Terra di Lavoro, trovano un parallelo nelle diverse logiche che determinano la vita brigantesca fra Puglia settentrionale e Puglia meridionale: nel Salento (Caroppo) una simile frammentazione di casi e di esperienze consente tuttavia di individuare briganti fusi con le comunità locali, da cui ricevono solidarietà e aiuti, in collusione talora con la stessa Guardia nazionale21 e con i liberali locali. Capi-briganti, briganti-gregari e sono attratti dalla vicinanza alla frontiera con lo Stato pontificio nell’alta Terra di Lavoro e nell’avellinese, zone in cui è maggiore l’influenza dei sovrani borbonici, anche tramite finanziamenti. La tripla differente articolazione degli Abruzzi (I, II e Citra) ne fa una regione con frontiere e confini, verso l’esterno, suggellata dalla fortezza di Civitella del Tronto, all’interno con le province di Molise e Principato Ultra, riflettendo la sua duplice economia, agricola e pastorale, anche nella tipologia dei reati. E sulla base di specifiche appartenenze territoriali si precisano fidelizzazione di gregari, supporto di manutengoli. Ogni banda conosce il proprio territorio ed ha una sorta di egemonia, non solo brigantesca, legata a precedenti stratificazioni e all’ambiente naturale, come in Calabria nel caso del circondario della città di Paola e della Sila. L’approccio letterario di autori come Nicola Misasi ne avrebbe divulgato un’immagine efficace, di denuncia ma a suo modo solidale, anche perché i suoi Racconti calabresi sono costruiti sulle carte degli archivi del tribunale di Cosenza.22 ©UNICOPLI 252 Renata De Lorenzo Tra le fonti per comprendere le dinamiche regionali, la stampa consente di collegare profili culturali e analisi politiche. In regioni come la Basilicata e la Calabria, note per la grande e precoce diffusione del brigantaggio, Alessandro Albano e Giuseppe Ferraro evidenziano il ruolo del “Corriere lucano” e de “Il Bruzio”. Il primo, espressione soprattutto di parte democratica, nel descrivere i sentimenti filoborbonici di buona parte della popolazione, denuncia il doppiogiochismo attendistico di gruppi inseriti nei quadri amministrativi italiani, che mantengono contemporaneamente rapporti con esponenti dell’opposizione. L’“esiguità delle forze militari” e la “carenza di personale dedito all’amministrazione della giustizia” sono accuse contro i moderati al governo, attraverso le quali i democratici cercano di accreditarsi nel nuovo quadro istituzionale, spingendo i cittadini sulla strada del liberalismo per frenare la “congiura borbonico-clericale”. Accanto quindi ad analisi volte a denunciare il volto politico della reazione e a risolvere la questione demaniale, restava urgente il completamento del Risorgimento con la conquista di Roma e Venezia, collegate con l’azione antibrigantesca per acquisire visibilità e peso politico. “Il Bruzio”, giornale politico-letterario, rivolto ad un pubblico non solo locale, ma nazionale, è fondato e scritto interamente nel 1864-estate 1865 da Vincenzo Padula, un perseguitato dai Borboni, nel 1848 a capo del movimento contadino per l’occupazione delle terre demaniali. Le antiche origini del fenomeno nella provincia cosentina ne legittimano un’interpretazione in chiave sociale “molto più complessa rispetto alla sola dicotomia contadini-signori, cogliendo anche il nesso tra brigantaggio e questione demaniale” (Ferraro). Unica analisi storico-sociale del brigantaggio in Calabria, ignorata dalla Commissione Massari e tardivamente affrontata da un Parlamento, che vedeva presenti molti meridionali, l’opera di Padula evidenzia il ruolo del giornalista, in particolare dell’inviato speciale sui campi dello scontro, in province che non sempre erano quelle di origine. Nella stampa si discute non solo di briganti, ma degli atteggiamenti negativi dei signori, di amministrazioni locali, guardie urbane e loro connivenze con le bande, modalità della repressione, disagi dell’esercito, ordine pubblico, questione demaniale e donne. La stampa non è inoltre ignorata dai briganti, consapevoli della sua importanza per veicolare la loro immagine, per esser rappresentati nelle loro esigenze. I profili biografici consentono di ammirare singoli personaggi per la loro intelligenza, la capacità di gestire le gerarchie interne alle aggregazioni del “disordine”. Lo stesso Padula li condanna ma ne è attratto. Ottocento, in Natura, società e letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi, 2020. La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 253 Fra delinquenza e politicizzazione. La creazione del mito A. De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 101. 23 ©UNICOPLI Eventi isolati di criminalità diventano nei primi anni Sessanta un problema collettivo e quindi politico, che lo Stato italiano affrontò con la legge Pica del 1863; elaborata sulle risultanze della relazione Massari, tralasciando quanto emerso dal lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta che legava il brigantaggio alla questione demaniale e sociale, ne avallava la considerazione come delinquenza comune, piaga endemica del Mezzogiorno, conseguenza delle scelte del governo borbonico, che pure aveva messo in atto in vari periodi misure per estirpare il fenomeno. Critiche alla relazione Massari nel1864 venivano tuttavia da un uomo dello Stato come Enrico Pani Rossi, poi consigliere di prefettura e sottoprefetto di Melfi, che ne sottolineava la superficialità e l’incapacità di comprendere l’origine del malessere evidenziato nella reazione del 1860. In effetti, ignorando l’aspetto politico a favore di quello delinquenziale, “si apriva la via a un indiscriminato giudizio di ripulsa nei riguardi del Sud da parte dell’opinione pubblica italiana”23. L’iter della discussione sulla legge consentì di evidenziarne abusi e storture. Il suo uso politico fu verificabile contro i radicali che, a differenza di molti ex borbonici pronti ad inserirsi nello Stato unitario, nutrirono una persistente diffidenza verso la configurazione istituzionale moderato-democratica e videro nella lotta ai briganti il prosieguo della lotta per l’Unità d’Italia. Perciò molti uomini del Sud, parlamentari, patrioti, la considerarono comunque un bene prezioso e da perfezionare in senso repressivo. Sulla legge si sarebbe tornati più volte negli anni successivi, allorché si cominciò a studiare la composizione socio-professionale dei protagonisti di azioni delinquenziali, si valutarono le paure dei singoli, la propaganda borbonica ma anche la divisione in fazioni contrapposte delle famiglie locali e gli odi municipali. L’opposizione allo Stato unitario da parte di criminali che aderivano alle bande si configurava comunque anche come un investimento sul futuro, che dava credito alle voci circa l’imminente rientro del re borbonico, come lo era il patteggiamento consentito dalla legge Pica. La fama di alcuni capi (ad esempio Teodoro Klitsche de la Grange, Chiavone/Luigi Alonzi di Sora) era un’attrattiva per quel mondo di gregari, che speravano in un simile protagonismo e in una carriera di tipo militare. Un’indagine capillare consentirebbe la ricostruzione di molteplici microstorie di bande e di percorsi di singoli che, a breve distanza fra loro, attuarono strategie e pratiche diverse se non contrastanti, pur nell’“intreccio fra motivazioni individuali, bisogno economico e legittimismo brigantesco” (Mellone). Osservatori, funzionari, intellettuali, operatori in loco ad ogni livello, ebbero modo di riflettere in ogni provincia sul fondamentale binomio delinquenza/motivazioni politiche, non ignorando le cause remote, ma esprimendo insoddisfa- ©UNICOPLI 254 Renata De Lorenzo zioni per le risoluzioni del governo unitario. Posizione che si sarebbe protratta nel tempo, dal citato Bianchini al canonico Raffaele Riviello (Cronaca potentina 1888), che collegavano la massiccia adesione alle bande alle delusioni del processo unitario, agli odi personali, con ricadute anche sulla connessione tra malessere sociale, aspetto delinquenziale e rivolgimenti politici. I tempi della lotta, a partire dalle “ondate” brigantesche, sono da tener ben presenti. In Puglia ad esempio i momenti mobilitanti si concentrarono nell’estate 1860, nel periodo dei plebisciti in ottobre, nelle offensive di Carmine Crocco in Basilicata tra primavera ed estate del 1861. Gli ex soldati borbonici passati dalla latitanza alla guerriglia politico-criminale contro lo Stato italiano, da Generoso Sciarelli e Giuseppe Schiavone, a Michele Caruso, fungendo da tramite fra brigantaggio criminale e mobilitazione legittimista, diedero un contenuto politico, insieme ai clericali, all’azione di un Pizzichicchio, o del sergente Romano nella Puglia meridionale; come aveva evidenziato Racioppi, l’arrivo nel moliternese del generale Borjès trasformò in Basilicata l’iniziale brigantaggio delinquenziale, riconducibile alle lotte municipali, in un inutile tentativo di farne una guerra di partigiani, nobilitando ladri e sicari, per finire col presentarsi nuovamente come fenomeno delinquenziale. Basilicata e Puglia furono i territori ove fino al 1864 il legittimismo ebbe varia capacità d’azione, con i principali epicentri del brigantaggio politico (Capone). Il revanchismo dei perdenti, poco propensi a tener conto delle specificità e delle difficoltà del mondo della repressione, coagulo anch’esso di sentimenti e aspirazioni contrastanti, sfocia facilmente nel mito. È significativo l’iter di uno degli episodi più celebri di questo processo, quello campano di Pontelandolfo e Casalduni, divenuto, più di altri, capace di rappresentare memoria collettiva, identità locale, fino all’attuale uso turistico della ipotetica strage da parte dei comuni24. Nella vicenda, rispondente a dinamiche comuni a molti altri luoghi del Mezzogiorno, vengono evidenziate le inadeguatezze e le responsabilità dello Stato unitario, non attrezzato di fronte ad una controrivoluzione, in cui confluivano politica e azione criminale. Di qui la narrazione circa l’incendio di Pontelandolfo da parte di Cialdini, motivato con esigenze belliche e di vendetta; le perdite numeriche della popolazione ingigantite; episodi orripilanti enfatizzati per una sola delle parti di causa, e così via. Il tutto diventa precocemente funzionale a tesi come quella della colonizzazione di Francesco Proto Pallavicino, duca di Maddaloni o di Giacinto De Sivo che recupera la dimensione politica delle insorgenze, o dell’ottica antitaliana negli anni Settanta di Carlo Alianiello e dei suoi epigoni. G. Desiderio, Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019; S. Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019), Roma, Viella, 2020; Eadem, Da «terra dei briganti» a «città martire». L’identità e il mito di Pontelandolfo (1973-2020), in «Meridiana». 99. Briganti: narrazioni e saperi, cit., pp. 131-156. 24 La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 255 La società civile: il notabilato 25 Cfr. C. Pinto, La rivoluzione disciplinata del 1860. Cambio di regime ed élite politiche nel Mezzogiorno italiano, in “Contemporanea”, a. 2013 n. 1, pp. 39-60. 26 P. Y. Manchon, Guerre civile et formation de l’État dans le Midi d’Italie (1860- 1865). Histoire et usages du «Grand Brigandage» en Basilicate, tesi di dottorato in cotutela tra Université de Paris I Panthéon Sorbonne e Università di Napoli “Federico II”, 2011. 27 G. Clemente, Viva chi vince. Il Gargano tra reazione e brigantaggio (1860-1864), Foggia, Edizioni del Rosone, 2013, pp. 223-255. ©UNICOPLI Un percorso chiarificatore è quello che passa attraverso il variegato comportamento del notabilato, delle élites politiche e della classe dirigente meridionale sin dai primi momenti della presenza garibaldina nel territorio meridionale nel 186025. La nuova compagine statale è accettata da molti per esigenze di ordine pubblico e di ripresa dei normali ritmi dell’esistenza, che sono anche quelli della produzione; i desiderata dei consigli provinciali26 ad esempio sono nella direzione di richieste di un massiccio intervento dell’esercito. Ciò nonostante è frequente anche il manutengolismo dei notabili27 in ogni contesto regionale e provinciale. Controrivoluzionarie e borboniche, declassate o rimaste negli antichi ruoli, comunque ideologicamente ostili, con l’alto clero, verso il mondo liberale, le élites locali hanno l’esigenza di cautelarsi rispetto ai frequenti assalti ai beni dei proprietari nei comuni. Dal 1799 si erano differenziate politicamente e ideologicamente dai gruppi liberali, rafforzando la loro resistenza di fronte a rivoluzioni e moti che prima dell’unificazione avevano tentato di riproporre istanze alternative. Col crollo dello Stato borbonico, per quanto nostalgiche del passato, non esitano per vari motivi ad appoggiare lo Stato italiano, svolgendo anche azioni di mediazione. La stessa Legge Pica del 15 agosto 1863, rimasta in vigore fino al dicembre 1865, prevedeva, tra le altre misure, incentivi perché briganti e manutengoli si presentassero, godendo di sconti di pena. Il manutengolismo delle élites e dei grandi proprietari arricchisce e articola il quadro brigantesco, con nomi di notabili, dinamiche di connivenza, forme di controllo informale, mancato perseguimento dei sospetti e dei colpevoli. Se nel tarantino il fenomeno è presente fra i componenti della guardia nazionale, in Calabria coloro che si danno alla macchia per vendicarsi di soprusi e angherie hanno l’appoggio delle classi agiate che di questi individui si servono per rafforzare posizioni di potere nelle lotte locali oltre che per favorire i Borboni. Il disordine ha non solo una dimensione brigantesca, ma anche una strutturale legata alle pratiche dell’usura, dei furti, della delinquenza; il suo incremento in periferia ha l’effetto di bloccare le riforme statali tese a sciogliere le usurpazioni demaniali, attuate dai ceti dominanti stessi. Motivazione che si unisce, per i galantuomini, a quella della paura di subire ritorsioni e vendette su averi e persone. Si tratta di un notabilato che in alcuni casi, vedi la Basilicata, ha anche una sua connotazione specifica nel voler presentare il brigantaggio come “questio- ©UNICOPLI 256 Renata De Lorenzo ne politica” da parte di esponenti della cultura politica democratica attraverso il citato “Corriere lucano”. Nella provincia, che a Potenza proclamò per prima l’unità d’Italia il 18 agosto 1860, è presente una solida rete patriottica già dalla fine del Settecento, impegnata nella costruzione della nazione italiana contro forti insorgenze legittimiste, supportate da alcuni grandi proprietari e dal clero. Notabilati periferici conflittuali, spregiudicati nella scelta delle alleanze, comprendono quindi sia filoborbonici rimasti nell’amministrazione, spesso manutengoli verso le bande con l’intento di colpire, subito dopo i plebisciti, non solo lo Stato ma la parte più avanzata del movimento radical-democratico, sia i liberali filounitari; a Rionero e dintorni furono questi ultimi a proporre, durante il governo prodittatoriale, di avvalersi di Crocco-Donatelli, di Romaniello, del barbiere Mastronardi d’Amati (quest’ultimo fatto addirittura uscire dal carcere). Rimasero isolati i democratici, costretti a combattere su un duplice fronte, denunziando la natura politica del brigantaggio: contro i filoborbonici e contro la configurazione “moderata” del primo Parlamento italiano, che li escludeva a livello provinciale e nazionale, nonostante il contributo dato alla soluzione unitaria. Nella lotta al brigantaggio essi videro lo strumento per accreditarsi presso il governo, il prefetto e gli organismi governativi. Denunciarono perciò, di fronte all’imperversare di bande, arricchite da individui provenienti dalle province vicine, l’esiguità delle forze militari impiegate e la carenza di personale nell’amministrazione della giustizia. La dimensione politica che all’inizio, per questioni di credibilità internazionale, il governo nazionale negò, anche quando sembra in ombra o periferica, finisce quindi, sia prima che dopo l’unità, per essere non solo accreditata ma collegata ad una varietà di connotazioni ed espressioni. I motivi della scelta. La valvola emozionale di odi e paure L’appartenenza territoriale qualifica il classico interrogativo che ci proietta dalla parte dei briganti, quello sui motivi che inducevano un individuo ad entrare in una banda: opzione individuale dei capi che ne determinava la mobilitazione; frutto della povertà di gregari e manutengoli che coprivano in tal modo la necessità di sopravvivere; ricerca di protezioni più idonee al momento e al luogo; contiguità della popolazione agricola, che si affidava ai briganti per affinità culturale. La contronarrazione è giunta ad attribuire al brigante anche propositi di giustizia sociale, mentre le forze dell’ordine mostravano insufficienze e impreparazione. Esponenti del mondo contadino e di altri gruppi sociali furono spinti non solo da esigenze di sopravvivenza o da rivendicazioni di “classe”, ma da circostanze e percorsi di vita non lineari. Ciò che conta è ad un certo punto l’impossibilità di tornare indietro perché si rischia l’arresto, con conseguente moltiplicarsi di piccole bande, come in Campania; le quindici qui registrate dalla Mellone sono frutto proprio di questo andirivieni di individui incerti sul proprio avvenire, con La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 257 ©UNICOPLI una prassi favorita dalla iniziale insufficienza e disorganizzazione delle forze dell’ordine, prima della legge Pica, e dalla inaffidabilità della guardia nazionale. Risposta alla precarietà economica legata all’interruzione delle attività agricole, ricerca di spazi di sopravvivenza godendo della solidarietà di una banda e dalla possibilità di assaltare case di nemici locali, renitenza alla leva e così via, spingono gli individui in tale direzione. La motivazione antiunitaria è esplicita per gli ex militari borbonici, fedeli ad un esercito diverso da quello italiano. Come emerge dagli interrogatori di membri della banda Palumbo in Puglia (Capone), i suoi membri hanno uno specifico approccio con la politica e numerose sono le conflittualità interne ad un mondo che si era aggregato occasionalmente partendo da diverse posizioni, diversa educazione, diverso senso dello Stato. Passando quindi “dalla latitanza alla guerriglia politico-criminale”, molti sono costretti a riconoscersi in un mondo che fino a poco tempo prima avevano combattuto come soldati dell’esercito borbonico. Prevale perciò una dimensione dell’attesa di eventi nuovi, capaci di ribaltare la situazione presente e creare anche occasioni, non ultima quella di arricchirsi e cambiare status. Viste le diffuse notizie dell’imminente rientro del re e la volontà di crederci da parte di chi non si riconosce nel nuovo assetto statale, l’adesione alle bande è, come abbiamo già notato, per renitenti e sbandati un investimento sul futuro, ma nella stessa regione, ad esempio in Puglia, si riscontrano diverse logiche fra la zona settentrionale e quella meridionale. Funge da volano anche la insperata notorietà che il brigantaggio fornisce a personaggi sconosciuti o legati ad una fama discutibile. Nomi e soprannomi rimandano a collaudati percorsi di riconoscimento, consentono al singolo di costruire e perfezionare la sua immagine e anche una futura verginità, in caso di ritorno della monarchia in esilio. I reduci borbonici a loro volta tendono a dare un’immagine di sé che li distingua dal banditismo comune. La grande mobilità e variabilità numerica indica la precarietà di vita delle bande e la difficoltà di gestirle quando sono di grosse dimensioni, in territori di ardua percorribilità, come quello abruzzese. I briganti sconfitti dai militari italiani si danno alla macchia e alla guerriglia, soffrono lo sradicamento e lo sbandamento, sopravvivono non lontano dai luoghi noti, vedendo i propri parenti arrestati. Quelli vicino al confine cercano di raggiungere Gaeta che tuttavia, come ci ricorda Mezzanotte, “non era in grado di assicurare i rifornimenti alle truppe regolari e ai volontari, così quest’ultimi dopo essere stati congedati tornarono nei luoghi d’origine per portare la guerriglia”. Esperienze comunque traumatiche che stimolano il bisogno di raccontarsi e raccontare. Come Carmine Crocco, Angelo Maria Colafella di Caramanico, capo contadino filoborbonico e simbolo del “brigante onesto” (R. Colapietra), ripercorre le tappe di una vita trascorsa a lungo in prigione (uscirà dal carcere solo nel 1905). ©UNICOPLI 258 Renata De Lorenzo Molti piccoli capi temporanei, legati al comune, sono pronti ad aggregarsi per divenire una grande banda, sul tipo di quella della Maiella, nella quale acquistano spessore uomini come Chiavone, capaci di strutturare una loro piccola armata, che pagano, alimentano, forniscono di armi e vestiario. E del loro protagonismo vivono anche i risvolti negativi, dovendo affrontare difficoltà logistiche, approvvigionamenti, liti tra i vari comandanti (tra lo stesso Chiavone e il suo luogotenente Zimmerman). Quando la banda è dispersa dall’esercito italiano i singoli componenti rientrano nei loro villaggi, ma il difficile ritorno alla normalità porta alla rifondazione di una banda locale, con rancore verso lo stesso re borbonico per non aver condotto bene la guerra. Guerra faticosa e destabilizzante, trascinata con stanchezza e logorio, che facilitano abbandoni, delazioni, anche nei rapporti più stretti, come nel caso dell’amante che tradì nel 1866 a Velletri Nunzio Tamburrini. Dimensioni individuali e collettive, odi, invidie, risentimenti, rabbia, collera, paure impregnano società propense nei momenti di crisi alla mediatizzazione delle emozioni private. Il sentimento prevalente è l’odio: connaturato, con altri sentimenti affini, alla condotta umana, sempre latente, “fond commun, se situant entre la peur, l’inquietude et l’aggressivité”, diventa facilmente odio sociale, contro un nemico “moltiplicato”28, colorandosi di patriottismo antiunitario, contro uno Stato avvertito come estraneo. Il suo potere aggregante sfocia spesso nella violenza, che si focalizza sui corpi, offesi, spesso smembrati e resi irriconoscibili. Il brigantaggio quindi appare un momento nodale di un percorso di politicizzazione ottocentesco che la storiografia tende sempre più a vedere in rapporto a processi di nazionalizzazione e globalizzazione. Simili esperienze dal secondo Settecento accomunano, con migliaia o centinaia di migliaia di morti, molti eventi, dall’annessione dell’Irlanda alla Gran Bretagna alla guerra di secessione americana; si agisce all’insegna della violenza e delle paure, in particolare delle “classi pericolose”, da reprimere, ma soprattutto da identificare nella loro tipologia29. Ad esse rimanda la varietà dei motivi, politici, sociali e criminali cui abbiamo fatto riferimento e dei comportamenti che le realtà regionali restituiscono, come la varietà di rappresentazioni del brigante, da quella criminale a quella del vendicatore e protettore dei deboli e le relative interpretazioni storiografiche. La disponibilità e selezione delle fonti, riflessa nella storiografia regionale e non, rivela dinamiche locali ma anche nazionali, sia contemporanee agli eventi, sia riproposte in vari momenti della storia d’Italia, che danno spazio ai processi di spettacolarizzazione della politica, tramite la stampa e le immagini, capaci entrambi di comunicare una quotidianità conflittuale e complessa. F. Chauvard, Histoire de la haine. Une passion funeste 1830-1930, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2014, pp. 12, 14. 29 Cfr. F. Benigno, La mala setta: alle origini di mafia e camorra, 1859-1878, Torino, Einaudi, 2015. 28 La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni 259 ©UNICOPLI Difficile sottrarsi, proprio per una necessità di analisi di lungo periodo, alla opportunità di ribadire il carattere endemico del fenomeno, che spiega anche il suo riproporsi con numeri molto elevati in periodi di transizione, come tra 1860 e 1865, con una varietà di aggregazioni dalle grandi bande a quelle medio-piccole. La comunanza di interessi fra briganti e contadini sulla questione delle usurpazioni demaniali è stata sminuita come causa principale dagli studi di Scirocco, Gaudioso e altri: i banditi non condividevano con i contadini la richiesta di terre e i briganti datisi alla macchia erano condizionati da nuovi interessi, con percorsi facilitati di “carriera”, legati a questa specifica loro condizione. Società che in varie circostanze evidenziano strutturali lotte interne, conflittuali patriottismi, talora con basi ideologiche e politiche collaudate, tra 1860 e 1870 sono costrette ad affrontare simultaneamente vari fattori destabilizzanti: quello del crollo di uno Stato e del configurarsi di una entità nuova, della esasperata guerra civile, delle forme di resistenza e di repressione condotte all’estremo. Si tratta di una sfida che esula dal contesto dell’ex regno e si profila come persistente conflittualità nella successiva storia italiana. ©UNICOPLI L’ABRUZZO DEI BRIGANTI, 1860-1871 Nunzio Mezzanotte ©UNICOPLI Racconti e leggende corroborano spesso le vicende del brigantaggio postunitario. Per una completa comprensione del fenomeno è opportuno, però, interrogarsi su quali siano state le cause che hanno portato alla sua nascita. Un ruolo dominante fu giocato dalla pessima condizione in cui versava la popolazione contadina e dalla disuguaglianza sociale. A ciò si aggiunga, andando anche oltre i riscontri dell’inchiesta Massari, il disinganno delle masse, attratte inizialmente dai liberali “galantuomini” che promettevano un cambiamento, mai avvenuto se non in direzione di un peggioramento delle loro condizioni sociali. L’incitamento alla rivolta da parte dei filoborbonici, tra i quali era da annoverare anche una parte del clero, aiutò il divampare della reazione, che fu repressa dalle forze regolari del regio esercito con metodi non poche volte assai duri. Tutto ciò si andò ad unire alla renitenza alla leva delle classi 1857-60 richiamate alle armi: alcuni briganti, infatti, erano uomini che non accettavano di arruolarsi o di mettersi al servizio del nuovo re, mentre altri erano stati soldati di Francesco II e decisero di continuare la loro lotta antisabauda in segno di fedeltà alla dinastia uscente. Infine, la forte esosità fiscale, talvolta anche sproporzionata, e una questione agraria sempre a favore delle classi agiate spinsero molti alla lotta armata, spesso disperata. I processi penali, in cui sono stati coinvolti i reazionari del tempo, protagonisti in queste prossime pagine, chiamati nei documenti con il sostantivo “contadino” e l’attributo “nullatenente”, denunciano le cattive condizioni economiche in cui versavano. Queste parole la dicono lunga sull’identità di quei “tremendi” briganti. Erano proprio loro, insieme a pastori, boscaioli ed ex soldati borbonici, finanche alla presenza di fuorilegge, a costituire il nerbo delle bande reazionarie che tennero testa all’esercito regolare e alla guardia nazionale. I soldati che combattevano contro i briganti sapevano che il problema era di origine socio-economica. In un rapporto del 27 agosto 1865 il maggiore generale Lopez, comandante generale delle truppe nella zona dell’Aquila, scriveva a tale proposito: “Qualunque sia il numero dei briganti, le forze che li perseguitano, li mezzi di repressione che si hanno più o meno a disposizione, il brigantaggio avrà degli intervalli di quiete e di diminuzione, ma ripullulerà sempre e non si ©UNICOPLI 262 Nunzio Mezzanotte estinguerà giammai, finché durino le condizioni sociali di queste popolazioni”1. A questa analisi va aggiunta anche quella di Francesco Saverio Sipari. Egli, oltre ad essere studioso e politico di quegli anni, era anche un proprietario terriero e di armenti di Pescasseroli, un borgo degli altopiani maggiori sopra la piana di Sulmona, che si trovava a quell’epoca proprio nel centro dei territori interessati dalle varie bande. Sipari osservava che il brigantaggio nasceva dalla più assoluta mancanza di proprietà dei contadini e quindi dalla loro miseria estrema, disperata e dalla loro fame disumana, e che in fondo, perciò, il proletario voleva migliorare la propria posizione per la ricerca di una vita più umana2. Se il brigantaggio presentò caratteristiche generali comuni a quasi tutto il Mezzogiorno, ne ebbe anche di specifiche, diverse non solo da regione a regione, ma anche all’interno della stessa area. Come è accaduto per l’Abruzzo, suddiviso in massicci montuosi e profonde valli. Le zone più povere erano rappresentate dalla media montagna e dai grandi pascoli degli altipiani. In queste terre alte i ceti meno abbienti si erano già spinti, fin dai primi anni dell’Ottocento, a coltivarne i pendii più aridi e sassosi poiché le terre migliori, anche dopo la divisione dei demani ex feudali ed ecclesiastici, erano di nuovo in mano ai “signori”3. I grandi pascoli delle montagne d’Abruzzo erano una ricchezza solo per i locati, poiché le migliaia di pastori e le loro famiglie vivevano in una estrema indigenza. In un simile contesto sociale ed economico è più che comprensibile che molti disperati passassero nelle file dei “reazionari” prima e dei briganti poi, anche considerando che spesso essi potevano trovare una legittimazione alla loro scelta considerandosi al servizio dell’esercito borbonico. Tuttavia, il brigantaggio abruzzese differisce a seconda dei luoghi e nello specifico delle tre storiche province: Abruzzo ulteriore primo, con capoluogo Teramo; ulteriore secondo, con capoluogo l’Aquila; citeriore, con capoluogo Chieti. L’Abruzzo ulteriore I, sul cui territorio si trovava la fortezza di Civitella del Tronto, fu sottoposto alle incursioni di alcune bande locali organizzate e finanziate dalla monarchia borbonica per agevolare la resistenza della fortezza4. Conclusa la fase della guerriglia, rimase il brigantaggio politico e/o malavitoso che si mantenne in vita almeno fino al 1863: di breve durata, quindi, rispetto alle altre due province. Protagonisti nel teramano furono le bande di Bernardo Stramenga, Angelo Florj e Felice Antonio Angelici. Dopo la resa di Civitella, il 20 marzo 1861, non restò altra alternativa per essi che darsi alla macchia rifugiandosi nelle zone 1 Cit. in “Attraverso l’Abruzzo”, 1956, n. 1, p. 12 e Mario Zuccarini, La legione Carabinieri di Chieti, Storie, avvenimenti, valore, Chieti, Solfanelli, 1990, p. 7. 2 Francesco Saverio Sipari, Lettera ai Censuari del Tavoliere, Foggia, Tip. Cardone, 1863, pp. 15-16. 3 Cfr. Aurelio Manzi, La nascita di uno straordinario paesaggio agrario, in Il paesaggio agropastorale del parco nazionale della Maiella, a cura dell’Ente Parco Nazionale della Maiella, Sulmona 2016, pp. 97-104. 4 Sui comitati filoborbonici rimando a Giuseppe Massari, Il brigantaggio nelle province napoletane, Milano 1863 (ristampa anastatica Forni, pp. 77-85). L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 263 5 Per quanto riguarda i contributi più dettagliati sugli episodi nel teramano si vedano Ercole Bonanni, La guerra civile nell’Abruzzo teramano, 1860-1861, Teramo, Eco, 1974; Romano Canosa, Storia del brigantaggio in Abruzzo dopo l’Unità, Ortona, Menabò, 2001, pp. 14- 25. 6 Su tali considerazioni faccio riferimento agli Atti della Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della classe agricola, vol. XII, fasc. II, Roma, Forzani, 1885, p. 443; Sergio Anselmi, Caratteri dell’economia mezzadrile tra Ottocento e Novecento, in “Proposte e ricerche”, 1897, p. 130; Luigi Rossi, La Scoperta della mezzadria a Teramo nell’Ottocento, in ivi, pp. 144-157; Franco Molfese, La repressione del brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno continentale in “Archivio storico per le province napoletane”, 1983, p. 36; Canosa, Storia del brigantaggio, cit., pp. 213-214. 7 Canosa, Storia del brigantaggio, cit., pp. 4-13. Antonio Pagano, Due Sicilie. 1830-1880. Cronaca della disfatta, Lecce, Capone, 2002, p. 130. ©UNICOPLI montuose della provincia e dellaValle Castellana. Le incursioni e le razzie sviluppate dalla banda Stramenga furono numerose e tormentarono direttamente i territori di piccoli centri come Isola del Gran Sasso d’Italia, Assergi, Colledara, Valle Castellana, Pietracamela, Frignano, Tossicia, Castelli fino alla battaglia di Fano Adriano quando essa, forte di un centinaio di uomini, fu sbaragliata dalle truppe regolari e dispersa. Nel maggio 1863 lo Stramenga, assieme ad altri superstiti, riuscì a riparare in territorio pontificio ma dopo pochi giorni fu arrestato proprio dai soldati di Pio IX. Gli ultimi briganti nel teramano furono catturati nell’anno successivo5. Il brigantaggio, quindi, nella provincia di Teramo non attecchì fortemente e questo pone diverse questioni. In primis, ciò fu dovuto alla diffusione della mezzadria in tutta la provincia. Non si deve pensare che le condizioni dei mezzadri fossero agiate, ma sicuramente migliori dei braccianti, dei coloni parziari e dei fittavoli che, secondo quanto si legge nelle varie carte processuali furono spinti, certamente alcuni, a partecipare alla reazione brigantesca pur di reagire al disagio sociale in cui versavano6. Non fu solo questa ragione sociale a tenere lontano il brigantaggio dal teramano. Contò anche il fattore geografico. Il territorio infatti risultava lontano dalla principale zona di movimento dei briganti, vale a dire il settore sud-orientale dello Stato Pontificio, dove le bande potevano avere rifugio. L’Abruzzo ulteriore II, soprattutto nell’area meridionale ed occidentale, subì fortemente la presenza della vicina frontiera. Le bande si organizzavano in Molise, Campania e nelle zone di confine dello Stato Pontificio e scatenavano la loro guerriglia nella provincia, in primo luogo nella Marsica, nel Cicolano e nell’alto Sangro. Lo scopo era colpire le retrovie e distrarre dal teatro bellico principale le forze garibaldine impegnate sul Volturno. La brigata leggera, posta al comando del colonnello Theodor Friedrich Klitsche de la Grange ed organizzata a Gaeta, irruppe nel territorio abruzzese occupando Balsorano e Civitella Roveto nel settembre 1860 per poi dilagare nella Marsica e nell’Altopiano delle Rocche anche grazie alle sollevazioni della popolazione7, fino all’intervento del generale piemontese Pinelli che, tra ottobre e novembre, rovesciò la situazione a favore dei ©UNICOPLI 264 Nunzio Mezzanotte liberali8. La caduta di Gaeta affievolì le speranze borboniche. Tuttavia, coloro che avevano fatto parte delle milizie filoborboniche o che avevano preso parte alle cruente reazioni seguite al plebiscito del 1860, se non si consegnarono alle autorità, decidevano di continuare la lotta raccolti in piccole bande. Famose, tra queste, furono quelle di Aurelio Ricciardi, dei fratelli Michele e Bernardino Pietrapaoli e quella di Berardino Viola a capo della banda di Cartore, che operarono nelle montagne del Cicolano. Sulle montagne del Sirente, invece, operarono quelle di Vincenzo Vacca, di Francesco Presutti e di Angelo del Guzzo9. La vicinanza alla frontiera favorì, inoltre, diverse iniziative legate a personalità come ad esempio quella del generale spagnolo José Borjes. Sbarcato in Calabria per mettersi alla guida delle bande filoborboniche e condurle alla vittoria, dopo una breve esperienza con Carmine Crocco in Basilicata, fu costretto a ritirarsi verso la frontiera con lo Stato della Chiesa ma, catturato dai bersaglieri, fu fucilato l’8 dicembre 1861 a Tagliacozzo10. Non meno illustre, ma sicuramente più incisiva sul territorio abruzzese, fu la vicenda di Luigi Alonso detto Chiavone, che condusse varie spedizioni, tra il 1861 ed il 1862, nella Marsica, nella valle Roveto fino alla battaglia di Rivisondoli avvenuta il 17 giugno 186211, che segnò l’inizio del suo declino12. Le bande della provincia dell’Aquila rilevano un’importante caratteristica che le differenzia da quelle del chietino. Nel primo caso abbiamo briganti di origine pastorale, mentre nel secondo caso prevale la provenienza contadina. Questa peculiarità, che merita di essere sottolineata, contraddistingue il brigantaggio abruzzese. L’attività brigantesca nella provincia dell’Aquila, infatti, si manifesta in forma di estorsioni a danno di proprietari di ovini, con minacce di uccisioni degli animali in caso di rifiuto di consegnare il denaro. Al contrario, nell’Abruzzo chietino le estorsioni avvenivano a seguito dei sequestri di persone, spesso possidenti terrieri, o attacchi alle masserie che venivano saccheggiate ed incendiate. L’Abruzzo citeriore non rimase immune dalle sollevazioni del mese di settembre 1860 dovute, probabilmente, alla grande incursione di La Grange. Sono testimonianze di questi accadimenti i disordini scoppiati in centri importanti Da una prospettiva filoborbonica, cfr. Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, vol. II, Trieste, Del Grifo, 1868 pp. 287- 292. 9 Pasquale Casale, Il Sirente: Crocevia di Briganti, Bucchianico, Tinari, 1999. 10 Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 122-126. 11 Per la descrizione della battaglia e delle sue motivazioni si veda Nunzio Mezzanotte, Briganti della Maiella, personaggi, luoghi e avventure, L’Aquila, Parco Nazionale della Maiella, 2019, pp. 129-132. 12 A seguito della sconfitta egli rientrò nella sua zona nei pressi di Sora ove fu catturato e fucilato il 28 di quel mese. Per una nutrita biografia sulla figura del brigante Chiavone si vedano: Michele Ferri, Il brigante Chiavone. Avventure, amori e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello, Cassino, Centro sorano di ricerca culturale, 2001, p. 309; Ludwich Richard Zimmermann, Memorie di un ex capo-brigante: “libero e fidele”, Napoli, Arte Tipografica, 2007. 8 L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 265 Fulvio D’Amore, Viva Francesco II, morte a Vittorio Emanuele, Napoli, Controcorrente, 2004, pp. 136-146. 14 Canosa, Storia del brigantaggio, cit., pp. 26-36. 15 Archivio di Stato di Chieti, Brigantaggio ottocentesco in Abruzzo, Ari, Tinari, 1996, p. 17. 16 Sulla vicenda rinvio a: Canosa, Storia del brigantaggio, cit., pp. 37-47. 17 Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 50-58. 18 Per le bande dell’Abruzzo citeriore, soprattutto per ciò che riguarda la zona del vastese e la media val di Sangro rinvio al lavoro di Antonio Presenza, 1861-1866: fatti di brigantaggio in Abruzzo Citeriore, Casalbordino 2011. 19 A tal proposito rinvio ad Antonio Presenza, Il brigante Domenico Valerio alias Cannone di Casoli, Casalbordino 2013. 13 ©UNICOPLI del chietino quali Tornareccio, Monteodorisio, Atessa, Lanciano, San Salvo, Ortona fino alla stessa Chieti13. Il plebiscito acuì ancor più la rivolta nella zona di Lanciano e nel Vastese14. È proprio nel cuore della provincia che a partire dal 2 dicembre compare la prima vera banda guerriera d’Abruzzo: guidata da Nunziato Mecola, terrà testa all’esercito regolare fino all’inizio del gennaio 1861, occupando interi paesi come Arielli, Ari, Canosa ed Orsogna. La durata della banda fu più breve rispetto a quella delle altre sorte successivamente in tutta la regione, così come anche il suo capo fu ben presto catturato15, ma essa fu il risultato di una reazione spontanea in cui tra i contadini locali fu presente una pur relativa coscienza politica alimentata dalla speranza di un ritorno borbonico16. Le bande della provincia di Chieti, favorite dalla tensione politica, furono rinforzate da nuovi adepti e con l’ausilio di finanziamenti giunti dai comitati filo-borbonici operarono in grande stile sul territorio. Nel luglio 1862, ad esempio, una grande banda riunitasi sulla Maiella e capitanata da Francesco Cappucci, luogotenente di Luigi Chiavone, si unì a quelle operanti nella zona di Vasto con a capo Domenico Saraceni, per attaccare con duecento uomini diverse località della media val di Sangro17. Nel circondario di Vasto e di San Salvo, in modo particolare nella valle del Treste, si trovarono ad operare i fratelli Giuseppe e Michelangelo Pomponio, Berardino di Nardo ed altre piccole bande. A nulla valse la cospicua taglia sulla loro testa poiché rimasero attive fino al 1870 grazie all’ausilio dei cosiddetti “manutengoli”18. Tra tutte le bande non va dimenticata quella di Domenico Valerio, detto Cannone, che operò costantemente tra il 1864 ed il 1866 in tutto il territorio montuoso della provincia di Chieti sconfinando nell’aquilano. Il suo carisma riuscì a riunire le piccole bande superstiti del territorio e a capo di esse fu protagonista sia di diversi scontri con la forza pubblica sia di vari atti di brigantaggio fino alla sua scomparsa avvenuta, presumibilmente, nel 186719. Alla luce di quanto è stato fin qui scritto si potrebbe anche azzardare un’ipotesi, per quanto di taglio generale, sul numero di bande operative in Abruzzo nel periodo preso in esame. Considerando solo i capi massa a cui si legavano vari complici e/o adepti, le carte d’archivio indicano allo stato attuale della ricerca, un numero complessivo di 62 bande suddivise nel seguente modo: 33 nella pro- ©UNICOPLI 266 Nunzio Mezzanotte vincia di Chieti20, 26 in quella dell’Aquila21 e 3 nella provincia di Teramo22. Tuttavia, è bene considerare questa cifra solo provvisoria poiché il fenomeno durò per undici anni e spesso il numero delle bande variò nel corso di questo periodo. Inoltre, nei conteggi non sono considerati i vari capi-massa, ossia i protagonisti delle insubordinazioni avvenute nei singoli paesi nella reazione dell’autunno del 1860. Essi, infatti, ebbero questo ruolo solo per pochi giorni prima di essere catturati o darsi alla macchia. Per di più, le bande spesso erano costituite da altri piccoli sotto gruppi (si vedrà a breve l’articolata suddivisione della banda della Maiella), che sovente operavano in modo autonomo e non era rara, soprattutto dal 1860 al 1865, la possibilità di avvistare, anche per poche settimane, alcuni sparuti gruppi autonomi che a breve sarebbero stati inglobati da altre bande o annientati dalle autorità. Il numero per ciascuno di essi poteva essere da 4 unità fino ad arrivare, ma solo in sparuti casi, alle 70 unità della Banda Maiella o, eccezionalmente, anche a 100 uomini: in queste occasioni, però, si trattava di bande unite per specifiche operazioni come quelle gestite da Chiavone, Cappucci, banda Maiella e Cannone. Altro elemento da tenere presente è l’ubicazione operativa di questi raggruppamenti. La maggior parte di essi era stabile sui monti della provincia di Chieti e, per quanto riguarda l’aquilano, nel suo settore meridionale coincidente con i monti dell’alto Sangro. La Marsica dopo il 1863, invece, pur avendo alcune bande più o meno regolari, rappresentava un’area di passaggio per i numerosi gruppi provenienti da altre zone che volevano raggiungere lo stato pontificio soprattutto attraverso la Valle Roveto. Il massiccio della Maiella e le aree montuo- Consultando l’Archivio di stato di Chieti e Lanciano risultano operanti nella provincia di Chieti dal 1860 al 1871 i seguenti nomi a cui si associano piccole o grandi bande: Colafella Angelo Maria, Pastore Luca, Marino Nicola detto occhie di celle, Orsini Francesco detto pescivale, Di Sciascio Domenico, Valerio Domenico detto Cannone, Maio Pietro, Scenna Salvatore, Mecola Nunziato, Romagnoli Policarpo, Colantonio Donato, Fanti Antonio detto Strillo, Di Sciascio Giovanni, Saraceni Domenico detto Pizzolungo, Fanti Domenico, Prezioso Gaetano, Colasimone Camillo, Capanna Emidio, Cristini Domenico, Del Nero Angelo, Chinchio Giacinto, fratelli Angelilli, Pisciò, Colamarino Ferdinando, Colonna Luzio detto Tartaglia, Cappucci Francesco, Pomponio Giuseppe, Pomponio Michelangelo, Di Nardo Berardino, Argentieri Angelo Maria, Mascioli Francesco, Delle Donne Giuseppe, Natale Nicola detto Torniello, Ferrara Domenico. 21 Per la provincia dell’Aquila risultano i seguenti capi-massa Tamburrini Nunziato Antonio, De Tola Croce detto Crucitte, Marcucci Fabiano detto Primiano, Bucci Ermenegildo, Mancini Pasquale, Banda dei Sulmontini, Alonso Luigi detto Chiavone, Viola Beradino, Del Soldato Amedeo, Trapasso Spera, Sottocarro Salvatore detto Zeppitella, Cecconi Ferdinando, Viola Berardo, Banda di Luco o Trasacco, Banda di Tornimparta, Domenico Coia detto Centrillo, Giacomo Giorgi di Tagliacozzo, Maccarone Antonio, Banda Gerolami, Ricciardi Aurelio, fratelli Pietropaolo Michele e Berardino, Vacca Vincenzo, Presutti Francesco, Del Guzzo Angelo, Grilli Raffaele, Gasparro Saverio. 22 Nella provincia di Teramo risultano Bernardo Stramenga, Angelo Flory, Angelici Felice Antonio. Tuttavia, non sono riportate alcune piccole bande che parteciparono in aiuto dei soldati assediati alla fortezza di Civitella del Tronto. 20 L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 267 se immediatamente limitrofe fungevano da zone di collegamento o nascondigli relativamente sicuri ove trovare riparo dall’assalto delle forze dell’ordine. Ancora più complesso è definire una cifra esatta sul numero di briganti catturati e uccisi. Mancano sicuramente contributi scientifici intorno all’argomento, e si spera che ci siano dei tentativi più precisi a breve, ma è pur vero che la documentazione a riguardo non aiuta in quanto – occorre segnalarlo – risultano mancanti dai fascicoli relazioni ed elenchi redatti dalle autorità del tempo, persi probabilmente nei vari spostamenti d’archivio o per altre varie motivazioni. Però si possono riportare in questa sede, ed a solo titolo di esempio, i dati relativi alla provincia chietina, specificatamente al tempo che va dal 1861 al 1865 e che indico qui di seguito: Maggiormente complesso, al momento, è offrire un panorama più analitico sulle altre province per i motivi già espressi, ma è probabile che l’andamento numerico sia abbastanza alto considerando il biennio 1861-1862. Inoltre, a questi dati bisogna aggiungere anche un’altra considerazione che non va tenuta in disparte. L’8 dicembre 1863, infatti, il ministro dell’interno Ubaldo Peruzzi nella sua relazione alla Camera dei deputati confermava, per i mesi compresi tra aprile e giugno, l’arresto di 6564 persone in tutte le regioni soggette al brigantaggio. Questa cifra, però, fu contestata, tra gli altri, il 21 dicembre dal deputato di Lanciano Angelo Camerini, il quale asseriva che solo nella provincia dell’Aquila erano state arrestate e deportate nello stesso periodo un numero superiore di otto volte24, mentre il deputato aquilano Luigi Dragonetti scrisse a Silvio Spaventa sull’arresto e deportazione, sempre relativa alla provincia dell’Aquila, di 12.000 persone fino a quel momento25. I dati ufficiali e le relative contestazioni con altrettante cifre sulla situazione, seppure mosse da ragioni politiche, fatte da membri del parlamento non possono, a questo punto, che sollevare il dubbio sulla validità delle cifre e sulla effettiva situazione numerica dei deceduti e arrestati. Francesco Paolo D’Orsogna, Il brigantaggio nel distretto di Lanciano, 1810-1870, Lanciano, Vecchio Faggio, 1990, p. 45. 24 All’URL <https://storia.camera.it/regno/lavori/leg08/sed522.pdf> (ultimo accesso 28/03/2020) si può consultare la seduta del parlamento datata al 21 dicembre 1863. 25 Giuseppe Ettorre, Il marchese Luigi Dragonetti nel carteggio politico e letterario con gli uomini illustri del seco. XIX, L’ Aquila, tip. Grossi, 1891, p. 15. 23 ©UNICOPLI secondo semestre 1861: 277 arrestati, 141 fucilati, 64 uccisi in combattimento; 1862: 124 arrestati, 59 fucilati, 35 uccisi in combattimento; 1863: non si hanno dati analitici; 1864: 13 arrestati, 4 uccisi in combattimento; 1865: 37 arrestati, 4 uccisi in combattimento23. 268 Nunzio Mezzanotte ©UNICOPLI Il brigantaggio sulla Maiella e nell’alta val di Sangro: la reazione del 1860 Il fenomeno del brigantaggio abruzzese ebbe un’origine complessa e una lunga durata (1860-1871), soprattutto nei territori che comprendono il massiccio della Maiella ed i monti circostanti oltre che la medio e alta Val di Sangro. Si consideri che le prime reazioni nel territorio regionale ebbero luogo proprio a Castel di Sangro, per poi dilagare nei borghi vicini. Il primo ottobre 1860 la reazione scoppiò all’improvviso spiazzando tutti. Le stesse autorità politiche, infatti, non si aspettavano che in paese ci fossero tanti reazionari. A partecipare a questa insurrezione non furono solo cittadini comuni, ma anche militari che erano legati al giuramento di fedeltà con i Borboni, quali ad esempio il sergente Vespasiano, il caporale Raffaele Esposito, il gendarme Barletta, i quali furono parte attiva dei disordini che seguirono. Essi, infatti, andavano dicendo che il re Francesco II dava al popolo carta bianca per fare ciò che volevano riguardo ai liberali, composti da proprietari terrieri e grandi allevatori, impossessandosi della loro roba26. Era sicuramente una provocazione, ma tanto bastava per infuocare gli animi già agitati da vane aspettative di gente di umili condizioni. La tensione crebbe fino a diventare violenza, come dimostra l’omicidio del giudice Giovanni Battista Antonucci. I disordini di Castel di Sangro non rimasero confinati. Infatti, il 2 ottobre due soldati a cavallo, di nome Domenico di Silvio e Concezio Rinaldi, entrarono nel vicino borgo di Pescocostanzo con tanto di vessillo borbonico gridando “Viva Francesco!”. Subito furono seguiti da una turba di persone che marciò con quella bandiera verso la casa di Errico Bono, capo del plotone della guardia nazionale del luogo, che resistette asserragliato in casa. I reazionari presero il controllo delle vie del paese continuando a cantare e ad inneggiare al re spodestato27. Domenico di Silvio, però, non si fermò a Pescocostanzo, e decise di raggiungere Roccaraso, dove molti lo attendevano. Infatti, appena entrato a cavallo nel paese trovò tanti abitanti che lo seguirono inneggiando a Francesco II. Insieme si diressero verso la sede del corpo di guardia. I soldati presenti si arresero mentre Federico Trilli staccò i quadri di re Vittorio Emanuele II e Garibaldi gettandoli in strada per essere bruciati. Intanto Raffaele Grilli, capo della guardia nazionale, prese il quadro di Francesco II ed insieme alla statua del santo patrono di Roccaraso, ossia Sant’Ippolito, si recò in chiesa cantando il Te Deum seguito da numerose persone28. Alcuni reazionari di Roccaraso e Pescocostanzo, intanto, raggiunsero i paesi di Campo di Giove, Cansano ed i paesi della valle dell’Aventino ove le scene erano simili a quelle già citate29. La quiete, però, tornò presto. A Castel di Sangro giunsero 1500 soldati di rinforzo. Il 4 ottobre l’ordine fu ricostituito nel borgo sulle rive del Sangro e negli 26 27 28 29 Archivio di stato di Sulmona, Corte d’Assise, Processi, b. 78, f. 675. Ivi, b. 63, f. 543. Ibid. Archivio di stato di Sulmona, Corte d’Assise, processi, b. 72, f. 12. L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 269 30 31 Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 97-98. Archivio di stato dell’Aquila, Prefettura, affari generali di polizia, 6093.37. ©UNICOPLI altri paesi circostanti. Un distaccamento di soldati guidati da Leonardo d’Onofrio riprese il controllo di Roccaraso, mentre a Pescocostanzo Enrico Bono, una volta raggiunto in casa dai soldati, riportò la calma in paese. Ora iniziavano i processi. A Cansano, Campo di Giove, Pescocostanzo e Roccaraso molti furono portati dinanzi al giudice e messi in carcere. Decine di giovani, però, si diedero alla macchia costituendo piccole bande30, come quelle di Domenico di Silvio e Raffaele Grilli, capi massa ben presto catturati e processati31. Sul finire di ottobre, intanto, nel versante nord-occidentale della Maiella esplodevano altri episodi di violenza e reazione. La mattina del 21 ottobre 1860, nel borgo di Caramanico Terme, si radunarono in molti dinanzi al municipio per le operazioni di voto inerenti il plebiscito di annessione al Regno d’Italia. Qualcuno si fece largo e cercò di pronunciare un discorso con voce forte, ma non riuscì a farsi capire; salì quindi sulla pedana e gridò, togliendosi il cappello dinanzi a tutti, “Viva Francesco II!”. Domenico del Raso trovò con questo urlo l’appoggio della maggioranza presente. Gli uomini della guardia nazionale cercarono di allontanare la folla con spintoni e minacce ma dovettero sparare in aria. Tutti fuggirono sgomberando la piazza e la folla avversa al voto si riunì sui ruderi del castello, che dominavano il borgo. A quel punto la folla iniziò a lanciare pietre e materiale di ogni sorta sulle guardie nazionali, le quali furono costrette a fuggire. Furono presi d’assalto il municipio ed il corpo di guardia. Da questi edifici furono presi i busti di Vittorio Emanuele e Garibaldi per essere gettati a terra e fracassati, il mobilio fu bruciato e soprattutto furono presi i fucili. I reazionari però, avevano bisogno di qualcuno che li guidasse e scelsero Angelo Camillo Colafella che, dopo essere stato per anni braccato dalla polizia per la sua attività delinquenziale, si era appena autoproclamato capitano della guardia nazionale di Francesco II. Dopo aver accettato l’incarico di capo massa abbandonò il piccolo borgo suo natio di San Giacomo e si mise in cammino verso Sant’Eufemia a Maiella. Giunto in paese trovò altri sostenitori, armati di falce e pietre, pronti ad aiutarlo. Attaccarono allora il corpo di guardia impossessandosi di armi. Nel paese, infatti, non vi furono forti resistenze alla reazione e fu facile persino riporre nelle opportune sedi municipali le immagini di Francesco II e di sua moglie Maria Sofia. Poi, decisi e determinati, gli uomini scesero a Caramanico. Il sindaco del paese, Pasquale Costa, si era rifugiato presso il suo palazzo. Quando sentì l’avvicinarsi delle grida dei rivoltosi sprangò le porte e le finestre ma fu tutto inutile. Colafella entrò e lo invitò a dargli tutti i fucili, munizioni e 15.000 ducati delle tasse prelevate. Il sindaco rispose di non avere soldi e così fu legato mani e piedi mentre il resto della gente scardinava e distruggeva mobili, porte e scaraventava dalle finestre tutto quello che poteva. Poi si recarono a casa di Tolomeo Costa, esattore delle tasse, e gli incendiarono l’intera abitazione così come avvenne a molti altri liberali. Il Colafella si diresse verso la casa di Berardino Carestia. Questi era un membro della guardia nazionale ed ©UNICOPLI 270 Nunzio Mezzanotte insieme a suo figlio aveva fatto fuoco contro la popolazione durante le prime fasi della rivolta. Berardino cercò di convincere la folla che lui faceva il suo dovere e che sparò solo per spaventare e non per uccidere. La risposta fu una scarica di fucile in petto mentre altri entrarono in casa e trovato il figlio, anche lui guardia nazionale, lo freddarono con un colpo di pistola. Le vie del paese erano cosparse di roghi. Le carte notarili, testimoni di terreni e case da tassare, furono gettate nel fuoco. Il 21 sera l’insurrezione divampò anche a Salle ed anche qui fu chiamato il Colafella. Egli giunse con i suoi uomini l’indomani e assediò la casa del farmacista Berardo Morante, capitano della guardia nazionale. L’ufficiale cerco di resistere ma fu tutto inutile poiché si vide bruciare sia l’abitazione che il luogo di lavoro. Tutto ciò che aveva fu preso dalle persone accorse sul posto. Perfino la cantina, ricolma di botti di vino, fu saccheggiata ed incendiata. Il municipio, come a Caramanico, rivide le immagini dei regnanti borbonici e poi tutti di corsa verso Musellaro dove furono prelevati 13 fucili dal corpo della guardia nazionale. Colafella, bloccato sulla via di Bolognano dal sopraggiungere dei soldati, decise di rientrare velocemente a Caramanico. I soldati, invece, occuparono Musellaro aspettando nuovi rinforzi da Chieti. Mentre accadeva tutto questo, il fratello Raffaele organizzò, come già accaduto in altri paesi, il Te Deum in onore di Francesco II ed altri cortei con tanto di statue di santi al seguito. Tutto questo durò poco. Infatti, il giorno dopo un distaccamento di forza pubblica composta da soldati piemontesi, carabinieri reali e guardia nazionale si diresse verso Caramanico. Il capo della reazione uscì dal paese e si recò incontro agli armati con i suoi fidati ma, dopo una mezzora di spari dovette ritirarsi lasciando che i soldati entrassero in paese. Il ventiquattro, intanto, la forza pubblica giunse anche a Sant’Eufemia, mentre i soldati posti a Musellaro, dopo aver riportato l’ordine a Salle, avanzarono verso Caramanico chiudendo il cerchio. I Colafella ed i suoi fidati fuggirono dandosi alla macchia nell’alta valle dell’Orta32. Giunse il momento della resa dei conti: tra 24 e 25 ottobre, sia nel paese di Sant’Eufemia sia a Caramanico, alcune guardie nazionali uccisero a sangue freddo alcuni uomini sospettati di furto, senza sottoporli a processo33. Era chiaro a tutti come il clima di tensione fosse sfociato in violenze, che prendevano sempre più sembianze di una guerra civile tra liberali e la parte più povera della società, espressione degli ambienti contadini e pastorali. Tuttavia, dopo l’intervento delle forze dell’ordine, il fuoco che infiammò l’animo della popolazione venne meno e coloro che non volevano accettare le nuove regole furono costretti a darsi alla macchia. La Maiella ed i monti circostanti, con i propri boschi e valli inaccessibili, fecero da sfondo a bande di uomini adesso chiamati briganti. Archivio di stato di Chieti, Corte di Assise, processi, b. 178. Cfr. Canosa, Storia del brigantaggio, cit., pp. 30-35. 33 Ivi, mazzo 101. Cfr. Canosa, Storia del brigantaggio, cit., p.34; Mezzanotte, Storia del Brigantaggio, cit., pp. 99-104. 32 L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 271 Briganti della Maiella 34 Si veda Archivio di stato di Chieti, Corte d’Assise, II versamento, appendice, b. 4, vol. 94, cc. 22-26r e cc. 26v.-29 r. La trascrizione dei due documenti è riportata in Miria Ciarma, Brigantaggio sulla Maiella, Villamagna, Tinari, 2011, pp. 52-55. 35 Archivio di stato di Chieti, Corte d’Assise, II versamento, m. 101, b. 178, vol.1. 36 Si veda Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 15-24. 37 Archivio di stato di Sulmona, Corte d’Assise. Processi, busta 21/ter, fasc. 36. Imputazioni di reato dal n. 1 al n. 25. ©UNICOPLI Nel 1860, a seguito dei movimenti reazionari del mese di ottobre, molti giovani pastori, contadini ed ex soldati presero parte alla nascita di piccole bande irregolari che, sfruttando la natura selvaggia del territorio montano, tennero testa sia alla guardia nazionale sia all’esercito regolare. Tra tutti, appaiono briganti della prima ora, come ad esempio Angelo Camillo Colafella ed il fratello Raffaele. Dopo aver condotto l’insurrezione nei paesi della Maiella nord-occidentale riuscirono a sfuggire ai soldati e raggiungere Gaeta. Qui, Angelo ebbe modo di unirsi ai gruppi volontari pronti a combattere per Francesco II. Tuttavia, Gaeta non era in grado di assicurare i rifornimenti sia alle truppe regolari sia ai volontari, così quest’ultimi dopo essere stati congedati tornarono nei luoghi d’origine per portare la guerriglia34. Colafella, infatti, tornò sui monti della Maiella e in nome del deposto re invase il 14 dicembre il borgo di Palena, che, il giorno successivo, fu ripreso dai soldati provenienti da Castel di Sangro. Trovato quindi rifugio in prossimità della frontiera pontificia, a Filettino, venne a sapere che la sua famiglia era stata interamente arrestata dal capitano della guardia nazionale di Pacentro. Il capitano Raffaele Buccitelli, infatti, colse in fragrante l’intera famiglia Colafella mentre distribuiva al mercato nero di Sulmona oggetti e preziosi trafugati dalle case dei liberali durante la reazione avvenuta ad ottobre nei paesi della valle del fiume Orta. Il primo gennaio 1861 Colafella, insieme a venti uomini malarmati, entrò nel borgo di Pacentro e dopo aver attaccato la postazione della guardia nazionale entrò in casa Buccitelli uccidendo per rappresaglia il capitano. A seguito di questa vicenda il brigante, braccato dalle forze dell’ordine35, fuggì a Civitavecchia dove si imbarcò insieme a duecento uomini su una nave che, stando ai patti, avrebbe dovuto portarli in Lucania e proseguire la lotta. In realtà, la nave non era altro che una trappola dei piemontesi che riuscirono, dietro compenso, a dirottarla fino all’isola di Ponza. Angelo Colafella e suo fratello insieme a tanti altri filoborbonici si ritrovarono ad essere prigionieri. Riconosciuta la loro identità, furono portati a Chieti per essere processati e condannati ai lavori forzati. Colafella uscì di carcere solo nel 1905 e dedicò gli ultimi anni della sua vita ai racconti della sua inquieta giovinezza36. Nel gennaio del 1861, mentre si compivano le ultime azioni di Colafella, si organizzava nella comunità di Sulmona un gruppo di ex soldati borbonici, ben armati ed equipaggiati, che per tutto l’anno e parte di quello successivo interessarono tutta la zona peligna con la loro presenza37. Obiettivo dei loro attacchi erano le guardie nazionali di Sulmona e Pettorano sul Gizio. La banda, capeggia- ©UNICOPLI 272 Nunzio Mezzanotte ta da Giuseppe Marinucci ed Antonio La Vella, venne definita dei Sulmontini e si rese protagonista di diversi omicidi a danno della guardia nazionale. La situazione diventò sempre più tesa tanto da far intervenire direttamente il 35° fanteria Pistoia. Il 14 febbraio 1862, a seguito di un ultimo scontro, gli ultimi reduci della banda furono uccisi e Felice Marinucci, fratello di Giuseppe, dopo essere stato fucilato sul posto, fu gettato lungo le scale del palazzo dell’Annunziata di Sulmona a monito per tutta la popolazione38. Alcuni componenti della banda, però, riuscirono a salvarsi. È il caso di Pasquale Mancini, detto il Mercante, il quale si unì ad altri sbandati. Mancini fu a capo di un piccolo nucleo armato nei dintorni di Sulmona e ben presto si unì alle bande di Luca Pastore di Caramanico, Domenico Di Sciascio di Guardiagrele e Nicola Marino di Roccamorice, tutti uomini provenienti dai borghi a ridosso del massiccio della Maiella. Il risultato fu la composizione di una grande banda che si muoveva sul massiccio della Maiella e Morrone e fu protagonista di sequestri, grassazioni, scontri armati con l’esercito regolare. La corte d’assise di Chieti così la descriveva nel processo del 5 settembre 1863: Nella fine del 1860 una banda di malfattori formata specialmente d’individui già compromessi in precedenti disordini, o evasi dalle prigioni, o pervenuti dal disciolto esercito borbonico, si raccolse nel monte Maiella e di lì armata mano cominciò a scorrere il contado adiacente, portando ovunque la strage, la devastazione, il saccheggio. Il numero di tutti malfattori non fu mai minore di cinque e raggiunse talora quasi i cinquanta. Nei momenti del suo maggior nerbo ardì pure d’invadere taluni comuni, attentando alla vita e alle sostanze dei cittadini e prendendo specialmente di mira i più agiati e coloro che più fossero conosciuti per sentimenti liberali. Se talora, minacciati dalla pubblica forza, si sperperarono in piccoli drappelli, ciò fu per pochi momenti e nel previo concerto di novellamente riunirsi onde commettere altri reati. Capo di questa banda fu Mancini Pasquale soprannominato Mercante39. La banda della Maiella, però, non ebbe solo un ruolo locale durante il corso degli eventi che la interessarono. Nel dicembre 1861, infatti, per sfuggire ai rigori dell’inverno abruzzese si spostò nello Stato Pontificio. Qui entrò in contatto con Luigi Alonso, detto Chiavone, originario di Sora, che proprio dal suo paese natio si organizzò per portare guerra nelle limitrofe zone occupate dall’esercito del nuovo Regno d’Italia. Egli, che all’inizio della spedizione dei Mille si offrì di servire la causa dell’Unità, fu respinto dalle autorità sabaude nella qualità di informatore e decise che avrebbe combattuto fino alla fine per la causa opposta. Agli ordini diretti dei comandi esuli borbonici, nominato “comandante in capo delle truppe del Re delle Due Sicilie” direttamente da Francesco II, suddivise la Luigi Torres, Il Brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’Alto Sangro, Spino d’Adda, Majella, 2001, pp. 139-157. Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 25-30. 39 Archivio di stato di Chieti, Corte d’Assise, II versamento, processi, b. 11; Canosa, Storia del brigantaggio, cit. p. 60; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 31-46. 38 L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 273 Archivio di stato di Chieti, Corte d’Assise, II Versamento, m.26, b. 43, fascicolo 3. Inchiesta Massari, pp. 70-71. 42 Cfr. Michele Ferri e Domenico Celestino, Il brigante Chiavone: storia della guerriglia filo borbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Casalvieri, Centro Studi Cominium, 1984, pp. 234-245. 43 Ivi, pp. 234-245. 44 Cfr. Canosa, Storia del brigantaggio, cit., pp. 4-13. 45 Inchiesta Massari, p. 71. 40 41 ©UNICOPLI sua piccola armata in otto compagnie. Di queste, una era formata da una cinquantina di abruzzesi, guidati proprio da Pasquale Mancini ed altri militanti della banda Maiella40. Essi come tutti gli altri avevano diritto ad una paga in denaro, pari a 25 grane e ad un pasto in pane e zuppa, oltre che vestiario ed armi41. I problemi principali, però, scaturirono direttamente dai rifornimenti. I denari dei comitati borbonici romani ebbero un drastico esaurimento e la mancanza di paghe e soprattutto di viveri portarono molti dei 430 uomini iniziali a consegnarsi alle autorità italiane. Non era bastato fondere l’argenteria del re e neppure, per assurdo, l’utilizzo di monete false per arginare il problema. A fine inverno il nucleo centrale della piccola armata era composto da duecento uomini acquartierati a Filettino sotto il comando diretto di Mancini ed in attesa di ordini superiori42. Oltre alle difficoltà logistiche, occorre aggiungere anche le difficoltà legate agli attriti intercorsi tra i vari comandanti, soprattutto tra Chiavone ed il suo luogotenente Zimmerman43. Questi credeva di poter utilizzare il gruppo di Mancini per sue personali iniziative, ma i duecento uomini si mossero prima del suo arrivo a seguito di ordini dall’alto. Probabilmente Mancini era in contatto diretto con Chiavone il quale, considerando che la situazione dei rifornimenti era scarsa, aveva necessità di avviare il prima possibile una spedizione rivolta a trovare risorse sul campo e, probabilmente, non voleva che fosse Zimmerman a guidarla. Pasquale Mancini, così, iniziò la marcia verso ovest. Dopo aver attraversato la valle Roveto, lasciandosi alle spalle Civitella Roveto ben presidiata, giunse in vista del grande lago Fucino. Il piano era quello di attaccare Luco dei Marsi, meno presidiato da soldati, impiantandovi un governo filoborbonico capace di innescare nuovi disordini nella Marsica, come era già avvenuto nell’estate del 186044. Così la mattina del 6 aprile tutti gli uomini di Mancini attaccarono in massa il borgo di Luco. L’abitato fu presto occupato, ma i quindici soldati del 44° fanteria Forlì, insieme al loro comandante, adibiti alla difesa dell’abitato, resistettero nella loro piccola caserma. Dopo tre ore di furioso combattimento e scambio di fucileria, gli attaccanti riuscirono a salire sul tetto, levare le tegole, gettare nella struttura fascine di legno che vennero incendiate. All’improvviso, però, dalla vicina Trasacco giunsero rinforzi di fanteria e guardia nazionale. Temendo di essere accerchiata e non essendo disposta a continuare lo scontro, la banda si dissolse in poco tempo cercando di riprendere la via dei vicini monti. Pasquale Mancini fu catturato e fucilato la sera stessa insieme ad altri suoi compagni45. Il resto della banda, riattraversando la Valle Roveto subì un nuovo attacco dalla ©UNICOPLI 274 Nunzio Mezzanotte guarnigione di Civitella Roveto. Infine, solo in 25 uomini tornarono da Zimmerman, 40 raggiunsero Chiavone, mentre tutti gli altri si dispersero cercando di ritornare nei luoghi d’origine come accadde anche a Luca Pastore46. La morte di Mancini aveva provocato un cambio al vertice. Pastore, infatti, diventò il nuovo capo della banda. Tornato sulla propria montagna nel mese di aprile, riprese ad impegnare i soldati in nuovi scontri. A maggio invase il borgo di San Valentino in Abruzzo Citeriore, liberando dal carcere una ventina di uomini che si unirono alla banda47. Il 5 giugno fu la volta di Roccacaramanico ove Luca fece bruciare tutti i documenti che attestavano i terreni da tassare degli abitanti del paese48. Pochi giorni dopo, lo stesso Chiavone si presentò in Abruzzo nel territorio della piana delle Cinque Miglia, dove insieme al capo banda Nunzio Tamburrini ed allo stesso Pastore attaccò Rivisondoli. L’attaccò fallì per la forte resistenza della guardia nazionale del paese aiutata da quella di Pescocostanzo. I morti, i feriti ed i dissidi con Tamburrini spinsero Chiavone a tornare verso Sora, per l’ultimo viaggio49. Pastore, quindi, riprese ad operare nel versante nord-occidentale della Maiella, braccato dalla forza pubblica, ma avendo sempre l’appoggio di buona parte della popolazione. Conoscitore di ogni anfratto della Maiella, egli ed i suoi compagni sfuggivano sempre alla caccia delle guardie. Durante tutta l’estate compirono diversi sequestri e ad ognuno di essi seguiva una richiesta di riscatto sempre pagata. Fino al mese di agosto i rifornimenti arrivarono da un certo Romito di Caramanico ma poi, dopo l’arresto di questo manutengolo, Pastore dovette rivolgersi all’aiuto di più famiglie contadine che sostennero la banda fino agli inizi di ottobre50. Poi, Pastore decise di ritornare a Roma. L’arrivo dell’inverno e la necessità di riavvicinarsi ai comitati filoborbonici romani, oltre che dare un po’ di riposo ai suoi uomini ed a se stesso nelle più tranquille contrade laziali, imposero questa decisione. Sporchi e laceri, stanchi ed affamati giunsero tra il 18 ed il 19 ottobre nei territori di Civitella Roveto. Pastore aveva attraversato quei luoghi già quattro volte, ma in quel punto aveva dovuto cambiare spesso percorso con l’ausilio di guide locali. Anche questa volta trovò l’aiuto di Giacomo di Loreto che gli mostrò la via attraverso il ponte di Pescocanale. Lungo il percorso Pastore si sfogò con la guida maledicendo Vittorio Emanuele II che gli aveva creato tutti quei problemi e poi, con sorpresa da parte 46 Ferri, Il Brigante Chiavone, cit., pp. 277-279. Ferri, in realtà, asserisce che Mancini si mette in salvo raggiungendo Chiavone insieme ai suoi uomini. La notizia, però, è smentita dalla stessa relazione di Massari che cita la fucilazione del Mercante. Si consideri, infatti, che dopo questa azione Pasquale Mancini non comparirà più in nessun’altra azione. 47 Archivio di stato di Chieti, Corte d’Assise, II versamento, b. 189, m. 108, vol 1, cc. 61-64. Si veda anche Ciarma, Brigantaggio sulla Maiella, cit., pp. 133-136; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., p. 44. 48 Archivio di stato di Chieti; Corte d’assise, b. 184, fasc. 1, s.fasc. 3, m. 105; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 129-132. 49 Ferri, Il brigante Chiavone. Avventure, amori e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello, Cassino, Centro sorano di ricerca culturale, 2001, p. 309; Zimmermann, Memorie di un ex capo-brigante, cit., p. 311. 50 Archivio di stato di Chieti, Corte d’Assise, II versamento, m. 26, b. 43, c. 30. L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 275 Ibid. Archivio di stato di Chieti, Gran Corte Criminale, processi, bb. 86, 87, 88, mazzo 1145; Tribunale militare territoriale, reg. 140. 53 Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 47-71. 54 Archivio di stato di Chieti, Prefettura, I Versamento, 190, affare 71. 55 Archivio di stato di Lanciano, Sottoprefettura, polizia, 153.III.4. 56 Archivio di stato dell’Aquila, Prefettura, atti di gabinetto, 16.2. 57 Archivio di stato di Sulmona, Corte d’Assise, Brigantaggio, B.IV, F.8.; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp.133 -136. 51 52 ©UNICOPLI di Giacomo, iniziò a maledire anche Francesco II che non aveva condotto bene la guerra e aveva abbandonato Napoli troppo presto, determinando in tal modo la sua situazione personale. Giunti in prossimità del ponte i due si congedarono. Poco più tardi, la piccola banda venne intercettata da un reparto di bersaglieri che riuscirono a catturare Pastore ed alcuni dei suoi. Il 19 ottobre 1862 la loro corsa si concluse dinanzi a un plotone di esecuzione51. La banda della Maiella, oramai, iniziava a sfaldarsi completamente. Nel 1863, si apprese la fine di molti componenti52. Qualcuno rimaneva ancora libero ed operativo: Nicola Marino e Domenico di Sciascio, infatti, continuavano la loro vita brigantesca53. Nicola operava nei tenimenti di Roccamorice, Caramanico, Abbateggio ma, all’occorrenza, si univa alla banda Di Sciascio che si muoveva nella zona di Guardiagrele. I due, infine, passavano a Roma l’intero inverno54. Tuttavia, la vita errabonda, fatta di stenti e pericoli, iniziava ad essere dura per i componenti delle due piccole bande e la sempre più forte pressione dei soldati ne rendeva la sicurezza più precaria. Così, alcuni briganti iniziarono a consegnarsi alle autorità e Domenico Di Sciascio rimase sempre più solo. Egli non poteva arrendersi poiché non aveva altra alternativa che la morte. La fine arrivò comunque, ma non per mano di un soldato ma da parte di un suo compagno: Domenico Colaneri. Questi, il 10 novembre 1866, lo freddò con un colpo di pistola alla testa per poi consegnarsi alle autorità55. Nicola Marino, invece, fu catturato a Tivoli nel 1867 dalla gendarmeria papale e consegnato alle autorità italiane, a seguito di lauto compenso, per essere condannato all’ergastolo56. Oltre alle bande fin qui citate, sui monti della Maiella, soprattutto tra la conca peligna e l’alto Sangro fu protagonista incontrastato Nunzio Tamburrini. Egli fu tra coloro che scamparono agli arresti seguiti alla reazione di Roccaraso del 1860. Divenuto capo banda allacciò i suoi contatti con le fazioni filoborboniche dell’ambiente romano avendo rapporti diretti con il generale Raffael Tristenay fino al 1861. In seguito, insieme a Luigi Alonso, organizzò l’assalto al borgo di Rivisondoli57, nella stessa battaglia in cui partecipò la banda della Maiella capeggiata da Luca Pastore. Nonostante la sconfitta, Nunzio non si diede per vinto e avendo come base i monti circostanti a Roccaraso continuò ad operare attraverso grassazioni ed uccisioni di armenti collaborando con l’altro capo banda Primiano Marcucci di Campo di Giove. I due operavano con le rispettive bande in modo autonomo ma spesso si univano per organizzare azioni più eclatanti come l’uccisione di centinaia di capi di bestiame appartenenti ai grandi alleva- ©UNICOPLI 276 Nunzio Mezzanotte tori della zona e gli attacchi a masserie. Entrambi si firmavano, sui biglietti di ricatto, con il titolo di Capitano. Nel 1863, però, Tamburrini fu protagonista dell’eccidio di Lago Vivo presso i tenimenti di Villetta Barrea in cui trovarono la morte 10 guardie nazionali. Questo avvenimento fece molto scalpore e fu data su di lui una taglia di 4500 lire, estesa anche al collega Primiano Marcucci reo di altri sequestri e ricatti. Il brigante di Roccaraso fu catturato dai soldati francesi, nel 1865, presso il porto di Civitavecchia mentre cercava di fuggire all’estero e consegnato alle autorità italiane58; mentre il brigante di Campo di Giove fu tradito a Velletri nel 1866 dall’amante, che segnalò la sua presenza ad infiltrati dei carabinieri reali59. Il brigante più ricercato ed imprendibile di tutti, però, fu Croce di Tola detto Crucitte. Nato a Roccaraso come Nunzio Tamburrini, fece parte della banda del suo concittadino almeno fino al 1863 per poi operare autonomamente insieme ai suoi fedelissimi. Le fonti d’archivio dimostrano la sua collaborazione con tutte le bande presenti sulla Maiella, sui monti Pizzi, sul Morrone per muoversi anche nella zona del Molise e dell’aquilano. Dopo il 1866, quando le bande erano sempre più in difficoltà per la pressione dei soldati, Croce fu protetto dai signori che fino ad allora erano considerati per lui nemici. I grandi proprietari di armenti di Roccaraso, di Bugnara, di Pettorano sul Gizio e la stessa Scanno lo assoldarono infatti per proteggere le loro ricchezze da altri briganti. Questo fu possibile fino al 1868 quando, a seguito di indagini condotte dall’esercito, si ebbe a sapere di questi contatti e Crucitte ritornò alla macchia operando nuovamente tramite grassazioni e ricatti. La sua vita brigantesca ebbe fine nel luglio 1871 quando sulle sue tracce si mise Chiaffredo Bergia, brigadiere dei carabinieri reali che sin dal 1861 operava contro varie bande d’Abruzzo. Bergia, infatti, il 29 luglio 1871, dopo un lungo inseguimento sul monte Pallottieri nei pressi di Roccaraso, catturò durante uno scontro a fuoco Croce di Tola. Qualche settimana più tardi lo stesso brigadiere ed i suoi uomini posero fine alla vita dell’altro componente della banda, Angelo del Guzzo, sfuggito allo scontro di luglio60. Con queste azioni si può dire che il brigantaggio in Abruzzo ebbe definitivamente fine. Tuttavia, gli undici anni che videro la presenza di tale fenomeno segnarono indelebilmente la storia e la memoria dei piccoli borghi dell’Abruzzo montano. I briganti passaro- 58 Per una biografia dettagliata di Nunzio Tamburrini si veda: Franco Cercone, Briganti di Roccaraso nel periodo post-unitario, 1861-1871, Pescara, Multimedia, 1997; Canosa, Storia del brigantaggio, cit., p. 170, Torres, Il brigantaggio nell’Abruzzo Peligno, cit., p. 216; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 81-86. 59 Sulla figura di Primiano Marcucci rinvio ai seguenti testi: Giuseppe Presutti, Primiano, Storia di un brigante di “Primo Catalogo”, Pratola Peligna, Vivarelli, 1979; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 87-94. 60 Sulla figura di Croce di Tola e gli ultimi episodi di brigantaggio faccio riferimento a Franco Cercone, Abruzzo terra di briganti. La banda di crucitte e tamburrine, episodio di brigantaggio politico a Roccaraso e sul Piano delle Cinque Miglia, Pescara 2006; Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit., pp. 73-80. L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 277 no nei racconti e nelle leggende degli abruzzesi divenendo protagonisti leggendari di uno dei momenti più drammatici di una giovanissima Italia. Il brigantaggio abruzzese: un excursus storiografico Ercole Bonanni, La guerra civile nell’Abruzzo teramano. 1860-1861, Teramo, Eco, 1974. Raffaele Colapietra, Il brigantaggio postunitario in Abruzzo, Molise e Capitanata nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario, in “Archivio Storico delle province napoletane”, anno 101 (1983), pp. 287-309. 63 D’Orsogna, Il brigantaggio nel distretto di Lanciano, 1810-1870, cit. 64 Martoriano Di Cesare, Sebastiana Ferrari (a cura di), Abruzzo, Montagne e briganti, Archivio di Stato dell’Aquila, sezione di Sulmona, Ari, Tinari, 1994. 61 62 ©UNICOPLI Le vicende del brigantaggio abruzzese fin qui raccontate possono essere considerate solo un aspetto del difficile travaglio che il territorio regionale dovette affrontare dal 1860 al 1871. Sul tema, infatti, sono numerosi i contributi offerti dagli studiosi negli ultimi decenni. In questa sede, però, vengono riportati solo i lavori che hanno un’importanza più o meno scientifica, tale da andare al di là dell’aspetto romantico che la figura del brigante ha sempre impresso nell’immaginario del lettore. Volendo dare rilievo solo alle monografie sull’argomento, almeno negli ultimi cinquant’anni, non si può non partire dal lavoro di Ercole Bonanni. Seppur datata 1974, la sua La guerra civile nell’Abruzzo Teramano61 delinea gli eventi legati alla reazione teramana, sulla quale influisce la presenza della fortezza di Civitella del Tronto, ultimo baluardo del potere borbonico in un territorio considerato fino al 1860 terra di frontiera. Nel 1983 è stato pubblicato un fondamentale saggio di Raffaele Colapietra62, in cui il fenomeno, dal punto di vista anche regionale, non è considerato soltanto un mero esempio di reazione armata filoborbonica o di stampo criminale ma è inquadrato all’interno di una lenta trasformazione economica dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario. Bisogna attendere il 1990 per avere un nuovo contributo monografico sull’argomento, di Francesco Paolo D’Orsogna63. La documentazione presa in esame, tratta dall’archivio di Stato di Lanciano, si riferisce ad una zona che presenta specifiche peculiarità e che, nei periodi di maggiore esplosione del fenomeno brigantesco, fu quasi cerniera tra il grande brigantaggio di Puglia e Basilicata e quello dell’alto Abruzzo fino ai confini con le Marche ascolane da un lato e via via, più a ovest, fino a quelli pontifici. Le valli del Sangro e del Volturno fanno invece da sfondo alle ricerche presentate nel lavoro di Umberto D’Andrea, nel quale si delinea ancora meglio l’importanza che ha avuto il fenomeno del brigantaggio abruzzese nell’area centro-meridionale della regione nei territori compresi, quindi, tra la medio ed alta val di Sangro e il massiccio della Maiella. Tale importanza si nota anche nella raccolta di documenti, con regesti e trascrizioni, proposta dall’Archivio di Stato di Sulmona64, in occasione dell’VIII Settimana per i Beni culturali (1992). In questo lavoro emergono sul vasto ed ac- ©UNICOPLI 278 Nunzio Mezzanotte cidentato territorio gli attori della tragedia che si consuma nel primo travagliato decennio dell’unità nazionale: prefetti, carabinieri, sindaci, borghesi, poveri contadini e pastori, ma soprattutto briganti e manutengoli. Sembra quasi che a seguito di questo studio si riaccendano gli interessi per l’argomento ed aumentino pubblicazioni sul brigantaggio abruzzese. Interessante è il lavoro di Fulvio d’Amore, non nuovo a questa tematica65: in esso l’autore si concentra sul brigantaggio marsicano riportando personaggi ed avvenimenti ben documentati. Due anni più tardi è la volta di Pasquale Casale66, che indaga sugli avvenimenti storici legati alla reazione e alla successiva nascita del brigantaggio nei paesi della valle Subequana. Nel 2001 viene pubblicato un volume che rappresenta ancora oggi la pietra miliare per chi intenda conoscere il fenomeno brigantesco regionale67. L’autore, Romano Canosa, ricostruisce in maniera molto minuziosa l’evolversi del brigantaggio nella regione, utilizzando una considerevole mole di documentazione archivistica: processi, relativi verbali e confessioni ma anche resoconti di militari e prefetti che costituiscono il materiale su cui si poggia il suo racconto. Nello stesso anno, torna a dedicarsi all’argomento anche Raffaele Colapietra, che propone un approccio critico agli sconvolgimenti socio-politici creatisi in Abruzzo con il passaggio dai Borbone ai Savoia68. A seguito di questi due importanti contributi, compare il volume non meno rilevante di Franco Cercone69: benché focalizzato solo sull’area dell’alto Sangro, lo studio non riporta solo notizie e accadimenti ma delinea un approccio critico-scientifico di notevole interesse. Da tenere presente è anche il lavoro di Luigi Torres70, nel quale l’autore propone documenti d’archivio ed un tentativo di ricostruzione delle vicende inerenti alle varie bande del territorio esaminato. Tuttavia, è bene dirlo, lo studioso pone in rilievo esclusivamente l’aspetto delinquenziale del fenomeno esaltando l’azione repressiva delle forze dell’ordine come, del resto, dimostrano altre sue opere71. Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia è portato a compimento un notevole studio: una raccolta documentaria curata da Miria Ciarma, allora direttrice dell’Archivio di Stato di Chieti, vede la luce in tre volumi72 e testimonia del nuovo materiale inedito in grado di fungere da sprone per una rinnovata stagione di studi e approfondimenti sulla tematica in questione. Fulvio D’Amore, Gli ultimi disperati. Sulle tracce dei briganti marsicani prima e dopo l’Unità, L’Aquila, Amministrazione provinciale dell’Aquila, 1994. 66 Pasquale Casale, Il Sirente, crocevia di briganti, Villamagna, Tinari, 1995. 67 Canosa, Storia del brigantaggio, cit. 68 Raffaele Colapietra, L’Abruzzo nel 1860, L’Aquila, Textus, 2001. 69 Cercone, Abruzzo terra di Briganti, cit. 70 Torres, Il brigantaggio nell’Abruzzo Peligno, cit. 71 Luigi Torres, Crucitto e Bergia, il brigante ed il carabiniere, un duello lungo dieci anni, Scanno, La Foce, 1998; Id., Tre carabinieri a caccia di briganti, Cerchio, Adelmo Polla, 2001. 72 Miria Ciarma (a cura di), Brigantaggio ottocentesco in Abruzzo; Dai Gigli al Tricolore. Il Risorgimento in Abruzzo Citeriore; Brigantaggio sulla Maiella, tutti editi da Villamagna, Tinari, nel 2011. 65 L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871 279 Antonio Presenza, 1861-1866: fatti di brigantaggio in Abruzzo Citeriore, Casalbordino, Cannarsa, 2011; Id., Il brigante Domenico Valerio alias Cannone di Casoli, Casalbordino, Cannarsa, 2013. 74 Mezzanotte, Briganti della Maiella, cit. 73 ©UNICOPLI L’Archivio di Stato di Chieti e la sezione di Lanciano forniscono così la base anche ai due pregevoli volumi di Antonio Presenza73 che fanno conoscere vicende inerenti le bande di briganti che si muovevano nell’attuale provincia di Chieti, con un maggior spazio alla figura di Domenico Cannone, personaggio emblematico e tra i più rappresentativi del brigantaggio abruzzese. Nel 2019, l’ente Parco Nazionale della Maiella promuove un lavoro di ricerca non solo negli archivi regionali ma anche negli archivi di stato di Napoli, Caserta e Roma. Il libro che ne è l’esito74, propone una ricostruzione delle vicende di varie bande che operarono sui monti della Maiella, i monti Pizzi ed il Morrone dal 1860 al 1871. Nel lavoro si tende a mettere in rilievo non solo le vicende legate ai briganti ma anche i loro rapporti con i pastori, contadini, manutengoli oltre che a ridefinire le figure dei soldati, delle guardie nazionali e carabinieri reali. L’intento dello studio è anche quello di dimostrare la centralità della Maiella all’interno del fenomeno del brigantaggio postunitario abruzzese, sia per l’intensità degli avvenimenti che per la durata cronologica. Lo scrivente sta inoltre conducendo una ricerca sul brigantaggio nell’alto vastese, in particolar modo sulle vicende che interessano la valle del fiume Treste, legate in parte alle bande della Maiella ed in parte a quelle molisane-pugliesi, essendo la zona un punto di passaggio tra le diverse aree meridionali. ©UNICOPLI IL GRANDE BRIGANTAGGIO IN CAMPANIA Storia e storiografia Viviana Mellone Nata soltanto nel 1970, con la creazione delle regioni a statuto ordinario. F. Barra, Il brigantaggio in Campania, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, atti del convegno di studi su Il brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d’Italia, CI nuova serie, 1983, pp. 65-168, in particolare pp. 65-67. 3 Per le ricostruzioni politiche e militanti, prodottesi a partire dai medesimi anni ’60 del XIX secolo, cfr. P. Calà Ulloa, Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie, Roma, s.e., 1862; Id., Lettere napolitane del marchese Pietro C. Ulloa, tradotte dal francese pel cav. Teodoro Salzillo, Roma, A. Placidi, 1864; G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma, Tipografia Salviucci, 1863-1867; G. Oddo, Il Brigantaggio o l’Italia dopo la dittatura di Garibaldi, Milano, Belzini, 1867; G. Massari, S. Castagnola, Il Brigantaggio nelle province napoletane, Sala Bolognese, Forni, 1989. Altre prime, importanti interpretazioni sono in M. Monnier, Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle province napoletane dai tempi di fra Diavolo sino ai nostri giorni aggiuntovi l’intero Giornale di Borges finora inedito, Firenze, Gaspero Barbèra, 1862; A. de Witt, Storia politico - militare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, Firenze, Coppini, 1884; A. Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano, Daelli, 1864. 1 2 ©UNICOPLI Al momento dell’unificazione la Campania non aveva fisionomia istituzionale propria. Nel linguaggio letterario-erudito, il termine stava piuttosto a indicare la fertile pianura tra le città di Capua e Nola, ossia la Campania felix degli antichi, mentre l’attuale e ben più estesa regione amministrativa1 coincide con quattro circoscrizioni provinciali del Regno d’Italia già province del Regno delle Due Sicilie: Terra di Lavoro, Napoli, Salerno (ex Principato Citra) ed Avellino (ex Principato Ultra). A queste va aggiunta la provincia di Benevento, creata aggregando gli ex domini pontifici di Benevento e Pontecorvo, parte dei territori del distretto duo siciliano di Piedimonte d’Alife, insieme a pezzi marginali delle ex province di Capitanata e Molise2. A ridosso dell’unificazione italiana, le province campane furono intensamente attraversate dal brigantaggio, con punte di violenza che coinvolsero in specie le province di Avellino e Benevento. La storiografia del secondo dopoguerra ha per l’intero Mezzogiorno tematizzato il fenomeno tenendo conto di alcune prospettive e problematiche generali.3Nella Storia del grande brigantaggio di Franco Molfese il conflitto di classe, lo scontro fra contadini e “galantuomini”, è la chiave di lettura preferenziale. Sebbene non mancasse il riconoscimento ©UNICOPLI 282 Viviana Mellone del contributo del governo in esilio di Francesco II di Borbone quale riferimento ideale e supporto materiale per briganti e manutengoli, per Molfese essi si formano essenzialmente nel disagio sociale della campagna meridionale, dove la persistenza del latifondo e la mancata attuazione di una vera e propria riforma agraria dopo l’eversione della feudalità avevano determinato precarietà e miseria per la maggioranza dei lavoratori della terra4. A Molfese hanno fatto poi seguito le letture di Alfonso Scirocco5 e Roberto Martucci6, dove il brigantaggio esprime l’esito della delicata transizione allo Stato unitario, ma anche gli studi di Aldo Albonico7 e Francesco Leoni8, che hanno contestualizzato il fenomeno nella mobilitazione legittimista transnazionale. Più di recente, nel suo La guerra per il Mezzogiorno, Carmine Pinto ha legato in un nesso più stretto il brigantaggio postunitario, le forme endemiche del banditismo meridionale ed altre fasi di banditismo politico nel Mezzogiorno preunitario - come quella del decennio francese9-, ponendo specialmente in risalto il legittimismo borbonico quale elemento distintivo del grande brigantaggio rispetto a fenomeni analoghi precedenti. Nelle sue pagine, Francesco II appare offrire il supporto decisivo alla mobilitazione brigantesca, sia offrendo risorse e protezione, sia alimentando la speranza di una restaurazione del re Borbone che avrebbe dato riscatto sociale ai briganti. Il progetto legittimista si sarebbe rivelato tuttavia di scarso seguito e nel giro di pochi anni il brigantaggio sarebbe stato a suo avviso sconfitto dall’esercito italiano, grazie all’impulso della classe dirigente post-unitaria, che avrebbe avuto il merito di esservisi schierata unanimemente contro10. Nelle prossime pagine si intende contribuire alla riflessione sul brigantaggio post-unitario analizzando appunto il caso campano. Per un verso, sarà valorizzata quella ricca letteratura sugli ambiti locali, preziosa per la raccolta di informazioni negli archivi locali, memorie e testimonianze; per altro verso, l’analisi di contesti circoscritti sarà effettuata alla luce di linee interpretative e temi individuati dagli studi generali prima esposti. L’indagine sarà rivolta a tre 4 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964. In direzione analoga, cfr. T. Pedio, Brigantaggio meridionale: (1806-1863), Lecce, Capone, 1967. 5 A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-61), Milano, Giuffrè, 1963. 6 R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1980. 7 A.Albonico, La mobilitazione legittimista contro il regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Milano, Giuffrè, 1979. 8 F. Leoni, Il governo borbonico in esilio, 1861-1866, Napoli, Guida, 1984. 9 Su questo sia di riferimento F. Barra, Il brigantaggio del decennio francese: 1806-1815: studi e ricerche, Salerno, Plectica, 2003. Cfr. anche il recente M. Finley, La più mostruosa delle guerre. La guerriglia napoleonica nel Mezzogiorno d’Italia tra il 1806 ed il 1811, a cura di A. Buttiglione, Napoli, Società napoletana di storia patria, 2020, pp. VII-XIX. 10 C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno: italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Roma-Bari, Laterza, 2020. Per le prime ricostruzioni documentate, cfr. B. del Zio, Melfi. Le agitazioni del Melfese. Il brigantaggio, Melfi, Liccione, 1905; C. Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma, Ausonia, 1920. Il grande brigantaggio in Campania 283 aspetti /nodi problematici: 1)Il rapporto fra banditismo rurale, rivolta sociale e controrivoluzione politica nelle singole province; 2) il focus su particolari casi locali, la cui eccezionalità/specificità ha condizionato la narrazione e l’immagine del grande brigantaggio nel suo complesso; 3) il focus su particolari casi locali, questa volta utile a osservare tanto l’applicazione dei dispositivi repressivi predisposti dal governo centrale, quanto la collaborazione fra élites provinciali e governo in tale applicazione. Banditismo rurale, rivolta sociale e controrivoluzione politica ©UNICOPLI Negli studi più accurati il brigantaggio post-unitario risulta sempre quale intreccio di tre aspetti/motivazioni: il banditismo rurale; la rivolta sociale dei ceti subalterni per la richiesta di maggiori risorse; la mobilitazione politica in nome di Francesco II di Borbone. Ma quali sono i confini fra i tre tipi di intervento? Quali, fra le tre motivazioni, sono più diffuse fra capi-briganti, briganti-gregari e manutengoli? Dall’analisi della storiografia sul caso campano risulta quasi costante la combinazione di quattro elementi. In primo luogo, la forte politicizzazione dei capi briganti quale motivo di innesco della loro mobilitazione. In secondo luogo, la povertà di briganti-gregari e manutengoli, i quali, rispettivamente, delinquono per guadagnarsi da vivere e supportano i briganti per ottenere in cambio protezione. In terzo luogo – e ciò spiegherebbe sia la militanza di capi e gregari, sia il manutengolismo – la condizione di complessiva marginalità della popolazione delle campagne, dove il senso di alterità verso lo Stato induce sia ad affidarsi alla protezione dei briganti per ragioni di prossimità e di contiguità culturale, sia a costruire una contronarrazione del brigantaggio volta a capovolgerne i caratteri delinquenziali ed eversivi con propositi di giustizia sociale. In quarto luogo, la scarsità e l’impreparazione delle forze dell’ordine rispetto al carattere composito, sistematico e – in talune province–capillare con cui il brigantaggio si presenta nella fase post-unitaria. Questi elementi si trovano intrecciati nella provincia di Avellino. L’Irpinia fu uno dei teatri più importanti del brigantaggio post-unitario nell’intero Mezzogiorno. Come ha riscontrato Francesco Barra, la vivacità irpina fu dovuta alla sua posizione centrale rispetto ad altri focolai, quali la Terra di Lavoro, la frontiera con lo Stato Pontificio e la Basilicata. Come se non bastasse, l’ostilità delle popolazioni verso la dittatura garibaldina sfociò in episodi reazionari di particolare violenza registrati nel settembre del 1860 nei comuni di Ariano Irpino, Montemiletto, Pietradefusi e Torre le Nocelle, ostilità ulteriormente acuita dalla dura e sommaria repressione che le autorità locali attuarono arrivando, nel caso di Ariano, addirittura all’installazione di un tribunale straordinario. Proprio ad Ariano, inoltre, dopo la rivoluzione del 1848 si era creato un blocco reazionario ©UNICOPLI 284 Viviana Mellone di notabili (in testa la famiglia Anzano), clero e contadini destinata ad esercitare un’egemonia incontrastata sino all’unificazione e oltre11. È in particolare esaminando i lavori dello storico locale Giuseppe Valagara, che si avvalse della corrispondenza del milanese Gaetano Negri, incaricato di reprimere il brigantaggio in Irpinia come luogotenente della sesta brigata Aosta, che emerge come l’elemento distintivo di questo brigantaggio rispetto a quello preunitario fosse il suo carattere politico. I briganti trassero cioè spinta propulsiva dal supporto morale e materiale di Francesco II e Maria Sofia - ma solo in maniera minoritaria dall’entourage borbonico- con cui ebbero un canale di comunicazione diretto e preferenziale, risultando oltretutto incoraggiati dal volontarismo armato internazionale a favore della causa borbonica. Se i capi furono legittimisti ed esibirono l’amicizia con i sovrani borbonici per colpire l’immaginario di gregari e potenziali tali, sperando che il ritorno dei Borbone determinasse il proprio riscatto sociale, personale e politico, il brigantaggio in senso proprio fu per Valagara fenomeno criminale. Il fatto che i briganti perpetrassero azioni criminali capaci di creare appoggio/ connivenza presso la popolazione e che gli strumenti della mobilitazione politica tradizionalmente intesa non fossero invece utilizzati per guadagnare consenso consolidò nello studioso locale questa convinzione. In effetti, nelle sue pagine, proprio il rapporto fra popolazione e briganti costituisce uno dei nodi più complessi da sciogliere. Secondo Valagara gli “evviva” a Francesco II nelle rivolte di questi anni furono riferimenti generici a favore dei Borbone, pronunciati più per contrapporsi al nuovo Stato che per reale preferenza verso la passata monarchia12. In maniera analoga, l’opposizione verso il nuovo regime non rifletteva un suo sostanziale rifiuto, ma dipendeva dal fatto che la miseria alla quale ci si intendeva ribellare stava imperversando sotto quel regime. La rivolta sociale che si affianca all’attività delle bande è dunque, nelle parole del luogotenente Negri lette da Valagara, una protesta viscerale, suscitata dallo stato di atavica arretratezza economica e culturale dei contadini meridionali, i quali manifestavano attraverso il tumulto il disagio economico, aggravato dalle incertezze psicologiche del cambio di regime. Questa interpretazione è ben esemplificata nella lettera di Negri al padre del 28 novembre 1861, in cui raccontò: I proprietari si veggono le loro masserie derubate, non possono più escire in campagna ad attendere i loro affari, l’esistenza è sempre minacciata, il commercio tra paese e paese, già misero in tempi passati per mancanza di comunicazioni, ora è cessato del tutto; lavori pubblici non si iniziano; il Governo perde sempre più forza morale, perché è impotente a frenare il brigantaggio. È urgente, urgentissimo che si prenda qualche grande risoluzione. (…)Un’altra misura eccellentissima e di cui forse nelle nostre province non Barra, Il brigantaggio, cit., pp. 75-79, pp. 135 e sgg. G. Valagara, Il brigantaggio in Irpinia. Gaetano Negri nella lotta di repressione, in “Irpinia”, IX, 1931, 8-9, pp. 445-470. 11 12 Il grande brigantaggio in Campania 285 si possono apprezzare tutti i vantaggi sarebbe la venuta del Re. Non puoi credere come tale venuta sia invocata da tutte le classi della popolazione. Abituata da lungo tempo al dispotismo, esse considerano ancora il Re come il simbolo della onnipotenza;la sua sola presenza basterebbe in gran parte a calmare gli spiriti (…)13. l’indole delle popolazioni napoletane è fornita di ottime qualità: la maggioranza è spinta da un vivissimo desiderio di miglioramento, il cuore è in quasi tutti generoso ed aperto e non manca in molte parti l’energia ed il coraggio. Ma sarebbe una stoltezza pretendere che, ad un tratto, spogliandosi della loro barbarie, gareggiassero in civiltà con le popolazioni di altre province più felici, sapessero completamente apprezzare i vantaggi di un governo libero e si potessero reggere con le norme stesse con cui si reggono quelle dei nostri paesi. Avvezze a giacere da lungo tempo nelle tenebre più nere del dispotismo, non ebbero la forza di sopportare improvvisamente lo splendore della libertà e ne rimasero abbarbagliate e confuse. Si aggiunga a tante cause di agitazione la instancabile attività della reazione e la terribile piaga del brigantaggio14. La combinazione di fattori politici, sociali e criminali nella mobilitazione brigantesca si produsse analogamente nel territorio al confine con lo Stato Pontificio e nell’Alta Terra di Lavoro, ma con modalità diverse. Come si ricava dall’analisi di Francesco Barra, qui la spinta politica controrivoluzionaria fu persino più forte che nell’Avellinese, a causa della vicinanza del centro della cospirazione legittimista a Roma e del governo in esilio di Francesco II a Gaeta, quanto per la mancanza di una netta delimitazione del confine napoletano-pontificio. La committenza politica di palazzo Farnese e del re Borbone fu dunque pesante e immediata. Già nell’autunno del 1860 la guerriglia al confine con lo Stato Pontificio era esplosa, guidata dal corpo volontario del legittimista franco-tedesco Teodoro Klitsche de La Grange. Nel corpo si impose presto il capo brigante 13 Id., Il brigantaggio in Irpinia. Gaetano Negri nella lotta di repressione, in “Irpinia”, IX, 1931, 5-6, pp. 393-394. 14 Id, Il brigantaggio, cit., IX, 1931, 8-9, pp. 469-470. ©UNICOPLI L’“arretratezza” di lungo corso, subito dopo, diventa anche il prisma per leggere il rapporto stretto che intercorse fra i briganti, da una parte, e i villaggi che assicurarono loro la sopravvivenza garantendo risorse e protezione, dall’altra. Quando nell’autunno del ’61 la maggioranza delle bande erano state disperse, Negri notò la sopravvivenza di un solo piccolo gruppo di briganti, che si ritirarono sulle alture più impenetrabili dell’Alta Irpinia, protetti non solo dalla natura impervia, ma anche dalla complicità della popolazione dei villaggi circostanti. Come lasciano intendere le parole del luogotenente milanese, tale stretto rapporto avrebbe potuto spiegarsi con l’estraneità delle popolazioni allo Stato, probabilmente alle forme del “vivere civile”, mentre la naturalezza con cui veniva vissuto non poteva che attribuirsi al lungo corso del banditismo rurale in quelle zone: ©UNICOPLI 286 Viviana Mellone Luigi Alonzi di Sora, conosciuto con il nome di Chiavone, che subentrò a La Grange nelle funzioni di capo15. Antico soldato, poi guardaboschi, Chiavone si autonominò significativamente Generalissimo delle armate di Francesco II16; la sua banda fu composta da molti legittimisti stranieri17, da soldati sbandati e dai montanari del Sorano, venendo abbondantemente finanziata da Francesco II18. Alla presenza dei montanari, come argomenta ancora Barra, non fu aliena la rottura dell’equilibrio socio-economico preesistente, garantito dalla migrazione stagionale dalla montagna all’agro-romano per i lavori agricoli, bloccati adesso dalla guerriglia legittimista e dalle misure militari e di polizia prese per contrastarla19. Considerando gli aspetti delinquenziali, poi, essi si osservano sia tra Chiavone e i suoi adepti, sia nei responsabili dell’organizzazione legittimista a Roma. La fine della banda di Chiavone è ancora una volta esemplificativa della preponderanza del fattore politico nel brigantaggio post-unitario rispetto ad altre forme di banditismo che attraversarono il Mezzogiorno in precedenza (escludendo, naturalmente, la congiuntura del decennio francese). Si tratta inoltre di un passaggio interessante per comprendere come la sopravvivenza delle bande dipendesse dal legame fra il capo locale e i banditi-gregari anch’essi locali, al quale non avrebbe potuto mai subentrare una direzione politico-militare esclusivamente straniera. In tal senso, nel novembre 1861, la decisione del centro cospirativo romano di affiancare a Chiavone il generale spagnolo Tristany si rivelò fallimentare. Roma giudicò insoddisfacenti i risultati conseguiti da Alonzi, mentre Tristany era un esperto di guerra per bande. L’affiancamento, tuttavia, generò disappunto nel primo e nei suoi adepti, che disertarono gli ordini di Tristany20. Il generale spagnolo si vide quindi costretto a catturare Chiavone e a condannarlo a morte, ma l’eliminazione allontanò gli elementi napoletani e indebolì Tristany con le sue forze21, che furono definitivamente sconfitte nella primavera del 186322. L’elevata politicizzazione dei capi, il disagio economico e la marginalità complessiva della popolazione, quest’ultimo aspetto da considerarsi all’origine della fidelizzazione dei briganti- gregari, del manutengolismo e della contronarrazione positiva del banditismo, sono elementi che si riscontrano anche nel caso della Barra, Il brigantaggio, cit., pp. 116-117. Sulla figura di Chiavone e l’utilizzo del discorso borbonico con funzioni identitarie, cfr. M. Ferri, D. Celestino, Il brigante Chiavone: storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia, 1860-1862, Casalvieri, Centro studi Cominium, 1984. 17 Specialmente tedeschi e spagnoli, cfr. Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio, cit., pp.181-183; B. Croce, Il romanticismo legittimistico e la fine del Regno di Napoli, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce”, XXII, 1924, pp. 257-278, pp. 267-271; Albonico, La mobilitazione legittimista, cit., p. 127. 18 Barra, Il brigantaggio, cit., p.118. 19 Ivi, p. 117. 20 Ivi, pp. 119-120. 21 Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio, cit., p. 192; Albonico, La mobilitazione legittimistacit., pp. 126-129, pp. 179-180. 22 Barra, Il brigantaggio, cit., p. 121. 15 16 Il grande brigantaggio in Campania 287 A. Caiazza, Giuseppe Tardio: brigantaggio politico nel periodo postunitario in provincia di Salerno (1986), Sarno, edizioni dell’Ippogrifo, 2015, p. 23. 24 Ivi, pp. 17 e ss. 25 Ivi, pp. 39-50. 26 Ivi, pp. 51 e ss. 27 Ibid. 23 ©UNICOPLI provincia di Salerno. Il brigantaggio qui fu vasto ed esteso, sebbene si rivelasse meno violento che nell’Avellinese e nell’Alta Terra di Lavoro al confine con il governo pontificio, e fu costituito generalmente da piccole bande di dieci o poche decine di uomini, aggregando contadini e, come riportò Diomede Pantaleoni in una relazione al ministro Marco Minghetti, molti sbandati dell’ex esercito borbonico23. Le piccole bande infestarono l’Agro Sarnese-Nocerino, la zona di Contursi, dei monti Alburni e Cimini e il Vallo di Diano, al confine con la Basilicata, con continui sconfinamenti per sfuggire alle truppe. Nel Cilento, poi, dove l’arretratezza era dovuta come altrove alla mancata attuazione di una riforma agraria, la reazione venne acuita, per un verso, dalla chiusura e dall’isolamento geografico, per l’altro, dalla diffusione del partito lealista fra gli elementi del clero e della borghesia24. Fu dunque in tale contesto che si sviluppò la mobilitazione della banda di Giuseppe Tardio, al centro dello studio di Antonio Caiazza. Figlio di una modesta famiglia di contadini-braccianti di Piaggine Soprane (piccolo paese nel cuore del Cilento), laureatosi a Napoli grazie agli sforzi del padre, Giuseppe Maria Tardio divenne brigante per motivi politici. Nel 1860 l’ingiusta denuncia come reazionario e la conseguente incarcerazione gli provocarono la disillusione precoce verso il neonato Stato unitario, tanto che progettò e gli riuscì di evadere insieme al compaesano Francesco Ricci e, fuggito a Roma, cercò subito contatti con il partito clandestino borbonico che nella capitale dello Stato Pontificio aveva il suo quartier generale25. Nel settembre 1861 e con l’approvazione di Francesco II, Tardio intraprese una spedizione nel Cilento, che partì da Agropoli e si concluse nella sua città natale, con a capo il napoletano Francesco Ianni e lo svizzero Gustavo Studer, fornitori e creditori del monarca, e al seguito uomini prezzolati e simpatizzanti borbonici. In tutti i paesi che furono travolti dalla spedizione, l’azione della banda fu analoga: annunciandosi apertamente per Francesco II, la banda Tardio requisiva beni di prima necessità e oro nel caso di famiglie facoltose, incendiava i palazzi e il mobilio di coloro che si opponevano al suo passaggio, reclutava con la forza nuovi adepti che lo seguissero nella spedizione successiva ed esigeva laute somme di denaro da parte delle autorità municipali26. Sebbene l’azione fosse violenta, Tardio cercò di limitare gesti efferati e vietò le violenze ingiustificate. Il suo scopo fu infatti contribuire al ristabilimento di Francesco II e fu ansioso di dimostrare l’equilibrio e la razionalità del suo intervento non solo al sovrano in esilio, ma anche alle vittime dell’estorsione, alle quali veniva pertanto rilasciato un biglietto con scritto “ricevo”, una volta ricevute le somme di denaro richieste27. Sempre nel Salernitano, lo studio di Gaetano d’Ambrosio, questa volta specificamente dedicato al circondario di Campagna, lascia emergere l’intreccio ©UNICOPLI 288 Viviana Mellone fra motivazioni individuali, bisogno economico e legittimismo politico e la condizione di complessiva marginalità (culturale, economica e sociale) alla base del fenomeno brigantesco. La vicenda della banda Tranchella –dal nome del capo– Gaetano Tranchella, è particolarmente esemplificativa a riguardo. Gaetano Tranchella nacque da una famiglia di contadini poveri. Durante il servizio di leva fu promosso sottufficiale dell’esercito borbonico, ma non riuscì a terminare il suo periodo perché nel frattempo, con l’unificazione italiana, l’esercito borbonico dovette sciogliersi. La militanza sotto le insegne del giglio bianco fu tuttavia l’unica occasione di guadagno e di riscatto sociale per lui. Fu per questo che, quando nel Mezzogiorno i sudditi fedeli a Francesco II diffusero la voce che l’Inghilterra avrebbe di lì a poco mandato dei contingenti in soccorso della causa borbonica, Tranchella prese parte alle bande armate che si formarono con l’ausilio del disciolto esercito borbonico e di simpatizzanti vari28. Se per un capo come Tranchella il banditismo dipese al contempo da scelte politiche ed economiche, la fidelizzazione dei briganti-gregari e il supporto dei manutengoli passò per molteplici vie. Ad aumentare il numero dei componenti della banda furono, come ammette D’Ambrosio, “gli evasi dalle prigioni, i renitenti alla leva, i disertori dell’esercito italiano e coloro che avevano un motivo in più per sfuggire alla giustizia”29. D’altra parte, Tranchella riuscì a creare consenso intorno al proprio operato proponendosi come garante dei diritti dei più deboli duramente colpiti dalle leggi fiscali piemontesi, che gravavano pesantemente sui consumi30. Proprio lo studio di D’Ambrosioconsente poi di vedere come la scelta di essere brigante diventasse incontrovertibile: se si esclude infatti la banda Tranchella, la maggioranza delle bande – quindici in tutto nel periodo considerato – si formò o per l’aggregazione di pezzi di altre bande, o perché i briganti passarono da una banda all’altra31. L’impossibilità di invertire il percorso dipese senz’altro dal rischio di essere arrestati. Ma tra le motivazioni che indussero a perseverare vi era oltretutto la rete di protezione e sostegno creata nel tempo, che rendeva difficile immaginare di convertirsi ad altro stile di vita godendo di analoghi vantaggi, tenendo conto del contesto sociale e ambientale, che non forniva opportunità alternative, e delle scarse risorse culturali e intellettuali indispensabili per “reinventarsi”. L’insufficienza e la disorganizzazione delle forze dell’ordine fu comunque un fattore sempre centrale nel determinare la sopravvivenza delle prime bande e nell’incoraggiare la nascita delle nuove. L’errore politico-strategico collegato alla predisposizione della forza pubblica fu il fatto che le varie autorità che si succedettero alla luogotenenza del Mezzogiorno32, non diversamente dalle al28 G. D’Ambrosio, Il brigantaggio nella provincia di Salerno (Circondario di Campagna), Salerno, Panadio, 1991, vol. I, pp. 159-211, in particolare pp. 159-162. 29 Ivi, p.163. 30 Ivi, pp. 178-179. 31 Ibid. 32 Le luogotenenze regionali furono governi costituzionali decentrati del governo piemontese istituiti negli ex Stati preunitari italiani, incaricati di gestire la fase transitoria dall’annes- Il grande brigantaggio in Campania 289 sione degli ex Stati fino all’esito positivo dei plebisciti. 33 A questa tendenza fece eccezione la luogotenenza del generale Enrico Cialdini. Una digressione utile sull’organizzazione delle forze militari per la repressione del brigantaggio, sebbene arrivi al 1861, è in Scirocco, Governo e Paese, cit., in particolare pp. 124-127, 165-167, 201-202, 203-210, 238-242, 269-270; per gli anni successivi, cfr. Molfese, Storia del brigantaggio, cit., p. 177 e sgg. 34 Diversamente, sia Scirocco sia Molfese ritennero che fossero i deficit della guardia nazionale fra i motivi che inizialmente invalidarono la repressione, cfr. Scirocco, Governo e Paese, cit., p. 207, dove si fa riferimento anche alla posizione di Molfese a riguardo. 35 C. Pinto, La Dottrina Pallavicini. Contro insurrezione e repressione nella guerra del brigantaggio 1863-1874, in”Archivio storico per le province napoletane”, CXXXII, 2014, pp. 69-98, in particolare pp. 74-75 e p. 84 e sgg. 36 Per queste disposizioni, contenute nel regolamento attuativo, cfr. Martucci, Emergenza, cit., pp. 240-244. 37 G. Valagara, Il brigantaggio in Irpinia, cit., IX, 1931, 5-6, p. 391. 38 G. Monsagrati, Achille del Giudice, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XXXVI, 1988, consultabile al sito: http://www.treccani.it/enciclopedia/achille-del-giudice. Per il contesto nel quale va inserita la vicenda del Giudice, cfr. infra. ©UNICOPLI tre autorità locali, individuarono nella guardia nazionale il corpo principale che avrebbe dovuto contrastare il brigantaggio33. La guardia nazionale avrebbe potuto tuttavia efficacemente funzionare in tempo di pace, mentre i disordini nel Mezzogiorno avrebbero richiesto di affiancarla a compagnie di guardie mobili e a reparti dell’esercito34. Questa lacuna venne in parte colmata con l’emanazione della legge Pica, entrata in vigore nel dicembre 1863, che infattirazionalizzò l’offensiva dell’esercito35 e istituì le squadre mobili, organizzate in gruppi dai dieci ai trenta volontari a piedi e a cavallo, stipendiati, che si mossero a supporto dei Carabinieri36. Il problema delle forze dell’ordine si riscontra quasi in tutti i casi e in tutta la letteratura ripercorsi in queste pagine, ma specialmente nell’Alta Irpinia, nel Beneventano e nel territorio al confine dello Stato Pontificio, dove cioè il brigantaggio si rivelò più violento e intenso che nelle altre province campane. A tal proposito, nell’indagine di Valagara sull’Alta Irpinia, viene riportato il rapporto del 25 agosto 1861 del governatore della provincia Nicola De Luca, il quale individuò nella guardia nazionale “fiacca, non fornita di sufficienti armi e munizioni e spesso avente tra i facinorosi i propri congiunti e aderenti” uno dei motivi principali del brigantaggio “imbaldanzito”37. Al deficit delle forze armate più in generale fece poi riferimento Achille del Giudice, notabile dell’Alta Terra di Lavoro che, nel 1868, nel rispondere alle accuse di manutengolismo rivoltegli dal sottoprefetto di Piedimonte d’Alife, raccontò di aver creato a sue spese una piccola forza di difesa composta da ventisei volontari, il cui comando, per conservare una parvenza di legalità, era stato attribuito ad un delegato di pubblica sicurezza38. Del resto, l’inaffidabilità della guardia nazionale, come si vedrà fra poco, fu all’origine del divieto imposto dal sindaco di Pontelandolfo di celebrare la festa di San Donato nell’agosto del ‘60, divieto che avrebbe esasperato le ten- 290 Viviana Mellone sioni fra liberali, reazionari, bande e popolazione civile, prima dei celebri fatti di Pontelandolfo e Casalduni39. ©UNICOPLI Il racconto del grande brigantaggio. Da “colonizzazione interna”a“guerra civile” nei fatti di Pontelandolfo e Casalduni Il grande brigantaggio presentò all’opinione pubblica e alla classe dirigente nazionale un’immagine del Sud altra e arcaica, mise in rilievo le asperità e le violenze attraverso le quali era passato il processo di unificazione, evidenziando, in più, come la guerra del ’60 avesse divaricato la popolazione meridionale tra fautori dello Stato nazionale italiano e chi vi si oppose. A questo proposito i fatti di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi alle pendici del Matese, nel Beneventano, ne esprimono la memoria collettiva più di altri. Nell’agosto del 1860, nell’ambito delle agitazioni politiche e sociali che accompagnarono la transizione verso lo Stato unitario, a Pontelandolfo si preparava una reazione legittimista, sostenuta dall’arciprete Epifanio de Gregorio, da bande brigantesche come quella di Cosimo Giordano e da parte della popolazione, allo scopo di contribuire alla restaurazione di Francesco II. Il sindaco del paese, Lorenzo Melchiorre, non aveva strumenti sufficienti per contrastare un’eventuale insurrezione controrivoluzionaria, non potendo contare sulla guardia nazionale, inefficiente, scarsamente equipaggiata, mal vista dall’esercito e talvolta anche dalla popolazione locale. Per questo egli vietò la tradizionale fiera che vi sarebbe stata in occasione della festa patronale di San Donato del 6 e del 7 agosto. In atteggiamento di disprezzo e noncuranza, tuttavia, la fiera si svolse comunque su iniziativa dell’arciprete de Gregorio. Dopo il canto religioso, i briganti iniziarono la devastazione del paese: il posto della guardia nazionale fu assalito, gli stemmi sabaudi vennero smantellati e le bandiere nazionali strappate, gli archivi del municipio furono incendiati, i detenuti liberati, il botteghino dei generi di privativa fu scassinato e vennero portati via merci e denaro. Fu a quel punto issata la bandiera bianco-gigliata e costituito un governo provvisorio che di fatto eleggeva Pontelandolfo a quartiere generale delle forze armate dei briganti. In poco tempo nel paese confluirono centinaia di briganti e reazionari, furono appiccati incendi e messe a sacco le case dei liberali e furono uccisi tre uomini, ritenuti liberali e/o spie dei soldati40. Alla notizia della reazione il colon- 39 G. Desiderio, Pontelandolfo 1861, tutta un’altra storia, versione e-book, Soveria Mannelli, Rubettino, 2019, pp. 26-37. 40 Ibid. Altre ricostruzioni di riferimento sono D.F. Panella, L’incendio di Pontelandolfo e Casalduni: 14 agosto 1861, Foglianise, Piesse, 2002; Id., Intervento del 10 dicembre 1972, presentazione del saggio di Egildo Gentile in Pontelandolfo, 14 agosto 1861, per ricordare e non dimenticare, Benevento, Grafiche Iuorio, 2010, pp. 46-8; D.F. Panella, Brigantaggio e repressione nel 1861, I fatti di Pontelandolfo e Casalduni nei documenti parrocchiali, in Col buon voler s’aita, Sei anni di attività 2006-2011, a cura di M. Pedicini e M. Ruggiero, Foglianise, Edizioni Realtà Sannita, 2013, pp. 235-58. Fra le molte ricostruzioni, oltre quelle Il grande brigantaggio in Campania 291 citate nel corso del testo, M. Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di frà Diavolo fino ai giorni nostri, Firenze, Barbera, 1862, pp. 96-8; T. Salzillo, Roma e le menzogne parlamentari nelle Camere de’ Comuni di Londra e Torino, Malta, s.e., 1863, pp. 133-41; R. Boccaccino, Pontelandolfo, Memorie dei giorni roventi dell’agosto 1861, in “Samnium”, 1973, 1-2; G. Buttà, Edoardo e Rosolina o le conseguenze del 1861, Brindisi, Trabant, 2011; F. Melchiorre Pulzella, Storia dei fatti di Pontelandolfo dell’agosto 1861, Morcone, Sannite, 2004; C. Perugini, Pontelandolfo, Agosto 1861, Memorie di quei giorni di Antonio Pistacchio, s.l., s.e., 2011. 41 Ivi, pp. 39-51. 42 Ivi, pp. 52-63. 43 Ivi, p. 73, 89. ©UNICOPLI nello comandante del 36° reggimento di fanteria della brigata Pistoia, Gustavo Mazé de la Roche, inviò quarantacinque soldati per reprimere il moto. Sebbene i soldati non avessero ricevuto l’ordine di scagliarsi contro la popolazione, una volta a Pontelandolfo si trovarono accerchiati dai briganti e contadini che venivano da Casalduni e Pontelandolfo. Non ebbero scampo. Tre di essi furono trucidati dalle bande brigantesche, ben più numerose dei militari, mentre i più furono fatti prigionieri e barbaramente uccisi41. Il 14 agosto, a quel punto, la vicenda si concluse con l’assalto ai due paesi da parte dell’esercito italiano e della guardia nazionale, che, su ordine del generale Cialdini, piombarono su Pontelandolfo e la rasero al suolo con saccheggi ed incendi42. Secondo le ricerche recentemente condotte da GianCristiano Desiderio, nell’assalto soccombettero tredici civili43. I fatti di Pontelandolfo e Casalduni rifletterono responsabilità e inadeguatezze ampie dello Stato italiano. L’invio iniziale di soli quarantacinque soldati italiani segnalò l’incomprensione totale del carattere massivo e composito della reazione, nella quale conversero, come si è sottolineato più volte in queste pagine, la controrivoluzione politica, il moto sociale e l’azione criminale. In direzione del tutto opposta rispetto alla leggerezza iniziale, l’incendio del 14 agosto si qualificò quale provvedimento di carattere bellico ingiustificato, indicativo dell’assoluta distanza verso la popolazione locale. Se le violenze commesse furono insomma atroci sull’uno e sull’altro versante, a partire dallo stesso ’61 il racconto di Pontelandolfo e Casalduni è stato proposto in una straordinaria varietà di versioni. Memorie, racconti e testimonianze hanno riflettuto le esigenze identitarie e propagandistiche delle parti politiche che se ne sono fatte portatrici, dimostrando non solo la dolorosa rielaborazione di quei fatti, ma anche il senso lacerante e acuto che si è avuto nel tempo del grande brigantaggio e, ancora, la sua capacità di farsi epifenomeno del problema meridionale nel contesto nazionale. La prima lettura politica in chiave legittimista fu data da Francesco Marzio Proto Pallavicino duca di Maddaloni il 20 novembre 1861 nella sua mozione d’inchiesta alla camera dei deputati sullo stato delle province napoletane. La mozione pose per la prima volta il problema dell’annessione del Mezzogiorno nell’ambito politico-costituzionale. Francesco Proto fissò gli argomenti che avrebbero ©UNICOPLI 292 Viviana Mellone consentito di criticare l’unificazione a Sud nel discorso filoborbonico e in quello di altre opposizioni degli anni successivi, introducendo in nuce leitmotiv ripresi dal neoborbonismo nella seconda metà del secolo scorso. Nel testo comparvero dunque, l’una dopo l’altra, l’immagine del “sacco del Sud”, risultato dell’unione del pesante debito pubblico piemontese con quello napoletano, e quella di un Regno delle Due Sicilie fertile e prospero, che emergeva per contrasto osservando come adesso “Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina”44. Veniva oltretutto compreso il sentimento anti-italiano che stava alimentando le reazioni popolari spesso spalleggiate da ex soldati borbonici e dal notabilato legittimista, alla luce dell’estensione alle province napoletane di codici e istituti piemontesi che andavano a sostituire il ricco e prestigioso patrimonio giuridico e culturale dell’ex Regno, ma anche tenendo conto del fatto che il governo italiano non aveva accolto e valorizzato gli ufficiali napoletani, sciogliendo l’esercito borbonico45. Era dunque naturale che il cumularsi di tali immagini e accuse precipitasse nella denuncia più potente : l’accostamento fra l’unificazione e la colonizzazione interna: “Questa è invasione non unione, non annessione!” proseguiva infatti con veemenza la mozione “Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista”. Su tale sfondo, la denuncia dei fatti di Pontelandolfo volle mettere in risalto gli aspetti predatori del governo delle province napoletane, soffermandosi sulle violenze perpetrate dall’esercito italiano ai danni dei paesani. I fatti evocati, tuttavia, non trovano riscontro in altre memorie attendibili e in ricerche documentate più recenti. Scrisse a tal riguardo Proto: Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere. Certi uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed aperto l’uscio, videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una croce con molti ceri accesi. Volevano salvarle; ma quelle gridando: — Indietro… maledetti! Indietro! … Non ci toccate, lasciateci morire incontaminate!… Si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto sprofondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti. Il giorno posteriore a tanto eccidio, all’incendio di due paesi, di Pontelandolfo e di Casalduni, l’uno di cinque l’altro di sette mila anime, leggevasi nel Giornale Ufficiale di Napoli il telegramma: Ieri mattina, all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni46. La mozione del duca Proto veicolò l’opposizione della sinistra storica e del legittimismo borbonico al governo della destra storica fondata sulla gestione delle province meridionali. Il duca Proto, tuttavia, agì individualmente e pagò la 44 F. Proto di Maddaloni, Mozione d’inchiesta presentata al parlamento italiano il 20 novembre 1861, Nizza 1862, Tipografia A. Gilletta, ora disponibile al sito https://www.eleaml. org. Nel corso del testo si farà riferimento a quest’ultima versione. 45 Ibid. 46 Ibid. Il grande brigantaggio in Campania 293 Cfr. Molfese, Storia del brigantaggio, cit., pp. 200 e ss. e Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., cap. V. 48 E. Gin, L’Italia contesa. “Nazione napoletana”e “nazione italiana” in Giacinto De Sivo, in “Nuova Rivista Storica”, C, 2016, 1, pp. 107-140, p. 108. 49 Ibid. Sull’attività della propagandistica della corte in esilio, cfr. P. Ulloa, Un re in esilio. La corte di Francesco II a Roma dal 1861 al 1870, Bari, Laterza, 1928. Più in generale, sulla corte in esilio, cfr. Leoni, Il governo borbonico in esilio, cit. e A. Facineroso, Il ritorno del giglio. L’esilio dei Borbone tra diplomazia e guerra civile, 1861-1870, Milano, FrancoAngeli, 2017. 50 C. Pinto, La guerra del ricordo. Nazione italiana e patria napoletana nella memorialistica del 1860, in “Storica”, 2013, 54, pp. 45-76. 51 Gin, L’Italia contesa cit., pp. 109-121. 47 ©UNICOPLI propria iniziativa con pressioni politiche e giornalistiche che lo avrebbero spinto, una settimana dopo, alle dimissioni47. In un contesto del tutto diverso va inquadrato il racconto diffuso dallo storico Giacinto De Sivo, nella sua Storia delle Due Sicilie pubblicata nel quadriennio 1863-1867. Il contributo di De Sivo non fu quello di uno scrittore isolato. Arrestato dapprima dagli uomini di Nino Bixio per il rifiuto di prestare fedeltà al nuovo regime e per il ritrovamento della sua prima versione post-quarantottesca della Storia delle Due Sicilie, e poi a seguito del suo tentativo di dare vita, a Napoli, al giornale legittimista La Tragicommedia48, De Sivo fu parte del progetto di Francesco II di contrastare il consolidamento del nuovo regime non solo finanziando e supportando la controrivoluzione nelle province dell’ex Regno, ma anche attraverso la propaganda contro il governo di Torino. Nel 1863, infatti, egli confluì nella commissione, presieduta da Pietro Calà Ulloa, incaricata di indirizzare l’offensiva editoriale49. Accanto a ciò, il suo racconto si inserì nel tentativo intrapreso dal gruppo di legittimisti, per lo più ufficiali dell’esercito borbonico poi accorsi alla corte in esilio di Francesco II a Gaeta, di costruire ex post l’identità della Nazione napoletana facendo perno sulla memoria della guerra del 1860-61.50 Partecipando al discorso nazionale legittimista, De Sivo collocò la sua Storia sullo sfondo del tema dell’innaturalità dell’unificazione italiana e della prosperità perduta del Regno. Discostandosi tuttavia da gran parte della letteratura filoborbonica, non mancò di porre lucidamente in evidenza come la fine del Regno non potesse che attribuirsi alla debolezza della monarchia che, specialmente nella fase post-quarantottesca, si era rivelata incapace sia di sviluppare una classe dirigente competente e fedele di fronte all’attività persuasiva della “setta”, sia di costruire una solida base di consenso nel Paese51. La lettura dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni è dunque organica a questa visione generale. De Sivo tese in effetti a minimizzare l’intervento della banda di Cosimo Giordano negli avvenimenti, ponendo in risalto la componente popolare nella reazione del 7 agosto e poi nell’attacco ai quarantacinque soldati. Tale dato, insieme agli elementi falsi e alle violenze ingigantite riportati a proposito della repressione militare italiana del 14 agosto, servì ad argomentare l’innaturalità dell’unificazione, evidenziando come essa fosse percepita dalla popolazio- 294 Viviana Mellone ©UNICOPLI ne meridionale alla stregua di un’occupazione straniera. In tal senso De Sivo si espresse dipingendo il clima di ostilità generale che accompagnò l’insurrezione di agosto: Erano mali umori nel paese, pieni i monti di reazionarii, i popolani guatavano bieco i novatori, odiavano i Piemontiesi. Un Fusco di Casalduni, chiesto dal municipio a presentare il figlio soldato; rispose: “Giova morire per Dio e pel re, meglio fucilato sugli occhi miei, che servire Emmanuele”. Molti sparivano dalle case; si susurrava di reazione, gli animi si gonfiavano. Arrivava il 1° agosto a Pontelandolfo il De Marco garibaldino stampatosi colonnello, con una masnada; ma il 5 udendo i briganti minacciosi sul Matese, se ne andò; e appresso a lui fuggirono i liberali, il sindaco, il delegato di polizia, i capitani, i tenenti; restò il giudice e i cittadini pacifici, a discrezione di chi venisse, appunto in quel dì della fiera di S. Donato, quando più forza occorreva. Il delegato fermatosi a Casalduni rattiene cinquanta guardie mobili che da Benevento andavano a Cerreto, e li alloggia in una chiesa, non per bisogno, ma per isfregio. Se non che’l’intendente di Cerreto volle a sé quei cinquanta; allora il delegato co’ liberali a’ 7 agosto fuggì a Benevento; restava solo il sindaco Luigi Ursini, per non abbandonare la patria in perigliosi momenti. Sul vespro del 7 un Cosmo Giordano con solo quindici uomini entra in Pontelandolfo, gridando Francesco: era fiera, gran popolo, grand’ire represse; scoppia com’eco immenso Viva Francesco II; e al clero ch’era in processione alla cappella S. Donato, fanno cantare il Te Deum. Il popolo mena le campane a stormo, abbatte le croci sabaude, alza i gigli, arde gli archivii del giudicato e del comune, piglia l’arma de’ Nazionali, straccia le bandiere; apre le carceri; e fa tre omicidii; un Vitale colpito per isbaglio da una palla diretta allo stemma, un Tedeschi di S. Lupo, creduto spia, e un Michelangelo Perugini liberaluccio, cui arsero anche la casa. Alle case di tre italianissimi, Iadonisio, Melchiorre e Sforza, tolsero qualche mobile, senza più52. Dal clima di ostilità generale scaturiva poi il racconto dell’uccisione dei quarantacinque soldati: L’11 giunsero da Campobasso a Pontelandolfo quarant’uomini del 36° di linea, con un tenente Bracci e quattro carabinieri. Uno spedato fu tosto ucciso da’popolani a legnate; gli altri spaventati, avute munizioni dal vicesindaco, serraronsi nella torre ex baronale posta in alto, donde potevano far difesa; ma come assaliti le palle entravano dentro, il tenente volle uscire. Investiti, a furore di popolo, piegano a S. Lupo; e trovano sbarrata la via da’ Napolitani sbandati con a capo un Angelo Pica. Stando tra due fuochi, prima ne cadde uno, ucciso da una donna con un sasso in fronte; cinque perirono per moschettate; gli altri rabbiosi accopparono per vendetta il loro tenente ch’aveali cavati dalla torre; poi fur facile preda de’Napolitani, ché menaronli disarmati a Casalduni tutti, fuorché un sergente rimasto celato da una fratta. Il popolo gridava Morte agli scomunicati! (…) La plebe finì quei moribondi, e pure v’ac- La parte su Pontelandolfo e Casalduni è consultabile al sito https://www.eleaml.org. D’ora in poi si farà riferimento a questa versione. 52 Il grande brigantaggio in Campania 295 corse qualche sacerdote a confortarne l’agonia. Il sergente ascoso nelle fratte, scoperto da quei di Ponte, fu menato a sera a Pontelandolfo; e sacramentando non combatterebbe più contro Francesco; a tal patto ebbe la vita. Così fu il solo salvato, e non tenne il giuro. G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Viterbo, Sperandio Pompei, 1867, v, p. 165. 54 G. Massari, Il Brigantaggio nelle Province napoletane, Milano, Ferrario, 1863. 55 Gin, L’Italia contesa cit., p. 128. 53 ©UNICOPLI Nel mettere l’accento sulla natura politica e di massa dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni, la lettura borbonica proposta da De Sivo si legava a quella altrettanto politica e di massa del grande brigantaggio nel suo complesso, a proposito del quale lo storico, nella stessa Storia, ebbe a dire “Quello ch’appellavano brigantaggio era guerra, e la più terribile che mai popolo facesse a dominatori ingiusti; perché lor toglieva sangue, moneta, e riputazione”53. Essa si impose, inoltre, quale narrazione contrapposta rispetto a quella fornita dai moderati e supportata dalla destra storica allora al governo. Non bisogna infatti dimenticare che nei risultati dell’inchiesta parlamentare affidata ai deputati Giuseppe Massari e Antonio Mosca, sul finire del 1862, dopo una serie di interpellanze che avevano costretto la camera ad affrontare direttamente il tema, fra le cause del brigantaggio venivano individuate soprattutto le condizioni economiche e sociali delle masse contadine, il cui costante deterioramento era dipeso dalla lunga erosione dei diritti comunitari sui terreni demaniali da parte delle classi possidenti, proseguita ben oltre l’abolizione della feudalità effettuata durante il decennio francese54. Se dare piena dignità politica alle insorgenze antiunitarie servì a mettere in discussione i presupposti ideologici del processo risorgimentale, De Sivo, come ha acutamente osservato Emilio Gin, si tenne tuttavia ben lontano dall’insistere troppo sulla contrapposizione fra legittimisti e unitari che affiorò in seno alla società napoletana, perché ciò avrebbe indebolito la tesi filoborbonica sull’innaturalità dell’unificazione. Ne derivò che egli, come altri borbonici, preferì “battere maggiormente sul tasto della lotta per l’indipendenza nazionale” tendendo a “restringere al massimo la cerchia entro la quale individuare gli attivi sostenitori dell’Unità in terra napoletana”55. L’accostamento fra brigantaggio e guerra civile si intuisce comunque spesso nelle pagine della Storia. Negli stessi passaggi dedicati a Pontelandolfo e Casalduni, i riferimenti ai liberali ai quali furono incendiate le case sono generici, ricorrenti e non circoscritti a personalità note come, ad esempio il sindaco, “Michelangelo Perugini liberaluccio”, oppure ai “tre italianissimi, Iadonisio, Melchiorre e Sforza”. Dai primi decenni post-unitari, il racconto pubblico ad uso politico dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni fa un salto, per riemergere con nuove forzature negli anni ’70 del XX secolo. Secondo Silvia Sonetti, l’ingigantimento drammatico e senza alcun fondamento del numero dei morti costituisce l’elemento centrale della nuova vulgata, i cui inizi vanno individuati nella pubblicistica di Carlo ©UNICOPLI 296 Viviana Mellone Alianello56. Nel 1972, con la pubblicazione del suo La conquista del Sud57, Alianello ha tracciato le linee fondanti del revisionismo borbonico: il movimento ha teso a smentire i risultati della storiografia accreditata, rilanciando i leitmotiv dei borbonici e rivendicando dunque l’idea di un processo di unificazione svoltosi attraverso la “colonizzazione” del Sud, al quale l’ex Piemonte sabaudo avrebbe sottratto risorse economiche e culturali58. A proposito di Pontelandolfo e Casalduni, Alianello ha denunciato il racconto censurato dei fatti59 per poi spingersi a dire, in occasione di una commemorazione pubblica delle vittime civili di Pontelandolfo avvenuta qualche mese dopo, che la repressione non fu altro che “un genocidio di militari armati contro inermi dormienti”60. Il racconto di quanto avvenne nei due paesi del Beneventano passa quindi in tale frangente dalla realtà della reazione popolare e dell’incendio da parte dell’esercito italiano al mito dell’eccidio. Ma è con Antonio Ciano, altro scrittore revisionista, che il mito viene trasferito dal piano discorsivo politico-ideologico e culturale a quello politico elettorale: Ciano è infatti il fondatore del Partito del Sud, e sempre riguardo a questi fatti scrive con sufficiente sicurezza e sommarietà che “i morti superarono sicuramente il migliaio”61. Ad avvalorare il mito contribuisce anche il romanzo storico sul tema pubblicato nel 1998 dal giornalista, scrittore e saggista Gigi Di Fiore, nel quale dichiara che “il numero dei morti accertati era una cifra molto al di sotto di quella reale”62. L’ipotesi stragista ha trovato, infine, la versione più forte nell’opera del giornalista Pino Aprile, che nel suo libro del 2010 Terroni, sostiene che l’intera popolazione di Pontelandolfo, cinquemila abitanti nelle sue stime, fu eliminata e che “ i due paesi furono quelli in cui alla sollevazione conS. Sonetti, Repressione o massacro? I morti di Pontelandolfo e Casalduni, in “Meridiana. Rivista di Storia e Scienze Sociali”, numero monografico Borbonismo, a cura di F. Benigno e C. Pinto, XCV, 2019, pp.139-168. Ma si veda adesso anche Ead., L'affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019), Roma, Viella, 2020. 57 C. Alianello, La Conquista del Sud, Milano, Rusconi, 1972. 58 La storiografia ha indagato e spiegato in maniera convincente il discorso neoborbonico. Cfr., ad esempio, Cause perdute, a cura di C.Pinto in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 88, 2017; C. Pinto, La nazione mancata. Patria, guerra civile, resistenza negli scritti dei veterani borbonici del 1860-61, in Antirisorgimento. Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, a cura di M.P. Casalena, Bologna, Pendragon, 2013, pp. 87-125; G.L. Fruci, C. Pinto, El regreso de los Borbones. Reelaboraciones mitográficas y perspectivas políticas en el Mezzogiorno italiano, in “Ayer”, CXII, 2018, pp. 317-34.Tutt’ora manca una riflessione centrata sulle cause politiche, culturali e sociali che lo hanno generato, probabilmente da collocarsi in un rigurgito identitario di tipo reazionario -in senso culturale e non necessariamente politicoin risposta a due processi opposti: 1) Fino agli anni ’70, la crescita economica più omogenea fra Nord e Sud Italia e l’attenzione verso le diseguaglianze territoriali nel dibattito pubblico e politico; 2) Dagli anni ’80 in poi, la crescita nuovamente disomogenea a livello territoriale e la scomparsa di tali diseguaglianze nel dibattito. 59 Alianello, La conquista, cit., p. 257. 60 Sonetti, Repressione o massacro?, cit., p. 153. 61 A. Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, Roma, Grandmelò, 1996, p. 164, cit. in Sonetti, Repressione o massacro?cit., p. 153. 62 G. Di Fiore, 1860 Pontelandolfo e Casalduni, un massacro dimenticato (1998), Bergamo, Nuovo istituto arti grafiche, 2013, p. 124, cit. in ibid. 56 Il grande brigantaggio in Campania 297 tro i piemontesi corrispose la più feroce rappresaglia mai compiuta in Italia, in tempi moderni, nazisti inclusi”63. Notabili e briganti 63 P. Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero “meridionali”, Milano, Piemme, 2010, pp. 54-55, cit. in ibid. Sulle altre narrazioni di stampo neoborbonico e revisionista, proliferate anche attraverso giornali, pagine on line e blog, si veda sempre Sonetti, Repressione o massacro?, cit., in particolare pp. 153-154. 64 Una riflessione in questo senso, con riferimento al rapporto fra il brigante Carmine Crocco e la famiglia Fortunato, è in L. Musella, Guerra Civile. Il processo alla famiglia Fortunato, in La delegittimazione politica nell’età contemporanea, V, La costruzione del nemico in Europa fra Otto e Novecento, a cura di P. Macry e L. Musella, Roma, Viella, 2018, pp. 41-54. 65 Cfr. la corrispondenza dei governatori provinciali con il governo centrale citati in Scirocco, Governo e Paese, cit., pp. 23 e ss. 66 Cfr. ivi, pp. 23-77. 67 Ivi, pp. 66-67. L’epurazione dei giudici di circondario fu portata a termine solo nel maggio 1861, cfr. ibid. ©UNICOPLI Fra i numerosi aspetti del grande brigantaggio indagati dalla storiografia, non disponiamo ancora di uno studio sistematico sul ruolo propulsivo che parte del notabilato e della classe dirigente meridionale ebbero nei confronti del fenomeno. Escludendo il gruppo di intellettuali, statisti e ufficiali borbonici che seguì o raggiunse Francesco II in esilio, non vi sono indagini che mappino la consistenza delle élites conniventi e il loro ruolo dentro e fuori le istituzioni, dai proprietari terrieri che fomentarono le rivolte contadine contigue al vero e proprio brigantaggio, ad altre o analoghe figure del notabilato locale che supportarono o coprirono i briganti64. Eppure, il riferimento a tale contributo è quasi costante in letteratura e abbondanti furono le denunce di manutengolismo da parte di personalità politiche e autorità locali65. La consapevolezza in proposito fu del resto essenziale ai governi unitari nella predisposizione delle politiche repressive. Per riflettere sulla mobilitazione delle élites provinciali a favore del brigantaggio è utile partire dall’inadeguatezza politica e tecnica delle classi dirigenti borboniche rispetto all’amministrazione dello Stato unitario e dal fatto conseguente che esse accumularono un elevato potenziale di “sabotaggio” verso le istituzioni unitarie sia quando furono declassate o esautorate, sia quando vennero mantenute nei loro ruoli66. La presenza di una bomba ad orologeria nelle amministrazioni provinciali del Mezzogiorno unitario si coglie bene negli studi di Alfonso Scirocco, secondo il quale sintomo della difficoltà di gestire il ricambio delle classi dirigenti e, allo stesso tempo, di depotenziare l’operato dei borbonici senza ufficialmente esautorarli fu il conferimento ai sindaci delle facoltà di polizia ordinaria con decreto del 18 ottobre 1860, al fine di privare di tale compito i giudici di circondario, ritenuti in maggioranza borbonici67. A complicare ulteriormente il quadro delle tensioni istituzionali si aggiunse l’alto clero. ©UNICOPLI 298 Viviana Mellone Delle ottantotto diocesi esistenti nel Mezzogiorno solo ventidue erano immediatamente soggette alla Santa Sede, mentre le altre erano sottoposte al patronato regio. Ne conseguì che gli ecclesiastici, divenuti funzionari pubblici per la svolta clericale della monarchia nei suoi ultimi anni, vennero scelti fra gli elementi più fedeli alla monarchia borbonica i quali, nella svolta del ’60, si dimostrarono apertamente ostili al nuovo regime sobillando il popolo, specie nelle campagne. Se negli studi di Scirocco il potenziale controrivoluzionario e di supporto al brigantaggio affiora legato al difficile adeguamento del ceto amministrativo borbonico alle nuove istituzioni, nella riflessione di Pinto tale supporto appare allargarsi alla vasta area delle élites borboniche, divise dai gruppi liberali da un conflitto politico-ideologico apertosi con la repubblica napoletana, acuito dalle rivoluzioni e i molteplici moti che avevano attraversato il Mezzogiorno durante il Risorgimento e aggravato dalla guerra per l’unificazione68. Tornando alla storiografia sul caso campano, anche qui sono scarse le analisi sul manutengolismo del notabilato, ma fra queste spicca, per maggiore completezza, quella dell’Alta Terra di Lavoro, territorio noto sia per la polarizzazione risorgimentale tra famiglie liberali e reazionarie, sia per essere stata una delle aree di reclutamento della Legione del Matese, gruppo di circa quattrocento volontari che nel 1860 si organizzò per combattere con le milizie garibaldine e piemontesi69. Lo studio di Luigi Marra può rivelarsi utile per sondare l’intreccio fra motivi politici e appartenenze familiari nel manutengolismo delle élites. Nell’Alta terra di Lavoro la sopravvivenza delle bande di Liberato di Lello e di Cosimo Giordano fu garantita dall’appoggio di due esponenti del notabilato locale: rispettivamente, Filippo Onoratelli e Achille Del Giudice. In entrambi i casi, nonostante la forte polarizzazione determinata dal conflitto politico, la connivenza non fu determinata dalla condivisa posizione reazionaria, mentre furono i legami familiari, i rapporti affaristici o il desiderio di proteggere la propria posizione a creare alleanze inaspettate. Nel caso Di Lello-Onoratelli, Liberato di Lello discendeva da una famiglia di ricchi possidenti che nel 1796 si erano offerti volontari nella costituenda milizia napoletana volta a contrastare la discesa dei Francesi in Italia, mentre, sul versante opposto, Filippo Onoratelli di Piedimonte d’Alife era uno stimato proprietario terriero e componente del decurionato che il 7 settembre 1860 aveva proclamato il governo provvisorio a Piedimonte Matese. Onoratelli aveva però rapporti di affari e di amicizia di lungo corso con i Di Lello, che lo spinsero a proteggere il giovane Liberato, comunicandogli sempre gli spostamenti delle truppe70. Più controverso e meno verificabile è il legame fra Del 68 Cfr., oltre a Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., Id., La guerra dei provinciali. Notabili, funzionari e gruppi politici meridionali nella crisi del brigantaggio (1861-1864), in “Il Risorgimento. Rivista di storia del Risorgimento e storia contemporanea”, 2018, 1, pp. 56-81. 69 Cfr. G. Petella, La legione del Matese durante e dopo l’epopea garibaldina: agosto 1860-marzo 1861, Città di Castello, S. Lapi, 1910. 70 S.L. Marra, In nome di Ciccillo o Rè nuostro. Briganti e brigantaggio nel tenimento di Gioja Sannitica, Napoli, Boopen, 2011, p. 50. Il grande brigantaggio in Campania 299 G. Monsagrati, Achille del Giudice, cit. Marra, In nome di Ciccillo, cit., pp. 23, 50-51. 73 Monsagrati, Achille del Giudice, cit. 74 Marra, In nome di Ciccillo, cit., p. 23. 75 Ibid. 76 Ivi, p. 26. Su queste commissioni, parte della campagna per le vittime del brigantaggio intrapresa dal governo unitario a cavallo fra il 1862 e il 1863, cfr. C. Pinto, La campagna per la popolazione. Vittime civili e mobilitazione politica nella guerra al brigantaggio (1863-1865), in “Rivista Storica Italiana”, CXXVII, 2015, 3, pp. 808-852. 71 72 ©UNICOPLI Giudice e Giordano. Achille del Giudice fu un esponente rilevante del notabilato del Matese: amministratore delle grosse proprietà di famiglia su cui si svolgevano attività zootecniche fiorenti, nel 1860 spiccò fra i principali organizzatori e finanziatori della Legione del Matese e animò il comitato moderato napoletano che lavorò alla soluzione unitaria e monarchica; fu poi anche deputato e senatore del Regno d’Italia71. Se Luigi Marra si esprime con sicurezza sul manutengolismo di Del Giudice72, Giuseppe Monsagrati considera più incerta l’accusa che in tal senso gli rivolse il sottoprefetto di Piedimonte d’Alife nel 1868 e che non ebbe seguito dal punto di vista giudiziario. Anche nelle considerazioni caute di Monsagrati, tuttavia, si ammette che la connivenza del grosso notabile non possa escludersi, in ragione della sua totale immersione nella lotta al brigantaggio locale ed alla minaccia alla proprietà che quest’ultimo costituì in territori violentemente colpiti come l’Alta Terra di Lavoro. Visto in tale luce, l’avvicinamento ai briganti da parte di del Giudice avrebbe avuto lo scopo di raggirarli oppure di proteggere i propri affari, che ruotavano appunto intorno alla terra73. Il focus su questi casi non è meno utile per individuare l’atteggiamento repressivo del governo, che risulta propenso a non perseguire queste élites, ritenendo di potersi avvantaggiare della loro capacità di mediazione fra briganti e Stato. A tal proposito, il governo centrale, informato della connivenza di Onoratelli con Di Lello, decise di non intervenire contro il primo, ma comunicò ai “soprintendenti delle sottoprefetture di Piedimonte e Cerreto di abboccarsi con i ricchi proprietari del luogo”74. Così Onoratelli, prosegue Marra, “è fatto oggetto di rispettose premure da parte degli ufficiali piemontesi” e ricambia segnalando loro la dislocazione dei briganti compaesani. Non tradisce, però, l’amico di Lello, al quale offre informazioni sui movimenti di perlustrazione delle truppe75. In direzione analoga, Achille del Giudice venne nominato membro della commissione provinciale incaricata di risarcire le vittime del brigantaggio76. L’idea di utilizzare informazioni e conoscenze “brigantesche” dei due notabili ai fini della repressione si rivela comunque chiaramente con l’approvazione della legge Pica, il 15 agosto 1863. La legge, entrata in vigore sul finire dello stesso anno, si propose di liquidare il brigantaggio attraverso un regime emergenziale, che costituì una pesante deroga delle libertà costituzionali e diede ampia discrezionalità di azione al governo e alle gerarchie militari. Questo perché veniva introdotto il reato di brigantaggio e la sua giurisdizione era affidata ai tribunali militari con la relativa applicazione della legislazione di guerra; ma anche per- ©UNICOPLI 300 Viviana Mellone ché veniva riconosciuta la facoltà di fucilazione immediata dei briganti ed era inoltre previsto che il governo comminasse il domicilio coatto ai sospetti manutengoli attraverso un’apposita giunta. La legge, tuttavia, presentava anche dispositivi volti a promuovere la costituzione volontaria dei colpevoli, prevedendo in tal caso la diminuzione da uno a tre gradi di pena77. La condiscendenza verso le élites sospettate di manutengolismo fu dunque volta proprio a sollecitarne un ruolo operativo nel convincere i briganti a consegnarsi alla giustizia. Onoratelli e Del Giudice si fecero garanti presso i giudici del tribunale di guerra e presso gli ufficiali della truppa della consegna dei compaesani per godere degli sconti di pena. Così “Il 26 settembre si presentarono i briganti Palmieri e Fidanza accompagnati da Don Achille alla stazione dei Carabinieri Reali di Piedimonte” mentre “Don Filippo poté ascrivere a sé, qualche giorno dopo, la presentazione del brigante Michelangelo Onoratelli suo omonimo compaesano, il quale fu accompagnato da questi in carrozza dal Maresciallo Castellani della stazione dei Reali Carabinieri di Piedimonte”78. Come si ipotizza nelle pagine di Marra, i due notabili non costrinsero i briganti a presentarsi con ricatti o con la forza, ma li persuasero del beneficio del patteggiamento: la capacità di persuasione, sulla quale contava lo Stato, era del resto fondata sull’alfabetizzazione dei notabili rispetto alla maggioranza delle bande, alle quali il testo doveva essere necessariamente letto e spiegato79. Conclusioni La storiografia sul caso campano ha nel complesso messo in luce il carattere composito del brigantaggio post-unitario. Dall’analisi di quattro realtà specifiche come la provincia di Avellino, il territorio al confine con lo Stato Pontificio, l’Alta Terra di Lavoro e la provincia di Salerno esso è risultato quale intreccio di quattro aspetti/motivazioni. In primo luogo, la politicizzazione dei capi briganti quale motivo di innesco della loro mobilitazione. In secondo luogo, la povertà di briganti-gregari e manutengoli, i quali, rispettivamente, delinquono per guadagnarsi da vivere e supportano i briganti per ottenere in cambio protezione. In terzo luogo, la condizione di complessiva marginalità della popolazione delle campagne, dove il senso di alterità verso lo Stato induce sia ad affidarsi alla protezione dei briganti per ragioni di prossimità e di contiguità culturale, sia a costruire una contronarrazione del brigantaggio volta a capovolgerne i caratteri delinquenziali ed eversivi con propositi di giustizia sociale. In quarto luogo, la scarsità e l’impreparazione delle forze dell’ordine rispetto al carattere composi- Per il testo della legge, cfr. Marra, In nome di Ciccillo, cit., pp. 31-32; per il regolamento attuativo cfr. Martucci, Emergenza, cit., pp. 240-244. 78 Marra, In nome di Ciccillo, cit., pp. 26-27. 79 Ivi, p. 26. 77 Il grande brigantaggio in Campania 301 80 Oltre ai lavori citati nel corso del testo, cfr., fra gli altri, M. Landi, I tribunali militari nella guerra al brigantaggio. Il caso di Bari, in “Il Risorgimento. Rivista di storia del Risorgimento e storia contemporanea”, LXV, 2018, 1, pp. 82-121; G. Tatasciore, L’invenzione di un’icona borbonica: il brigante come patriota napoletano?, in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, XCV, 2019, numero monografico Borbonismo, cit., pp. 169-194. ©UNICOPLI to, sistematico e – in talune province–capillare con cui il brigantaggio si presenta nella fase post-unitaria. Il racconto del grande brigantaggio ha avuto fortuna lunghissima nell’Italia post-unitaria. Nell’intero contesto meridionale sono proprio i fatti campani di Pontelandolfo e Casalduni a dimostrare come il brigantaggio post-unitario sia stato utilizzato da diverse generazioni di storici, politici e intellettuali quale fenomeno in grado di esemplificare l’esito negativo dell’unificazione italiana e la nascita della questione meridionale. Come si è visto, la prima lettura politica in chiave legittimista, data da Francesco Marzio Proto Pallavicino duca di Maddaloni, denunciò l’incendio di Pontelandolfo da parte delle truppe piemontesi equiparandolo ad un eccidio, veicolando così l’immagine del “sacco del Sud” da parte del governo piemontese, che sarebbe diventata il leitmotiv della letteratura borbonica e neoborbonica a proposito del processo di unificazione nel suo complesso. Il racconto diffuso dallo storico Giacinto De Sivo fu invece efficace nel dimostrare l’innaturalità dell’unificazione, rivelandone, in aggiunta, la dimensione conflittuale fra unitari e borbonici napoletani, prim’ancora che fra piemontesi e napoletani. Dopo i primi decenni postunitari, il racconto pubblico ad uso politico di questi fatti è riemerso con nuove forzature negli anni ’70 del XX secolo. L’ingigantimento drammatico e senza alcun fondamento del numero delle morti civili costituisce l’elemento centrale della nuova vulgata del revisionismo borbonico. Nonostante il grande brigantaggio sia stato un tema permanente del confronto storiografico e sebbene negli ultimi anni si siano avvicendate ricerche documentate e originali80, vi sono ancora aspetti che rimangono da indagare. Fra questi, il ruolo delle élites conniventi, a proposito delle quali si registra uno scarto importante: se da una parte esse furono spesso evocate quale elemento indispensabile per la sopravvivenza dei briganti nelle relazioni di politici e autorità locali, dall’altra, mancano studi empirici che registrino i nomi dei notabili manutengoli e le dinamiche specifiche di connivenza. Questa tendenza viene confermata ripercorrendo la storiografia sul caso campano. Le ricerche sull’Alta Terra di Lavoro lasciano tuttavia intravvedere l’utilità di un lavoro sistematico sul manutengolismo delle élites. In particolare, la mobilitazione dei notabili Onoratelli e del Giudice a favore, rispettivamente, dei briganti di Lello e Giordano, mette in luce le ragioni complesse e non sempre generalizzabili che portano a coprire le bande. Soprattutto, essa consente di approfondire il giudizio sull’efficacia operativa della legislazione emergenziale del 1863, della quale sono stati più spesso – e comprensibilmente – sottolineati gli aspetti anticostituzionali. Vale infatti la pena ricordare che al momento dell’applicazione della 302 Viviana Mellone ©UNICOPLI legge Pica, che prevedeva uno sconto di pena per i briganti che si presentassero alle autorità, Onoratelli e del Giudice agirono da mediatori fra lo Stato e le bande, garantendo al primo che i secondi si consegnassero. Si tratta dunque di una prima traccia che, se confermata o smentita dall’indagine di altri casi locali, offrirebbe l’occasione di innovare la prospettiva dalla quale si guarda agli strumenti repressivi dello Stato unitario in tale ambito, includendovi i meccanismi di controllo informale, attivati mediante il coinvolgimento (e il mancato perseguimento) delle élites manutengole. BRIGANTI PERCHÉ Profili e motivi del brigantaggio pugliese attraverso le fonti giudiziarie Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo1 Introduzione Il saggio è stato concepito ed elaborato in comune dai due autori. Alessandro Capone ha scritto l'introduzione e il secondo paragrafo, Elisabetta Caroppo il terzo. A entrambi si devono le conclusioni. 2 A. Scirocco, Introduzione a Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, vol. I, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1999, pp. xiii-xxxviii. 3 C. Pinto, Il patriottismo di guerra napoletano, 1861-1866, in “Nuova rivista storica”, C, 2016, 3, pp. 842-868. 4 Id., La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 104-106, 182-218. 1 ©UNICOPLI Il tema delle motivazioni degli insorti che presero parte alla controrivoluzione borbonica del 1860-1861 e al brigantaggio per bande degli anni successivi fu al centro della battaglia mediatica che oppose i sostenitori del nuovo ordine unitario e della monarchia napoletana per la legittimazione delle rispettive cause2. Il discorso borbonico presentò la rivolta come espressione del patriottismo dinastico e del sentimento religioso di un popolo sollevatosi in difesa della propria indipendenza, sugellata dall’alleanza tradizionale tra il trono e l’altare3. Negando all’insurrezione ogni statuto di legittimità, il composito fronte liberal-nazionale la descrisse, invece, come un’esplosione di violenza criminale, strumentalizzata dagli agenti della reazione e alimentata dalla miseranda condizione sociale in cui decenni di malgoverno avevano relegato le province meridionali4. Come mostrano anche i saggi raccolti in questo volume, a tale lettura dovette molto la critica meridionalista e gramsciana, che influenzò profondamente la storiografia del secondo dopoguerra, e soprattutto l’opera di Franco Molfese e Tommaso Pedio. In questi lavori, il brigantaggio postunitario era ricondotto alle logiche della lotta di classe oppure a quelle di uno scontro tra subalterni e Stato moderno. A partire dai primi anni Settanta del Novecento, il dibattito sul banditismo sociale contribuì a mettere in discussione tali paradigmi interpretativi e a evidenziare l’inserimento delle bande armate borboniche nelle relazioni di patro- ©UNICOPLI 304 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo nage che caratterizzavano specifici contesti politici ed economici locali5. Questi approcci favorirono il riemergere della questione delle motivazioni del brigantaggio in una prospettiva diversa, incentrata non più – o non solo – su grandi moventi collettivi, ma sui percorsi personali di chi si mobilitò per combattere o sostenere il radicamento del regime unitario. Tale prospettiva acquisisce particolare rilievo nell’ambito del profondo rinnovamento storiografico che, intrecciandosi con gli studi sulle guerre civili e sui processi di politicizzazione popolare, ha permesso di leggere il brigantaggio postunitario come ultima, radicale espressione del conflitto politico interno alla società meridionale nell’età delle rivoluzioni6. Nelle pagine seguenti cercheremo di mettere a fuoco i profili individuali e le motivazioni del brigantaggio che emergono da un’analisi delle fonti giudiziarie relative alle province pugliesi. La difficoltà di documentare il vissuto dei briganti è stata recentemente sottolineata: fatta eccezione per un pugno di tarde memorie – tra cui quelle, celebri, di Carmine Crocco – e per i biglietti di ricatto rinvenibili negli archivi, i membri delle bande, in massima parte analfabeti provenienti dalla società agropastorale, non lasciarono testi scritti. La loro rappresentazione è dunque affidata ai documenti prodotti dalle vittime e dai repressori7. Tra queste fonti, le testimonianze e gli interrogatori raccolti nei fascicoli d’inchiesta della magistratura ordinaria sono particolarmente preziosi per ricostruire motivazioni e autorappresentazioni del brigantaggio. Certo, nel maneggiare tali incartamenti si devono fare i conti con reticenze di imputati e testimoni, distorsioni derivanti dalle strategie di accusa e difesa, e limiti di rappresentatività di una fonte che, per definizione, coglie solo i casi oggetto di pratiche giudiziarie8. Per quanto riguarda il brigantaggio, le inchieste giudiziarie poco o nulla ci dicono di chi cadde in combattimento o fu giustiziato sommariamente, o dei tanti che seguirono le bande armate per periodi brevi e intermittenti. Testimonianze e interrogatori costituiscono pur sempre, però, l’unico documento che riporta la voce di un nugolo di protagonisti minori del brigantaggio, permettendo di cogliere le loro interpretazioni della crisi politica che avvolse il Mezzogiorno dal 1860. Anche nel caso del conflitto civile meridionale, dunque, le tracce giudiziarie non consentono una esatta ricostruzione dell’accaduto, ma fungono da G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, in “Archivio storico per le province napoletane”, XXII, 1983, pp. 1-15; A. Capone, Il brigantaggio meridionale: una rassegna storiografica, in “Le carte e la storia”, XXI, 2015, 2, pp. 32-39. 6 S. Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione e guerra civile, Roma, Donzelli, 2011; Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit. 7 Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., pp. 229-230. 8 Cfr. M. Sbriccoli, Fonti giudiziarie e fonti giuridiche. Riflessioni sulla fase attuale degli studi di storia del crimine e della giustizia, in “Studi storici”, XXIX, 1988, 2, pp. 491-501 ed E. Grendi, Sulla “storia criminale”: risposta a Mario Sbriccoli, in “Quaderni storici”, XXV, 1990, 73, pp. 269-275. 5 Briganti perché 305 9 E. Grendi, Premessa a Fonti criminali e storia sociale, fasc. monografico di “Quaderni storici”, XXII, 1987, 3, pp. 605-700. 10 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 17-20; Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., pp. 115-116. 11 A. Capone, Legittimismo popolare e questione demaniale. I repertori della protesta nella Capitanata del 1860-1861, in “Meridiana”, 2015, 84, pp. 213-235; M. Rovinello, Fra servitù e servizio. Storia della leva in Italia dall’Unità alla Grande Guerra, Roma, Viella, 2019, pp. 74-82. 12 Pinto, La Dottrina Pallavicini. Contro insurrezione e repressione nella guerra del brigantaggio (1863-1874), in “Archivio storico per le province napoletane”, CXXXII, 2014, pp. 69-97. 13 Un quadro sintetico in Id., La guerra per il Mezzogiorno, cit., pp. 163, 166-170. 14 Cfr. I. Ferrari, Vite sbandate. Brigantaggio nel basso Salento (1860-1866), Monteroni di Lecce, Esperidi, 2015; G. Clemente, Viva chi vince. Il Gargano tra reazione e brigantaggio (1860-1864), Foggia, Edizioni del Rosone, 2016; A. Capone, Southern rebels against Italian ©UNICOPLI rivelatrici di pratiche sociali, reti di relazioni, pregiudizi, ideologie e obiettivi delle parti in causa9. Lo scenario pugliese offre un terreno ideale per compiere questo sondaggio. Le province di Foggia, di Bari e di Terra d’Otranto furono investite dalle tre ondate di sollevazioni e attacchi ai paesi che caratterizzarono il tentativo di dar vita a un’organica insurrezione legittimista nell’estate del 1860 e poi, con maggiore gravità, in occasione dei plebisciti di annessione dell’ottobre 1860 e delle due offensive di Carmine Crocco in Basilicata tra la primavera e l’estate del 186110. Le rivolte mostrarono la notevole diffusione dell’immaginario politico-sociale legittimista tra i contadini e la piccola borghesia rurale e fornirono nuove reclute alle bande armate che andavano formandosi attorno ai resti delle colonne irregolari coinvolte nella controffensiva borbonica e ai renitenti alla leva italiana del dicembre 186011. Insieme alla Basilicata, la Puglia fu fino al 1864 il principale epicentro del brigantaggio politico per bande, assumendo di conseguenza un’importanza strategica nelle campagne di controguerriglia12. Alcuni dei più temibili gruppi a cavallo operarono nella regione. Quello dell’antico bandito Michele Caruso, dotato di una efficace organizzazione paramilitare e di una estesa rete di protezioni, imperversò nella parte settentrionale della Capitanata e nei territori di frontiera con l’Irpinia e il Sannio, spesso in collegamento con le bande di Giuseppe Schiavone e Giovanbattista Varanelli, che affiancarono anche Crocco nelle scorrerie da lui condotte lungo il corso dell’Ofanto nel 1863. Una seconda area di grande brigantaggio coincise con le propaggini meridionali delle Murge, tra Terra di Bari e Terra d’Otranto: qui agirono la banda dell’ex sergente borbonico Pasquale Romano e quelle satelliti di Cosimo Mazzeo e Giuseppe Laveneziana13. Le aree periferiche del Gargano e del basso Salento furono teatro di un brigantaggio a carattere locale, alimentato dalla convergenza tra preesistenti sodalizi criminali inseriti nei gangli dell’economia pastorale e nuovi raggruppamenti legittimisti: l’isolamento geografico non impedì alle popolazioni di partecipare ai processi di identificazione politica che accompagnarono il crollo delle Due Sicilie e il consolidamento dell’ordine liberal-nazionale14. 306 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo ©UNICOPLI Reduci borbonici, renitenti e banditi nelle Puglie settentrionali I gruppi di ex soldati borbonici datisi alla macchia per non servire nell’esercito unitario ricoprirono importanti funzioni di leadership in molte delle rivolte che interessarono l’area dauno-garganica nel 1860-1861. Essi svolsero un’opera diretta di agitazione e presero d’assalto comunità urbane profondamente lacerate da conflitti politici interni, cercando di mobilitare la popolazione facendo leva sul sentimento patriottico napoletano. Michelangelo Fiorella, membro di un drappello di ex soldati che il 14 ottobre 1860 si impossessò di Biccari, esortò i contadini del borgo a esporre “i lumi alla finestra per ordine di Francesco II” e a restare in paese per “custodire la loro patria in caso che fosse qui venuta una truppa estera”15. La retorica della difesa della patria, intrecciandosi strettamente con quella della difesa della giustizia e della religione violate dal liberalismo, ricorrono nelle poche fonti in cui i veterani borbonici presero la parola per giustificare il proprio rifiuto di prestare servizio nell’esercito di Vittorio Emanuele II e il loro coinvolgimento nelle insorgenze. Francesco Cascavilla, il comandante degli ex soldati borbonici che erano piombati su San Giovanni Rotondo il 21 ottobre 1860, massacrando 24 liberali, negò di aver agito per spirito di vendetta o per la “sete dell’oro o la brama del delitto”16. Scritta quando aveva ormai definitivamente prevalso una lettura criminale del brigantaggio che mirava a privare l’insurrezione borbonica di qualsiasi legittimità, la supplica di Cascavilla respingeva decisamente ogni associazione con il banditismo comune, affermando che, nel periodo di latitanza che aveva preceduto l’attacco a San Giovanni, l’imputato non aveva percorso le campagne “come un profugo scellerato, spargendo il lutto e la paura”, ma come un “esule sventurato”, che aveva infine ripreso le armi in favore della “caduta dinastia” per “amor della libertà e della giustizia offesa” e per devozione nei confronti della Vergine17. L’intento apologetico del testo si svolgeva all’interno di una struttura argomentativa che riposava sull’aperta rivendicazione della giusta causa borbonica. Temi analoghi emergono dalle lettere alla compagna e dalle preghiere manoscritte ritrovate addosso al sergente Romano, caduto: documenti straordinari, che rivelano una profonda religiosità e una personalità tormentata dalla considerazione degli aspetti più brutali della guerriglia18. unification: the Great Brigandage in the province of Capitanata, in “Journal of Modern Italian Studies”, XXII, 2017, 4, pp. 431-449. 15 Archivio di Stato di Foggia, Corte di assise di Lucera, Processi penali per brigantaggio (d’ora in poi ASF, Corte di assise, Brigantaggio), b. 2, fasc. 8, s.f. 2, deposizione del contadino Giovanni D’Addario, 21 ottobre 1861. 16 Ivi, b. 9, fasc. 37, s.f. 2, supplica di Cascavilla al collegio giudicante, dal carcere di Lucera, 29 luglio 1863, c. 132v. 17 Ibidem. 18 A. Lucarelli, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860. Il sergente Romano, Bari, Laterza, 1946, pp. 70-75. Briganti perché 307 ASF, Corte di assise, Brigantaggio, b. 16, fasc. 73ter, il comandante del IV squadrone dei cavalleggeri di Lucca al delegato di Pubblica sicurezza di Cerignola, 5 novembre 1861, c. 16r. 20 Ivi, b. 13, fasc. 54 ter, deposizione dei proprietari Pasquale Tortora e Michele Pallotta, Cerignola, 9 novembre 1861. 21 Ivi, b. 17, fasc. 78, interrogatorio di Michele Falcone, Foggia, 5 maggio 1863. 22 Ivi, interrogatorio di Giuseppe Stinielli, Foggia, 5 maggio 1863 (e cfr. quello di Domenico Nasuti, stessa data). 19 ©UNICOPLI L’appartenenza legittimista sembra dunque aver avuto un ruolo determinante nello spingere una parte dei reduci delle forze borboniche a darsi all’insurrezione armata, poi al brigantaggio politico. È questo il caso dell’ex gendarme Savino Scorsa, che, dopo il crollo delle Due Sicilie, era stato assunto come guardiano nella masseria del cognato, continuando a indossare armi e uniforme19. Simili manifestazioni di legittimismo dovettero avere una qualche diffusione, tale almeno da ispirare le pagine de I vecchi e i giovani (1909) dedicate alla compagnia borbonica di capitan Sciaralla, modesto corpo di reduci delle Due Sicilie posti a guardia della tenuta del principe Ippolito Laurentano, che ostenta il proprio attaccamento alla vecchia dinastia anche nelle ormai sdrucite uniformi dei suoi guardiani. Nella Sicilia degli anni Novanta raccontata da Pirandello, la compagnia è oggetto del più feroce sarcasmo, rafforzato dallo scarto tra le flebili convinzioni politiche di Sciaralla e la sdegnosa ostinazione del principe. Ben altra determinazione mostrò Scorsa, che raggiunse la banda di Giuseppe Schiavone – anche lui ex soldato – minacciando di punire con la morte, secondo la “legge brigantesca”, chi facesse sfoggio della barba lunga “all’italiana”20. Per buona parte degli ex soldati borbonici, tuttavia, la scelta di riunirsi per combattere il nuovo regime non fu tanto il frutto di una precedente politicizzazione, quanto l’esito di un percorso in cui avevano pesato diversi fattori, dall’impossibilità di ritirarsi a vita privata, alle minacce provenienti dall’uno e dall’altro campo, alla persistenza di forme di cameratismo, alle opportunità di arricchimento e ascesa sociale offerte dall’attività politico-criminale. È quanto emerge dai 67 interrogatori di membri della banda garganica dell’ex soldato borbonico Luigi Palumbo, costituitisi nell’ottobre del 1862 per beneficiare della clemenza promessa dal generale Mazé de la Roche. Si tratta di un corpus organico di interrogatori che non ha equivalenti nel contesto pugliese, e che permette di comprendere la composizione e i cicli di espansione e contrazione vissuti dalla banda. Essa si era formata alla fine del 1860 attorno a un nucleo composto da Palumbo e da pochi suoi commilitoni, che avevano percorso la Foresta Umbra per riunire altri ex soldati dispersi21. I ranghi della banda furono quindi infoltiti dall’afflusso dei renitenti alla leva di Monte Sant’Angelo e dei loro parenti, le cui case erano minacciate di incendio dal sindaco Filippo Basso. Per sfuggire all’ultimatum del sindaco, pronto inoltre a fucilare i renitenti, questi e alcuni loro familiari si erano uniti a Palumbo, decisi a “resistere a qualunque azione (…) da parte del Governo”22. Una parte considerevole di questo gruppo si consegnò alle 308 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo ©UNICOPLI autorità già nel giugno del 1861, dopo una prima promessa di grazia23. La banda fu tuttavia rimpolpata tramite il reclutamento – a volte forzato24 – di boscaioli e carbonai che lavoravano nella Foresta Umbra, poi dal congiungimento con il gruppo riunito dai banditi di lungo corso Angelo Maria Del Sambro e Angelo Raffaele Villani, evasi dal carcere di Bovino il 30 dicembre 186025. Insieme a questi, la banda Palumbo fu protagonista degli assalti a Vieste e a Vico nel luglio 1861. Dei 67 interrogatori di briganti costituitisi nell’ottobre 1862, solo nove riguardano ex soldati borbonici, dieci renitenti alla leva, cinque familiari di costoro; il resto appartiene a lavoranti forestali, uomini che erano già stati con Del Sambro e individui compromessi nelle insurrezioni di luglio 1861. Uno di questi si soffermò sulle logiche che avevano portato all’integrazione dei diversi elementi della banda e all’evoluzione criminale compiuta dal gruppo dopo l’offensiva dell’estate: Poco conoscendo le condizioni del Governo (…) credeva, e meco tutti gli altri che Vittorio Emmanuele se regnava non regnava per sempre, e quindi perché tutti compromessi, e parte de’ briganti soldati sbandati, attendevamo che il Governo si fosse ristabilito in qualche modo, onde così vedere qual dovea essere il nostro destino. Però vedendo che la truppa e il rigore aumentava, cominciavamo a persuaderci in contrario. Quindi non andammo mai contro il Governo direttamente, e solo usavamo del mezzo e del nome di Francesco Secondo per coonestare le nostre azioni26. Una ulteriore testimonianza dell’intreccio di motivi che potevano spingere gli ex soldati borbonici a passare dalla latitanza alla guerriglia politico-criminale contro il nuovo regime unitario proviene dall’interrogatorio di Generoso Sciarelli, reduce borbonico facente parte della banda di Giuseppe Schiavone, ex militare anche lui. Avrebbero agito, nella sua scelta, un misto di cameratismo e di paura per le conseguenze in cui potevano incorrere, in caso di restaurazione, i soldati napoletani passati nell’esercito italiano: Spaventato dalle diverse voci che mi riferivano, che tutti i soldati Borbonici sarebbero andati a morte se si fossero arrolati sotto la Bandiera del Re Vittorio Emmanuele; e che non sarebbe mancato di ritornare quanto prima Francesco Secondo, cui invece avremmo Ivi, s.f. 1, il giudice circondariale di Monte Sant’Angelo al procuratore generale del re, 17 giugno 1861. 24 Così sembra essere accaduto a Pasquale Potenza, carbonaio senza precedenti penali che nell’estate 1861 aveva fatto parte di una squadriglia paramilitare affiancata alle truppe regolari italiane impegnate nei rastrellamenti contro il brigantaggio. Nel novembre 1861 Potenza fu sorpreso da Palumbo mentre lavorava nel bosco e fu costretto a unirsi alla banda per non incorrere nella vendetta. Un’analoga vicenda fu raccontata dall’ex garibaldino Pasquale Azzarone, falegname. Cfr. ivi, gli interrogatori dei due, Foggia, 6 e 10 maggio 1863. 25 Ivi, b. 11, fasc. 48, atto di accusa del procuratore del re presso la Corte di appello delle Puglie, Trani, 23 settembre 1865. 26 Ivi, b. 25, fasc. 144, s.f. 1, n. 4, interrogatorio del contadino Giuseppe Mastromatteo, Vico, 3 novembre 1862. 23 Briganti perché 309 dovuto servire, io mi menai nella comitiva de’ sbandati, ove riconobbi diversi miei antichi compagni d’arme, risoluto di correre il loro destino piuttosto, anzi che farmi soldato del Re Vittorio Emmanuele27. 27 Ivi, b. 12, fasc. 54bis, s.f. 2, interrogatorio di Generoso Sciarelli, Ascoli Satriano, 17 dicembre 1861. 28 Ivi, interrogatorio di Andrea Cignarella, Ascoli Satriano, 23 novembre 1864. 29 Ivi, b. 16, fasc. 73 ter, interrogatorio di Francesco Paolo Spagnolo, Orta, 6 novembre 1861. 30 Ivi, fasc. 77, s.f. 1, foglio istruttorio del 10 dicembre 1863. 31 Ivi, b. 10, fasc. 46, interrogatorio di Giuseppe Gravina, San Severo, 21 aprile 1863. 32 Ivi, b. 16, fasc. 77, s.f. 6, interrogatorio di Pasquale Principe, Monte Sant’Angelo, 19 novembre 1863. ©UNICOPLI L’incertezza politica data dall’instabilità del regime unitario e dall’eventualità di una restaurazione borbonica contribuiva a definire un orizzonte di attese comuni che favoriva l’integrazione di molteplici elementi all’interno delle bande e alimentava il brigantaggio. Lo stesso Sciarelli sfruttò l’opportunità offerta dalla guerriglia per mandare alla famiglia una parte dei proventi ricavati dalle numerose estorsioni commesse dalla banda Schiavone28. Un contadino facente parte della medesima banda riferì di essersi dato al brigantaggio perché gli era stato garantito che al ritorno di Francesco II sarebbe stato debitamente premiato29. Il parroco di Mattinata, sospettato di sostenere logisticamente la banda Palumbo, cadde nel tranello tesogli da tre soldati italiani, che, camuffatisi da briganti, gli avevano annunciato di volersi costituire. I tre furono esortati dal curato a pazientare fino all’imminente restaurazione30. La prospettiva della restaurazione serviva anche a tenere in combattimento uomini provati dalle dure condizioni della guerriglia e dall’inasprimento della repressione, che poteva minare la fiducia dei briganti: i capi – raccontò uno dei sodali di Villani –”dicevano che la venuta di Francesco era prossima; ma non so se era vero, o se facevano ciò per tenerci di buon animo”31. Individui privi di significativi trascorsi militari o di un retroterra politico potevano investire nell’instabilità istituzionale per sviluppare autonome strategie criminali: Pasquale Principe, dipendente di un massaro accusato di foraggiare la banda Palumbo, disse di essersi unito egli stesso agli ex soldati di Monte Sant’Angelo, nella convinzione che fosse giunto “il tempo di farsi i denari”32. Il percorso di Michele Caruso, il più abile capobanda della Capitanata, è un rilevante esempio dell’integrazione tra un brigantaggio dal profilo prettamente criminale e la mobilitazione armata legittimista che si realizzò sul terreno della guerra civile meridionale. L’operato della banda Caruso, a partire dall’estate del 1861, fu connotato da una massiccia adozione dei linguaggi della controrivoluzione borbonica e dall’impiego di tattiche militari alle quali contribuì non poco l’apporto del gruppo di ex soldati riuniti attorno alla figura di Schiavone. Fucilato a Benevento nel dicembre del 1863, Caruso non rilasciò dichiarazioni utili a comprendere lo sviluppo della sua carriera. Le inchieste sul brigantaggio foggia- 310 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo ©UNICOPLI no mostrano, tuttavia, che egli mosse i primi passi come gregario all’interno del sodalizio criminale guidato da Giuseppe Manella e Salvatore Codipietro. Operativa nei dintorni di Torremaggiore, questa banda era specializzata in rapine, estorsioni e furti di bestiame, all’interno di un patto di protezione reciproca che le garantiva il sostegno di una rete di proprietari locali. La rottura si consumò nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1861, quando Caruso e altri quattro compagni, infrangendo il patto, presero d’assalto la masseria di Luigi Ricci e furono messi in fuga dall’intervento di Manella, Codipietro e del resto della banda. Sedutisi con i pastori della masseria per consumare la cena e trascorrere la notte, Manella e Codipietro raccontarono che essi erano prima in compagnia e di accordo di Michele Caruso, il quale non voleva più esser fedele al patto, che vi era fra loro di non molestare D. Luigi Ricci e gli altri proprietari di Torremaggiore. Ciò perché perseguitati dalla Giustizia, non avessero pur sofferta la di costoro indignazione. Ostinato il detto Caruso volle, anziché uniformarsi, separarsi dalla loro compagnia33. Essendo venuti a sapere che Caruso intendeva attaccare le proprietà di Ricci, Manella e Codipietro erano intervenuti per sventarne i piani e rassicurare Ricci sul rispetto degli accordi34. Di lì a poco Caruso fu arrestato, ma evase e si unì alla banda a cavallo di Varanelli, assurgendone presto a figura influente e conducendola nell’offensiva del luglio 1861 all’assalto di Carlantino e di altri paesi. Sembra dunque che la crisi politica del 1861 abbia spinto Caruso ad abbandonare una carriera di bandito comune, radicata nella dimensione locale, e ad ampliare i propri orizzonti operativi grazie all’inserimento nella guerriglia borbonica, all’interno della quale emerse come uno dei principali capi. La contrapposizione con lo schieramento unitario e i documentati contatti con gli agenti borbonici innescarono quindi un processo di politicizzazione che portò il gruppo di comando della banda Caruso a identificarsi con la causa legittimista e a fare uso degli strumenti di mobilitazione che essa offriva per rafforzarsi, come risulta dalle dichiarazioni rilasciate da Giuseppe Cotturelli al tribunale militare che lo avrebbe condannato alla fucilazione: Due anni fa circa io mi decisi a fare il brigante perché certo Colle Pietra, brigante che stava con Caruso e che ora è morto, mi istigò e mi persuase a mettermi alla campagna. Difatto (…) nell’Ottobre io abbandonai la mia casa, e senza dir nulla né alla moglie né ad altri andai in cerca della banda di Caruso, che ritrovai presso il Casone di Dragonara, a breve distanza da Torre Maggiore. Mi presentai a Caruso, il quale per adescarmi ad entrare nella sua comitiva mi promise darmi mezza piastra al giorno; io accettai anche Ivi, b. 21, fasc. 128, deposizione del massaro Francesco Saltarelli, Torremaggiore, 24 aprile 1861. 34 Cfr., ivi, lo sgrammaticato biglietto non datato indirizzato a Luigi Ricci da Manella, che, raccontando l’accaduto, definiva Caruso “compagno dissubidiende”. 33 Briganti perché 311 perché mi fecero conoscere che era facile che tornasse Francesco 2° ed allora noi avremmo avuta una larga riconoscenza; lo stesso giorno fui armato di fucile, e cartucce; munito di un cavallo, che non so dove prendessero, e fino da quel momento ho sempre seguito e preso parte a tutte le operazioni di quella banda35. Brigantaggio e borbonismo nella Puglia meridionale Se complesso e articolato risulta, dunque, il quadro delle motivazioni che avevano spinto al brigantaggio diversi membri delle bande sparse nella Puglia settentrionale, altrettanto variegato è quello che emerge per le aree più meridionali e, in particolare, nel Salento. Anch’esso, a partire dall’estate del 1860, si faceva teatro d’azione di bande di briganti violente e intraprendenti, di certo non così feroci e cruente come quelle di altre parti del Mezzogiorno, ma comunque non meno interessanti sul piano dell’organizzazione e delle ragioni che le spingevano all’azione. Composte prevalentemente da contadini, braccianti, individui dediti all’agricoltura e con una buona presenza anche di artigiani e commercianti, le bande operavano per lo più nel Tarantino, nell’alto Brindisino e nel Gallipolino, sconfinando a volte anche nel Barese in quanto collegate alla banda del sergente 35 Archivio centrale dello Stato, Tribunali militari straordinari per la repressione del brigantaggio (d’ora in poi ACS, TMSB), b. 152, fasc. 1688, interrogatorio di Giuseppe Cotturelli, Foggia, 31 dicembre 1863. 36 Cfr. ASF, Corte di assise, Brigantaggio, b. 14, fasc. 61, interrogatorio di Nicola Ferrecchia, Lucera, 2 agosto 1861. 37 Ivi, b. 38, fasc. 221, s.f. 1, relazione dei carabinieri di Volturino, 12 maggio 1864 e interrogatorio di Pasquale Recchia, Lucera, 23 luglio 1864. ©UNICOPLI Le relazioni personali, l’instabilità del regime unitario e le prospettive di guadagno concorrevano a motivare una scelta che non pare dettata da specifiche ragioni politiche o da episodi di violenza. Altri membri della banda affermarono esplicitamente la propria volontà di sfruttare l’instabilità politica e il diffuso sentimento legittimista per realizzare i propri intenti criminali36. L’opportunismo e la capacità di adattare scopi e forme della propria militanza alle condizioni del terreno e ai rapporti di forza emergono dalla carriera di altri briganti minori, come Pasquale Recchia. Nativo di Volturara Appula, Recchia era un bandito navigato, fuggito dal carcere di Campobasso nell’autunno del 1860 e datosi alla latitanza solitaria prima di unirsi a Varanelli. Nell’ottobre del 1862 si era consegnato alle autorità, fungendo da intermediario nella costituzione di altri dodici briganti, ma era poi tornato alla guerriglia, partecipando alle incursioni condotte congiuntamente dalle bande di Crocco, Michele Caruso e Giuseppe Schiavone, che, al comando di circa 250 uomini, avevano devastato i dintorni di Volturino e Pietra Montecorvino nell’autunno del 1863, tenendo a lungo in scacco le truppe di Pallavicini37. ©UNICOPLI 312 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo Romano, e annoverando tra i propri componenti una significativa presenza di “retrivi”, borbonici ed ex soldati sbandati38. Nelle aree più a sud della Puglia, una delle bande più note era quella di Cosimo Mazzeo di San Marzano soprannominato Pizzichicchio, soldato nel 5º Battaglione Cacciatori del Regno delle Due Sicilie tornato nel suo paese di origine nel 1860 dopo lo scioglimento dell’esercito borbonico, in collegamento con la banda del sergente Romano e con altri briganti della zona. Tra questi erano Coppolone, un militare che per dodici anni aveva servito nell’armata borbonica, e Arcangelo Cristella detto Prichillo, un giovane contadino di Laterza anch’egli ex soldato borbonico che, disertore dal 1862 dell’esercito italiano, era noto alle autorità giudiziarie per le tante estorsioni compiute e per una serie di atti violenti di cui si era reso colpevole39. Attorno alle bande di Pizzichicchio, Coppolone e Prichillo si raccolsero numerosi disertori e soldati sbandati refrattari, molti dei quali li avevano seguiti o perché erano stati costretti a farlo dietro minacce di morte, o perché rapiti dietro richiesta di riscatto, o perché spinti da desideri di vendetta personale o contrasti precedenti40. Nello stesso tempo, tuttavia, diversi erano i segnali di una sostanziale vicinanza alla causa borbonica, attestata non solo dai fitti collegamenti con reazionari e borbonici della zona, ma anche, e soprattutto, dalla presenza di messaggi e contenuti politici a favore di Francesco II e della causa legittimista. Ne erano prova, per esempio, il proclama Ai popoli del Regno delle Due Sicilie trovato nelle tasche di Pizzichiccio da uno dei suoi briganti – Giovanni Malorgio –e consegnato da questi stesso alle autorità giudiziarie al momento dell’arresto41; così come una serie di lettere che, a dire di un altro brigante – Giuseppe Ippolito – “Pizzichicchio aveva ricevute (…) dal generale Bosco che gli consigliava di resistere e fuggire secondo le circostanze, e tener la compagnia fino all’arrivo di esso Bosco con quarantamila uomini”42. 38 E. Caroppo, Fratture politiche e violenza sociale in Terra d’Otranto nella transizione dai Borbone ai Savoia (1860-1865), in “Società e storia”, 2019, 164, p. 274. 39 ACS, TMSB, b. 40, fasc. 526, sentenza nella causa contro Arcangelo Cristella del 28 dicembre 1865. 40 È quanto si desume, per esempio, in Archivio di Stato di Lecce (in seguito ASL), Corte d’Assise di Lecce, Processi, b. 176, fasc. 853, 1862, dichiarazione di Giovanni Malorgio del 26 novembre 1862; ivi, b. 16, fasc. 87, 1864, interrogatorio di Federico Nardelli del 7 ottobre 1863; ivi, b. 114, fasc. 572, 1863, testimonianza di Giuseppe Ippolito del 3 maggio 1863 e interrogatorio del 12 giugno 1863. 41 Ivi, b. 176, fasc. 853, 1862, dichiarazione di Giovanni Malorgio, cit. 42 Ivi, b. 114, fasc. 572, 1863, testimonianza di Giuseppe Ippolito, cit. Né mancavano canzoni e inni filoborbonici recitati da Pizzichicchio e i suoi briganti durante alcuni momenti conviviali, tra cui una canzone dalla strofa “Allegri Carcerato che s’à nittare lo Criminale s’à nittare colla ragione che à da trasire la nazione”. Ivi, b. 114, fasc. 572, 1863, testimonianza di Filomena d’Agostino del 29 giugno 1863. Briganti perché 313 43 A. Scirocco, Dalla seconda restaurazione alla fine del regno, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma, Arti Grafiche La Moderna, 1986, p. 775. Per maggiori approfondimenti cfr. soprattutto B. Pellegrino, Vescovi borbonici e Stato liberale. 1860-61, Roma-Bari, Laterza, 1992. 44 T. Pedio (a cura di), Inchiesta Massari sul Brigantaggio, Manduria, Lacaita, 1983, pp. 155-156. 45 Cfr. Pinto, La campagna per la popolazione. Vittime civili e mobilitazione politica nella guerra al brigantaggio (1863-1868), in “Rivista storica italiana”, 2015, 3, p. 837 e Id., La Dottrina Pallavicini, cit., pp. 81-82. ©UNICOPLI Non è facile comprendere quanto di autonomi convincimenti politici potesse nascondersi dietro l’azione dell’intera banda di Pizzichicchio e se si possa parlare o meno di veri e propri propositi controrivoluzionari. Quel che è certo è, ad ogni modo, che le connessioni del brigante con motivazioni e spinte di carattere politico fossero piuttosto forti, anche per il concorso di borbonici e clericali molto dinamici in provincia. Del resto, diversi erano i motivi di contrasto da parte di vescovi e preti “retrivi” contro il nuovo Stato, sull’onda anche della nazionalizzazione delle mense vescovili effettuata durante la dittatura garibaldina, della revoca del Concordato del 1818 e dell’abolizione di molti ordini religiosi verificatasi durante la Luogotenenza Carignano43. In questo contesto, da tempo operavano in tutta la Terra d’Otranto forze borbonico-clericali in collegamento con Roma e con Parigi, composte da proprietari terrieri, nobili, ex funzionari borbonici, supplenti giudiziari, anche sarti e medici, notai, preti e vescovi reazionari – monsignor Margarita di Oria (nel Brindisino) e monsignor Bruni di Ugento (nel Leccese) – che, per mezzo di “cagnotti” e “manubri” pagati o “complimentati” a vino o con monete e frutti secchi, aizzavano contadini e ragazzini a gridare per i Borbone. Molti di loro erano tra i più ferventi fomentatori dei briganti, i quali trovavano protezione – come emerge dalle carte processuali – nelle loro masserie e nei conventi44. La guerra ai civili, difatti, coinvolgeva non solo militanti politici e guardie nazionali, collaborazionisti e traditori, ma anche un’ampia serie di sostenitori del brigantaggio che fornivano ad esso mezzi finanziari e donazioni volontarie avvalendosi anche di richieste di estorsione a proprietari e commercianti; attaccando prima i materiali che gli uomini (corriere, masserie e così via); indirizzando la violenza soprattutto verso sindaci e guardie nazionali45. Al di là delle influenze o delle strumentalizzazioni borbonico-clericali, frequenti erano, comunque, i collegamenti tra la banda di Pizzichicchio e quella del sergente Romano, espressione in Terra d’Otranto di un vero e proprio brigantaggio politico. Nel Salento, del resto, Romano intendeva liberare i detenuti del bagno penale di Brindisi per dare inizio, insieme con altre bande brigantesche, al movimento insurrezionale dell’Italia meridionale. Lo stesso Romano inoltre era stato per quasi un decennio nelle armi borboniche divenendone primo sergente ed era noto come Enrico La Morte e Francescano Terribile, in quanto seguace di Francesco II. E sempre Romano, al momento dell’arruolamento, sottoponeva le reclute a un atto di giuramento e di fedeltà, la cui formula – come Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo ©UNICOPLI 314 riporta Lucarelli – era una chiara dimostrazione del carattere politico del movimento46, visto che si giurava fedeltà sia a Pio IX sia a Francesco II promettendo la distruzione del partito liberale e di tutti coloro che avevano abbracciato le bandiere tricolore47. Tutto questo spiega evidentemente i numerosi richiami politici reiteratisi durante un assalto a Grottaglie avvenuto nella notte del 17 novembre del 1862, con una massiccia partecipazione, peraltro, di diversi reazionari del posto mostratisi pronti nell’accogliere la banda di 26 briganti guidata da Pizzichicchio all’ingresso del centro abitato. Secondo quanto riportava il giudice istruttore in un suo rapporto al procuratore del re del dicembre 1862, pressante era la presa in tale cittadina del partito retrivo, così come gravi erano state diverse iniziative antiliberali che nel paese da qualche tempo erano state intraprese per censurare le leggi sulle tasse, rifiutare le nuove monete, ridurre il numero delle guardie cittadine e favorire la diserzione48. In realtà, quali che fossero le motivazioni più profonde alla base dell’assalto, da quel che risulta dai documenti consultati, ad indurre alla chiamata dei briganti nel paese erano stati diversi renitenti alla leva, “spontaneamente offertisi a far parte di quella orda di briganti, e due giorni prima del sorteggio delle reclute fissato per il 19 novembre”. L’assalto, in particolare, accompagnato tra l’altro da furti e saccheggi in alcuni palazzi di liberali del posto, era durato fino alle quattro della notte e con l’accertata complicità del sindaco del paese, fra le grida di “Viva Francesco II”, “Abbasso liberali”, “Viva i piccinni nostri”. Era stato attaccato il posto della Guardia nazionale (i cui militi si erano eclissati) e qui abbattuto lo stemma sabaudo. A un detenuto liberato dalle prigioni Pizzichicchio aveva imposto di inneggiare a Francesco II, asportando altresì da un botteghino di generi di privativa la mostrina con lo stemma sabaudo49. Né erano mancate le minacce contro i liberali, come nel caso di un massaro a cui un borbonico locale così aveva intimato: “massaro Alfonso esci il capo, che come tu portasti in giro quello di Garibaldi, così io voglio portare il tuo”50. Stando a vari documenti rinvenuti, una notevole rilevanza, sempre nel Tarantino, era stata rivestita nell’appoggio ai briganti dalla Guardia nazionale, in un intricato gioco di collusioni di questo corpo con il brigantaggio che si ascriveva non solo a serie di relazioni e protezioni che la milizia intratteneva con filoborbonici e reazionari locali, ma anche alla presenza, nel corpo stesso, di pro- Lucarelli, Il brigantaggio politico, cit., pp. 60-62. V. Carella, Il brigantaggio politico nel Brindisino dopo l’Unità, Fasano, Grafischena, 1974, pp. 42-43. 48 ASL, Corte d’assise di Lecce, Processi, b. 176, fasc. 853, 1862, rapporto del 18 dicembre 1862. 49 S. Panareo, Reazione e brigantaggio nel Salento dopo il 1860, Lecce, R. Tipografia Editrice Salentina, 1943, pp. 27-28. 50 ASL, Corte d’assise di Lecce, Processi, b. 176, fasc. 853, 1862, testimonianza di Vincenzo Padovani del 30 dicembre 1862. 46 47 Briganti perché 315 51 Come nel caso di diversi capitani della stessa Guardia nazionale. Ivi, Prefettura-Gabinetto, cat. XXVIII, b. 249, fasc. 2636, s.f. 4, Ministeriale e prefettizie di carattere generale sul brigantaggio, 1862-1864, s.f. 4, Distruzione del brigantaggio: concorso di municipi e Guardie Nazionali, (1863). 52 Ivi, b. 251, fasc. 2641 (1-50), Fascicoli personali degli individui sospetti manutengoli, arrestati e inviati a domicilio coatto in esecuzione della legge 15 agosto 1863 n. 1409 sul brigantaggio, anni 1863-1864, dichiarazione di Giuseppe Bufano (alias Martino) del 13 dicembre 1863. 53 S. La Sorsa, La banda di Carovigno, in “Rivista storica salentina”, IX, 1914, 3-4-5-6, pp. 65-66, 68. 54 Secondo quanto risulta in scritti di studiosi locali tra cui M. Guagnano, Il sergente Romano, pagine di brigantaggio politico in Puglia, Mottola, Stampasud, 1993. 55 Carella, Il brigantaggio politico, cit., p. 48. ©UNICOPLI prietari/capitani delle guardie nazionali fedeli a Francesco II51. Vigeva, inoltre, una complessa rete di relazioni e protezioni locali, che emergeva con forza anche da testimonianze di briganti o manutengoli delle bande, le quali “trovavano appoggio ovunque”e “per gl’intrighi di molti”, non escludendo a volte il sostegno degli stessi liberali “per iscroccare danaro, o per altri fini”52. Intanto, come nel Tarantino, anche nel Brindisino si registravano casi di brigantaggio dal carattere più squisitamente politico. In questa parte della Terra d’Otranto, una delle bande più attive era quella di Giuseppe Nicola Laveneziana di Carovigno che, dopo varie aggregazioni – tra cui anche quella dello stesso Pizzichicchio – avrebbe finito col comprendere circa 160 briganti. Vi avrebbe aderito tra l’altro un ex sottoufficiale garibaldino – Giuseppe Valente –, un trainiere di 30 anni nativo di Carovigno che, latitante dopo essersi rifiutato di tornare sotto le armi, era stato riconosciuto da Laveneziana e da lui indotto a seguirlo dietro la promessa di un cospicuo bottino53. Come Pizzichicchio, anche Laveneziana era in collegamento con il sergente Romano e si era arruolato nelle file della reazione filoborbonica nell’agosto del 1862 durante un “convegno” avvenuto nel bosco Pianelle di Martina Franca (nel Tarantino) al quale avevano partecipato diversi membri del Comitato centrale borbonico, con in mente l’idea di far confluire nel comando unico proprio di Romano tutte le formazioni brigantesche del Barese e del Salento. Laveneziana aveva prestato giuramento di fedeltà a Francesco II per poi essere nominato da Romano primo sergente54. Ritiratosi poi dal servizio militare “per compiuto impegno”, Laveneziana aveva iniziato a condurre in fitto, insieme col padre, la masseria Cuoco in agro di Brindisi, dandosi al brigantaggio “per fatti commessi in quel tenimento, come mancato omicidio”55. Come abbiamo visto per la banda di Pizzichicchio, anche nel caso di quella di Laveneziana diversi furono – sulla base di quanto si desume da diverse testimonianze – i salariati e i contadini che erano stati costretti a seguire i briganti con la forza, e a volte anche perché fatti ostaggio dietro richiesta di riscatto. E molti erano stati, anche in questo caso, gli sbandati e i renitenti alla leva che si erano aggregati, per volontà propria o per costrizione dei briganti Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo ©UNICOPLI 316 o per i condizionamenti operati da borbonici e “retrivi” locali, alle bande brigantesche. Particolarmente interessante fu quanto avvenne a Oria (nel Brindisino) già nella primavera del 1861, dove circa 70 soldati sbandati furono “istigati” a darsi alle campagne e a costituire una banda armata da agenti del già citato vescovo Margarita, noto per i suoi sentimenti borbonici, e con la complicità della stessa Guardia nazionale, che non aveva opposto resistenza alcuna a un attacco sferrato dalla banda per impossessarsi delle armi presso il posto di guardia del paese. Un testimone dichiarava di aver sentito gli sbandati parlar bene di Francesco II, anche perché aderenti a una setta – chiamata “La nostra Toledo” – in collegamento con diversi notabili di Oria e dei comuni vicini, le cui riunioni erano iniziate a partire dall’inverno del 1860 e a cui aveva preso parte anche un prete di Oria56. Altri casi di renitenti e sbandati indotti al brigantaggio si registrarono pure in altre zone del Brindisino. Talora costretti con la forza da Laveneziana57, talaltra sospinti da ingiustizie ricevute, connesse soprattutto ai meccanismi di reclutamento in corpi militari e nell’esercito del nuovo Regno d’Italia58. Diversi, inoltre, furono gli attacchi sferrati alle caserme della Guardia nazionale in più comuni dell’alto Brindisino, tra cui Ceglie, Carovigno, Erchie ed altri ancora, al grido di “Viva Francesco II” e di “Viva la religione”; senza contare i numerosi assalti a masserie e proprietari della zona, compiuti tra vessilli borbonici e minacce contro chi aveva “fatto il fessa nel ’48”59. Anche in questo caso è difficile affermare quanto di tutto questo potesse ascriversi a vere e proprie idealità politiche dei briganti. Certo è che in quelle zone – così come abbiamo visto per Grottaglie – numerosi erano i nostalgici borbonici con, in non pochi casi, esponenti del clero. Alcuni erano manutengoli accertati di Laveneziana, da loro protetto perché combatteva per la difesa della patria60. Quanto poi era successo alla masseria di Santa Teresa (nei pressi di Brindisi) – dove fu compiuto un vero e proprio massacro dei militi della Guardia nazionale – dimostra anche un certo legame con la religione, visto che uno di loro fu graziato dai briganti solo per avergli sentito implorare l’aiuto della ASL, Corte d’assise di Lecce, Processi, b. 157, fascc. 443-445, 1861. Sulla base di quanto si riscontra nelle dichiarazioni di Giovanni De Biasi riportate in Carella, Il brigantaggio politico, cit., p. 50. 58 Ivi, pp. 62-63. 59 Cfr. La Sorsa, La banda di Carovigno, cit., p. 75 e anche CarellaIl brigantaggio politico, cit., pp. 92-93, 99, 120, 131-132, 139. Numerosi segnali di borbonismo si riscontrano pure in ASL, Prefettura-Gabinetto, cat. XXVIII, b. 251, fasc. 2641 (1-50), Fascicoli personali degli individui sospetti manutengoli, arrestati e inviati a domicilio coatto in esecuzione della legge 15 agosto 1863 n. 1409 sul brigantaggio, anni 1863-1864, Testimonianza di Antonio Tastini del 28 luglio 1863; ivi, Tribunale civile e penale di Lecce (d’ora in poi TCP di Lecce), Processi del Giudice istruttore, b. 1, fasc. 1, 1862; ivi, TCP di Lecce, b. 31, fasc. 381, 1862; ivi, TCP di Lecce, b. 31, fasc. 375, 1863. 60 Carella, Il brigantaggio politico, cit., p. 123. 56 57 Briganti perché 317 La Sorsa, La banda di Carovigno, cit., p. 69. Per tutto questo cfr. Carella, Il brigantaggio politico, cit., pp. 52-53, 63-64, 68-69. 63 ASL, Corte d’assise di Lecce, Processi, b. 12, fasc. 61, 1861, rapporto sulla visita domiciliare in casa del fratello di Sturno del 18 agosto 1861. 64 Cfr. tra gli altri ASL, TCP di Lecce, Processi del Giudice istruttore, b. 4, fasc. 47, 1864, verbale di deposizione del 2 settembre 1864 e rapporto delle autorità giudiziarie del 31 ottobre 1864; ivi, b. 79, fasc. 400, 1861, dichiarazione di Salvatore Corrado del 6 settembre 1861. 65 Ivi, b. 20, fasc. 331, s.f. III, 1862/1863. 66 Cfr. ad esempio ivi, b. 12, fasc. 61, 1861, interrogatorio di alcuni imputati arrestati del 23 agosto 1861 e ivi, b. 20, fasc. 331, s.f. III, 1862/1863. 61 62 ©UNICOPLI Madonna del Carmine poco prima che fosse giustiziato61. Ai motivi politici si intrecciavano, pertanto, anche quelli religiosi, in una complessa e articolata trama di motivazioni di adesione al brigantaggio che includeva pure la vendetta e i rancori personali, per vecchi scontri familiari, torti ricevuti o “la lusinga dell’offerta di danaro” da inviare alla propria famiglia62. Nel frattempo, anche nel Capo di Leuca non erano mancati assalti e azioni compiuti in vari centri abitati in cui frequenti erano stati i richiami borbonici. Se ne erano resi artefici i briganti Rosario Parata di Parabita (alias Sturno) e Quintino Venneri di Alliste (meglio noto come Melchiorre), grazie al concorso di una quarantina di briganti, di cui diversi erano renitenti e soldati sbandati. Tornato a Parabita dopo il 1860, Sturno era stato soldato nel disciolto esercito borbonico. Arrestato nel giugno 1861 come sbandato e poi riuscito a fuggire dal carcere, si era dato alla campagna proprio in quell’anno a causa – stando al rapporto di suo fratello e di vari testimoni – dei frequenti dissapori intervenuti tra lui e i familiari, iniziando subito la sua attività criminosa63. Venneri, dal suo canto, era partito militare nel 1859, era rientrato in Alliste nel 1860 anche lui come sbandato borbonico e, in prigione per aver preso parte già nell’aprile del 1861 a un tumulto popolare in Taviano, era uscito dal carcere l’anno seguente, dandosi alla macchia. Essi avevano avviato frequenti scambi con borbonici e reazionari locali, che nella zona erano particolarmente attivi e finanziavano le azioni brigantesche64, coinvolgendo sindaci ed amministratori del posto, spargendo critiche alla nuova moneta e al nuovo governo che “(era) in fallenza”65. In questo quadro, contadini per lo più del sud del Leccese avevano seguito Sturno – come dichiararono in più casi – per curiosità. Altri invece lo avevano fatto per costrizione, al fine di prestare servizi ai briganti dietro un compenso di 10 grani al giorno. Altri ancora – calzolai, contadini, campagnoli soprattutto della zona di Ugento al seguito di Venneri – gli si erano aggregati dietro sua richiesta, con la promessa che avrebbe dato loro quattro carlini al giorno66. È facile ipotizzare che su questa adesione al brigantaggio avesse manifestato i suoi effetti la difficile situazione economica che da tempo il Capo di Leuca attraversava. Come l’area gallipolina, quella del Capo era stata investita sin dagli anni Quaranta dell’Ottocento dalla crisi della produzione dell’olio, che non riusciva ad andare oltre una prevalente destinazione industriale, né a fronteg- ©UNICOPLI 318 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo giare la concorrenza degli olii di semi e dei prodotti chimici. Tali territori erano attraversati da forti segnali di inquietudine, derivanti dall’incapacità di reggere l’impatto della congiuntura economica negativa di quegli anni67 (ora peraltro estremizzata dai provvedimenti del nuovo regime). Ad ogni modo – come rivelava un contadino sotto arresto originario di Calimera, Serafino Carpiniello – indubbie erano state anche qui le ripercussioni dell’azione di certi borbonici locali, che quando si stava per chiamare alla leva lo avevano convinto a seguire i briganti “perché questi cadevano da martiri perché difendevano la religione, mentre noi mandiamo i nostri figli a difendere il torto, essendo questo Governo contrario alla religione”. Sicché – aggiungeva fieramente Carpiniello – si era opposto alla chiamata alle armi dei giovani poiché destinati a morte sicura, consigliando anche a suo figlio di fuggire e di “fare il lupo”68. Tra l’altro, proprio le influenze dei borbonici locali erano state all’origine degli attacchi briganteschi guidati da Sturno a Scorrano, Supersano, Gagliano, Nociglia e Spongano (comuni delle parti più meridionali del Leccese); attacchi che erano avvenuti con in mano bandiere bianche, inneggiando per Francesco II, riducendo a brandelli la bandiera tricolore e – come avvenne a Spongano – anche gridando a favore della Madonna del Carmine69. Per molti, del resto, Vittorio Emanuele era uno scomunicato, un nemico, un sovvertitore della Chiesa “venuto in Napoli per spogliarla”70. Episodi con segnali di borbonismo non furono assenti neppure nel caso della banda di Venneri, la cui prima apparizione avvenne nel 1861 con un atteggiamento ostile al nuovo governo e a favore di sbandati a Supersano nell’agosto dello stesso anno71. Se dunque pressante e ben articolata era la rete borbonica, a complicare i motivi del brigantaggio subentravano tuttavia – confermando quanto abbiamo rilevato per altre parti della Terra d’Otranto – ragioni di vendetta personale o rancori personali, per torti d’amore e risentimenti sentimentali, denunce giudiziarie ed arresti patiti, offese familiari o all’onore delle proprie sorelle72. Così avvenne nel caso della banda Venneri, ma così accadde pure nel caso di altre bande della zona, come quella di Capraro-Cristella o quella di Scocuzzo. La guerra 67 M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli, Guida, 1988, p. 339. 68 ASL, TCP di Lecce, Processi del Giudice istruttore, b. 9, fasc. 260, 1862. 69 ASL, Corte d’assise di Lecce, Processi, b. 79, fasc. 400, 1861, compendio del processo criminale del 30 ottobre 1861; ivi, b. 79, fasc. 401, 1861, riassunto del 17 settembre 1861. 70 Ivi, b. 79, fasc. 400, 1861, riassunto del 17 settembre 1861; ivi, b. 12, fasc. 61, 1861, interrogatorio di Raffaele Palumbo del 23 agosto 1861. 71 Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., pp. 33-34. 72 ASL, Corte d’assise di Lecce, Processi, b. 20, fasc. 331, s.f. II, 1862/1863; ivi, b. 110, fasc. 557, s.f. XII, 1865; ivi, b. 20, fasc. 331, s.f. II, 1862/1863; ivi, b. 110, fasc. 557, s.f. X, 1865; ivi, b. 157, fasc. 764, 1865; ivi, b. 65, fasc. 331, s.f. XIII, 1862/1863. Cfr. anche ACS, TMSB, b. 43, fasc. 575, sentenza nella causa contro Arcangelo Cristella, cit. e ivi, b. 180, fasc. 2157, costituto di Giuseppe Calabrese del 7 ottobre 1863. Briganti perché 319 in corso, in effetti, acuiva antiche fratture o procurava nuovi contrasti, moltiplicando il desiderio di vendetta, inasprendo i fenomeni di violenza, mescolando le motivazioni individuali con quelle di gruppo e imprimendo alle vendette spesso un valore simbolico73. Conclusioni R. De Lorenzo, Borbonia felix, Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, Salerno, 2013, p. 119 e Pinto, La campagna per la popolazione, cit., pp. 835, 845. 74 Cfr. da ultimo S. Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (18612019), Viella, Roma 2020. 75 G. Clemente (a cura di), Il brigantaggio in Capitanata. Fonti documentarie e anagrafe (1861-1864), Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1999. 76 Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito italiano, G 11, b. 17, fasc. 10, registro 82. 73 ©UNICOPLI Diverse furono le bande che agirono nelle province pugliesi, anche se le dimensioni assunte dall’insurrezione legittimista, e poi dal brigantaggio, furono ben lontane da quelle di un movimento di massa. Cercare di quantificare il numero esatto delle bande, di chi ne fece parte e dei loro sostenitori non è impresa semplice, e non per il presunto occultamento della documentazione sulla repressione del brigantaggio politico e del legittimismo borbonico nel Mezzogiorno, che, al contrario, è abbondante, variegata e conservata in una fitta rete di archivi pubblici, presso i quali è accessibile a tutti i cittadini74. Contare è difficile per via della natura stessa del fenomeno, con bande la cui dimensione e i cui componenti erano soggetti a variare molto nel tempo. Un censimento dei ribelli richiede l’analisi incrociata delle fonti poliziesche, giudiziarie e militari. È quello che ha fatto Giuseppe Clemente limitatamente alla Capitanata, mostrando che, in uno dei teatri dove la guerra per il Mezzogiorno raggiunse la massima intensità, tra il 1861 e il 1864 agirono all’incirca 1459 briganti75, un numero in linea con i dati raccolti dall’esercito sui briganti messi fuori combattimento tra 1861 e 186376. I gruppi operativamente e politicamente più significativi – e dunque più rilevanti ai fini dell’analisi storica – furono però quelli raccolti attorno ad alcune figure carismatiche, dotate di buone capacità organizzative e di estese reti di rapporti. Nonostante le indubbie differenze che caratterizzarono le modalità di svolgimento della guerriglia brigantesca in contesti socio-economici e geografici pugliesi profondamente diversi tra loro e al loro interno, numerose risultano le analogie riscontrabili nello spettro delle motivazioni individuali che condussero questi ex sudditi del Regno delle Due Sicilie – molti dei quali renitenti alla leva o ex soldati borbonici – a essere coinvolti nella guerriglia contro il regime unitario. Dall’area dauno-garganica alle aree più meridionali del Salento molteplici furono le ragioni che spinsero all’azione dei briganti, rivelando spesso la coesi- ©UNICOPLI 320 Alessandro Capone e Elisabetta Caroppo stenza di moventi politici, sociali e criminali e una diffusa adesione alla causa legittimista per la quale non poco influì, in diversi casi, la mobilitazione del clero. È quanto emerge grazie al ricorso alle fonti giudiziarie, il cui utilizzo offre elementi preziosi per la ricostruzione del conflitto civile nel Mezzogiorno risorgimentale, facendo luce su assunti e pregiudizi delle parti in causa, contesti relazionali in cui ebbe luogo il conflitto77 e scontri interni a una stessa comunità locale, consentendo perciò di rivedere profondamente letture tradizionali del caso pugliese che ne hanno ricondotto il fenomeno brigantesco pressoché unicamente allo scontro di classe78 o a fattori di natura esclusivamente delinquenziale79 privi di qualsivoglia aspirazione politica o idealità80. Espressione di una società dagli articolati e complessi elementi di disaggregazione81, anche il brigantaggio pugliese rivela, ad analisi ravvicinate, una trama così fitta di motivazioni da rendere pressoché inadeguata qualsiasi interpretazione incentrata su un unico fattore82. Ciò conferma come il pluridecennale conflitto politico interno, che era stato all’origine della crisi sfociata nel collasso del reame e nell’affermazione finale dell’ordine liberal-unitario, procedesse secondo logiche estranee a quelle della contrapposizione classista e mobilitasse, in non pochi casi, porzioni della società meridionale in lotta per il successo di visioni opposte della sovranità e della sua legittimazione83. Cfr. Grendi, Premessa, cit., pp. 695-700. A. Lucarelli, Borghesia, proletariato agricolo e socialismo nel Mezzogiorno d’Italia, 10 luglio 1926, citato in Introduzione a Id., Risorgimento, brigantaggio e questione meridionale, a cura di V.A.Leuzzi e G. Esposito, Bari, Palomar, 2010, p. 8. 79 Così per esempio S. Panareo, Reazione e brigantaggio, cit., p. 20. 80 Cfr. V. Carella, Il brigantaggio politico nel Brindisino dopo l’Unità, Fasano, Grafischena, 1974, in particolare p. 41. 81 Cfr. Galasso, Unificazione italiana, cit., p. 15. 82 P. Pezzino, Il paradiso abitato dai diavoli. Società, élites, istituzioni nel Mezzogiorno contemporaneo, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 187. 83 Pinto, Il patriottismo di guerra, cit. 77 78 PER UNA RILETTURA DEL BRIGANTAGGIO POST-UNITARIO IN BASILICATA TRA STORIA E STORIOGRAFIA Alessandro Albano Cfr. Francesco Gaudioso, Brigantaggio, repressione e pentitismo nel Mezzogiorno preunitario, Galatina, Congedo, 2002. 2 Paolo Conte, Per una rilettura politica del brigantaggio post-unitario in Basilicata, in “Bollettino Storico della Basilicata”, XXIX (2013), n. 29, pp. 81-82. 1 ©UNICOPLI 1. Tra le prime e più significative “questioni” del neonato Stato unitario fu sicuramente quella del brigantaggio, fenomeno oggetto di articolati dibattiti che, spesso condizionati da “visioni di parte”, lungi dall’analizzarne cause ed effetti reali, si sono contraddistinti per interpretazioni di volta in volta funzionali a specifici intenti, anche politici, dall’Unità d’Italia ad oggi. In tale quadro la Basilicata rappresenta un indubbio, peculiare, “caso” di studio. E ciò non solo perché tale provincia fu la prima a conoscere l’insorgere e le più dure conseguenze del fenomeno, ma anche per i riflessi che avrebbero prodotto le politiche nazionali volte a debellarlo. Tuttavia, da subito, in virtù della necessità di rappresentare all’estero l’immagine di un Paese “unanime nell’accettare la sua nuova forma Stato”, il Governo nazionale negò qualsiasi tratto politico del fenomeno, rappresentandolo esclusivamente quale vicenda meramente delinquenziale, peraltro non nuova nelle province meridionali e, in ogni caso, incapace di sovvertire lo status quo conseguito1. Era, questa, una chiara scelta politica di parte governativa che, puntando a sottostimare, nella percezione esterna, estensione territoriale e ragioni di fondo del brigantaggio, puntava a restituire, in Europa, l’idea di una realtà statale che, seppur di recentissima istituzione, risultava assolutamente solida2. Rispetto a tale “lettura”, tuttavia, significativa fu l’opposizione di quanti, alimentati da cultura politica di parte democratica, cercarono con insistenza, specialmente in provincia, di denunciare la portata politica del fenomeno. A testimonianza di ciò, il “Corriere Lucano” rappresentò, in Basilicata, una significativa “voce” di denuncia rispetto ad una “questione”, quale quella, appunto, del brigantaggio, tra i più tangibili esempi di un risorgimento che, per i democratici, ebbe nel 1860/61 non già un punto d’arrivo del percorso per l’Unità, bensì una significativa “tappa” in direzione della “costruzione” di strutture statali, centrali 322 Alessandro Albano e periferiche, da irrobustire e consolidare attraverso la risoluta “lotta”, nel Mezzogiorno d’Italia, ai filoborbonici3. Questi, infatti, non esclusi dai gangli dell’amministrazione statale, alimentarono materialmente le bande brigantesche in molti centri della provincia, nell’obiettivo di colpire, in particolare subito dopo i plebisciti, la parte più avanzata del movimento radical-democratico4. ©UNICOPLI Quando alcuni liberali (…) accorsero in questo capoluogo ove già si era stabilito il governo pro-dittatoriale, furono proprio alcuni signori di Rionero e del Circondario che a difesa della bandiera italiana presentarono o fecero la proposta di giovarsi del valido braccio di Crocco-Donatelli, di Romaniello e del barbiere Mastronardi d’Amati, tutti e tre lordi di misfatti in fino ai denti, e di tali e tanti da mettere ribrezzo; che anzi quest’ultimo che era già nelle mani della giustizia fu fatto cavar di carcere, garantendosene la prestazione dal signor Corona5. La denuncia della natura politica del brigantaggio operata dai democratici di Basilicata, alla luce della configurazione“moderata” del primo Parlamento italiano, rappresentò, inoltre, il tentativo di evidenziare come fosse da riconsiderare l’esclusione operata, a livello provinciale e nazionale, ai danni di chi si era contraddistinto, nei nevralgici mesi a cavallo del 1860, per un portato di cultura e pratica politica più radicale. Molti dei protagonisti di “seconda fila” della Prodittatura lucana6, infatti, furono gli stessi che, non tenuti in considerazione per gli incarichi pubblici, da subito individuarono, nella lotta al brigantaggio, lo strumento attraverso il quale accreditarsi, nei confronti delle rappresentanze governative, come non ostili al quadro istituzionale riveniente dai plebisciti, nei confronti dei quali, convintamente si spesero. Di qui, anche, la convinzione che le cause dell’imperversare di gruppi briganteschi in Basilicata, peraltro infoltiti da quanti fuggiti dalle vicine province, non fossero principalmente da ascrivere alle “autorità”, ma anche e soprattutto ai “governati”. Più in particolare, le principali responsabilità “governative” denunciate riguardavano sia l’esiguità delle forze militari dispiegate sul territorio che la complessiva carenza di personale dedito all’amministrazione della giustizia. Ciò che veniva incisivamente sottolineato come paradossale era la totale assenza, ancora nell’ottobre del 1861, di un “presidente titolare”, oltre che l’assegnazione, alla provincia “più interessata da disordini d’ordine pubblico”, di soli “Corriere lucano. Giornale per tutti”, n. 27 (9 ottobre 1861), pp. 106-107. Paolo Conte, Per una rilettura politica, cit., p. 85. 5 “Corriere lucano. Giornale per tutti”, n. 25 (25 settembre 1861), p. 98. 6 Istituita già il 19 agosto 1860, dopo la proclamazione, il giorno prima, il 18 agosto, dell’Unità d’Italia in nome di Vittorio Emanuele e Garibaldi, prima ancora che questi, dalla Sicilia, approdasse nell’area continentale del Regno. Cfr., al riguardo, Antonio Lerra, Dall’alba della nuova Italia all’Unità. Per una “rilettura” dell’apporto della Basilicata, Postfazione a La libertà che vien sui venti. La Basilicata per l’Unità d’Italia: idealità, azione politica, istituzioni (1799-1861), a cura di Valeria Verrastro, Lagonegro, Zaccara, 2011, pp. 283-289. 3 4 Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 323 “Corriere lucano. Giornale per tutti”, n. 26 (23 ottobre 1861), p. 109. Ivi, n. 25 (25 settembre 1861), p. 106. 9 Ivi, n. 26 (23 ottobre 1861), pp. 109-110. 10 Ivi, p. 109. 11 Ivi, n. 29 (30 ottobre 1861), pp. 116-117. 7 8 ©UNICOPLI quattro “giudici criminali”7, con ciò alimentando, di fatto, l’opinione di quanti parlavano della Basilicata come di una provincia “abbandonata, non più italiana ma cinese”8. Peraltro, la situazione concernente l’amministrazione della giustizia era ulteriormente aggravata dal diverso “carattere” dei giudici. Da una parte, si denunciava, vi erano quelli che “formavano la vecchia magistratura” al servizio dei Borbone e che, per accrescere il proprio credito nei confronti del governo, “raddoppiavano il rigore sugli imputati”, dall’altra i “liberali” che, avendo patito persecuzioni e prigionie in nome dell’Unità, chiamati a giudicare, “si lasciavano in certo modo far velo all’intelletto”, sembrando, più in particolare, che “sedessero al loro stallo di giustizia coi rancori delle sofferenze durate, degli strazi patiti”9. Significativi furono i riflessi di tali inefficienze, particolarmente rispetto ai “ritardi nei giudizi” che, di fatto, molto concorrevano alla “misera situazione” di molte famiglie della provincia, le quali, “private di un marito, di una padre o di un fratello”, venuta meno, in generale, la principale “forza lavoro”, stentavano a sostenersi10. Denunce, queste, che avrebbero comportato il sequestro del numero 28 del giornale con conseguenti, successivi chiarimenti dettagliatamente enucleati nell’articolo Spieghiamoci meglio, del 30 ottobre 1860, nel quale, pur non cambiando il complessivo impianto argomentativo rispetto alle significative problematiche giudiziarie, continuando a denunciare con forza l’esiguo numero di giudici presenti sul territorio, venivano in parte riconsiderate le responsabilità dei giudici di Basilicata. Questi, infatti, rappresentati come impeccabili per “intelligenze e moralità”, non riuscivano a svolgere il proprio compito in maniera efficiente perché numericamente inadeguati e, soggetti ad inevitabile “stanchezza”, risultavano impossibilitati ad approfondire “le prove nei giudizi”, spesse volte “mandando a casa chi doveva essere condannato” e condannando “chi doveva essere assolto”11. Tuttavia, le principali responsabilità dell’imperversare del brigantaggio erano ricondotte, da parte democratica, a quanti erano stati protagonisti, in provincia, della delicata fase di passaggio dal “governo dispotico a quello liberale”, con ciò chiamando in causa non solamente “liberali e proprietari”, bensì anche la “comunità di cittadini tutta”, non casualmente esortata, con insistenza, a compiere maggiori sforzi in direzione della definitiva affermazione di principi liberali sì sanciti con l’Unità, ma non ancora consolidati. In tal senso sono da tenere in considerazione, dunque, i numerosi appelli mossi dalle colonne del “Corriere” e volti ad incitare i “veri patrioti” ad “imbracciare le armi” ed a combattere, senza attendere la Guardia Nazionale, per difen- 324 Alessandro Albano dere una libertà duramente conseguita ed ora minacciata da “orde brigantesche” solidamente configurate quale “strumento in mano alla reazione borbonica”12. ©UNICOPLI Il Paese deve difendere il Paese. Il Governo può aiutarci, ma la sicurezza interna dobbiamo crearcela colle nostre mani, o che non siamo degni di pronunziare il santo nome d’Italia13. L’idea della stretta interconnessione tra i “moti briganteschi” e la “vasta congiura borbonico-clericale” e, dunque, della portata politica del brigantaggio, fu, tra l’altro, efficacemente denunciata dal potentino Camillo Battista, tra i protagonisti, nel 1860, dell’Insurrezione lucana per l’Unità. Nel suo Reazione e brigantaggio in Basilicata nella primavera del 1861, non casualmente edito per i tipi di Santanello (la stessa stamperia del “Corriere lucano”), sosteneva con forza l’idea che a dare sostegno alle bande di briganti non fosse solo Francesco II, ma anche una cospicua parte della nobiltà e del clero del locale partito reazionario: Uopo è dunque riconoscere i motori morali, che ordirono le infami trame, e che indirizzarono la plebe e gli sbandati alla riscossa; e questi non sono stati se non que’ pochi potentotti di paese, che dominarono e caddero (ma non tutti né in tutto) col Borbone, e che or tentavano risorgere con esso dopo otto mesi di morte politica. Preti e monaci, salve le eccezioni, anche ve l’hanno la loro parte in questa reazione di Basilicata, e parte non indifferente né secondaria (…)14. Dopo aver ricostruito i principali fatti che, in quei mesi, misero a “ferro e fuoco” l’intera provincia, il Battista, in conclusione, nel capitolo intitolato “Condizioni attuali della Basilicata”, richiamava l’attenzione, in particolare delle rappresentanze parlamentari, relativamente ad una “calma apparente” conseguente agli oltre 1000 arresti operati tra “plebe, sbandati, briganti e direttori delle reazioni”, nella convinzione che, rimasti di fatto “intoccati” i sostenitori materiali delle bande, queste avrebbero presto ripreso ad organizzarsi, specialmente nel distretto di Melfi, “ove ancor bollono gli spiriti”15. 12 In particolare nell’area sud della provincia di Basilicata, dove, ad iniziativa del vescovo della diocesi di Anglona-Tursi, Gennaro Maria Acciardi, fu costituita la “Setta del Sangue di Cristo i cui proseliti davano giuramento sopra un Cristo, una pistola e un pugnale e promettevano la distruzione di tutti i liberali e la ripristinazione sul Trono di Napoli della dinastia borbonica”. Cfr. Tommaso Pedio, Vita politica in Italia meridionale. 1860/1870, Potenza, La Nuova Libreria Editrice, 1966, p. 83. 13 “Corriere lucano. Giornale per tutti”, n. 25 (25 settembre 1861), p. 106. 14 Camillo Battista, Reazione e brigantaggio in Basilicata nella primavera del 1861, Potenza, Stabilimento tipografico Santanello, 1861, p. 5. Sull’apporto di alcuni vescovi e parte del clero al movimento legittimista e filoborbonico, cfr. Antonio Lerra, Chiesa e società nel Mezzogiorno d’Italia. Dalla ricettizia del sec. XVI alla liquidazione dell’asse ecclesiastico in Basilicata, Venosa, Osanna, 1996, pp. 74-80. 15 Camillo Battista, Reazione e brigantaggio, cit., p. 93. Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 325 Di qui, dunque, sia l’auspicio a voler riconoscere, a livello nazionale, il “vero volto politico” della reazione, unica strada da percorrere per sconfiggere definitivamente il brigantaggio, sia anche a provvedere alla soluzione della “questione” demaniale16. Una problematica centrale, questa, non casualmente ripresa, da parte dei democratici, attraverso la pubblicistica del tempo, nella convinzione che, procedendo alla tanto attesa redistribuzione delle terre, mostrando, cioè, al popolo, non solo il volto della “repressione”, ma anche quello della giustizia riveniente da una ponderata legislazione, si sarebbe, di fatto, “privato di alimento” il brigantaggio, giacché, come efficacemente sottolineato dal Battista: le plebi non contentate nelle giuste pretese demaniali e invase da uno spirito comunistico e dall’abominevole avidità dell’altrui, credettero, presero l’amo di larghe promesse, di poter sperare bene più dal Borbone che dal Re Galantuomo, essendo almeno quegli più ricco e più religioso di questi, come lor si è messi nel cervello17. 2. Dunque, il brigantaggio, oggi da considerare, anche alla luce delle più recenti acquisizioni storiografiche18, non già come un’unica problematica caratterizzante i primi anni di vita del Regno, bensì quale ben più articolato e complesso fenomeno da analizzare per fasi, a partire intanto dalla distinzione tra il prima e il dopo Legge n. 1409 del 15 agosto 186319. Ivi, pp. 94-95. Ivi, p. 5. 18 Domenico Sacco, Il brigantaggio post-unitario tra politica e storia, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, XXVI (2015), n. 51-52. 19 Marco Sagrestani, La questione meridionale nel dibattito parlamentare, in La prima emergenza dell’Italia unita, a cura di Gabriele Paolini, Firenze, Polistampa, 2014, p. 76. 16 17 ©UNICOPLI Ne derivava, in definitiva, l’idea, per i democratici di Basilicata, di un Risorgimento non concluso nel 1860/61, bensì ancora in corso nei primi anni post-unitari non solo in ragione della necessità del completamento dell’unificazione territoriale con Roma e Venezia, ma anche per via di una vera e propria “lotta politica” al brigantaggio. Si trattava, in particolare, di opporsi a specifici gruppi e ceti dirigenti locali che, preoccupati di perdere ruoli e funzioni di potere lungamente detenuti in provincia per fedeltà alla dinastia borbonica, con l’avanzare del “nuovo ordine di cose” armarono le bande brigantesche nell’intento di colpire quanti si adoperarono per il conseguimento dell’Unità. Fu, questa, una lucida operazione politica che, in parallelo con la negazione dei tratti politici del brigantaggio operata dalle rappresentanze nazionali, permise loro di guadagnare credito nei confronti del governo moderato che, dopo l’unificazione, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, guardò con crescente sospetto a coloro che, animati da cultura politica democratica, preferirono legarsi, in provincia, per il consolidamento dell’assetto istituzionale, a gruppi dirigenti maggiormente compatibili con il modello di Monarchia costituzionale di matrice sabauda. ©UNICOPLI 326 Alessandro Albano Questa, passata alla storia come “Legge Pica” in virtù del nome del suo promotore (il deputato abruzzese Giuseppe Pica), fu promulgata quale “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Province infette”, tra le quali fu annoverata, com’è noto, anche la provincia di Basilicata. Tale “provvedimento straordinario”, sospendendo temporaneamente alcuni dei princìpi cardine dello Statuto albertino, fu già oggetto di un acceso dibattito sia sulla stampa del tempo che nelle aule di Palazzo Carignano. L’approvazione della legge, infatti, promulgata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto, di fatto sospese “l’uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge” e, rimasta in vigore fino 31 dicembre 1865, previde, tra le pene, la “fucilazione”, i lavori forzati “a vita” ed il “domicilio coatto”, oltre che l’istituzione, per quanto concernente il “giudizio”, di specifici Tribunali militari20. Provvedimenti, questi, approvati dalla Camera del tempo non senza accese polemiche, eppure fortemente voluti anche da una non trascurabile parte delle rappresentanze meridionali allora presenti in Parlamento, tra le prime e più convinte nel chiedere con insistenza prima l’istituzione dello “stato d’assedio” delle province e, successivamente, un più deciso intervento della Guardia Nazionale. Posizioni, queste, ampiamente presenti anche in provincia, specialmente in Basilicata, dove era in quegli anni attivo, tra gli altri, il già citato “Corriere Lucano”, utile, tra l’altro, a meglio far cogliere non solo percezioni e rappresentazioni del fenomeno tra i contemporanei, bensì anche, come in parte già evidenziato, la sua portata ed incidenza nella Basilicata post-unitaria. Di qui, dunque, l’utilità di una rigorosa ricostruzione storica anche del dibattito pubblico e parlamentare del tempo, fondamentale per poter comprendere il contesto entro il quale maturò la Legge del 15 agosto 1863 e, soprattutto, le ragioni che portarono molti meridionali, anche parlamentari, non solo ad avallarla ma, addirittura, a spendersi convintamente per la sua approvazione. L’elaborazione della legge, in realtà, inizialmente prevista sulla base delle risultanze dalle Relazione Massari, fu, di fatto, soppiantata da una proposta di Legge presentata il 1 agosto 1863 dal deputato Pica. Questa, posta all’ordine del giorno su input governativo e contenente, tra le modalità di repressione del fenomeno, esclusivamente quelle “militari”, deliberatamente tralasciava quanto, invece, emerso dal lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta che, seppur in maniera marginale, significativamente evidenziava, tra l’altro, una diretta correlazione tra “questione” demaniale e sociale ed insorgenza del brigantaggio. Ne sarebbero derivati provvedimenti legislativi che, primariamente volti a combattere militarmente il fenomeno nel Mezzogiorno d’Italia, avrebbero contemplato anche un pur limitato contenuto sociale ed economico, dando, però, vita ad un iter parlamentare certamente più lungo ed articolato. Di qui, dunque, la decisione del governo di accelerare i tempi e, forte di una maggioranza solida, Roberto Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1980, p. 67. 20 Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 327 21 Antonino De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 101. 22 Ibidem. ©UNICOPLI ridurre al massimo una discussione parlamentare che, altrimenti, sarebbe andata certamente oltre la già programmata sospensione dei lavori della Camera, lasciando, di fatto, le province meridionali ancora sprovviste di un apparato legislativo utile a debellare il brigantaggio. Ad incidere significativamente su tale decisione governativa, però, al di là delle posizioni ufficiali desumibili dal dibattito parlamentare dell’agosto, fu senz’altro la percezione e rappresentazione di quanto nelle province meridionali stava accadendo. È possibile rilevare, infatti, sia dall’impianto della legge sia, più in generale, dalla decisa volontà governativa di negare ogni tratto “politico” al brigantaggio, come esso fosse essenzialmente considerato quale “espressione cronica di delinquenza comune”, da considerare necessariamente non già quale organizzata reazione al “nuovo stato di cose”, bensì come endemica “piaga” di un Mezzogiorno che ancora pagava lo scotto delle arcaiche modalità di governo borboniche21. In realtà, “azzerando ogni identità politica del campo avverso - ha scritto al riguardo De Francesco - per insistere sulla natura solo violenta e criminale degli insorti, si salvaguardava insomma lo spirito e la missione della nuova Italia, ma si scendeva anche lungo la china della generalizzazione e pur ascrivendo all’eredità borbonica la responsabilità della miseria morale nel Mezzogiorno si apriva la via a un indiscriminato giudizio di ripulsa nei riguardi del Sud da parte dell’opinione pubblica italiana”22. La legge, inizialmente approvata fino al 31 dicembre 1863, fu prorogata fino alla fine del 1865 e la discussione parlamentare che caratterizzò ogni sua modifica rappresentò utile occasione, per le opposizioni, di evidenziarne con forza abusi e storture. Pur divergendo sulle posizioni di fondo rispetto alla legge, infatti, le rappresentanze meridionali si mostrarono comunque compatte nell’evidenziarne le possibili “derive” e, soprattutto, l’utilizzo politico che sarebbe potuto derivare dall’indistinta “caccia al brigante”. Questa, infatti, perpetuata in un contesto sociale di riaccese conflittualità socio-politiche, fu utilizzata, in provincia, anche quale strumento di lotta politica, utile, in particolare, a marginalizzare ulteriormente soprattutto i radical-democratici che, pur protagonisti, nel Mezzogiorno d’Italia ed in Basilicata, del percorso per l’Unità d’Italia, vedevano ora sempre più ridursi gli spazi di rappresentanza istituzionale in favore di quanti - già protagonisti sotto il regime borbonico - erano maggiormente disponibili ad “abbracciare” il nuovo impianto istituzionale moderato. Significativo, al riguardo, un passaggio dell’intervento in aula del deputato campano Gennaro di San Donato, protagonista, insieme al Crispi, di duri attacchi al governo e, in particolare, all’impianto stesso di una legge che, sosteneva- 328 Alessandro Albano no, “sovvertiva lo stato di diritto” e minava alle fondamenta la stessa impalcatura statale di matrice liberale. ©UNICOPLI All’epoca della pubblicazione di tale legge vidi una emigrazione fortissima di persone oneste, di probissimi cittadini, di riconosciuti patrioti verso la capitale. Essi fuggivano (io non ne fo principale accusa all’onorevole ministro dell’interno; io parlo de’ suoi dipendenti), perché alla promulgazione di essa ogni sindaco, ogni capitano di guardia nazionale, ogni delegatello di pubblica sicurezza sì credette autorizzato a prendere una autorità ed un potere che non saprei qui bene denominare. Le gare nei piccoli comuni si risvegliarono e le antipatie assopite trovarono campo larghissimo a disfogarsi23. Non furono pochi, tuttavia, i deputati meridionali che, pur consci di tali “abusi”, non rinnegarono mai l’impianto di una legge da loro direttamente votata, convinti, in particolare, che dalla risoluta lotta al brigantaggio, configurato quale “strumento in mano alla reazione borbonica”, passasse il pieno conseguimento dell’Unità nazionale, “bene prezioso” da perseguire fortemente a qualunque costo, al pari della positiva risoluzione delle “questioni” di Roma e Venezia. Tra questi fu Ferdinando Petruccelli della Gattina, protagonista, dal 1861, di interventi incentrati sulla necessità della promulgazione di leggi speciali e, soprattutto, sull’istituzione, nelle province meridionali, dello “stato d’assedio”. Era, questo, per il Petruccelli, non già l’unico “rimedio” all’imperversare del brigantaggio ma, realisticamente, la sola strada da poter essere concretamente perseguita per l’irrobustimento delle strutture statali, minacciate, come ampiamente, sempre, sottolineato, dall’intricata trama di relazioni tra papato e filoborbonici di cui le insorgenze brigantesche erano diretta emanazione. Di qui, dunque, l’idea, per il Petruccelli, del brigantaggio post-unitario quale “perturbazione morale” prima ancora che “materiale”, caratterizzante, in particolare, le popolazioni meridionali. Queste, infatti, “abituate all’arbitrio” - evidenziava - non “credono nell’autorità” giacché “ciò che per voi è libertà, è diritto, è rispetto allo Statuto, per esse (non parlo della parte eletta del popolo), per esse è impotenza dell’autorità dello Stato”24. Ne derivava la necessità della promulgazione di “misure eccezionali”, da adottare, per il moliternese, anche a rischio di “possibili abusi” che, pur già perpetuati nelle province meridionali, rappresentavano comunque un aspetto di secondaria importanza rispetto all’urgenza brigantaggio che, come più volte sottolineato, era, per l’intero Regno, una tra le più impellenti urgenze. Significativamente, così si espresse, il Petruccelli, in difesa della legge “Pica”, da lui votata e, nei mesi successivi, strenuamente difesa in Aula: contro uomini che si sono messi fuori della legge è applicabile il beneficio della legge? Per delitti che escono dalla categoria dei delitti comuni è applicabile la sanzione della 23 24 A.P., Camera dei Deputati, Sessione del 1863, tornata del 1 agosto 1863, p. 1786. A.P., Camera dei Deputati, Sessione del 1863, tornata del 21 dicembre, p. 2513. Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 329 legge comune? Per fatti, tempi e circostanze straordinarie è possibile il regime dei tempi normali ed ordinari? La tutela serena dello Statuto è possibile dove l’organamento stesso della società è messo in pericolo o manomesso? (…) Io non parlo degli articoli della legge; emendateli, modificateli, aggiungetevi tutte quelle garanzie che volete per tutelare la libertà dei cittadini e la sincera esecuzione di essi, io mi associo a voi. lo parlo unicamente perché fosse consacrato e rispettato il principio delle misure eccezionali, onde fare scomparire questo esantema sociale che chiamasi brigantaggio25. Nello specifico delle “misure eccezionali” da adottare, poi, il Petruccelli si dichiarò a favore di interventi drastici, “severi” - come egli stesso dichiarò - certamente ben distanti sia dalle “mezze misure” proposte dal governo, sia dall’“indulgenza” paventata da alcuni altri deputati. Provvedimenti, tuttavia, da perseguire non per mezzo dell’esercito, bensì della “forza civile”, in particolare di volontari e truppe regolari quali i carabinieri. E ciò sia in ragione della necessità di un’attiva partecipazione alla difesa dell’Unità d’Italia da parte dei cittadini, utile, tra l’altro, come anche evidenziato dalle colonne del “Corriere Lucano”, per accreditare agli occhi del governo anche i radicali di Basilicata, sia anche per sgravare l’esercito nazionale nell’obiettivo del completamento del processo unitario con Roma e Venezia27. 25 26 27 Ivi, p. 2514. Ibidem. Ivi, p. 2515. ©UNICOPLI Ciò che io condanno in questa legge è la pena della fucilazione. La fucilazione è una pena nobile; la fucilazione è una pena di gentiluomini, di uomini politici, di militari. Caruso ed Emilio Bandiera non possono morire dello stesso modo. Il maresciallo Ney e Ninco Nanco non possono subire lo stesso supplizio. Io quindi domando che pei briganti sia applicata la pena di morte per le forche! E ciò non fosse che a causa di coloro i quali, per prima ragione di sostenere la pena di morte, mettono l’esempio. Figuratevi un brigante preso, giudicato in cinque minuti, condotto in un cortile e fucilato. Che ne resta dell’esempio? Un’esplosione e quella nuvoletta di bianco fumo che produsse. Ora, invece, considerate: un contadino si reca alla campagna con la risoluzione interna di nascondere la vanga sotto una siepe e tirarne il fucile; poi associarsi, se una bella occasione si presenta, alla prima banda che passa, rivelarle ciò che sa, portare ciò che gli confidano, partecipare ad un colpo, rendere un servigio, ricevere ad ogni modo una mercede o una parte del bottino. Ebbene, che questo contadino sì bene convertito dal curato vegga ai pali, vicino ai pali del telegrafo appeso il brigante giudicato ieri, che veda penzolare dagli alberi, dieci, venti... Oh! signori, siate certi che questo brigante in concetto ed in intenzione non soccomberà mai alla tentazione, rivelerà alla truppa ciò che sa26. 330 Alessandro Albano ©UNICOPLI Una “questione”, dunque, quella del brigantaggio post-unitario e, più in particolare, della legge volta a “debellarlo”, certamente complessa ed articolata, che richiede accurate, e non disinvolte, ricostruzioni e rappresentazioni e, soprattutto, da rapportare rigorosamente al contesto politico-istituzionale e sociale del tempo. Tale legge, infatti, fonte di accesi dibattiti già durante gli anni della sua approvazione ed operatività fu non casualmente voluta fortemente proprio da Sud, da parlamentari e patrioti, anche radical-democratici che, come il Petruccelli, ben consci delle possibili “derive” che questa avrebbe potuto produrre, testimoni diretti e spesso vittime del dispotismo borbonico, individuarono nella lotta ai briganti il prosieguo della battaglia politica per il pieno conseguimento dell’Unità d’Italia. Obiettivo, questo, sì raggiunto nel 1860/61, ma non ancora consolidato in ragione proprio dell’ancora attiva opposizione del “passato regime”. 3. Tra i principali caratteri del brigantaggio post-unitario in Basilicata, dunque, risulta, per i protagonisti del tempo, quello più propriamente “politico”; riconducibile, cioè, alla contrapposizione tra gli aderenti alla nuova forma-Stato nazionale sancita nel 1860/61 e coloro i quali, fedeli alla causa borbonica, si opposero all’Unità, anche e soprattutto attraverso l’utilizzo di gruppi briganteschi. Una “pratica”, questa, certamente non nuova per le province meridionali, avendo largamente caratterizzato l’azione restauratrice borbonica, al centro ed in periferia, soprattutto lungo gli “snodi” risorgimentali, a partire dal 1799, anno insieme “mirabilis” ed “horribilis”28. Del resto, sul brigantaggio post-unitario in Basilicata quale “questione” politica risultano ampi riferimenti anche in lavori degli anni immediatamente successivi all’Unità, tra i più significativi dei quali sono quelli di Giacomo Racioppi29, Enrico Pani Rossi30, Raffaele Riviello31 e Basilide Del Zio32. Studi, questi, peraltro non più condizionati dalle contingenze degli anni 1860-‘65 e, dunque, caratterizzati da riflessioni più articolate, all’interno delle quali, oltre all’elemento “politico”, furono progressivamente introdotte anche tematiche e problematiche di ordine socio-economico e politico-istituzionale, negli anni Cfr. Antonino De Francesco, 1799. Una storia d’Italia, Milano, Guerini, 2004; Antonio Lerra, L’albero e lacroce. Istituzioni e ceti dirigenti nella Basilicata del 1799, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004; Id., All’alba della nuova Italia. La Basilicata Napoleonica, Potenza, EditricErmes, 2012; Id., Dall’alba dellanuova Italia all’Unità. Per una “rilettura” degli snodi del Risorgimento in Basilicata, in “Bollettino Storico della Basilicata”, XXVII (2011), n. 27, pp. 7-18. 29 Giacomo Racioppi, Storia dei moti della Basilicata e delle province contermini nel 1860, Napoli, Tipografia Morelli, 1867. 30 Enrico Pani Rossi, La Basilicata. Studi politici, amministrativi e di economia politica, Verona, Civelli, 1868. 31 Raffaele Riviello, Cronaca potentina dal 1799 al 1882, Potenza, Tipografia Santanello, 1888. 32 Basilide Del Zio, Melfi, le agitazioni nel Melfese, il brigantaggio. Documenti e notizie, Melfi, Liccione, 1905. 28 Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 331 33 34 Giacomo Racioppi, Storia dei moti, cit., pp. 235-237. Ivi, pp. 238-239. ©UNICOPLI precedenti solo in parte analizzate. Venuta meno l’emergenza e scongiurato, soprattutto, il rischio di una nuova “restaurazione borbonica”, larga parte della classe dirigente, soprattutto provinciale, rifletté, infatti, in maniera più compiuta sulle cause scatenanti la “reazione” del 1860, di fatto aprendo la strada ad una stagione di studi e di ricerche di lunga durata. Elemento d’analisi comune alle riflessioni prodotte lungo la seconda metà del XIX secolo fu la considerazione del 1860 quale vero e proprio anno “spartiacque” tra due “epoche” differenti. Per Giacomo Racioppi, in particolare, il “nuovo ordine di cose” sancito dalla proclamazione dell’Unità assunse valore di svolta nella storia di Basilicata. E ciò in ragione, soprattutto, dell’adesione ad un regime, quale quello del Regno d’Italia, caratterizzato da una forma-Stato del tutto nuova per le province meridionali. E proprio a tale, epocale, mutamento politico-istituzionale, il Racioppi dedicò, non casualmente, la Storia dei moti, largamente caratterizzata anche da informazioni e considerazioni sul brigantaggio in Basilicata. Tra gli elementi più significativi analizzati è quello relativo alla composizione socio-professionale di quanti, già a partire dal 1860, erano stati protagonisti di azioni delinquenziali. Si trattava, per il Racioppi, di “sozza plebe variopinta”; di una cospicua parte di popolazione, cioè, che non aderì alla reazione dell’ottobre 1860 per motivi ideologici o politici, bensì per “impulso” e “paura”33. E ciò anche in relazione a quanto avvenne nel Lagonegrese, ove ebbe luogo la prima “sollevazione” provinciale, caratterizzata proprio dalle azioni di tale “plebe”coadiuvata da una parte di soldati del disciolto esercito borbonico. Tra le principali cause dei “cattivi umori” della popolazione, però, erano, per il Racioppi, non solo la propaganda borbonica, bensì anche e soprattutto le divisioni in “fazioni” contrapposte delle famiglie locali. Perno della riflessione sulle cause scatenanti del brigantaggio era, infatti, l’analisi degli “odi municipali”; caratterizzati, più in particolare, dall’azione diffamatoria di famiglie contrapposte che, interessate a mantenere ben saldi ruoli di potere lungamente esercitati, accusavano di “borbonismo” i propri nemici. Così alimentando, attraverso la riproposizione di “antiche gare e vecchi odi”, una generale situazione di tensione cui il governo, ancora privo di “ogni forza”, non riusciva ad opporsi con efficacia34. Ne derivava, dunque, per il Racioppi, una prima fase del brigantaggio di Basilicata essenzialmente caratterizzata da azioni delinquenziali, priva di intenti politici e per lo più riconducibile a vere e proprie “lotte municipali”. Di contro, rivendicazioni politiche sono, invece, riscontrabili, per il moliternese, a partire dall’arrivo, in Basilicata, del generale Borjès, che “tentò di trasformare il brigantaggio in guerra di partigiani, sommettendo alle leggi dell’onore i mariuoli e nobilitando i sicari di un politico intento”. Ma, poiché “gli elementi delle masse erano sostanzialmente putridi di sozzure e di marciume”, “il tentativo non riuscì” e, dopo il 1862, terza ed ultima fase, il fenomeno brigantesco tornò ©UNICOPLI 332 Alessandro Albano a connotarsi quale meramente delinquenziale, caratterizzato, più in particolare, dalle azioni di “grassatori e galeotti”35. Significativi, inoltre, nell’opera del Racioppi, risultano i riferimenti alla difficile condizione socio-economica delle popolazioni di Basilicata e, soprattutto, alla stretta interconnessione tra l’irrisolta “questione” demaniale e l’azione brigantesca. Agli evasi dalle galere, infatti, presto si unì la popolazione scontenta e, dopo il 1861, larga parte del disciolto esercito borbonico. Una situazione, questa, peraltro ulteriormente aggravata dalla mancanza di presidi militari efficacemente coordinati sul territorio, che, di contro, avrebbero potuto facilmente reprimere sul nascere, già all’indomani della proclamazione dell’Unità, i moti reazionari. Ma, come efficacemente sottolineato dal Racioppi, non “restava un gendarme, non un soldato; né alle autorità politiche erano sussidi di sorta”, e l’azione delle milizie cittadine e della Guardia Nazionale, spesso inefficaci, significativamente concorsero ad accrescere la portata delle azioni delinquenziali, limitate prima e sconfitte poi soltanto dall’azione dell’esercito. Eppure, in controtendenza con quanti si spesero, nelle aule parlamentari, per l’approvazione della legge “Pica”, il giudizio del Racioppi risulta particolarmente critico relativamente ai riflessi conseguenti le modalità d’azione varate a livello centrale. La legge, più in particolare, “gittò di còlta le napoletane province dalle guarentigie di un libero reggimento nell’arbitrio di un dispotismo accecato e furibondo; e per estirpare un flagello creò di altro genere flagelli”. Tra i più significativi limiti denunciati nell’opera era, infatti, quello di aver “elevato il sospetto in regola”, di fatto disattendendo i principi stessi del neonato Stato. Ulteriori elementi d’analisi furono introdotti, appena un anno dopo la pubblicazione dell’opera del Racioppi, da Enrico Pani Rossi. Il quale, come consigliere di prefettura prima e Sottoprefetto di Melfi poi, in Basilicata dal 1864, diede alle stampe La Basilicata. Libri Tre. Studi politici amministrativi e di economia politica. Un lavoro, questo, caratterizzato da moltissime informazioni e statistiche utili soprattutto per “ricostruire” ed analizzare la complessiva situazione della Basilicata all’alba dell’Unità, con particolare attenzione alle vicende del brigantaggio, alle cui principali cause e significativi riflessi risulta dedicato interamente il terzo libro. Particolarmente critico nei confronti della “Relazione Massari”, il Pani Rossi ne denunciava non solo la superficialità d’analisi, ma anche l’eccessiva celerità con cui fu condotta, con conseguenti risultanze, di metodo e di merito, certamente non sufficienti per cogliere l’origine del malessere alla base della “reazione” del 186036. In linea con alcune delle tematiche introdotte dal Racioppi, il Pani Rossi sviluppava il proprio ragionamento a partire dall’analisi delle responsabilità del passato governo borbonico, colpevole, secondo l’autore, di non aver saputo trasmettere un diffuso senso di giustizia tra le popolazioni, lungamente abbandonate alla povertà ed all’ignoranza. Tra i più significativi riflessi di tale condi35 36 Ivi, p. 247. Enrico Pani Rossi, La Basilicata. Studi, cit., p. 440. Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 333 37 38 39 Ivi, pp. 484-497. Raffaele Riviello, Cronaca potentina, cit., pp. 264-267. Ivi, p. 445. ©UNICOPLI zione era, non solo la miseria, ma anche un diffuso isolamento della maggior parte dei centri abitati e, più in generale, l’assenza di una complessiva rete di commercio con le province contermini. Peraltro, se la conformazione geografica della provincia non aveva consentito, nel tempo, la costituzione di più efficaci reti di scambi commerciali, i fitti boschi risultarono, di contro, assolutamente funzionali alle bande di briganti disseminate sul territorio. In tale quadro, altro aspetto analizzato risulta quello più propriamente politico e riconducibile, più in particolare, come per il Racioppi, agli “odi municipali”; all’utilizzo, cioè, di bande brigantesche per interessi di parte. Ne rinviene, dunque, per il Pani Rossi, un’analisi complessa ed articolata relativamente ad un fenomeno, quale quello del brigantaggio post-unitario in Basilicata, da ricondurre a cause di ben più lungo periodo rispetto ai rivolgimenti conseguenti i primi provvedimenti dell’Italia unita. A sostegno di ciò evidenziando la lunga durata del fenomeno che, con modalità del tutto simili a quelle post-unitarie, aveva largamente caratterizzato la Provincia già durante il corso del periodo borbonico37. Un elemento d’analisi, quello relativo alle cause “remote” del brigantaggio in Basilicata, ulteriormente sviluppato, nel 1888, dal canonico Raffaele Riviello nell’opera Cronaca potentina. All’interno della quale, la “questione” dell’adesione massiccia alle bande brigantesche risulta strettamente collegata con le diffuse delusioni conseguenti all’Unità e, più in particolare, le modalità di “costruzione” dell’Italia post-unitaria. Per il Riviello, infatti, la partecipazione lucana agli “snodi” risorgimentali era da ricondurre, prima ancora che a motivazioni ideologiche, ad un forte e diffuso desiderio di “riscatto sociale”. E ciò anche e soprattutto per la parte più povera della popolazione, persuasa ad aderire alla “rivoluzione” del 1860 per migliorare le proprie condizioni materiali, ma presto delusa in ragione di primi provvedimenti governativi di molto distanti dalle iniziali aspettative38. Relativamente all’analisi delle cause del brigantaggio, il Riviello, in linea con gli scritti del tempo, rilevava come “odii personali, attriti di classe, e soprattutto facili speranze prestamente deluse” significativamente concorsero ad alimentare la costituzione e diffusione delle bande brigantesche in Provincia39. Nel contempo sottolineando, però, la stretta interconnessione anche tra il diffuso “malessere sociale” di larga parte della popolazione ed i grandi “rivolgimenti politici”. Anche il brigantaggio, dunque, risultava caratterizzato, per il Riviello, da cause “remote” e “prossime” e, nel caso della “reazione” post-unitaria, sia dalla difficile condizione socio-economica della provincia che dalle contingenze conseguenti l’istituzione del Regno d’Italia. In tale quadro, tuttavia, non sarebbero mancati, all’indomani dell’Unità, ulteriori, più specifici, elementi di malcontento, quali, ad esempio, lo scioglimento 334 Alessandro Albano ©UNICOPLI dell’esercito garibaldino, la diffusa astensione della coscrizione obbligatoria e la soppressione di specifici ordini religiosi. Elementi, questi, sui quali tentò di far leva la propaganda filoborbonica, senza riuscire, però, a connotare la reazione di caratteri diffusamente “restauratori”, giacché, come significativamente sottolineato dal Riviello, “è fuor di dubbio che la plebe non si solleva per amore agl’interessi di un principe spodestato; ma rialza il cencio e la bandiera di costui per proprio conto e pel suo benessere”40. A fine secolo, nella sua densa ed articolata riflessione Eroi e briganti41, da rapportare, a sua volta, al suo più generale quadro d’analisi relativo ai rapporti Nord-Sud42, il lucano Francesco Saverio Nitti, attraverso lineari richiami di lungo periodo e conseguenti differenziazioni di contesti e, dunque, di motivazioni di base, così enucleava la sua lettura del brigantaggio: Nella storia del brigantaggio troviamo due forme distinte: i briganti comuni erano o delinquenti desiderosi di far fortuna e di sfogare i loro istinti, o poverissimi uomini spinti dalla fame e dalle ingiustizie a mettersi contro la società. Oltre di questo vi è stato un vero e proprio brigantaggio politico che, riunendo gli elementi che già v’erano, e rivolgendosi alle masse e svegliando istinti rivoluzionari, è stato sostegno della monarchia e da essa a volta a volta creato e distrutto.(…) Così Francesco II cercò di salvarsi nel 1860, impiegando la stessa politica che più di sessant’anni prima aveva salvata la corona del suo bisavolo. Egli e i suoi, prima di andar via gittarono in fiamme il reame. L’esercito disciolto, proprio come nel 1799, fu il nucleo del brigantaggio, come la Basilicata ne fu il gran campo di azione. Anche allora uomini di fede pura lasciarono la vita miseramente. I briganti entrarono nelle borgate e nelle città, ebbero i loro generali, i loro capi, i loro protettori, i loro sfruttatori; fu l’esplosione di tutti gli odii, fu il divampare di tutte le vendette43. 4. Nell’Italia repubblicana un caratterizzante spartiacque, sul piano delle letture storiografiche, è da ricondurre alle riflessioni prodotte in occasione delle celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia. Franco Molfese, in particolare, muovendo da una prevalente analisi di tipo socio-economico, avviò la “rilettura” del brigantaggio post-unitario come vera e propria “lotta di classe” tra contadini e proprietari44. E ciò a partire dall’analisi delle politiche operate dai primi governi post-unitari che di molto avrebbero concorso ad alimentare un diffuso malcontento socio-economico. Tra gli esempi portati a sostegno è, in particolare, la “politica di conciliazione” perpetuata, in provincia, in favore dei filoborbonici, nell’obiettivo, da parte di una classa dirigente niente affatto “nazionale”, di Ivi, p. 383. Cfr. Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, Venosa, Osanna, 2000. 42 Cfr. Id., Scritti sulla questione meridionale. Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896/97. Nord e Sud, a cura di Armando Saitta, Bari, Laterza, 1958; Antonio Lerra (a cura di), Nitti e il Mezzogiorno d’Italia, Quaderni di Storia, Deputazione di Storia Patria per la Lucania, Venosa, Osanna, 2009. 43 Francesco Saverio Nitti, Eroi e briganti, cit., pp. 47-48. 44 Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 98. 40 41 Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 335 45 46 47 48 Ivi, p. 337. Tommaso Pedio, Vita politica, cit., p. 67. Id., Brigantaggio meridionale (1806-1863), Lecce, Capone, pp. 47-49. Id., Vita politica, cit., p. 144. ©UNICOPLI portare a concretizzazione la centralizzazione dei poteri dello Stato ad esclusivo discapito del Mezzogiorno d’Italia, sulle cui popolazioni avrebbero gravato significativi carichi fiscali e provvedimenti fortemente repressivi quali, appunto, la Legge “Pica” del 186345. Tra i protagonisti di tale stagione di studi, in Basilicata, è stato Tommaso Pedio, studioso in forte sintonia con la lettura del Molfese, autore di varie pubblicazioni tese ad analizzare e configurare il fenomeno essenzialmente come “lotta di classe” tra contadini e grandi proprietari terrieri. In ciò facendo perno sulle diffuse aspettative, essenzialmente economiche, dei contadini di Basilicata, il Pedio ha rilevato, infatti, come queste furono, di fatto, deluse in ragione di politiche governative post-unitarie “sostanzialmente conservatrici ed incuranti” dei “bisogni e delle aspirazioni delle classi popolari”. Provvedimenti che – ha sottolineato Pedio – “non si preoccupano di cattivarsi l’animo delle popolazioni contadine alle quali sarebbe bastato il riconoscimento dei diritti sulle terre demaniali e la espropriazione e la quotizzazione di quelle usurpate”46. Ne è derivata, dunque, per lo studioso potentino, una “questione” prettamente socio-economica, analizzata attraverso categorie interpretative “adattate” ad una realtà, quale quella della Basilicata post-unitaria, essenzialmente caratterizzata dalla contrapposizione tra larghi strati di popolazione in condizioni di povertà assoluta e grandi proprietari terrieri, nel più generale quadro relativo alle forme di “costruzione” del nuovo Stato fortemente criticate per modalità attuative e relativi riflessi. Così come per il Molfese, infatti, ad alimentare, di fatto, l’insorgere delle bande brigantesche sarebbero state, per il Pedio, politiche fortemente “punitive” nei confronti proprio di quegli strati di popolazione che, più di altri, da tempo guardavano alla possibilità di risolvere la “questione” della terra, ma sui quali, di contro, all’indomani dell’Unità, gravarono esclusivamente leggi fortemente penalizzanti quali, soprattutto, la coscrizione obbligatoria47. Peraltro, la totale assenza, ad eccezione della breve parentesi riconducibile all’azione del Borjes, di rimostranze politiche rappresentava, per il Pedio, l’ulteriore conferma della natura di un fenomeno da rapportare essenzialmente a modalità di opposizione al nuovo Stato in forma delinquenziale48. Non tanto, dunque, l’utilizzo, in chiave politica, di bande di briganti nel quadro di contrapposizioni municipali, ma una vera e propria “guerra tra ricchi e poveri” presto risolta a discapito di questi ultimi, grazie all’appoggio di politiche centralistiche indistintamente repressive, esclusivamente finalizzate ad “annettere” al Regno d’Italia le province meridionali. Ne è derivata, dunque, per il Pedio, l’idea del brigantaggio post-unitarioquale “reazione alla politica ©UNICOPLI 336 Alessandro Albano piemontese”49 più incisivamente sviluppatosi nella provincia di Basilicata in ragione essenzialmente delle condizioni di assoluta povertà di larga parte della popolazione. Un complessivo impianto storiografico, questo, fortemente messo in discussione, nel metodo e nel merito, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento da numerosi storici, non solo meridionali. Si consideri, al riguardo, l’autorevole lettura di Giuseppe Galasso, che ha evidenziato, ad esempio, la necessità di contestualizzare il brigantaggio post-unitario in un quadro di ben più lungo periodo, sottolineando, al riguardo, come l’utilizzo in chiave politica di gruppi briganteschi fosse già stato ampiamente praticato, nel Mezzogiorno d’Italia, dall’aristocrazia napoletana contro l’espansione del potere centrale50. A contestare incisivamente l’interpretazione del brigantaggio post-unitario come “lotta contadina” è stato Raffaele Colapietra che, di contro, ha analizzato diffusamente il fenomeno come “guerra civile tra galantuomini”. E ciò nell’obiettivo dell’accreditamento, da parte di specifici gruppi di potere locali, nei confronti del nuovo Stato in “costruzione”51. Una dimensione, questa, ancora oggi al centro del dibattito storiografico, con particolare attenzione al più generale quadro di studi e di ricerche sulla “rilettura”del percorso di “costruzione” dell’Unità d’Italia da Sud. Rispetto al quale, il brigantaggio post-unitario rappresenterebbe “l’ultimo atto di una storia di rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre civili, cominciato nel 1799 e indissolubilmente intrecciato con il processo di creazione di istituzioni liberali e di uno Stato nazione”52. Su tali linee, ulteriori, recenti, sviluppi e contributi di analisi, quale quello di Carmine Pinto53, hanno riconfigurato, anche per la Basilicata54, il brigantaggio post-unitario come “questione” politica. A tale riconfigurato quadro di “riletture”, che, tra l’altro, riconduce alla necessità di tenere debitamente conto anche dei differenti contesti provinciali, in particolare in rapporto ai loro specifici apporti ai percorsi di “costruzione” dell’Unità d’Italia, sono da rapportare le risultanze dell’ampio ed articolato cantiere di ricerca in corso relativamente all’allora provincia di Basilicata55. Ivi, p. 99. Giuseppe Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del sud, in “Archivio Storico per la Province Meridionali”, XXII (1983), p. 13. 51 Raffaele Colapietra, Il brigantaggio post-unitario in Abruzzo, Molise, Capitanata, nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1983, pp. 289-293. 52 Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia, a cura di Walter Barberis, Torino, Einaudi, 2002, p. 495. 53 Cfr. Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti (18601870), Roma-Bari, Laterza, 2019. 54 Cfr. Paolo Conte, Per una rilettura politica del brigantaggio, cit. 55 Antonio Lerra, Dalla “primavera dei popoli” alla “costruzione” dello Stato unitario: idealità e azione politica delle classi dirigenti, in La Basilicata per l’Unità d’Italia. Cultura 49 50 Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata 337 e pratica politico-istituzionale (1848-1876), a cura di Antonio Lerra, Milano, Guerini e Associati, 2014, pp. 27-38. 56 Cfr. nota 6. 57 Cfr. Antonio Lerra (a cura di), L’associazionismo politico nel Mezzogiorno di fine Settecento. Cultura e pratica politica, Manduria, Lacaita, 2015. 58 Sul versante delle istituzioni ecclesiastiche, si consideri in particolare l’incidenza delle chiese “ricettizie” e relativo clero secolare largamente caratterizzanti le aree interne del Mezzogiorno d’Italia e, soprattutto, la Basilicata. Cfr. Id., Chiesa e società, cit. ©UNICOPLI Una provincia, questa, che per prima tra quelle meridionali proclamò, nel suo capoluogo Potenza, l’Unità d’Italia il 18 agosto del 186056. E ciò quale risultante di progettualità ed azioni politiche di una solida rete patriottica già attiva, in Basilicata, da fine Settecento57. Un dato, questo, di particolare valenza, che concorre a meglio far cogliere aspetti non secondari di configurazione della stessa “questione” brigantaggio nella Basilicata post-unitaria, nel più generale quadro del ruolo svolto da ceti e gruppi dirigenti lungo il percorso di “costruzione” dell’Unità e, dopo il 1860/61, della sua strenue difesa. Una difesa che passava anche e soprattutto dalla risoluta opposizione alle insorgenze legittimiste, in Basilicata particolarmente incisive non solo per le locali, precarie, condizioni socio-economiche, ma anche e soprattutto per la concomitanza di rilevanti interessi di alcuni grandi proprietari ed una parte, non certo marginale, del locale, peculiare, clero, che pur era stato in larga parte in prima fila nel corso degli “snodi” del percorso di “costruzione” dell’Unità. E ciò in ragione, da entrambi i versanti, di forti preoccupazioni, in particolare rispetto alla perdita di prerogative e significativi privilegi lungamente detenuti58. Una “questione”, dunque, quella del brigantaggio post-unitario da ricondurre, senza schemi precostituiti ed ideologizzati, all’articolato contesto del tempo ed alla varietà delle sue connotazioni ed espressioni, con particolare attenzione alla dimensione politica, rispetto al pre ed al post Unità d’Italia. ©UNICOPLI NARRAZIONI, DISCORSO PUBBLICO E STUDI STORICI SUL BRIGANTAGGIO IN CALABRIA Giuseppe Ferraro 1 Tra i tanti cfr. <http://www.calabriaonline.com/col/lacalabria/regione/brigantaggio.php>; <https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=39021&lang=enUn>; <https://www.youtube.com/watch?v=Zq9642OARWA> (consultati il 20 giugno 2019). 2 Secondo alcuni studi il brigantaggio condizionò in maniera negativa il complesso delle economie locali, cfr. P. Ciocca, Brigantaggio ed economia nel Mezzogiorno d’Italia, 18601870, in «Rivista di Storia Economica», XXIX, 1, aprile 2013, pp. 3-30. 3 Cfr. il romanzo di P. Curcio, Ciccilla. La storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva, Cosenza, Pellegrini, 2010, provvisto anche di una ricostruzione storica basata su fonti archivistiche. ©UNICOPLI Negli ultimi venticinque anni il tema del brigantaggio in Calabria, soprattutto per quanto riguarda il periodo postunitario, è stato oggetto di una rilevante attenzione da parte dell’opinione pubblica. Tutto questo è stato favorito da canali di informazione e comunicazione come il web, le canzoni, le rappresentazioni teatrali, le manifestazioni folkloristiche, le sagre e i festival legati al tema1. Questa narrazione del brigantaggio ha trovato canali di divulgazione anche più istituzionali in amministrazioni comunali, associazioni culturali, movimenti politici e scuole. In Calabria infatti non sono state poche le iniziative promosse per fare “luce” su una storia del Risorgimento e del brigantaggio negata, sul “genocidio” subito dalla popolazione meridionale da parte del neonato Stato italiano, sullo “scippo” delle risorse del Sud a favore del Nord dal 1861 in poi2. Senza voler fare un’analisi approfondita su come si è diffusa – e su cosa ha diffuso – in Calabria questa narrazione, possiamo osservare che, soprattutto sul web, spopolano profili di briganti, di brigantesse e dei loro repressori, storie di violenze operate dall’esercito italiano con il favore delle aristocrazie e borghesie locali filo-italiane3. Da questa quantità di dati, fonti e informazioni, non è scaturita però, una qualità di analisi e di interpretazioni sulle diverse questioni che il tema merita. Si tratta infatti, nella maggior parte dei casi, di notizie pubblicate a livello amatoriale, senza nessun filtro interpretativo o atteggiamento storico-critico, dove viene solo evidenziato il dato quantitativo, isolando, il più delle volte, le questioni dal contesto storico specifico. A livello storiografico invece il brigantaggio post-unitario in Calabria non ha goduto della stessa attenzione per lungo tempo: forse anche per questo negli ul- ©UNICOPLI 340 Giuseppe Ferraro timi anni si è generato l’effetto sopra sintetizzato per grandi linee. La differenza emerge più evidente comparandola con lo stato degli studi sul brigantaggio della fine del XVIII secolo e del Decennio francese, dove il panorama bibliografico è più affollato. Il tema del brigantaggio postunitario, nella storiografia regionale, di solito è stato trattato in opere più generali sulla storia della Calabria nell’Ottocento4, oppure lasciato all’attenzione di appassionati e cultori di storia in senso lato. Infatti se a livello di una storiografia, che per semplicità chiamerò “più scientifica”, i lavori su questi temi risultano non essere molti, nel caso di studi e ricerche “amatoriali”-“locali”, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, si è assistito ad un pullulare di storie sul brigantaggio e di briganti, magari inserite in testi che riguardavano la storia di singoli paesi. In molte di queste opere (anche romanzi) la lettura del fenomeno del brigantaggio e del processo di unificazione nazionale è schiacciata su tesi revisioniste oppure tendenti a giustificare l’operato dei briganti, interpretato come una reazione estrema alle ingiustizie subite dalle classi sociali subalterne sia con i Borbone che successivamente con lo Stato italiano5. Alcuni di questi studi “amatoriali” non sono però lavori storici di minore qualità, spesso hanno avuto il merito di studiare fonti inedite conservate in archivi pubblici, diocesani e privati locali, di suscitare dibattiti e attenzione sul tema (ma hanno avuto anche il limite di un’eccessiva eterogeneità). Si tratta di una rilevante quantità di materiali, di cui è difficile fare un resoconto dettagliato per l’impossibilità di reperirli nelle biblioteche o nei cataloghi on line, molti non sono nemmeno dotati di ISBN. La maggior parte di questi lavori, inoltre, non ha avuto la capacità di inquadrare il fenomeno in problematiche più generali, che avrebbero permesso di chiarire meglio anche le questioni territoriali e di mettere al centro della propria analisi il tema del conflitto civile meridionale. Nelle pagine che seguono cercherò di concentrare particolare attenzione nei confronti di quei testi che hanno costruito una narrazione del brigantaggio in Calabria tra Ottocento e Novecento. Soprattutto ho cercato di analizzare i principali filoni storiografici che hanno caratterizzato il panorama degli studi regionali offrendo risultati innovativi e costituendo, spesso, la premessa per nuove Per alcuni esempi cfr. M.G. Chiodo, La Calabria dall’Unità al fascismo, in Storia del Mezzogiorno. Regioni e province nell’Unità d’Italia, a cura di G. Galasso, R. Romeo,vol. XV, tomo I, Roma, Editalia, 1990, pp. 297-213.; G. Cingari, Storia della Calabria dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1982; Id., Brigantaggio, proprietari e contadini nel sud (1799-1900), Reggio Calabria, Editori meridionali riuniti, 1976; oppure in opere più generali, ma con molti riferimenti alla situazione in Calabria: F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi, Roma, Donzelli, 2005; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione (18601861), Napoli, S.E.N., 1981; Id., Il Mezzogiorno nell’Italia unita (1861-1865), Napoli, S.E.N., 1979; Id., Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’Unificazione (1860-61), Milano, Giuffrè, 1960; C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 18601870, Roma-Bari, Laterza, 2019. 5 Ad esempio: G. De Capua, Longobucco dalle origini al tempo presente, Cosenza, Fasano, 1982, p. 237. 4 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 341 ricerche. Lavori storiografici che hanno evidenziato le strette connessioni tra brigantaggio, questione demaniale e conflitto interno meridionale di lungo periodo6. In questo contesto la riflessione ha riguardato anche quelle opere che hanno raccontato e narrato il brigantaggio in contemporanea allo svolgersi degli eventi, come ad esempio, «Il Bruzio» di Padula. Il libro-giornale: «Il Bruzio» 6 Cfr. E. Ciconte, Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011. 7 Sulle opere di Padula esiste ormai una produzione bibliografica abbastanza consistente. Sui temi affrontati nel testo rimando a V. Padula, Cronache del brigantaggio in Calabria (1864-’65), a cura di A. Piromalli e D. Scarfoglio, Napoli, Athena, 1974, p. XIV; Il Bruzio. Giornale politico-letterario, diretto da Vincenzo Padula, ristampa anastatica, a cura di G. Galasso, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011. 8 Così sosteneva Padula nella dedica all’ex prefetto Guicciardi che accompagnava la prima ristampa de «Il Bruzio» nel 1878. 9 Il Bruzio. Giornale politico letterario di Vincenzo Padula da Acri, vol. I, Napoli, Tipografia dei Fratelli Testa, 1878, p. 8. ©UNICOPLI Le opere di Vincenzo Padula, prima dell’avvento di studi e ricerche sul brigantaggio postunitario, rimasero una delle principali narrazioni del fenomeno in Calabria. Anche se non si trattava di un lavoro storiografico vero e proprio Padula offriva dalle pagine de «Il Bruzio» analisi e interpretazioni sul brigantaggio che influenzeranno gli studi successivi. L’opera di Padula per molti aspetti rappresentava il primo tassello di queste narrazioni. «Il Bruzio» venne fondato da Padula nel 1864, il primo numero venne pubblicato il 1° marzo di quell’anno e cessò la sua attività il 28 luglio 18657. Il redattore dell’intero giornale era lo stesso Padula. Sin da subito il giornale manifestò una linea filoitaliana, «patriottica» e militante, di appoggio e sostegno all’opera di riforma del neonato Stato in periferia e del prefetto della provincia di Cosenza Enrico Guicciardi8. La chiara collocazione del giornale tra i sostenitori del processo di unificazione non impedì però a Padula di criticare quelle scelte e azioni governative ritenute dannose per la popolazione calabrese, come chiariva nel Manifesto programmatico del giornale9. I temi affrontati dalle pagine de «Il Bruzio» erano tra i più vari, con particolare attenzione alla dimensione culturale ed etnografica della Calabria del tempo. Gli scopi principali di Padula sembravano essere quelli di raccontare, attraverso questo giornale, la Calabria, in particolare la provincia di Cosenza, nei primi anni dell’unificazione italiana, denunciare i suoi problemi sociali e economici, offrire analisi storiche, politiche e culturali, elaborare proposte e suggerimenti per l’azione del governo. Sulle colonne del giornale non mancavano nemmeno la cronaca, le notizie locali, la letteratura popolare, utili anch’esse a racconta- ©UNICOPLI 342 Giuseppe Ferraro re il territorio10. La dimensione e il radicamento maggiormente provinciale del giornale non impedirono a Padula di prestare attenzione anche alle vicende nazionali e internazionali, due filoni che risultavano nel giornale «strettamente congiunti»11. Un tema dominante nelle pagine de «Il Bruzio» fu proprio quello relativo al brigantaggio. Il fenomeno veniva narrato tenendo presente non solo la dimensione territoriale. Padula infatti dimostrava di conoscere analisi e discussioni sul brigantaggio che venivano pubblicate sui giornali nazionali dell’epoca e in altri testi. Gli articoli de «Il Bruzio» su questo tema erano per molti aspetti l’unica indagine storico-sociale sul brigantaggio in Calabria, apparsa in contemporanea all’inasprirsi del fenomeno. Il lavoro di Padula poteva essere assimilato, per molti suoi aspetti, alle inchieste parlamentari sulle condizioni delle province meridionali, volute dal governo italiano, all’indomani dell’unificazione. Sembrava, anzi, colmare una lacuna non secondaria, visto che la commissione Massari, per questioni di tempo, aveva deciso di non procedere con la sua inchiesta in Calabria, ritenendo il brigantaggio in questo territorio secondario. La narrazione del brigantaggio fatta da «Il Bruzio» si segnalava, inoltre, per la prima volta o quanto meno mai prima di allora con la stessa modalità di divulgazione, ad un pubblico più vasto non solo locale, ma anche nazionale, come dimostrava la tendenza da parte di Padula di inviare il giornale a varie personalità dell’epoca (non solo italiane). Per questo il giornale di Padula e la sua indagine-cronaca sul fenomeno, rimangono, ancora oggi, una fonte eccezionale, poco valorizzata, anche da chi, come i sostenitori del neoborbonismo, mettono l’accento sul fatto che la storia del brigantaggio è stata quasi sempre scritta dagli “altri”. Lo stesso Padula definirà il giornale un vero e proprio «libro» pubblicato a puntate: «Il Bruzio, come venne fuori da principio, non era un giornale, ma un libro, perché (impresa non comune) scritto da me per intero»12. Sulle pagine de «Il Bruzio» Padula pubblicava notizie e considerazioni sul fenomeno: biografie di briganti, la formazione delle bande, gli arresti e le uccisioni; spiegava i rapporti tra il brigantaggio e le classi popolari, ma soprattutto con il mondo dei “signori”; forniva resoconti sul malgoverno delle amministrazioni locali, sull’immoralità delle guardie urbane e delle loro connivenze con le bande, sulle modalità di repressione e i disagi dell’esercito nel gestire l’ordine pubblico13. Bisogna precisare che la lettura di Padula del brigantaggio era, però, influenzata anche dal suo essere ancorato all’interno del partito unitario, per essere stato vittima diretta delle persecuzioni borboniche, delle logiche di potere e corruzione locale. Nel 1848 aveva perso il fratello, Giacomo, che era intervenuto per difenderlo dall’aggressione dei guardiani dei proprietari terrieri, per aver 10 Cfr. V. Padula, Persone in Calabria, a cura di C. Muscetta, Roma, Edizioni Ateneo, 19672. 11 G. Galasso, Padula: «Il Bruzio», in Id, Il Bruzio. Giornale politico-letterario, cit., p. 11. 12 In questa sede faccio riferimento alla ristampa del 1878. 13 Sulle pagine de «Il Bruzio», Padula faceva notare le connivenze e i contatti che i briganti avevano con le amministrazioni pubbliche e gli ambienti anche giudiziari, «Il Bruzio», 25 maggio 1865, a. II, n. 16. Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 343 14 Per una visione più ampia, cfr. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., in particolare pp. 37-134. 15 «Il Bruzio», 15 giugno 1865, a. II, n. 19. 16 Ivi, 17 dicembre 1864, a. I, n. 71. 17 Padula, Cronache del brigantaggio, cit., p. XXIX. 18 «Il Bruzio», 10 agosto 1864, a. I, n. 47. 19 Ivi, 17 agosto 1864, a. I, n. 48. ©UNICOPLI incitato i contadini poveri ad occupare le terre. Era, inoltre, evidente la tendenza da parte di Padula ad accentuare in molte circostanze la dimensione politica del brigantaggio (borbonica-reazionaria) in chiave antiborbonica, che, seppur presente, non fu la principale componente del fenomeno14. La narrazione di Padula finì anche col diventare terreno di scontro, non solo per quanto riguardava la questione della repressione e della guerra civile, ma anche a livello più teorico-intellettuale. L’analisi del fenomeno e la sua interpretazione erano da collegarsi anche alla conflittualità tra le varie fazioni politiche, sociali, umane e culturali locali, ognuna intenta a strumentalizzare il brigantaggio a proprio vantaggio. Nel brigantaggio, infatti, si combattevano varie guerre, tra cui una tutta interna alle famiglie locali, che si contendevano il potere sul territorio. Per questo notava Padula: «In tutti i paesi di Calabria esistono livori tra famiglie e famiglie, e l’una cerca d’impoverire e distruggere l’altra; e per raggiungere questo scopo infernale si valgono dei briganti»15. Le notizie sul brigantaggio che venivano inviate a «Il Bruzio» erano, in certi casi, rimodulate da Padula, per rispondere ad esigenze del momento. La realtà dei fatti era, alcune volte, travisata, rimodulata, resa verosimile da Padula, per dare spazio a determinati messaggi politici, pedagogici e morali per exempla. Il giornale, sottolineava lo stesso Padula, aveva un «suo modo bizzarro di dire le cose più semplici», prestando poca attenzione ai riscontri oggettivi e alla verifica delle notizie16. Il materiale che giungeva all’attenzione di Padula, prima di essere pubblicato, veniva infatti «più o meno profondamente elaborato secondo le esigenze, politiche e letterarie, del direttore del giornale, cui spettava il compito difficile di mediare, interpretare, diluire, condensare»17. Però Padula non mancava, soprattutto per quanto riguardava la cronaca del brigantaggio, di avvisare i lettori di eventuali errori, di fatti che erano stati dati per certi ma poi si erano rilevati errati. I briganti, inoltre, sulle colonne del giornale cominciavano a non essere più una massa indistinta di persone, ma uscivano dall’anonimato grazie alle piccole biografie, alle storie e alle cronache delle loro imprese brigantesche. Venivano descritti da Padula nelle loro caratteristiche somatiche e fisiche, ma si evidenziava anche la loro intelligenza e ingegno. Il brigante Jannuzzi, nativo di San Donato di Ninea, veniva descritto, ad esempio: zoppo, brutto, di abbietta figura, d’indole crudele e munito di «astutissimo ingegno»18; mentre Pietro Bianco era dipinto invece come «fiero, il più risoluto, il più intelligente»19. Lo stesso giornale veniva intercettato dai briganti per leggere le descrizioni che Padula faceva di loro, tanto da diventare un interlocutore valido a cui affidare messaggi, minacce, ©UNICOPLI 344 Giuseppe Ferraro comunicazioni da far recapitare alle autorità o alla popolazione. Una di queste lettere venne indirizzata proprio dal brigante Pietro Bianco a Padula: «Con che commozione non l’abbiamo letta! [scriveva Padula] Pietro Bianco, che, deposta la carabina, ci dice da dietro i pini della Sila: ‘Bruzio, io fido in voi, perché siete un uomo onesto, e la ‘cantate chiara’ a tutti’, Pietro Bianco ci dà una lode che noi preferimmo a quella di Socrate e di Dante, se Dante e Socrate potessero risorgere»20. Anche se Padula non aveva nessuna affinità o empatia per gli uomini e le donne che componevano il brigantaggio, si lasciò in alcuni casi attrarre e sedurre dalle loro imprese e avventure, lotte e azioni violente, gesti di umanità e drammi personali, come dimostravano i protagonisti di l’Antonello e Valentino21, ma anche alcuni articoli de «Il Bruzio». I briganti sembravano aver capito l’importanza della comunicazione giornalistica attraverso la quale presentarsi al vasto pubblico22. Sulle pagine del giornale avevano la possibilità di descriversi, narrare le proprie imprese, i vincoli di fraternità tra i componenti della banda, incutere timore verso i traditori; ma anche fornire un’immagine di eroe “povero”, che si era fatto brigante per la miseria e le ingiustizie subite, pronto ad essere generoso verso i sostenitori; cercavano di far percepire all’opinione pubblica che le bande avevano un controllo ampio sulla società: infatti nulla, scrivevano, sfuggiva ai loro occhi23. Attraverso le pagine de «Il Bruzio», inoltre, alcuni briganti fecero sentire la propria voce per ottenere dalle autorità condizioni favorevoli in vista di una loro volontaria cattura o resa. In queste circostanze Padula, però, cercava di non dare al brigante la dimensione dell’eroe, del guerrigliero, anche se gli riconosceva doti umane, competenze militari e capacità di organizzazione. Rimarcava nel racconto soprattutto le caratteristiche delinquenziali del fenomeno. Faceva emergere dalla sua narrazione anche i tradimenti che i briganti operavano tra di loro in cambio di soldi, proprio per renderli eroi dimidiati, senza ideali. E, quando si poneva in loro ascolto, magari per agevolare una resa, emergevano nell'autore il suo essere sacerdote e la costruzione di un discorso improntato al pietismo e alla morale cristiana. Non tutti i briganti erano gli stessi agli occhi e alla penna di Padula. Evidenziava come nelle bande esistessero gerarchie interne, non date tanto dalla forza materiale e dalla crudeltà delle azioni, ma dall’intelligenza, dalle capacità orga- Ibid. Attraverso questo dramma, pubblicato sul giornale e poi in un volume unico presso Migliaccio (Cosenza 1864), Padula forniva un’accentuazione romantica del brigante. 22 Le lettere, i comunicati e i manifesti che le bande facevano affiggere nelle piazze erano soliti denunciare, ad esempio, le ambiguità e le connivenze delle autorità pubbliche con il brigantaggio in cambio di guadagni economici, oppure minacciare la popolazione o discolparsi da alcune accuse, per alcuni cfr. M. De Bonis, Bandi e manifesti sul brigantaggio nella Calabria dell’Ottocento, Cosenza, Periferia, 1988. 23 Cfr. la lettera del brigante Palma, pubblicata su «Il Bruzio», 11 maggio 1865, a. II, n. 14. 20 21 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 345 24 Nonostante Padula appartenesse allo schieramento unitario si differenziava, spesso, dalla retorica e dal discorso pubblico degli italiani, che delegittimava i briganti per il loro aspetto fisico, viltà e ferocia. Su questo tema cfr. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., p. 210. 25 «Il Bruzio», 4 gennaio 1865, a. I, n. 76. 26 Mi limito a segnalare P. De Luna, Donne in guerra: il brigantaggio femminile postunitario, in «Quaderni di antropologia e scienze umane», a. II, n. I, 2014, pp. 49-78; Ead, La storia negata: ritratti di donne alla macchia, Napoli, Guida, 2017. 27 «Il Bruzio», 5 marzo 1864, a. I, n. 2. 28 Ibid. 29 Ibid. ©UNICOPLI nizzative, dalle competenze militari di ognuno di loro24: «È ‘l giorno 2 sulle sette e mezzo Bellusci e Pinnolo [o Pinnola, NdA] furono fucilati. Bellusci avea più sentimento d’uomo; Pinnolo era un bruto. Bellusci era stato soldato borbonico e possedeva una certa educazione. Finanche nelle carceri, pel poco tempo che vi ebbe a dimorare, serbò autorità sopra Pinnolo. Chiedeva che gli facesse il letto, che gli accendesse il sigaro, che gli si cavassero gli stivali, e Pinnolo ubbidiva»25. La narrazione del brigantaggio fatta da Padula non era tutta al maschile. Tra le colonne de «Il Bruzio» trovarono posto anche le storie di alcune donne attive all’interno delle bande. Spesso i briganti abbandonavano le proprie mogli per legarsi ad una o più donne chiamate drude. Alcune seguivano i briganti volontariamente, altre venivano invece rapite, ma quasi mai facevano ritorno nelle proprie comunità, per evitare meccanismi di esclusione sociale. Queste donne avevano un ruolo attivo all’interno delle bande, seguivano i briganti nelle operazioni, convivevano con loro, condividevano costumi e atteggiamenti; oppure assicuravano aiuto logistico e materiale26. Le donne che invece erano legate ai briganti da vincoli famigliari subivano persecuzioni da parte delle autorità, venivano imprigionate oppure, per evitare la morte o il carcere, dovevano aiutare la truppa ad arrestare i propri congiunti. Nell’analisi del brigantaggio Padula metteva in rilievo anche che il fenomeno aveva antiche origini: «Chi ricorda come sotto i Borboni non due o tre anni, ma lustri interi osteggiassero la società le bande di Vis-Vis, di Giosafatte Talarico, e di mille altri»27. Il fenomeno, evidenziava, trovava un retroterra favorevole nell’arretratezza economica e sociale del territorio, nell’immoralità delle istituzioni amministrative, nell’analfabetismo: rilevanti erano «la miseria e l’ignoranza le quali creano i briganti»28. I briganti, sosteneva Padula sul giornale, non esistevano «quando le autorità sono incorruttibili, e si spaventano i manutengoli», perché talvolta un manutengolo poteva essere «addirittura un sindaco, un “ladro in giamberga”»29. Dalle pagine del giornale offriva una interpretazione in chiave di conflitto sociale del fenomeno, ma molto più complessa rispetto alla sola dicotomia contadini-signori, cogliendo anche il nesso brigantaggio e questione demaniale. Non vi era dubbio, sottolineava Padula nella sua analisi, che parte dei briganti si era data alla macchia per vendicarsi dei soprusi e delle angherie subite, per ©UNICOPLI 346 Giuseppe Ferraro mettere in discussione i rapporti sociali tra contadini e signori della terra. Ma era anche chiaro, denunciava Padula, che dietro il fenomeno del brigantaggio si nascondevano manutengoli che appartenevano alle classi agiate e non a quelle popolari, che utilizzavano il fenomeno per rafforzare le proprie posizioni, favorire la reazione borbonica, portare avanti lotte intestine tra gruppi di potere locali30. Infatti, sottolineava Padula, utilizzavano le bande dei briganti come braccio armato contro i contadini per consolidare a loro favore i rapporti di intermediazione, per difendere la propria egemonia sociale, economica e politica sul territorio per bloccare l’azione riformatrice dello Stato unitario in periferia, anche sul punto delle usurpazioni demaniali. I ceti dominanti, scriveva Padula, «usureggiando, rubando e furfanteggiando» avevano alimentato e indotto molti al brigantaggio. Proprio lo scioglimento delle questioni demaniali aveva incontrato le resistenze dei signori della terra pronti a far valere le loro ragioni politiche, sia a livello locale che nazionale. Questo legame tra briganti e galantuomini non era sfuggito, evidenziava Padula, a tutte le autorità, come nel caso di Pietro Fumel, comandante della guardia nazionale: «che riconobbe i veri manutengoli non sotto la casacca, ma sotto il soprabito. I nostri paesi, qual più qual meno, hanno dei signori (volgarmente detti galantuomini), la cui crescente fortuna è un mistero; che spendono e spandono, che vivono in ozio, e ‘l cui borsellino per opera e virtù dello Spirito Santo sta sempre pieno»31. Ma non tutti i manutengoli, chiariva anche Padula, erano tali per puro interesse, alcuni lo erano per non subire le ritorsioni e le vendette dei briganti32. Le classi contadine, secondo Padula, avevano anche le loro responsabilità nella diffusione del fenomeno e, per paura e convenienza, offrivano ai briganti il loro sostegno e protezione: «Vi hanno briganti quando il popolo non li aiuta, quando si ruba per vivere, e morire con la pancia piena; e vi ha brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo, allorquando lo aiuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Or noi siamo nella condizione del Brigantaggio»33. Ceti sociali subalterni che cercavano, sottolineava «Il Bruzio», attraverso il sostegno che fornivano ai briganti, di migliorare le condizioni di disagio in cui vivevano34. Non si trattava, da parte di Padula, di una deterministica condanna del popolo per l’aiuto che forniva ai briganti, ma del tentativo di spiegare i reali motivi di questo sostegno che scaturiva dall’ignoranza, dalla paura, dall’arretratezza economica e sociale che aveva i suoi responsabili anche nelle classi agiate. Indicative in tal senso erano le analisi per quanto riguardava Acri, suo paese di 30 Sulle classi dirigenti calabresi postunitarie cfr. V. Cappelli, Politica e politici, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Torino, Einaudi, 1985, pp. 495-500. 31 «Il Bruzio», 5 marzo 1864 a. I, n. 2. 32 Ivi, 31 agosto 1864, a. I, n. 52. 33 Ivi, 6 agosto 1864, a. I, n. 46. 34 Ivi, 27 luglio1864, a. I, n. 43. Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 347 origine. Egli presentava a tinte negative questa popolazione, ma chiariva l’origine di questo degrado: «il popolo vi è barbaro, maligno, e feroce, privo ch’egli è dell’educazione religiosa e dell’educazione civile. Non ha la prima, perché il numeroso suo clero non pensò mai a dargliela, ed i parochi o furono rape, o intesi soltanto a far denaro; e non ha la seconda perché disgraziatamente i galantuomini tutt’altro gli diedero che esempi di moralità»35. La Legge Pica, secondo Padula, non era riuscita ad individuare e comprendere, fino in fondo, le cause che portavano le classi sociali subalterne ad essere spesso indicate come sostenitrici naturali delle bande dei briganti: Il sostegno, passivo o attivo, costretto o per scelta, che il popolo forniva alle bande dei briganti era dovuto anche, secondo Padula, al tradimento delle speranze che, soprattutto i contadini, avevano riversato prima su Giuseppe Garibaldi e poi Vittorio Emanuele II, per lo scioglimento delle questioni demaniali. Garibaldi, infatti, nel settembre del 1860 da Rogliano aveva annunciato di promuovere la riforma agraria per arrivare alla spartizione delle terre: «Il brigantaggio imbaldanzito dice al popolo: Garibaldi vi promise carne e pane e vi tradì; Vittorio Emanuele vi giurò di farvi felici, e non attenne le promesse: seguite dunque noi. E il popolo è coi briganti; vale a dire, il popolo che una volta fu per Garibaldi, pel re, per l’ordine, per l’emancipazione dell’Italia, ora è per la vergogna d’Italia, pel disordine, pel saccheggio»37. Alla fine del 1864 su «Il Bruzio» Padula analizzava dei cambiamenti nelle strategie utilizzate dalle bande dei briganti nei confronti dei contadini e più in generale delle classi popolari. Notava infatti che, rispetto agli anni precedenti, le classi popolari erano diventate maggiormente oggetto delle violenze, delle minacce e dei soprusi da parte dei briganti. Secondo Padula, questo cambiamento era dovuto a motivazioni politiche. La componente borbonica in questa maniera cercava di aumentare il malcontento popolare per favorire la reazione. I briganti potevano rinunciare a parte dei sostegni, delle coperture e dell’assistenza offerta 35 36 37 Ivi, 11 maggio 1865, a. II, n. 15. Ivi, 5 marzo 1864, a. I, n. 2. Ivi, 6 agosto 1864, a. I, n. 46. ©UNICOPLI L’altro suo torto [della Legge Pica, nda] è di non aver colto i veri manutengoli. Noi siamo Calabresi e ce ne intendiamo. Non è manutengolo il contadino, che voglia o non voglia ha da vivere in campagna, se provvede di vino e di pane il brigante; non è manutengola la meretrice che va da lui; non è manutengolo il villano, a cui il brigante spianando il moschetto all’orecchio dice «Avvisami se passa la forza». Il timore, e la necessità scusano tutti costoro: e nondimeno il Tribunale ha condannato come manutengola una donna: la qual parola «manutengola» applicata a femmina si presta ad un equivoco assai ridicolo. Sì: i veri manutengoli sono sfuggiti al Tribunale36. ©UNICOPLI 348 Giuseppe Ferraro da contadini e popolani, sottolineava Padula, perché al loro posto erano subentrati altri attori sociali38. Nella narrazione di Padula i briganti sembravano volere appartenere più alle classi benestanti che a quelle popolari. Il brigante amava la vita cittadina, anche se aveva bisogno della campagna e della montagna. Nei centri urbani, secondo Padula, erano condensati i maggiori interessi che alimentavano il brigantaggio e anche chi ne teneva attive le fila: «Il brigantaggio è un serpe, il cui capo sta nelle città, e la coda nelle campagne»39. Molti capi briganti, inoltre, provenivano da contesti famigliari non proprio popolari: «Il brigante non è un serpe che vive d’aria, non è un serpe, che si rintani sotterra. Fa il brigante per godere dei piaceri della vita, avere buon letto, buon fuoco, abiti begli, lauta cucina; né queste son cose che nascano naturalmente in campagna come i funghi»40. Infatti nei territori più arretrati dal punto di vista sociale e economico, dove larga parte delle classi popolari viveva nella povertà, notava Padula, il fenomeno non aveva la stessa intensità o era assente, mentre risultava maggiore la delinquenza comune, come nel caso del circondario e della città di Paola. Ma Padula rivelava anche la stretta correlazione tra brigantaggio e ambiente naturale. Il fenomeno, evidenziava Padula, non si sviluppava senza la presenza di fitti boschi, montagne, mancanze di strade e dirupi, alleati naturali delle bande come in Sila41. Le politiche repressive furono spesso sostenute dalle pagine de «Il Bruzio». Per Padula erano infatti necessarie per ristabilire l’ordine pubblico. La situazione di emergenza richiedeva per Padula misure speciali, anche se non contemplate dallo Statuto42. Partendo, forse, proprio da queste considerazioni, Padula muoveva precise critiche verso quelle misure repressive e quei modelli punitivi decodificati dalla Legge Pica, considerati deboli, poco proporzionati in base ai 38 Ivi, 30 novembre 1864, a. I, n. 66. Bisogna anche valutare che il processo di riforma e gli interventi di lungo periodo promossi dal prefetto Guicciardi in provincia di Cosenza, stavano procedendo in maniera sostenuta in questo periodo, soprattutto per quanto riguardava lo scioglimento delle usurpazioni demaniali. I proprietari usurpatori si erano mossi in diverse maniere per bloccare tali interventi, facendo pressioni sul governo attraverso i propri parlamentari, ma anche cercando di aumentare il malcontento sociale. Le bande dei briganti in questo progetto divennero fondamentali perché con la loro violenza e intimidazione cercavano di riaffermare le prerogative dei proprietari sulle terre usurpate e scoraggiare le occupazioni, ma anche rallentavano, favoriti dalla crisi dell’ordine pubblico, gli interventi di riforma, cfr. G. Ferraro, Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana (1861-1865), Firenze, Le Monnier, 2016, pp. 38-55. 39 «Il Bruzio», 15 giugno 1865, a. II, n. 19. 40 Ivi, 1° gennaio 1865, a. I, n. 75. 41 Alcuni autori sostenevano che proprio la Sila costituiva lo «sfondo naturale delle gesta brigantesche», cfr. C. Cesari, Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma, Ausonia, 1920, p. 124. Il brigantaggio aveva nel territorio coperto di montagne la sua origine, M. Monnier, Brigantaggio: storia e storie, Venosa, Ed. Osanna, 1987 (prima edizione Firenze, Barbera, 1862), p. 15. Brunetta d’Usseaux nel 1861 sottolineò come le condizioni del territorio erano la premessa fisiologica del brigantaggio, così anche il generale Pomarè nel 1864, cfr. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, cit., p. 246. 42 «Il Bruzio», 3 agosto 1864, a. I, n. 45. Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 349 Però riteneva l’esperienza del carcere, a causa delle condizioni di detenzione, uno stimolo per i contadini a diventare briganti, cfr. ivi, 5 marzo 1864, a. I, n. 2. 44 Ivi, 5 marzo 1864, a. I, n. 2. 45 Ivi, 22 giugno 1865, a. II, n. 20. 46 Ivi, 15 giugno 1865, a. II, n. 19. 47 Ivi, 3 agosto 1864, a. I, n. 45. 48 Ivi, 16 aprile 1864, a. I, n. 14. 49 Ivi, 20 aprile 1865, a. II, n. 12. Sull’azione repressiva di Pallavicini cfr. C. Pinto, La Dottrina Pallavicini. Contro insurrezione e repressione nella guerra del brigantaggio (18631874), in «Archivio storico per le province napoletane», CXXXII, 2014, pp. 70-97. 50 «Il Bruzio», 15 giugno 1865, a. II, n. 19. 51 Ibid. 43 ©UNICOPLI reati, che, anzi, favorivano per la loro troppo clemenza il brigantaggio. Gli stessi tribunali militari, sottolineava sulle pagine de «Il Bruzio», difettavano per «soverchia clemenza»43. Per questo, secondo Padula, la pena di morte rimaneva il principale deterrente contro il brigantaggio e i suoi sostenitori44. L’attività di repressione per avere risultati, secondo Padula, doveva essere portata avanti soprattutto dalle forze locali a cui dovevano concorrere tutte le componenti della società, così da tagliare le fila delle connivenze tra bande di briganti, popolazione e manutengoli agiati. Infatti i soldati dell’esercito impegnati nella repressione delle bande, chiariva Padula, non conoscevano i luoghi, le abitudini e gli accorgimenti dei briganti. Gli stessi briganti avevano compreso che le guardie nazionali e la truppa locale minacciavano maggiormente la loro sopravvivenza. Infatti, notava, si dimostravano più clementi nei confronti dei militari, ed erano molto violenti e crudeli nei confronti delle forze di polizia locale45. L’arrivo del generale Pallavicini in Calabria venne infatti salutato con entusiasmo da «Il Bruzio». Come costante era stato l’invito da parte di Padula, attraverso il giornale, a far ritornare Fumel, il principale protagonista in Calabria, della dura repressione del brigantaggio tra il 1861 e il 1863. Padula non mancò però di criticare o denunciare quelle azioni repressive condotte dalle autorità politiche e militari per i loro eccessi e che avevano anche un impatto negativo sulla popolazione locale46. Il domicilio coatto per Padula si rivelò una misura che aveva avuto risultati negativi perché applicata in maniera arbitraria e verso persone che non avevano reali connivenze con i briganti47. Altrettante critiche rivolgeva alla Legge Pica in merito alle famiglie dei sequestrati che venivano arrestate al fine di non far pagare i riscatti per liberare i loro congiunti48. Anche a Pallavicini, nonostante gli iniziali elogi49, criticava alcune misure repressive. Secondo Padula, il generale sbagliava a «stizzire le popolazioni» per catturare i briganti50. Queste misure andavano a colpire le classi popolari, ma non i veri gruppi sociali che davano sostegno al fenomeno per garantirsi posizioni di potere e protezioni. Le famiglie dei briganti potevano fornire aiuto logistico, materiale e notizie ai briganti, ma non ricavavano, dal fenomeno un evidente miglioramento economico51. Altre critiche Padula le rivolgeva alle autorità politiche e militari, le quali avendo ricevuto da parte dei briganti servizi e notizie per distruggere alcune ©UNICOPLI 350 Giuseppe Ferraro bande, avevano poi, nei loro confronti, atteggiamenti morbidi e fornivano salvacondotti e agevolazioni nella pena da scontare52. Ma nello stesso tempo difese alcuni briganti che collaborarono con le autorità, anche se questi avevano commesso gravi delitti, come nel caso del brigante Giuseppe Scrivano. Una vicenda che sollevò molte critiche contro il prefetto di Cosenza Guicciardi, per la sua decisione di utilizzare il brigante Scrivano come spia nella banda di Pietro Monaco e per portare alla resa quella di Palma53. «Il Bruzio» cessava le sue pubblicazioni nell’estate del 1865, anch’esso vittima della conflittualità locale. Gli scritti di Padula erano stati la prima e più articolata narrazione del fenomeno in Calabria negli anni successivi alla nascita dello Stato italiano. Un’indagine che evidenziava, da una parte gli interessi economici e politici locali che si celavano dietro il brigantaggio, i motivi della sua forza di penetrazione nelle classi popolari e le condizioni ambientali di lungo periodo che l’avevano favorito e rafforzato; dall’altra forniva spunti e riflessioni per meglio comprenderlo, e rimedi per debellarlo. Tutti avevano nel miglioramento delle condizioni economiche e sociali della popolazione la principale premessa. La storiografia del Novecento La narrazione del brigantaggio, nei primi decenni del Novecento in Calabria, venne veicolata generalmente attraverso opere letterarie o romanzi che incrociavano il dato storico con gli intenti apologetici di alcuni autori, i quali cercavano di valorizzare in maniera romantico-leggendaria la figura di qualche brigante54. Anche se spesso queste opere fornivano testimonianze, racconti o ricordi abbastanza realistici sui briganti, suffragati dalla tradizione orale, emergevano grossolane imprecisioni. A tale filone, per molti suoi aspetti, apparteneva la produzione di Nicola Misasi (la sua attenzione era rivolta principalmente al brigantaggio preunitario) che affermava di aver appreso le storie dei briganti dalla nonna e da due anziane zie55. La produzione di Misasi si nutriva di molti elementi provenienti dalla letteratura popolare e dalla tradizione orale locale. All’interno di questo immaginario mentale il brigante, anche se violento e crudele, era capace di grandi gesta di liberalità verso le persone deboli e bisognose come orfane, donne e contadini, inoltre tutelava l’ordine, anche se questo non coincideva con quello del codice dello Stato, ma più con quello personificato da alcune figure sociali56. Ivi, 5 marzo 1864, a. I, n. 2. Ivi, 5 aprile 1865, a. II, n. 10. 54 Sulla Calabria e il brigantaggio si possono trovare riferimenti frammentati in diari, memorie, ricordi di ufficiali, amministratori, prefetti e sottoprefetti. Ad esempio P.D. Pasolini, Giuseppe Pasolini, 1815-1876. Memorie raccolte da suo figlio, Torino, Bocca, 1915. 55 N. Misasi, Briganteide, Napoli, Anacreonte Chiurazzi Libraio, 1906, p. 10. 56 Ibid. 52 53 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 351 57 G. Valente, La reazione borbonica in S. Giovanni in Fiore negli anni 1860-61, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», a. XI, I-II, pp. 73. Ripreso anche in Tentativi di reazione borbonica in S. Giovanni in Fiore, in «Brutium», 1941, n. 2. 58 Id., Reazione e brigantaggio in Sila dal 1861 al 1868, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», a. XI, I-IV, pp. 89-92. 59 M. Milani, La repressione dell’ultimo brigantaggio nelle Calabrie 1868-1869, Pavia, La tipografica Ticinese, 1952. ©UNICOPLI A livello più storiografico, anche in Calabria, il brigantaggio diventò maggiormente oggetto di studio e ricerche nella seconda metà del Novecento nei momenti di passaggio o di crisi degli assetti istituzionali e politici nazionali, di rivolgimenti sociali e culturali, come, ad esempio, la fine della Seconda guerra mondiale, le occupazioni delle terre e i cambiamenti relativi agli anni Settanta. Si ebbe in queste congiunture storiche una maggiore produzione bibliografica, ma alcuni lavori presentavano il limite di una forte eco del presente. A pubblicare dei primi studi sul brigantaggio, suffragandoli anche con documentazione archivistica, spesso ancora non organizzata negli archivi pubblici, ma presente in quelli privati di personalità legate al mondo borbonico o di quei gruppi sociali sostenitori del processo di unificazione, fu Gustavo Valente. Valente in questi lavori si limitava a censire, dopo una breve introduzione, alcuni episodi di repressione nei confronti di borbonici e briganti in Sila o in alcuni centri del circondario. Nel 1941 venne pubblicato il primo di questi lavori dove veniva trascritto, dopo essere stato brevemente introdotto, un corpus di lettere e documenti (appartenuto al magistrato e patriota Pasquale Monaco di Spezzano Grande) sulla reazione borbonica operata a San Giovanni in Fiore nel periodo 1850-61. Nella ricerca approfondiva i profili biografici di alcuni protagonisti della reazione borbonica appartenenti soprattutto alla borghesia e al clero locale, ma anche di alcune personalità che erano passate nel campo unitario57. Qualche anno più tardi, lo stesso Valente pubblicò uno studio più ampio, nel quale censiva una serie di episodi di repressione operati contro briganti e borbonici. Ma anche in questo caso l’opera di valorizzazione e trascrizione dei documenti non venne supportata da un testo critico e da analisi interpretative profonde58. Gli ultimi anni della repressione del brigantaggio in Calabria furono oggetto invece di un breve saggio di Mino Milani59. Anche se l’indagine di Milani riguardava un arco cronologico abbastanza breve, il periodo 1868-1869, si basava su documentazione inedita riguardante l’ultima grande repressione contro il fenomeno tra Cosenza e Catanzaro. La maggior parte della documentazione era costituita da quanto prodotto dal generale Gaetano Sacchi durante il suo ruolo di Comandante della divisione militare di Catanzaro, conservato presso il Museo del Risorgimento di Pavia e integrato dallo spoglio di alcuni giornali dell’epoca. Attraverso il punto di vista di Sacchi Milani descriveva il brigantaggio calabrese come diverso rispetto a quello degli altri territori meridionali. In quello calabrese, secondo Milani, la componente criminale-delinquenziale era maggioritaria, trovava più forza e diffusione rispetto a quella politica o di rivolta sociale. Il fenomeno era stato favorito dalle dure condizioni sociali ed economiche in ©UNICOPLI 352 Giuseppe Ferraro cui versava la maggior parte della popolazione, dalla forte frattura e ostilità tra «proprietari e nullatenenti». Il brigantaggio nelle province calabresi poteva essere considerato frutto di cause sociali, mentre le sue radici affondavano nella storia più remota del territorio60. Proprio questo contesto sociale, economico e culturale fragile, sottolineava l’autore, aveva creato un retroterra favorevole al brigantaggio e alla sua diffusione, assicurandogli protezione e assistenza da parte delle masse dei contadini che ne traevano, a volte, profitti, ma anche da parte delle classi agiate. Questa situazione di sostegno al fenomeno, mutò alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, quando, visti i successi dell’opera di repressione da parte dello Stato italiano, la «simpatia e ammirazione» da parte della popolazione andarono man mano assottigliandosi, facendosi invece prevalente la volontà di «disfarsi una volta per tutte dei briganti», considerati come concausa dell’arretratezza economica e sociale61. Il fattore principale che però favoriva le bande, emergeva anche dal lavoro di Milani, era il manutengolismo che coinvolgeva in maniera trasversale le classi sociali. Le bande dei briganti in Calabria, notava Milani riprendendo le tesi di Sacchi, evitavano di molestare i ricchi proprietari, mentre non risparmiavano di danneggiare e richiedere risorse alla classe media. Tutto questo aveva permesso a briganti come Palma di poter sfidare le autorità, mettere delle taglie sulle teste degli stessi ufficiali, vendere nelle piazze i beni dei ricattati, sicuro delle protezioni locali. Nel volume veniva dettagliata anche la dura e spietata azione repressiva condotta in Calabria dal 5 maggio 1868 al 31 dicembre 1869 da parte del colonnello Bernardino Milon, rivolta sia verso le bande dei briganti che nei confronti dei manutengoli, che sollevò di nuovo non poche polemiche da parte delle autorità politiche locali e nazionali, senza essere però concretamente bloccata. I dati quantitativi riportati da Milani dimostravano inoltre come l’azione del Milon avesse raggiunto nei mesi di attività il suo obiettivo. All’inizio delle operazioni, in provincia di Catanzaro, si contavano oltre 25 briganti, mentre in quella di Cosenza più di 35, con attivi ancora capi come il Palma e Faccione62. Il 31 dicembre del 1869, la quasi totalità di questi briganti era stata eliminata o costretta alla resa63. La pubblicazione dell’opera di Franco Molfese (ma anche le traduzioni in Italia dei libri di Hobsbawm), con la sua lettura sociale del fenomeno, non ebbe effetti immediati, nel sollecitare tra gli studiosi nuove ricerche sul brigantaggio in Calabria. Quanto meno non sollecitò rilevante interesse fra quegli studiosi più attenti alla dimensione scientifica e metodologica della narrazione storica, ma certamente favorì ricerche riconducibili all’interpretazione marxista del Risorgimento visto, tra l’altro, come una «rivoluzione agraria mancata» e un processo che aveva favorito l’egemonia borghese a danno dei contadini. Sulla scia dell’o- 60 61 62 63 Milani, La repressione dell’ultimo brigantaggio, cit., p. 8. Ivi, p. 9. Ivi, p. 17 ss. Ivi, p. 41. Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 353 I. Principe, L’ultima plebe contributi per la storia del brigantaggio calabrese, Chiaravalle Centrale, effemme, 1977. 65 Ivi, p. 16. 66 Ibid. 67 Ivi, p. 14. 68 Ivi, p. 15. 69 Negli stessi anni Amelia Paparazzo evidenziava che il fenomeno non poteva essere ricondotto nella sua interezza a «trame e tentativi reazionari e di restaurazione del regno borbonico», ma aveva trovato retroterra favorevole nella sconfitta del movimento contadino: «È all’interno di questi meccanismi psicologici di massa, messi in moto dalla sconfitta subita dal movimento, che si determinano spinte alla pratica del brigantaggio e fenomeni di esaltazione di coloro che avevano coraggiosamente compiuto la scelta dell’illegalità e del brigantaggio», cfr. A. Paparazzo, I subalterni calabresi tra rimpianto e trasgressione. La Calabria dal brigantaggio post-unitario all’età giolittiana, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 53-55. Per gli anni Ottanta cfr. A. De Leo, Briganti, sbirri, cafoni e manutengoli in Calabria. Note sul brigantaggio calabrese negli anni 1799-1870, Cosenza, Pellegrini, 1981. 64 ©UNICOPLI pera di Molfese nel 1977 veniva pubblicato da Ilario Principe un volume che raccoglieva una quantità notevole di documenti per quanto riguardava il brigantaggio nel decennio francese e quello del periodo postunitario64. La quantità di documenti trascritti e pubblicati non era accompagnata però da altrettanto sforzo interpretativo. La breve nota che introduceva i documenti non riusciva infatti a fornire un valido strumento di comparazione tra i due periodi storici presi in considerazione nel volume, e nemmeno chiavi di lettura precise e puntuali. Tuttavia la breve nota introduttiva permetteva di individuare la lettura che il testo voleva offrire del brigantaggio e dei briganti. Si trattava di una lettura influenzata dal testo di Molfese, ma schiacciata sul presente, quasi intenta a paragonare il brigantaggio alle questioni sociali ed economiche della Calabria del Secondo dopoguerra65. Principe metteva in rilievo che il brigantaggio non poteva essere ricondotto a forme di delinquenza comune66. Il brigante, violando «una legge ingiusta», l'autore evidenziava, non era contro l’ordinamento sociale, ma proiettato a cambiarlo, anche con la forza. Il fenomeno del brigantaggio aveva un volto di rivoluzione sociale «coscientemente perseguita ma inquinata da alcuni protagonisti, incompleta nella sua distribuzione territoriale, stravolta dalle interpretazioni e mancata nella sua realizzazione finale»; la ribellione del brigante rappresentava quindi un rifiuto di quella parte della struttura sociale che imponeva alle masse soggezione e sfruttamento67. Il fenomeno del brigantaggio, secondo Principe, aveva cercato anche una saldatura in tal senso con i «proletari che avevano un ruolo ben definito in certi processi di produzione […]», come con i rivoltosi di Filadelfia nel 1870, oppure gli operai delle miniere di Stilo68. Negli anni Ottanta, invece, nel convegno Il brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia (1984), organizzato da Giuseppe Galasso, che ospitava studi sulla storia del brigantaggio riguardanti anche le realtà regionali, il fenomeno venne preso specificatamente in considerazione69. In quell’occasione Francesco Gaudioso offrì al dibattito un lavoro innovativo a livello storiografico, supportato dalla ri- ©UNICOPLI 354 Giuseppe Ferraro cerca archivistica e da puntuali interpretazioni dei dati quantitativi raccolti70. Il lavoro di Gaudioso aveva avuto come area di studio principalmente la provincia di Cosenza e anticipava la prima parte di una ricerca più ampia. La ricerca sul brigantaggio veniva anticipata così in due saggi La repressione del brigantaggio nella Calabria cosentina (1866-1870)71 e Indagine sul brigantaggio nella Calabria cosentina (1860-1865)72. Entrambi confluiranno, in maniera più organica, in Calabria ribelle, che prenderò in questa sede più specificatamente in considerazione73. Il lavoro offriva una lettura del fenomeno che andava oltre il paradigma demaniale, ovvero il brigantaggio inteso solo come lotta di classe, ma ne indagava altre sfaccettature. Cominciava a delinearsi un quadro del brigantaggio calabrese abbastanza complesso, in cui Gaudioso indagava le forme di repressione, il ruolo e le connivenze sia della borghesia locale, borbonica o unitaria, che dei gruppi sociali popolari. A questo proposito evidenziava, per quanto riguardava il periodo 1860-1865: «Per quanto riguarda i complici, s’osserva che non sono più i salariati agricoli (attestati sul 21.95%) ad occupare il primo posto, ma i possidenti che, con il 34.14%, distanziano tutti gli altri, tra i quali fanno spicco tre notai, tre industrianti, due sacerdoti, un medico, un farmacista»74. Il volume si addentrava anche a studiare il mondo dei briganti e dei loro complici, analizzando una serie di casi attraverso i quali comprendere le ragioni che li spinsero a darsi al brigantaggio. I casi studiati da Gaudioso evidenziavano come le motivazioni che portavano al brigantaggio potevano essere diverse. Molti di essi non avevano commesso gravi reati prima del 1860. Tra le motivazioni citate, in sede di processo, vi era quella di essere diventato brigante per vendicarsi di un compagno di lavoro; alcuni erano renitenti; altri per aver esercitato violenza su una donna oppure per sfuggire alle autorità dopo aver commesso reati comuni, ma anche per rivalsa verso il proprietario datore di lavoro che non aveva onorato il giusto salario; seguivano questioni legate a litigi famigliari75. L’indagine di Gaudioso inoltre analizzava il rapporto brigantaggio e ambiente naturale, a quali categorie sociali ed economiche appartenevano i bri- 70 In precedenza cfr. Orientamenti per una storia del brigantaggio post-unitario nella provincia di Cosenza, in «Calabria contemporanea», 1974. 71 Pubblicato in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 1982-1983, pp. 125-188. 72 Gli atti furono pubblicati in «Archivio storico per le province napoletane» del 1983, [ma 1985]. Il saggio di Gaudioso a pp. 169-222. 73 F. Gaudioso, Calabria ribelle. Brigantaggio e sistemi repressivi nel cosentino (18601870), Milano, Franco Angeli, 1987. 74 Ivi, p. 22. 75 Alcune motivazioni come un torto subito, un omicidio per difendere l’onore o un interesse, in alcuni casi sembravano più frutto delle ricostruzioni successive, che la causa reale che li aveva spinti al brigantaggio. Nella mentalità dell’epoca reagire a simili torti e ingiustizie erano motivazioni valide per darsi al brigantaggio o alla vita da fuorilegge: «un delitto legittimato dalla “nobiltà” o dalla necessità del gesto» (come nel caso di Giosafatte Talarico in relazione al periodo borbonico), cfr. A. Scirocco, Briganti e società nell’Ottocento: il caso Calabria, Lecce, Capone, 1991, p. 40, ma in generale pp. 31-60. Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 355 Cfr. Gaudioso, Calabria ribelle, cit., p. 28. Si trattava di cifre lacunose, le stesse autorità impegnate nella repressione evidenziavano nei loro carteggi l’impossibilità di rendicontare i morti in combattimento e i fucilati al momento, Ferraro, Il prefetto e i briganti, cit., p. 82. 77 Tale elemento era stato già evidenziato da Cingari, Storia della Calabria, cit., p. 29. 78 Gaudioso, Calabria ribelle, cit., p. 221. 79 Venne pubblicato in «Studi storici meridionali», a. VI (1986). Successivamente ripubblicato con altri saggi in R. Folino Gallo, Briganti e manutengoli all’indomani dell’Unità nella Calabria Ulteriore 2a, Soveria Mannelli, Calabria Letteraria Editrice, 2001, che utilizzerò in questa sede per le citazioni. 80 Ivi, p. 22. 76 ©UNICOPLI ganti, il momento di minore e maggiore attività delle bande e in quali circondari o comuni erano presenti, il ruolo svolto nella repressione dal potere centrale e locale, le modalità della resa (se fatta alle autorità militari o locali), da quali forze venivano operate le catture. Forniva inoltre dati statistici sui briganti morti in combattimento, gli arrestati, i presentati volontariamente, i complici, l’entità della pena, la quantità dei processi svolti, i motivi di detenzione delle donne arrestate. Secondo le statistiche di Gaudioso tra il 1861 e il 1863 i briganti morti in combattimento erano stati 66, i fucilati 128, consegnati autorità giudiziaria 443, presentati volontariamente 103. Per il periodo 1866-1870: uccisi 61, arrestati 48, presentati 10176. Il lavoro era anche accompagnato da un’appendice con l’elenco delle bande, nome e cognome dei capi banda, provenienza geografica dei briganti, modalità e anno di resa. Dai dati raccolti la ricerca concludeva che il brigantaggio nella provincia cosentina non poteva essere interpretato come chiara opposizione dei borbonici e dei clericali al processo unitario, anche se presente questa componente era minoritaria77. Faceva emergere, inoltre, che tra i capi briganti non vi era una «chiara coscienza degli esiti finali a cui la lotta ingaggiata con le forze dell’ordine e con le classi egemoni doveva approdare»78. Infine un ruolo fondamentale nella diffusione del fenomeno avevano avuto, anche per Gaudioso, le condizioni materiali del territorio e la lotta per le usurpazioni delle terre demaniali. Una ricerca simile a quella portata avanti da Gaudioso veniva realizzata, per il territorio di Catanzaro (Calabria Ultra II), da Rosella Folino Gallo in un saggio dal titolo Briganti e brigantaggio nell’Italia post-unitaria: la Calabria Ulteriore 2a 79. Attraverso i processi per manutengolismo, le testimonianze in sede processuale e i rapporti delle autorità pubbliche, l’autrice riusciva ad estrapolare dati e notizie sul brigantaggio, da cui emergeva il carattere endemico del fenomeno, che presentava maggiore recrudescenza nei periodi di transizione. Dalla ricerca risultavano attivi nella provincia catanzarese, nel periodo 18601865, circa 251 briganti, raggruppati in bande di media/piccola consistenza. La maggior parte dei componenti delle bande avevano un’età tra i 17 e i 30 anni, con una connotazione sociale a prevalenza contadina80. L’autrice ricostruiva la composizione delle bande, la provenienza geografica dei briganti e le motivazioni che avevano spinto alcuni di essi al brigantaggio. ©UNICOPLI 356 Giuseppe Ferraro Per quanto riguardava il manutengolismo, anche per la provincia di Catanzaro, il fenomeno trovava sostegno sia nelle classi sociali popolari che in quelle agiate. Nel caso delle classi agiate l’attività di sostegno al fenomeno scaturiva da varie motivazioni: adesione spontanea, paura, difesa di interessi81. Nel volume si sottolineava come tra le anime che componevano il fenomeno esistesse una marcata differenza, tra quella con caratteristiche delinquenziali o di devianza sociale e quella filoborbonica. Le stesse autorità nell’attività di repressione e controllo, rilevava la Folino Gallo, attuarono due diverse strategie, dura e spietata nel primo caso, blanda nel secondo82. Questo tema veniva approfondito da Folino Gallo in un altro volume83, dove analizzava in maniera più articolata questa differenza, ma anche le questioni relative all’insorgenza borbonica e la sua diffusione nei vari centri della provincia, tenendo presente l’attività di cospirazione da parte di alcuni esponenti della vita cittadina catanzarese a favore di Francesco II. Anche se l’insorgenza filoborbonica, evidenziava l’autrice, non raggiunse l’obiettivo di far ritornare i Borbone sul trono di Napoli, ebbe nella provincia di Catanzaro un partito attivo e con una rilevante forza di penetrazione nella società, che utilizzò le bande dei briganti per raggiungere i suoi intenti, cercando però di tenere le due componenti, almeno dal punto di vista concettuale, separate84. Sempre negli anni Novanta, Alfonso Scirocco, in Briganti e società nell’Ottocento, pubblicava un lavoro più organico sul brigantaggio in Calabria, che prendeva in considerazione sia la provincia di Cosenza che di Catanzaro, offrendo un’analisi di lungo periodo del fenomeno e anche dati comparativi tra le due realtà85. La prospettiva e l’analisi di lungo periodo avevano permesso a Scirocco di evidenziare le analogie e le differenze del fenomeno nelle varie fasi dell’Ottocento. Mentre il brigantaggio postunitario presentava caratteristiche molto diverse rispetto a quello del Decennio francese, Scirocco evidenziava invece le analogie con quello del periodo borbonico. La differenza principale con quello del Decennio, l’autore la coglieva nella mancanza, in quello postunitario, di una vera e marcata componente politica. Il fenomeno del brigantaggio aveva nella storia della Calabria e del Mezzogiorno d’Italia, sottolineava anche Scirocco, una «persistenza ininterrotta». Alcuni capi banda, come Palma e Carmine Franzese, erano attivi già dalla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento. Le analogie tra periodo borbonico e dopo il 1860 riguardavano anche i metodi di repressione portati avanti dalle autorità e i principali reati commessi dai briganti. Nel 1861 si sviluppò, secondo l’autore, in Calabria un tipo di brigantaggio “comune” (marginale rispetto alla Puglia, la Campania e la Basilicata), che affondava le proprie radici nella storia del territorio meridionale, che, a causa della congiuntura storico-politica dell’unificazione, aveva trovato maggiori possiIvi, p. 91. Ivi, p. 26. 83 Ead, La reazione filoborbonica nella Calabria Ulteriore 2a (1860-1865), Soveria Mannelli, Calabria Letteraria Editrice, 1997. 84 Cfr. ivi, pp. 7-15. 85 Scirocco, Briganti e società nell’Ottocento, cit. 81 82 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 357 Nuove ricerche sul fenomeno del brigantaggio Le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione italiana anche in Calabria hanno prodotto un relativo interesse per il brigantaggio. Proprio nel 2011 veniva avviato, un progetto di ricerca sull’unificazione italiana e il brigantaggio in Calabria88. La ricerca fu la premessa di un lavoro più organico, pubblicato nel 2016, con il titolo Il prefetto e i briganti. La Calabria e l’unificazione italiana89. Il lavoro studiava principalmente la provincia di Calabria Citra, ma forniva un’analisi sulla situazione più generale della Calabria tra il 1861 e il 1865 inserendola in un più ampio dibattito storiografico90. Dalla ricerca emergeva che la componente delinquenziale del brigantaggio postunitario, sebbene prevalente, era rappresentativa solo di una parte del fenomeno, composto al suo interno da energie eterogenee accomunate, per ragioni diverse, dall’avversione nei confronti dello Stato unitario. Il fenomeno aveva ricevuto adesioni dalle masse dei Ivi, p. 94. Diverso da quanto sosteneva Paparazzo, I subalterni calabresi, cit., p. 53 ss. Riportato in Scirocco, Briganti e società nell’Ottocento, cit., p. 108. Anche M.C. Leps, Apprehending the Criminal. The Production of Deviance in Nineteenth-Century Discourse, Durham-London, Duke University, 1992. 88 G. Ferraro, Una provincia del Mezzogiorno e l’azione prefettizia del valtellinese Enrico Guicciardi: brigantaggio, repressione, questione della terra, amministrazione pubblica e riforme (1861-1865), Tesi di Dottorato in Storia contemporanea, Università degli studi della Repubblica di San Marino, 2011-2014. 89 Cfr. Ferraro, Il prefetto e i briganti, cit. 90 Ivi, pp. 10-14. 86 87 ©UNICOPLI bilità di diffusione. Infatti le bande si giovarono del sostegno e coinvolgimento degli sbandati dell’esercito borbonico e della generale crisi dell’ordine pubblico; ma anche dei contadini rimasti delusi dalla mancata risoluzione delle usurpazioni demaniali a loro favore. Questo non significava, secondo Scirocco, che tra briganti e contadini ci fosse una comunanza di interessi per la questione delle usurpazioni demaniali a favore dei secondi. Infatti, anche per Scirocco: «Né durante il dominio borbonico, né durante il primo decennio postunitario i banditi si unirono ai contadini che rivendicavano la terra. Anche se provenienti dal mondo contadino, i briganti, dandosi alla macchia, ne uscivano, assumevano una nuova mentalità e nuovi interessi»86. Il brigantaggio, in una realtà arretrata, come le due province calabresi al momento dell’Unità, era diventato per alcuni un’attività redditizia, favorita dalle diffuse complicità e dal contesto naturalistico. A questo proposito riportava le considerazioni sul fenomeno del generale Sacchi, comandante la divisione militare in Calabria. Le analisi di Sacchi sintetizzavano i caratteri generali del fenomeno e delle sue connivenze con alcuni settori sociali: «Il brigantaggio è una risorsa per gran numero di abitanti delle Calabrie; è un mestiere da cui traggono molte famiglie il sostentamento, è infine diventato per molti una necessità di esistenza…»87. ©UNICOPLI 358 Giuseppe Ferraro contadini, deluse per la mancata riforma della terra; dall’insorgenza borbonica, che finì per dargli una connotazione politica, e dai soldati sbandati, che misero al servizio delle bande le loro armi, la loro esperienza e la loro abilità militare. Il più delle volte le adesioni al brigantaggio, ricostruiva la ricerca, erano dettate da opportunità contingenti, mentre generalmente mancava tra i briganti un collante ideologico. Le bande, anche con capi carismatici, come, ad esempio, Palma e Rosa-Cozza, subivano per questo continue defezioni e tradimenti da parte dei loro affiliati appena le circostanze lo permettevano. Nella realtà calabrese infatti la distruzione delle bande era dovuta spesso ai continui tradimenti e alle confessioni da parte dei briganti. Le autorità, emergeva dalla ricerca, puntavano a generalizzare la lettura delinquenziale del fenomeno per non riconoscerne una politica e avere in questa maniera maggiori giustificazioni nel caso si fossero utilizzate le maniere forti per reprimerlo91. Dall’altra parte i briganti, anche con reati gravi, cercavano di accreditarsi di fronte alle autorità come legittimisti della dinastia dei Borbone e oppositori del nuovo assetto unitario. Lo scopo era quello di poter contare su possibili indulti e pene ridotte da parte del governo. Per quanto riguardava la componente politica legata ai Borbone il volume ne ricostruiva la genesi e l’organizzazione, sottolineando che, seppur minoritaria, offriva un terreno favorevole alle insorgenze e al brigantaggio. Nel 1862 un gruppo di possidenti del circondario di Rossano, anche se confermava che il brigantaggio era un’«estesa rete di ladri», rimarcava le «tendenze politiche»92. Il movimento borbonico infatti non godeva di un forte sostegno popolare, sul quale invece poteva contare il brigantaggio, ma si nutriva più di attese e speranze che riguardavano settori sociali assai ristretti93. L’insorgenza borbonica in provincia non riuscì a concretizzare manifestazioni tali da mettere in difficoltà l’ordine pubblico, ma certamente contribuì a destabilizzarlo almeno fino all’inverno-primavera del 1863, alleandosi con il crescente malumore sociale della popolazione94. Un’altra componente del fenomeno, presa in considerazione nella ricerca, era quella dei soldati borbonici sbandati. Verso questi ultimi le autorità locali utilizzarono in molti casi una linea dura tale da non concedere nessun trattamento di favore95. Simili comportamenti da parte delle autorità avevano favorito, soprattutto tra il 1861 e l’inverno del 1862, l’adesione di molti militari alle bande dei briganti. Esplicative in questo contesto potevano essere anche le posizioni delle autorità politiche e militari sul brigantaggio e le sue cause riportate nel volume. Anche se si trattava di una narrazione fatta in maniera unilaterale, soprattutto da parte di chi combatteva il fenomeno, queste analisi fornivano notizie e informazioni 91 Cfr. G. Galasso, Premessa, in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno (1860-1870), Ercolano, Gaetano Macchiaroli editore, 1984, p. 12. 92 Ferraro, Il prefetto e i briganti, cit., p. 33. 93 Ibid. 94 Ivi, p. 35. 95 Per la fedeltà che i soldati ai Borbone in Calabria cfr. C. Morisani, Ricordi storici. I fatti delle Calabrie nel luglio e agosto 1860, Reggio Calabria, Ceruso, 1872, p. 17. Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 359 in Calabria il brigantaggio è tradizionale. Se si dimandi a questi vecchi diranno che in vita loro giammai si è stato privi di briganti. Si sarebbe inclinati quasi a crederlo un mestiere come ogni altro; e questa tradizione non è stata mai interrotta. Sulle prime questo brigantaggio non ha l’ombra di politica. Questa masnadiera ruba ed incendia per proprio conto e si briga poco dei Governi. […] Esso ha un’altra natura, la sua indole, la sua ragione di essere è tutta diversa. Noi la troviamo nella condizione economica-morale di questa popolazione99. Il fenomeno, secondo il prefetto, trovava maggiore aderenza in quei territori dove la presenza dello Stato era debole a causa di autorità pubbliche incapaci e corrotte. Quest’ultimo aspetto era per Guicciardi determinante in una società, come quella meridionale, in cui la legge veniva incarnata più dalle persone che 96 97 98 99 Ferraro, Il prefetto e i briganti, cit., p. 27. Ivi, p. 28. Ibid. Ivi, pp. 28-29. ©UNICOPLI sul brigantaggio. Infatti la guerra al brigantaggio non fu solo combattuta con le armi proprie della forza, ma anche con “l’inchiostro” e l’uso studiato della parola. L’interesse del prefetto di Cosenza Guicciardi nei confronti del brigantaggio, non si limitava, ad esempio, solo alla ricerca dei metodi per poterlo «estirpare», ma era rivolto anche ad individuare le cause che l’alimentavano. Le cause del brigantaggio erano riconducibili, secondo il prefetto, principalmente alle inadempienze della passata dinastia borbonica e ad alcune scelte operate dal nuovo governo italiano. Il brigantaggio andava inteso, secondo il prefetto, non come il «male per sé, ma piuttosto come il risultato di molti altri mali»96. Per questo la repressione non poteva essere, secondo il prefetto, la principale soluzione del problema, ma doveva essere utilizzata solo in casi necessari e di emergenza. L’utilizzo della forza contro i briganti, secondo Guicciardi, procurava solo «una tranquillità di terrore e di compressione» e causava un «dispendio finanziario», «la perturbazione amministrativa, e fors’anche del pregiudizio recato del prestigio governativo e dei suoi funzionari»97. Nel 1862 confidava a Emilio Visconti Venosta che lo studio e la comprensione di un fenomeno così complesso e diversificato territorialmente era stato per lui un compito «arduo» e non gli aveva permesso di raggiungere risultati definitivi98. I dati raccolti consentirono però al prefetto di dividere il brigantaggio nella provincia di Cosenza in quattro «grandi categorie»: una di «vernice politica»; la seconda «puramente grassatoria»; la terza «camorrista»; l’ultima di «[bullismo?] e di licenza». Queste due ultime manifestazioni, erano, a suo avviso, quelle che maggiormente infestavano la provincia ed erano anche le «più difficili ad estirpare radicalmente». Il fenomeno andava ricondotto quindi ad una natura principalmente delinquenziale. Tesi ripresa nel 1864 anche dal sottoprefetto di Rossano, circondario della provincia di Cosenza, dove maggiormente era diffuso il fenomeno: ©UNICOPLI 360 Giuseppe Ferraro dal «codice». Il governo aveva sbagliato a mandare nelle province meridionali personale poco idoneo ad una situazione così complessa, incapace di riscuotere la stima della popolazione con il suo operato. L’anello attraverso il quale trasmettere la presenza dello Stato doveva essere, secondo Guicciardi, principalmente la «scelta di prefetti idonei». Il governo in molti casi aveva destinato alle province settentrionali, «più tranquille e regolate», i prefetti di maggiore «rinomanza», mentre a quelle meridionali i «meno degni e meno idonei»100. Il 16 dicembre del 1862, l’istituzione della commissione d’inchiesta sul brigantaggio, presieduta dal deputato Giuseppe Massari, venne vista dal prefetto poco utile e non risolutiva al fine che si prefiggeva, perché presentava la grande debolezza di voler studiare e sconfiggere il problema del brigantaggio «stando al tavolino»101. Le commissioni di tale natura avevano, a suo avviso, portato a dei risultati solo quando avevano preso sotto esame il lavoro già svolto da altri. Nel caso in questione, invece, non sarebbero riusciti a concretizzare «qualche cosa di buono» perché il lavoro doveva «essere fatto da essi». Per il prefetto lo studio del fenomeno non si poteva portare avanti «stando al tavolino», ma era «eminentemente pratico», da svolgersi sul luogo. In definitiva, il prefetto, ridimensionava i lavori e le soluzioni proposte dalla commissione, paragonandole a quelle di un medico che si proponesse di «curare e guarire da lontano per lettera un ammalato che non ha mai veduto»102 Da una parte Guicciardi esaminava le differenze delle anime che componevano il brigantaggio, rintracciando nella mancanza di riforme e di risanamento dell’amministrazione statale i due mali principali della sua diffusione, ma nello stesso tempo lo contestualizzava nel particolare tessuto sociale e culturale della provincia che gli forniva risorse materiali e mentali per radicarsi. Al ministro Marco Minghetti scriveva che il brigantaggio ricopriva un ruolo sociale e culturale oltre che economico. Condurre la vita da brigante significava, nonostante i tanti rischi, elevarsi ad uno status sociale ed economico migliore rispetto a quello in cui viveva la maggior parte della popolazione103. I briganti, pur mantenendo stretti rapporti con le proprie famiglie e i luoghi di origine, in molti casi cercavano di affrancarsi da questi, quasi costruendo una nuova classe sociale, diversa da quella di provenienza, proiettata ad avere affinità invece con quella dei ceti benestanti104. I capi briganti, come anche i componenti più in vista delle bande, amavano vestirsi, ad esempio, con abiti lussuosi, sfoggiare gioielli, oggetti d’oro, fazzoletti in seta o in raso e presentarsi nel modo più educato ed elegante possi- Ivi, p. 30. Ibid. 102 Ivi, p. 33. 103 Nei pochi ricordi lasciati dai briganti si evince come il brigantaggio per alcuni fu la possibilità di lasciare una misera vita e avere una posizione di potere nella società, cfr. M. Di Gè, Il Libro della sventura, Manduria, Lacaita, 1971. 104 Su questo aspetto cfr. Scirocco, Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, cit., p. 20. 100 101 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria 361 Conclusioni Nonostante le autorità individuassero nel miglioramento delle condizioni sociali della popolazione la strada principale per far cessare il brigataggio, a prevalere in molti casi fu l’uso sistematico di mezzi di repressione duri e anche extra legem110. Ricevere dalla popolazione collaborazione contro i briganti risultava difficile, nonostante le autorità promettessero compensi economici o possibilità 105 Significativa a questo proposito una lettera del prefetto di Cosenza che, dopo un incontro avuto con la banda Palma, ne descriveva l’abbigliamento e i modelli di comportamento, cfr. Ferraro, Il prefetto e i briganticit., cit., pp. 149-151. 106 Cfr. su questi aspetti Del brigantaggio e dei mezzi come spegnerlo per Bruno De Capua Da Longobucco (Calabria Citra), Napoli, Tipografia di Vincenzo Prisco, 1864, in Archivio storico comunale di Longobucco. Si veda anche la lettura di F. Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, Torino, Einaudi, 2015, pp. 283-284. Le loro gesta, attraverso le memorie dei viaggiatori stranieri presenti in quegli anni nel Mezzogiorno, crearono anche all’estero un’iconografia del brigante molto popolare, cfr. su questo aspetto S. Martelli, Letteratura e brigantaggio: modelli culturali e memoria storica, in «Archivio storico per le province napoletane», volume CI, 1983, pp. 407-423. 107 Ferraro, Il prefetto e i briganti, cit., p. 31. 108 Ivi, pp. 31-32. 109 Ivi, p. 32. 110 Enzo Ciconte recentemente ha approfondito questi temi, anche in relazione alla Calabria, cfr. La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Roma-Bari, Laterza, 2018. ©UNICOPLI bile al “mondo dei signori”105. Confermavano la tendenza da parte dei briganti di voler costituire una classe sociale autonoma, distante dal mondo popolare. Per questo le famiglie, pur conoscendo i rischi di una simile scelta, spingevano i propri componenti ad intraprenderla, sicure di ricevere poi rimesse che avrebbero garantito il miglioramento del loro tenore di vita106. Il maggiore generale Vincenzo Orsini, riteneva politico il brigantaggio del 1806, ordinario, di natura delinquenziale e di antica origine quello che invece interessava la Calabria nella fase postunitaria107. Anche Giuseppe Sirtori, luogotenente generale comandante della divisione territoriale delle Calabrie, non vedeva nel brigantaggio postunitario nessuna connotazione politica, ma solo un male che impediva qualsiasi progresso sociale nei territori in cui era diffuso: «Il brigantaggio, ognun lo vede, è una piaga che affetta tutto il sistema sociale, e finché esso sussiste è vano sperare pace, sicurezza, prosperità»108. Su questo aspetto tutte le autorità militari che tra il 1861 e il 1865 si susseguirono al comando militare in Calabria sembravano essere concordi. Anche il generale Pallavicini considerava infatti il brigantaggio in Calabria il meno politicizzato, per questo il più difficile da sconfiggere, e diverso da quello dell’appennino centrale. Secondo il generale, il fatto che intrecciava le sue azioni con conflitti locali, odi sociali e vendette personali, rendeva la natura delinquenziale/criminale prevalente109. ©UNICOPLI 362 Giuseppe Ferraro di trovare migliori impieghi. Dopo la loro collaborazione, queste persone venivano abbandonate dalle autorità e nello stesso tempo rinnegate per paura dalla comunità di origine, perché avrebbero attirato su quest’ultima l’ira delle comitive dei briganti111. La complessità e le varie sfaccettature del brigantaggio postunitario hanno generato nel corso dei decenni linee interpretative e letture diversificate di un fenomeno di lungo periodo nella storia del Mezzogiorno d’Italia. In questo contesto emerge, sia tra le fonti coeve che dalla storiografia più aggiornata e critica sul tema, come il brigantaggio in Calabria non presentasse una chiara ed evidente matrice politica, quando presente risultò minoritaria e andò a perdere pregnanza già dalla fine del 1861. Il fenomeno trovava maggiore forza in relazione alle questioni demaniali e nella conflittualità interna tra gruppi sociali locali. Il brigantaggio spesso si fuse e confuse in queste dinamiche, trovando in esse risorse e sostegno. Le questioni demaniali e la conflittualità interna rimangono piste di ricerca ancora da approfondire, che forniranno ulteriori tasselli alla comprensione del complesso fenomeno del brigantaggio. 111 Per qualche testimonianza in tal senso cfr. Ferraro, Il prefetto e i briganti, cit., p. 80. NOTIZIE SUGLI AUTORI E ABSTRACT DEI CAPITOLI Parte prima STORIOGRAFIE DI IERI E NARRAZIONI DI OGGI Il saggio esamina il modo nel quale nell’Italia liberale venne costruito un paradigma interpretativo del brigantaggio, centrato soprattutto sull’individuazione delle cause del fenomeno che sono rintracciate nella questione sociale e nel ruolo “sovversivo” della monarchia borbonica. Attraverso l’esame di alcune tipologie di testi – memorie e scritti redatti durante la campagna militare, le prime storie dell’Italia unita, gli interventi dei “meridionalisti” – il saggio si propone di individuare i caratteri e gli sviluppi di questa interpretazione. Enrico Francia insegna presso l’Università di Padova. Si è occupato di ordine pubblico nell’Ottocento, della rivoluzione del 1848 e di cultura materiale della politica. Tra le sue pubblicazioni 1848. La rivoluzione del Risorgimento, Bologna, Il Mulino, 2012; Oggetti risorgimentali. Una storia materiale della politica nel primo Ottocento, Roma, Carocci, 2021 Del brigantaggio e di altre storie al tempo del fascismo, di Enzo Fimiani L’interpretazione del brigantaggio postunitario durante il fascismo non era mai stata oggetto di studio, nella convinzione che i contributi sul tema si esaurissero con l’Ottocento, per riprendere solo sullo slancio del secondo dopoguerra. Il saggio, nel dare conto di quanto in realtà si pubblichi tra 1922 e 1945, cerca di dimostrare come la memoria del brigantaggio influenzi la sfera politico-culturale del regime. Storiografia, pubblicistica, letteratura, cinema, teatro, fumetto, sono i plurimi terreni nei quali si sente il peso di un passato che anche nel fascismo stenta a passare. ©UNICOPLI Memorie e storie del brigantaggio nell’Italia liberale, di Enrico Francia 364 Notizie sugli autori e abstract dei capitoli Enzo Fimiani, responsabile del personale tecnico-amministrativo nell’Università di Chieti-Pescara, ha conseguito l’Abilitazione scientifica nazionale a professore associato di Storia contemporanea. Coordinatore e componente di ricerche e comitati scientifici nazionali, è autore di molte pubblicazioni tra cui “L’unanimità più uno”: plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVIII-XX), Milano, Le Monnier, 2017. ©UNICOPLI Storiografia e uso pubblico nell’Italia repubblicana, di Carlo Spagnolo La storiografia sul grande brigantaggio è strettamente intrecciata agli studi sull’Unificazione italiana, ed è da sempre al centro di un intenso, di recente spregiudicato, “uso pubblico”. Essa conosce soltanto dopo il 1945, con l’avvento della democrazia, una autentica apertura metodologica che supera approcci eruditi e localistici. Al centro è inizialmente la “questione sociale” e il suo rapporto con la “questione meridionale”. Il saggio affronta le principali tesi e acquisizioni della storiografia repubblicana e il loro uso pubblico, incluse le celebrazioni dell’Unità nel 2011 e le risoluzioni dei consigli regionali di Basilicata e Puglia del 2017. Carlo Spagnolo è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli studi di Bari, e titolare di una Cattedra Jean Monnet di storia e politica dell’integrazione europea; membro del Comitato scientifico della Fondazione Gramsci di Roma, e direttore dell’Associazione per la storia della Puglia e del Mezzogiorno nell’integrazione europea. Fa parte della Direzione della rivista “Studi storici” e del Comitato scientifico della rivista “Ricerche storiche”. L’insegnamento storico fra didattica e popular history. Il grande brigantaggio a scuola, di Annastella Carrino e Claudia Villani Il saggio pone la questione dell’insegnamento della storia, assediata dalle sollecitazioni del dibattito pubblico, dalle rielaborazioni memoriali e dalla popular history, sullo sfondo in particolare del revival neoborbonico. Si constatano le contraddizioni aperte dalla discrasia fra queste dimensioni, la tenuta dell’insegnamento della storia nelle scuole e i saperi esperti. A fronte di questa situazione, si sottolinea, da un lato, la sostanziale inerzia della manualistica scolastica, e, dall’altro, la fecondità di proposte laboratoriali che aiutino i giovani a pensare storicamente, distinguendo tra conoscenza storica, usi e abusi del passato. Annastella Carrino è docente di Storia moderna presso l’Università di Bari. Negli ultimi anni la sua attività di ricerca si è concentrata sulla politica urbana nel Mezzogiorno di età moderna; sui profili mercantili e le forme di impresa famigliare nel Mediterraneo sette/ottocentesco; sulle forme di narrazione del Notizie sugli autori e abstract dei capitoli 365 fenomeno del brigantaggio; su tematiche legate alla storia di genere. Si è interessata anche di didattica della storia. Claudia Villani è ricercatrice di storia contemporanea presso l’Università di Bari, dove insegna storia culturale e didattica della storia. Negli ultimi anni la sua attività di ricerca si è concentrata sulla storia culturale dell’europeismo e dell’internazionalismo, sul rapporto tra narrazioni storiche e nuovi media, sull’insegnamento della storia e le nuove sfide della public history e della digital history, sul rapporto tra politiche della memoria e politiche educative. Briganti nelle nuove “foreste” del web, di Christopher Calefati, Antonella Fiorio e Federico Palmieri Christopher Calefati è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Pavia in cotutela con il Centre de recherche en histoire européenne comparée (Upe). Si occupa di iconoclastia politica nel Mezzogiorno del XIX secolo. Tra le ultime pubblicazioni: La lingua affilata. Repertori di ingiuria politica e il caso delle Puglie del 1848-49, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 1-2/2019, pp. 75-90. Antonella Fiorio è dottoranda in Scienze delle relazioni umane presso l’Università degli studi di Bari, dove studia la politica estera italiana nell’Europa danubiana tra le guerre mondiali. Si occupa anche di Public history e Digital humanities. Tra le ultime pubblicazioni: con V. Saracino, Così vicini, così lontani. La prossimità italo-albanese dalle origini del secolo breve alla Resistenza, Besa, Nardò 2020. Federico Palmieri è dottorando in Studi umanistici presso l’Università di Bari, in cotutela con l’Universidad de Cantabria. Si occupa di conflittualità e politica urbana nel Mezzogiorno spagnolo e di contronarrazioni risorgimentali su web e social networks. Tra le ultime pubblicazioni: con C. Calefati e A. Fiorio, ©UNICOPLI Pochi strumenti al pari di internet riescono a canalizzare una straordinaria quantità di informazioni destinate a miliardi di utenti e a fungere da cassa di risonanza per numerose ed eterogenee cause mediatiche. I moderni circuiti di comunicazione di massa hanno permesso alla contronarrazione risorgimentale di diffondersi sul web, dove le insorgenze digitali trovano ampi spazi per la propria affermazione nel discorso pubblico. Questo contributo mira a fornire un’analisi delle riletture del brigantaggio su siti internet e social networks, a partire da materiali letterari e audiovisuali elaborati tra XIX e XX secolo. Si mostrano gli strumenti utilizzati a supporto della vulgata antirisorgimentale che, tramite linguaggio diretto, slogan, icone e fotomontaggi, pongono l’utente di fronte a numerose difficoltà al momento di valutarne la veridicità. Si affrontano, sinteticamente, le metodologie della ricerca online, alla luce delle risposte che il web offre a domande di ricerca su brigantaggio e Risorgimento. 366 Notizie sugli autori e abstract dei capitoli Storia e fake news: il caso del neoborbonismo, in «Ricerche di storia politica», 1/2020, pp. 59-70. ©UNICOPLI La mobilitazione pubblica della memoria culturale del brigantaggio nel Mezzogiorno del nuovo millennio, di Maria Teresa Milicia Il contributo delinea gli sviluppi del processo di costruzione della memoria pubblica della figura del “brigante” negli ultimi decenni. In questo contesto emerge la matrice spazio-temporale di intersezione degli eventi celebrativi della storia risorgimentale della nazione con le contestazioni della memoria nazionale e le controcelebrazioni della memoria dei vinti. Il quadro analitico sintetizza tre momenti della costruzione di luoghi e pratiche memoriali:l’espansione territoriale, la diffusione dei siti web e l’attuale presenza pervasiva sui social. Maria Teresa Milicia è ricercatrice e docente di Antropologia culturale al Dipartimento di scienze storiche, geografiche e dell’antichità dell’Università di Padova. Ha condotto ricerche etnografiche nel Sud Italia, in Campania e in Calabria. Dal 2011 svolge ricerca etnografica sugli usi politici del passato e la patrimonializzazione del “brigante” nel Sud d’Italia. Parte seconda LA GUERRA AI BRIGANTI. LA STORIOGRAFIA MILITARE SUL BRIGANTAGGIO La storiografia militare sul brigantaggio. Una visione d’assieme, di Nicola Labanca Che il “grande brigantaggio” insorto al tempo dell’Unificazione nazionale italiana e contro di essa non fosse un fenomeno solo militare ma politico, sociale e culturale era evidente agli stessi protagonisti, in particolar modo a quei militari delle forze armate del nuovo Stato unitario chiamate a reprimerlo. E che non lo fosse è chiarissimo oggi agli storici e alle storiche che lo studiano da una pluralità di prospettive appunto politiche, sociali e culturali. Ma tutto ciò non toglie che sia la guerra dei briganti sia la guerra ai briganti – proprio perché lo Stato nazionale scatenò contro di loro una guerra – conobbero una dimensione militare. Tale dimensione è stata fatta oggetto di numerose pubblicazioni e studi, che il saggio passa in rassegna, collegando le grandi fasi del processo di Unificazione nazionale e della storia dell’Italia unita con l’evoluzione degli studi storico-mili- Notizie sugli autori e abstract dei capitoli 367 tari italiani, delineandone sette fasi e indicando risultati della ricerca e domande ancora senza risposte. Nicola Labanca insegna Storia contemporanea all’Università di Siena. Studia la storia militare e la storia coloniale dell’Italia unita. È dal 2002 Presidente del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari. Ha diretto dal 2013 “Italia contemporanea”, rivista dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia, oggi Istituto nazionale Ferruccio Parri. Le pubblicazioni degli Uffici storici militari, di Alessandro Gionfrida Alessandro Gionfrida (Roma, 1964) nel 1989 si è laureato in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Nel 1996 si è diplomato presso la Scuola speciale per archivisti e bibliotecari di Roma e nel 2005 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in “Storia d’Europa” sempre presso La Sapienza. Attualmente ricopre l’incarico di archivista di stato presso l’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito. Pubblica sicurezza, guardie nazionali e brigantaggio tra memorialistica e storiografia, di Emilio Scaramuzza Il rapporto tra polizia e brigantaggio costituisce un tema poco studiato nel panorama degli studi risorgimentali. Il saggio cerca quindi di determinare – sviluppando una riflessione tra memorialistica e storiografia – quali siano stati i tratti caratteristici di questo binomio dopo l’Unità. Negli anni, i lavori incentrati sulla categoria della repressione hanno lasciato il posto a ricostruzioni puntuali di figure, corpi e momenti chiave della lotta al brigantaggio, che hanno talvolta trascurato la questione delle pratiche di polizia, meritevole di nuovi approfondimenti. ©UNICOPLI L’intervento riguarda l’attività storiografica dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito relativa alla guerra contro il brigantaggio meridionale. Il ruolo centrale dell’esercito nella repressione del grande brigantaggio è un dato acquisito da tutta la storiografia, eppure ancora ad oggi non è stata redatta una relazione ufficiale su quella campagna. Dal 1875 al 1912, l’Ufficio storico pubblicò le relazioni ufficiali sulle guerre d’indipendenza ignorando quasi del tutto la lotta al brigantaggio ma a cavallo della Grande guerra alcuni ufficiali sentirono l’esigenza di studiare il fenomeno dal punto di vista militare, influenzando così la successiva attività editoriale dell’Ufficio storico. Dalla seconda guerra mondiale ad oggi, l’Ufficio storico ha pubblicato alcuni lavori sull’argomento, sia valorizzando le fonti conservate nel proprio archivio, sia approfondendo gli aspetti tecnici della controguerriglia. 368 Notizie sugli autori e abstract dei capitoli Emilio Scaramuzza (Milano, 1988), dottore di ricerca in storia (Aix-Marseille Université e Università degli studi di Milano), è assegnista post-doc presso l’Archivio del Moderno, Università della Svizzera italiana. È autore di alcuni contributi sul Risorgimento in Sicilia, il volontarismo garibaldino e le forze di polizia in Italia durante l’unificazione. ©UNICOPLI Parte terza LA GUERRA DEI BRIGANTI. SOGGETTIVITÀ SOCIALI, POLITICHE E CULTURALI La guerra dei briganti tra quadri territoriali, sentimenti, rappresentazioni, di Renata De Lorenzo La guerra dei briganti, vista nell’ottica di coloro che ne furono i variegati protagonisti, rivela inedite e molteplici sfumature di un fenomeno di lungo periodo, acuito in alcune fasi dal dinamismo dei quadri politici e da congiunture di carattere nazionale e internazionale. Analisi su base regionale mettono in luce, contro la tendenza a sminuire la complessità per sintesi di tipo manicheo, il condizionamento dei quadri ambientali, le motivazioni occasionali, le connivenze locali. Fra delinquenza e politicizzazione si aprono gli spazi dei miti e si precisa un percorso di ricerca attento ai contrastanti sentimenti che qualificano un “patriottismo” antiunitario nella ricerca della sua legittimazione. Renata De Lorenzo, già docente di Storia contemporanea presso l’Università di Napoli Federico II, è membro di varie società scientifiche e dal 2010 è Presidente della “Società Napoletana di Storia Patria”. Autrice di saggi sulla storia d’Italia e del Mezzogiorno nel Settecento e nell’Ottocento, con preferenza per tematiche di carattere culturale e socio-economico, ha pubblicato fra l’altro Gioacchino Murat, Roma, Salerno, 2011, e Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, Salerno, 2013. Sta preparando un saggio sulle rivoluzioni degli anni Venti del secolo XIX. L’Abruzzo dei briganti, 1860-1871, di Nunzio Mezzanotte Il brigantaggio postunitario presentò caratteristiche generali comuni a quasi tutto il Mezzogiorno: ne ebbe però anche di specifiche, diverse non solo da regione a regione, ma anche all’interno della stessa area. È il caso dell’Abruzzo, a causa della complessa morfologia del territorio e della vicinanza allo Stato della Chiesa da cui furono organizzate varie attività delle bande. Queste nascevano Notizie sugli autori e abstract dei capitoli 369 principalmente dalla mancata riforma agraria e dal servizio di leva che spinsero molti giovani a dar man forte ai già resistenti filoborbonici. Tutti questi elementi hanno tracciato una mappa dei luoghi in cui il brigantaggio si è manifestato in maniera più cruenta e duratura. Il massiccio della Majella e l’alta valle del fiume Sangro hanno visto la nascita di numerosi capibanda che hanno impegnato le forze dell’ordine fino al 1871. Partendo dalla consultazione di archivi non solo locali ma anche nazionali il lavoro tenta di rispondere ad interrogativi e dubbi posti più di 150 anni fa e che risultano tutt’altro che sopiti. Nunzio Mezzanotte (1981) è docente di scuola secondaria e cultore della materia in Storia della storiografia medievale presso l’Università G. D’Annunzio di Chieti. Oltre a diverse pubblicazioni in ambito medievale si è occupato, in collaborazione con l’Ente Parco Nazionale della Majella, di studi sul brigantaggio postunitario pubblicando nel 2019 il volume Briganti della Maiella, personaggi, luoghi e avventure e ideando percorsi della memoria sull’argomento. Il saggio disegna un bilancio storiografico sul grande brigantaggio in Campania. La riflessione si sofferma sugli studi locali, analizzati attraverso domande e linee interpretative che si evincono dagli studi generali sul tema. In particolare, tiene conto di tre aspetti/nodi problematici: 1) il rapporto fra banditismo rurale, rivolta sociale e controrivoluzione politica nelle singole province; 2) un focus su particolari casi locali, la cui eccezionalità/specificità ha condizionato la narrazione e l’immagine del grande brigantaggio nel suo complesso; 3) un focus su altri casi locali, al fine di osservare non tanto l’applicazione dei dispositivi repressivi predisposti dal governo centrale, quanto la collaborazione fra élites provinciali e governo in tale applicazione. Viviana Mellone è dottore di ricerca in Storia dell’Europa nell’età moderna e contemporanea (2012). Le sue ricerche vertono sulla mobilitazione politica nel Mezzogiorno preunitario e sulla Restaurazione nello spazio borbonico. Fra le sue pubblicazioni: Napoli 1848. Il movimento radicale e la rivoluzione, Milano, Franco Angeli, 2017 e La Restaurazione Atlantica. La Conferenza di Parigi sulla Banda Oriental (1816-1819), Napoli, Esi, 2020. Briganti perché. Profili e motivi del brigantaggio pugliese attraverso le fonti giudiziarie, di Alessandro Capone, Elisabetta Caroppo Il saggio approfondisce la dimensione di conflitto civile assunta dal grande brigantaggio meridionale analizzando i profili e le motivazioni individuali dei protagonisti dell’insurrezione legittimista e della guerra per bande in Pu- ©UNICOPLI Il grande brigantaggio in Campania. Storia e storiografia, di Viviana Mellone 370 Notizie sugli autori e abstract dei capitoli ©UNICOPLI glia attraverso una lettura di testimonianze e interrogatori raccolti nel corso dei procedimenti condotti dalla giustizia penale ordinaria e dalla giustizia militare. Emergono così le traiettorie personali di capibanda e protagonisti minori del brigantaggio mossi da una congerie di obiettivi diversi e convergenti, per i quali tuttavia l’inserimento nel conflitto meridionale rappresentò il compimento o l’avvio di una fase di intensa politicizzazione. Alessandro Capone è assegnista in storia contemporanea all’Università di Salerno, nell’ambito del progetto Prin-2017 Il brigantaggio rivisitato. Narrazioni, pratiche e usi politici nella storia dell’Italia moderna e contemporanea. Dottore di ricerca in cotutela tra SciencesPo (Parigi) e Scuola normale superiore (Pisa), sta lavorando sulle occupazioni militari nell’Italia ottocentesca. Elisabetta Caroppo è professore aggregato presso l’Università del Salento. Autrice di vari contributi sulle piccole borghesie, sui processi di emigrazione dell’Italia meridionale e sul turismo, recentemente ha studiato i processi di politicizzazione nel Mezzogiorno risorgimentale e ha curato il seminario Sissco I ceti medi nell’Italia del Novecento. Politica, rappresentanza, impresa e welfare in una prospettiva internazionale. Per una rilettura del brigantaggio post-unitario in Basilicata tra storia e storiografia, di Alessandro Albano Il contributo, muovendo da una preliminare analisi delle principali acquisizioni storiografiche sulla “questione” brigantaggio, fa perno sulla ricostruzione ed analisi del fenomeno, oggi riconsiderato, anche per la realtà di Basilicata, nella sua dimensione prettamente politica, nel più complessivo quadro di “riletture” in atto del difficile percorso di “costruzione” dell’Italia unita da Sud. Rispetto al quale, la provincia di Basilicata risulta essere stata in prima fila, sul terreno della cultura e pratica politica, a partire dal 1799 e, non certo casualmente, la più incisivamente segnata dall’azione di bande brigantesche, vero e proprio “strumento in mano alla reazione borbonica”. Alessandro Albano è dottore di ricerca in Storia, culture e saperi dell’Europa mediterranea dall’antichità all’età contemporanea. Tra i suoi prevalenti interessi di ricerca è la ricostruzione dei ruoli e delle funzioni esercitati da ceti e gruppi dirigenti meridionali lungo il ciclo della modernità. È attualmente docente a contratto di Laboratorio di esegesi delle fonti storiche nell’Università degli studi della Basilicata. Notizie sugli autori e abstract dei capitoli 371 Narrazioni, discorso pubblico e studi storici sul brigantaggio in Calabria. Una galassia di narrazioni, Giuseppe Ferraro Il tema del brigantaggio negli ultimi anni è al centro di un dibattito pubblico spesso polarizzato su posizioni opposte ma non sempre suffragato dall’indagine storico-critica. Il saggio analizza la genesi e l’evoluzione di queste narrazioni in Calabria, riflettendo anche sulle cesure, sui mutamenti e sulle persistenze che il racconto del brigantaggio e dei briganti ha avuto tra Ottocento e Novecento. La forza di penetrazione che il fenomeno ha avuto nella società meridionale emerge proprio da queste narrazioni, le quali dimostrano un’influenza stratificata e poliedrica, che va ben oltre gli anni 1860-1870. Queste narrazioni, che restituiscono in parte la complessità del fenomeno, le sue radici di lungo periodo, le diverse energie che si fronteggiano al suo interno, oggi portano storici e studiosi a confrontarsi con la storia dell’Ottocento in un quadro non solo territoriale, anche per dare risposte al presente. ©UNICOPLI Giuseppe Ferraro, dottore di ricerca presso l’Università di San Marino, è docente di storia e filosofia. Le sue ricerche sul brigantaggio hanno ricevuto i premi “Spadolini-Nuova antologia” e “P.P. D’Attorre”. Tra le sue pubblicazioni sul tema Il prefetto e i briganti, Milano, Le Monnier, 2016. Presiede il Comitato provinciale di Cosenza dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Fa parte del Centro studi “Paolo Prodi” dell’Università di Bologna. ©UNICOPLI INDICE DEI NOMI* * A cura di Filippo Masina. Aprile, Pino, 10, 108, 109n, 110, 112, 129 e n, 138, 153, 161, 162, 163n, 171 e n, 172, 180n, 201n, 202n, 296, 297n Aquarone, Alberto, 92n, 236 e n Arbore, Renzo, 160 Argentieri, Angelo Maria, 266n Arielli, Emanuele, 142n, 146n, 147n Arrighi, Giovanni, 91 e n Assmann, Aleida, 128n, 155, 156 e n Assmann, Jan, 156n Avenati, Carlo A., 53n Azzarelli, Andrea, 255n Azzarone, Pasquale, 308n Bacchelli, Riccardo, 62 e n Baioni, Massimo, 32n, 60n Baldacci, Massimo, 117n Bandiera, Emilio, 329 Banfi, Emanuele, 249n Banfield, Edward C., 73 e n, 108 Banti, Alberto Mario, 93n, 96 e n, 124n, 129n, 187, 195 e n Barbagallo, Corrado, 79n Barbagallo, Francesco, 91n Barberis, Walter, 25n, 99n, 178n, 217n, 245n, 336n Barbero, Alessandro, 102n, 108n, 136n, 138n, 144n, 194n, 201n, 212n, 244n Barcella, Paolo, 158n, 162n Bargellini, Piero, 61 e n Barletta, 268 Barletta, Giuseppina, 127n Barone, Lucio, 161, 162 ©UNICOPLI Abba, Giuseppe Cesare, 84 Acciardi, Gennaro Maria, 324n Adami, Giuseppe, 64 Adorni, Daniela, 98 e n, 192n, 217n Adorno, Salvatore, 126n Aguilar Fernandez, Paloma, 118n Alatri, Paolo, 72 e n, 98 Albano, Alessandro, 246, 252 Alberini, Paolo, 219n Albonico, Aldo, 88n, 282n, 286n Ales, Stefano, 237 e n Alianello, Carlo, 62 e n, 82, 137-139 e n, 163 e n, 164 e n, 166, 172, 243, 296 e n Alicata, Mario, 58 Alighieri, Dante, 344 Allegrini, Aldo, 64 Allodi, Aldobrando, 218n Alonzi, Luigi (Chiavone), 88n, 111, 253, 258, 264-266, 272-274 e n, 286 e n Amato, Giuliano, 109 Ambrosi, Luigi, 126n Amos, James F., 219n Anelli, Luigi, 25n Angelici, Felice Antonio, 262, 266n Angelilli, f.lli, 266n Angelini, Daniele, 95n Angelini, Margherita, 126n Angiolillo, v. Duca, Angelo Anselmi, Sergio, 263n Antonelli, Giuseppe, 145n Antonielli, Livio, 238n Antonucci, Giovanni Battista, 268 Appelius, Mario, 59n ©UNICOPLI 374 Indice dei nomi Barra, Francesco, 89 e n, 90, 281-286 e n Basso, Filippo, 307 Battaglini, Tito, 49n, 57n, 58n, 210 e n, 211 e n, 217n Battifora, Paolo, 130n Battista, Camillo, 324 e n, 325 Battista, Pierluigi, 109n Bedin, Giuseppe, 61 Belardelli, Giovanni, 37n, 177n Belli, Piero, 59n Bellusci, 345 Beltrami, Angelo, 64 Belviglieri, Carlo, 25n, 30, 31n Beneventano del Bosco, Ferdinando, 312 Benigno, Francesco, 114n, 142n, 258n, 296n, 361n Benkler, Yochai, 158n Bennato, Eugenio, 138, 164, 243 e n Benso conte di Cavour, Camillo, 10, 12, 19, 27n, 76, 80, 112, 144, 145, 187, 216n Berardi, Ciro, 64 Berger, Stefan, 118n, 119n Bergia, Chiaffredo, 276 Bernardi, Paolo, 127n Berners-Lee, Tim, 158 Berselli, Aldo, 235 e n, 236 Berta, Giuseppe, 98n Bertilotti, Teresa, 149 Bettalli, Marco, 187n Bettini, Maurizio, 155n Bevernage, Berber, 118n Bevilacqua, Piero, 91n, 95n, 157n, 340n, 346n Bianchini, Ludovico, 244 e n, 245, 254 Bianco, Pietro, 343, 344 Bianco di Saint Jorioz, Alessandro, 27, 28 e n, 24, 186 e n, 188, 218n, 225-229 e n, 235, 281n, 286n Biondi, Rocco, 171 e n, 180n, 202n, 212n Biscione, Francesco M., 69n Bistarelli, Agostino, 85n Bixio, Nino, 84, 144, 168, 293 Bloch, Marc, 177n Boccaccino, Rocco, 291n Bonanni, Ercole, 263n, 277 e n Bonaparte, Giuseppe, 48 Bonatesta, Antonio, 202n Bonci, Gianluca, 220n Bonvini, Alessandro, 101n Bono, Errico, 268, 269 Bordini, Simone, 136n Borjès, José, 46, 51, 54, 74, 86, 88n, 102, 193n, 254, 264, 331, 335 Borrelli, Nicola, 46n, 47n, 49n, 51n, 57n Boschetti, Lucia, 123n Bosco, Fioravante, 165, 169 Bosio, Gianni, 83 Bossi, Umberto, 171 Bottai, Giuseppe, 59 e n Bottazzi, Gianfranco, 157n Bottazzini, Paolo, 142n, 146n, 147n Botti, Ferruccio, 196 e n, 218 e n Bourelly, Giuseppe, 218n Bovio, Oreste, 196 e n, 205n, 217 e n, 218n Boyd, D., 159n Bracci, Luigi A. 294 Breccia, Gastone, 223n Bresil, Luciana, 125n Briggs, Asa, 148n Brunetta D’Usseaux, Carlo Augusto, 348n Bruni, Francesco, 313 Brusa, Antonio, 118n, 122n, 124, 125 e n, 127n, 130n, 132n, 172n Bucci, Ermenegildo, 266n Buccitelli, Raffaele, 271 Bufano, Giuseppe, 315n Burstin, Haim, 194n Buttà, Giuseppe, 291n Buttiglione, Antonio, 247n, 282n Cadet, Nicolas, 247n Cadorna, Raffaele Alessandro, 214 Cafagna, Luciano, 37n, 177n Caiazza, Antonio, 287 e n Caillaud, Hélène, 247n Cajani, Luigi, 118n, 122n, 124n, 126n Calà Ulloa, Pietro, 38n, 170n, 233, 281n, 293 e n Calabrese, Giuseppe, 318n Calefati, Christopher, 113n, 121n, 126n, 135n, 136n, 149n, 202n Calligaro, Oriane, 118n Camerini, Angelo, 267n Campana, Andrea, 252n Indice dei nomi Ceccoli, Paolo, 119n Cecconi, Ferdinando, 266n Cedrone, Francesco, 215 Celestino, Domenico, 273n, 286n Centrillo, v. Coia, Domenico Cercone, Franco, 276n, 278n Cervi, Mario, 97 e n Cesari, Cesare, 16, 53n, 75, 92, 179 e n, 188 e n, 191, 203, 206-211 e n, 217, 220, 282n, 348n Cesarino, Letícia, 159n Ceva, Lucio, 192 e n, 373 Chauvard, Frédéric, 258n Chauvaud, Frédéric, 247n Chessa, Pasquale, 97n Chiavone, v. Alonzi, Luigi Chinchio, Giacinto, 266n Chiodo, Maria Gabriella, 340n Chiti, Roberto, 140n Cialdini, Enrico, 78, 93, 94, 102, 132, 144 e n, 209, 214, 217, 234, 254, 289n, 291 Ciampi, Carlo Azeglio, 109, 168n Cianciulli, Michele, 38n, 44 e n, 45n, 46n, 48n-51n, 53n, 55n, 56n, 58n Ciano, Antonio, 140, 141n, 161 e n, 162, 170, 171 e n, 296 e n Ciarma, Miria, 271n, 274n, 278, 279n Ciasca, Raffaele, 40n, 57n, 60n, 75 Ciccone, 215 Ciconte, Enzo, 7, 110, 111n, 201n, 246n, 341n, 361n Cignarella, Andrea, 309n Cilibrizzi, Saverio, 45n-47n, 53n, 57n Cimmino, Alessandra, 138n Cingari, Gaetano, 24n, 89n, 90n, 340n, 355n Cinnella, Ettore, 206n Ciocca, Pier Luigi, 7, 110, 111 e n, 114n, 339n Clemente, Giuseppe, 193n, 255n, 305n, 319 e n Codipietro, Salvatore, 310 Coia, Domenico (Centrillo), 266n Colacino, Carmine, 169n Colafella, Angelo Maria, 257, 266n, 269271 Colajanni, Napoleone, 231 e n Colamarino, Ferdinando, 266n ©UNICOPLI Camposano, Raffaele, 237 e n Cannistraro, Philip V., 63n Cannone, v. Valerio, Domenico Canosa, Romano, 263n, 265n, 270n, 272n, 273n, 276n, 278 e n Capanna, Emidio, 266n Capomazza, Carlo, 28-31 e n Capone, Alessandro, 25n, 26n, 37n, 45n, 66n, 81, 82n, 104n, 190n, 200n, 217n, 250, 303n, 304n, 305n Cappellano, Filippo, 197 e n, 205n, 206n, 219n Cappelli, Vittorio, 60n, 346n Cappiello, Michele, 54n Cappucci, Francesco, 265, 266 e n Capuana, Luigi, 233 Caputo, Annalisa, 126n, 129n Capuzzo, Ester, 40n Carella, Vincenzo, 314n-317n, 320n Carestia, Berardino, 270 Carignano, principe di, v. Eugenio Emanuele di Savoia Caron, Jean-Claude, 247n Caroppo, Elisabetta, 249n, 303n, 312n Carpiniello, Serafino, 318 Carretero, Mario, 118n, 119n Carrino, Annastella, 18, 83n, 117n, 120n, 121n, 123n, 149n, 151n Carrot, Georges, 238n Carteny, Andrea, 210n Caruso, Michele, 214, 254, 305, 309-311 e n, 329 Caruso, Peppe, 215 Casale, Pasquale, 264n, 278n Casalena, Maria Pia, 48n, 110n, 296n Cascavilla, Francesco, 306 e n Casella, Francesco Antonio, 79 Casella, Mario, 238 e n Casini, Gherardo, 63n Cassina, Cristina, 91n Castagnola, Stefano, 222 e n, 281n Castellano, Giovanni, 82n Castells, Manuel, 158n Caterina II di Russia, 132 Cattaneo, Massimo, 48n Cattani, Adelino, 128n Cecalupo, Marco, 130n Cecchinato, Eva, 93n, 217n 375 ©UNICOPLI 376 Indice dei nomi Colaneri, Domenico, 275 Colantonio, Donato, 266n Colapietra, Raffaele, 15, 71, 73, 89 e n, 90 e n, 193n, 257, 277n, 278 e n, 366 e n Colarizi, Simona, 43n, 141n Colasimone, Camillo, 266n Colonna, Luzio (Tartaglia), 266n Colombo, Alberto, 226, 373 Conrad, Christoph, 119n Consiglio, Alberto, 48 Conte, Paolo, 321n, 322n, 336n Conti, Giovanni, 232, 233 e n Coppolone, v. Crichigno, Rocco Corra, Bruno, 61 e n Corrado, Salvatore, 317n Corsi, Carlo, 206 e n Corso, Guido, 236 e n Corvaglia, Ennio, 113n Cospito, Giuseppe, 85n Costa, Pasquale, 269 Costa, Tolomeo, 269 Cotturelli, Giuseppe, 310, 311n Craveri, Piero, 141n Crescenzi, Andrea, 197 e n, 205n, 206n, 219n Crichigno, Rocco (Coppolone), 312 Criscione, Antonino, 149 e n Cristella, Arcangelo (Prichillo), 312 e n, 318 e n Cristini, Domenico, 266n Cristofori, Franco, 61n Crocco, Angelo, 243n Crocco, Carmine, 24, 74, 86 e n, 88n, 90, 111, 132, 153, 167, 193n, 215, 254, 256, 257, 264, 297n, 304, 305, 311, 322 Croce, Benedetto, 8, 15, 16, 24 e n, 33-35 e n, 48 e n, 61 e n, 72 e n, 75, 82n, 211n, 286n Crociani, Piero, 92n, 199n, 219 e n, 237 en Crucitte, v. De Tola, Croce Cuomo, Vincenzo, 237 e n Curcio, Peppino, 339n D’Addario, Giovanni, 306n D’Agostino, Filomena, 312n Daisy, Martin, 126n Dal Ceredo, S., 162n D’Amalfi, Tommaso Aniello (Masaniello), 122, 132 D’Ambrosio, Gaetano, 90n, 287, 288 e n D’Amore, Fulvio, 265n, 278 e n D’Andrea, Umberto, 277 D’Angiò, Carlo, 138, 164, 243n Daniele, Vittorio, 114n D’Arcy, Hanna, 172n Davis, John A., 66n, 90n, 101n, 217n, 231n, 236 e n De Angelis, Marco, 221n, 237, 238n De Biasi, Giovanni, 316n De Blasi, Nicola, 23n De Boni, Filippo, 249n De Bonis, Mario, 344n De Caesaris, Giovanni, 46n, 54 De Capua, Giuseppe, 340n De Cesare, Raffaele, 44n-46n, 48n, 49n, 52n, 55n, 56n, 82n De Crescenzo, Alfredo, 45n, 46n, 54n De Crescenzo, Gennaro, 159 e n, 160n, 162n, 165 e n, 168, 170n De Felice, Franco, 84n, 91, 92n De Felice, Laura, 199n, 219n De Felice, Renzo, 63n, 97n De Francesco, Antonino, 27n, 30n, 140, 141n, 145n, 248n, 253n, 327 e n, 330n De’ Gennaro, Maso, 57n De Girolamo, Nunzia, 112n, 202n De Grazia, Michelangelo, 50n, 57n De Gregorio, Epifanio, 290 De Groot, Jerome, 151n De Jaco, Aldo, 83n, 201 e n, 211n Del Boca, Lorenzo, 138n De Leo, Antonio, 353n Deleuze, Gilles, 142n Del Giudice, Achille, 289 e n, 298-302 Del Guzzo, Angelo, 266n, 276 Della Casa, Stefano, 140n Del Lago, Enrica, 247n Della Peruta, Franco, 72 e n, 98 Della Rocca, Enrico, 213, 218n Delle Donne, Giuseppe, 266n Del Negro, Piero, 30n, 93, 179 e n, 192 e n, 196 Del Nero, Angelo, 266n De Lorenzo, Renata, 18, 87n, 110, 136n, 194n, 319n Indice dei nomi Di Sciascio, Giovanni, 266n Di Silvio, Domenico, 268, 269 Di Terlizzi, Pompeo, 93n Donatelli, v. Crocco, Carmine D’Onofrio, Leonardo, 269 Doria, Gino, 38n, 40n, 44 e n, 45n, 48n, 51n-53n, 55n, 60n, 72n Dorso, Guido, 69 e n, 73 D’Orsogna, Francesco Paolo, 267n, 277 en Dragonetti, Luigi, 267 Duby, Georges, 132n Duca, Angelo (Angiolillo), 24, 33 Dunning, David, 148n Dupuy, Roger, 238n Durando, Giovanni, 214 Durante, Lea, 18, 19, 140n D’Urso, Donato, 238n Eco, Umberto, 145 e n Erll, Astrid, 156n Esperti, 226 Esposito, Assunta, 244n Esposito, Giulio, 45n, 320n Esposito, Raffaele, 268 Ettorre, Giuseppe, 267n Eugenio Emanuele di Savoia (principe di Carignano), 80 Facineroso, Alessia, 293n Falcone, Michele, 307n Fanti, Antonio (Strillo) , 266n Fanti, Domenico, 266n Faraci, Elena G., 94n Farini, Luigi Carlo, 27 e n, 144, 145 Febvre, Lucien, 177n Felice, Emanuele, 114n Fenoaltea, Stefano, 114n Ferdinando IV di Borbone, 160n, 246 Ferrara, Domenico, 266n Ferrara, Patrizia, 64n Ferrari, Ivan, 305n Ferrari, Sebastiana, 278n Ferraro, Giuseppe, 225n, 239, 250, 251n, 252, 348n, 355n, 357n-361n Ferrecchia, Nicola, 311n Ferretti, Piero, 56n Ferri, Michele, 264n, 273n, 274n, 286n ©UNICOPLI Del Raso, Domenico, 269 Del Sambro, Angelo Maria, 308 Del Soldato, Amedeo, 266n Deluermoz, Quentin, 249n De Luna, Giovanni, 110n, 144n De Luna, P., 345n Del Zio, Basilide, 282n, 330n Demantowsky, Marko, 126n Demarco, Domenico, 73n De Martino, Ernesto, 72, 83, 86 Dematteo, Linda, 158n De Moulay, Jacques, 121 Dentoni-Litta, Antonio, 92n Depretis, Agostino, 106 De Riccardis, Patrizia, 221n De Rosa, Arturo, 64 De Rosa, Gabriele, 114 De Santis, Giuseppe, 58 e n Desiderio, Giancristiano, 136n, 143n, 254n, 290n, 291 De Sivo, Giacinto, 35 e n, 139, 254, 264, 281n, 293-295 e n, 301 De Tola, Croce (Crucitte), 266n, 276 Dewey, Caitlin, 148n De Witt, Angiolo, 30n, 186-188 e n, 218n, 281n Diamanti, Ilvo, 141n Di Brango, Enzo, 83n Di Carpegna Falconieri, Tommaso, 136n Di Cesare, Martoriano, 278n Dickie, John, 27n, 97 e n, 198n Di Fiore, Gigi, 10, 137n, 138n, 144n, 201n, 296 e n Di Gé, Michele, 23, 249n, 360n Di Giacomo, Antonio, 202n Di Giacomo, Salvatore, 23 e n Di Giorgio, Michele, 231n, 239n Di Giovine, Francesco Maurizio, 137, 138n Di Lello, Liberato, 298, 299, 301 Di Loreto, Giacomo, 275 Di Martino, Basilio, 197 e n, 205n, 206n, 219 e n Di Nardo, Berardino, 265, 266n Di Pasquale, Caterina, 155n Di Rienzo, Eugenio, 103n, 177n, 217n, 244n Di Sciascio, Domenico, 266n, 272, 275 377 ©UNICOPLI 378 Indice dei nomi Fidanza, 300 Fighera, Ada, 219n Filippi, Francesco, 136n Finley, Milton, 247n, 282n Fiore, Antonio, 101n Fiore, Tommaso, 69n Fiorella, Michelangelo, 306 Fiorio, Antonella, 113n, 121n, 135n, 136n, 149n, 202n Florj (o Flory), Angelo, 262, 266n Focardi, Filippo, 118n Focardi, Giovanni, 149 Folino Gallo, Rosella, 355 e n, 356 Fontana, Angelo, 215 Fonzi, Fausto, 238n Formiconi, Paolo, 219n Fortunato, Giustino, 15, 23-25 e n, 31 e n, 34, 75, 82n, 211n Fra’ Diavolo, v. Pezza, Michele Fraccacreta, Augusto, 45n Francesco II delle Due Sicilie, 7, 11, 31, 33, 46, 50, 52, 80, 89, 102, 137n, 145, 161, 218n, 246, 261, 268-271, 273, 275, 282-285, 287, 288, 290, 293 e n, 294, 297, 306, 309, 312-316, 318, 324, 334, 356 Franchetti, Leopoldo, 25, 140, 233 Francia, Enrico, 94n, 168n, 185n, 194 e n, 221n, 223n, 230 e n, 234n, 237 Francioni, Gianni, 85n Franchini, Enrico, 54, 544 Franzese, Carmine, 245, 356 Franzosi, Pier Giorgio, 212 e n, 213 Frisella Vella, Giuseppe, 40n Frosini, Fabio, 85n Fruci, Gian Luca, 18, 19, 35n, 83n, 113n, 120n, 121n, 127n, 129n, 136n, 137n, 149n, 151n, 201 e n, 202n, 296n Fumel, Pietro, 346, 349 Fimiani, Enzo, 68 Fuoco, Domenico, 215 Fusco, 294 Gai, Silvio, 60n Galasso, Giuseppe, 24n, 69, 88, 89n, 101n-103n, 106, 107n, 110, 244n, 245n, 304n, 320n, 336 e n, 340n-342n, 353, 358n Galli Della Loggia, Ernesto, 37n, 96n, 177n Garibaldi, Giuseppe, 12, 18, 19, 33, 53, 63, 75, 77, 80, 85, 93, 104, 106, 112, 144, 154, 160, 187, 208, 244, 247, 268, 269, 314, 322n, 347 Gasparro, Saverio, 266n Gaudioso, Francesco, 89n, 90n, 259, 321n, 353-355 e n Gazzini, Marina, 172n Gehler, Michael, 118n Gelli, Iacopo, 44n, 53n, 56n Geninasca, Jacques, 145 e n Genoino, Giulio, 132 Gentile, Emilio, 24n Gentile, Giovanni, 8 Gerratana, Valentino, 84n, 85 Gervaso, Roberto, 97n Gervasoni, Marco, 141n Giacchetti Boico, Giulia, 145n Giannola, Adriano, 129n Giardini, Fabrizio, 220n Giarrizzo, Giuseppe, 15, 69, 71, 73, 87 e n, 95, 108 Gifuni, Giambattista, 51n, 52n, 54n, 58n Gili, Jean A., 59n, 63n Gin, Emilio, 35n, 293n, 295 e n Ginsborg, Paul, 93n, 96n, 195n Gionfrida, Alessandro, 197 e n, 205n, 206n, 219n, 237n Giordano, Cosimo, 290, 293, 294, 298, 299, 301 Giorgi, Giacomo, 266n Giovagnoli, Agostino, 141n Giunta, Fabio, 252n Giura Longo, Raffaele, 238 e n Glinoer, Anthony, 249n Gogol’, Nikolaj Vasil’evič, 111 Govone, Giuseppe, 186, 209, 217, 225 e n Govone, Uberto, 53n Gramsci, Antonio, 8, 16, 69n, 71, 74, 8387 e n, 139, 140, 232 e n, 249 Grandi, Matteo, 143n, 147n Grassi Orsini, Fabio, 202n Grasso, Alfonso, 169n Gravina, Giuseppe, 309n Gray, Ezio Maria, 59n Greco, Ludovico, 169 Indice dei nomi Greco, Maria Grazia, 197 e n, 219n Gremmo, Roberto, 138n Grendi, E., 304n, 305n, 320n Grever, Maria, 118n Grilli, Raffaele, 266n, 268, 269 Gronet, 77n Groppo, Bruno, 118n Guagnano, Mario, 315n Guaracino, Scipione, 124n Guattari, Felix, 142n Guerri, Giordano Bruno, 59n Guevara, Ernesto “Che”, 82, 177n Guicciardi, Enrico, 225, 239, 341n, 347n, 350, 358-360 Guidi, Guido, 52n, 55n, 58n Gustapane, Enrico, 238n Iadonisio, 294, 295 Ianni, Francesco, 287 Ignazi, Piero, 141n Ippolito, Giuseppe, 312 e n Isastia, Anna Maria, 93 e n Isnenghi, Mario, 93n, 217n Izzo, Fulvio, 138n Jannazzo, A., 24n Jannuzzi, Saverio, 343 Jarausch, Konrad H., 118n Jean, Carlo, 93 Jelin, Elizabeth, 156n Jensen, Richard Bach, 236 e n Jones, Seth J., 175n Jovine, Francesco, 62 e n Kezich, Tullio, 58n Klitsche de la Grange, Theodor Friedrich, 77n Körber, Andreas, 126n Koselleck, Reinhart, 119n Kruger, Justin, 148n La Cecilia, Tommaso, 193n Lanaro, Silvio, 98n La Sorsa, S., 315n-317n Labanca, Nicola, 18, 92n, 179n, 181n, 184n, 187n, 200n, 230n, 231 e n, 235n, 239 e n Lafon, Jean Marc, 220n La Marmora, Alessandro, 76, 93, 94, 209, 214 Lancia, Enrico, 140n Landi, Maria Michela, 19, 86n, 220n, 301n La Porta, Lelio, 85n Laricchia, Antonella, 202n László, Janos, 119n Latini, Carlotta, 98n, 200n Lattanzi, Giovanni, 59n La Vella, Antonio, 272 Laveneziana, Giuseppe, 305, 315, 316 Lazzaretti, Davide, 85, 86 Lebow, Richard Ned, 122n Leitch, Thomas, 119n Lelj, Massimo, 48 Leoni, Francesco, 282n, 293n Leps, Marie-Christine, 357n Lerra, Antonio, 322n, 324n, 330n, 334n, 336n, 337n Leti, Giuseppe, 25n Leuzzi, Vito Antonio, 45n, 188n, 320n Levi, Carlo, 62 e n, 68, 69 e n, 73, 83, 86 Liberti, Egidio, 30n Liberto, Carlo, 64n Liguori, Guido, 100n, 140n Lindenberger, Thomas, 118n Livi, Massimiliano, 149 Locatelli, 15 Loizzo, Mario, 19 Lombardo, Raffaele, 141n Lombroso, Cesare, 26 e n, 146 Longanesi, Leo, 59 Lopez, 261 Lorusso, Anna Maria, 147n Lucarelli, Antonio, 41n, 45 e n, 62 e n, 71n, 163n, 188 e n, 211n, 306n, 314 e n, 320n ©UNICOPLI Habermas, Jürgen, 97 Heimberg, Charles, 128n Hepp, Andreas, 158n Heyriès, Hubert, 180 e n, 181n, 200n Hirsch, Marianne, 160n Hitler, Adolf, 73 Hobsbawm, Eric J., 81, 82 e n, 154n, 177n, 352 Hughes, Steven C., 236 e n 379 380 Indice dei nomi ©UNICOPLI Lucia, Ettore, 64n Lumbroso, Enrico, 50n Lumbroso, Giacomo, 48 Lupo, Salvatore, 18, 24n, 25n, 59n, 98100 e n, 103, 105, 100 e n, 157n, 178 e n, 195 e n, 198 e n, 217n, 245n, 304n, 336n Lutero, Martin, 73 Maccarone, Antonio, 266n Macchi, Giuseppe, 54n Macdonald, Sharon, 155n Mack Smith, Denis, 73 Macry, Paolo, 91n, 100 e n, 110, 114n, 297n Magnarelli, Paola, 202n Maio, Pietro, 266n Maiorino, Tarquinio, 43n Majano, Anton Giulio, 83n, 138 Malanima, Paolo, 114n Malorgio, Giovanni, 312 e n Mammarella, Giuseppe, 141n Manchon, Pierre-Yves, 255n Mancini, Pasquale (il Mercante), 266n, 272-274 e n Manella, Giuseppe, 310 e n Manfredi, Marco, 249n Mangiameli, Rosario, 95n Manhés, Antonio, 44n, 46n, 51n, 52n, 57n, 60n, 245 Manna, Angelo, 139 e n, 159 e n Manovich, Lev, 120n Manzi, Aurelio, 262n Mao Tse-Tung, 212 Maramotti, Benedetto, 238 Marasà, Giovanni, 59n Marchetto, Pasquale, 235n Marchi, Michele, 141n Marcucci, Fabiano (Primiano), 266n, 276 e n Margarita, monsignore, 313, 316 Maria Carolina di Borbone, 246 Maria Sofia di Baviera, 161, 269, 284 Marino, Gabriele, 144n, 266n Marino, Nicola (Occhie di Celle), 272, 275 Marinucci, Giuseppe, 272 Mariotti, Temistocle, 206n Marmo, Marcella, 101n, 243n, 247n Marra, Luigi, 298-300 e n Martelli, Sebastiano, 361n Martin, Jean-Clément, 30n, 153n Martucci, Roberto, 88n, 98n, 110n, 200n, 229n, 236 e n, 282n, 289n, 300n, 326n Marzana, Michele, 140n Masaniello, v. d’Amalfi, Tommaso Aniello Mascioli, Francesco, 266n Masella, Luigi, 112, 113n, 118n Massa, Eugenio, 206n, 211, 220 Massafra, Angelo, 91n Massari, Giuseppe, 25n, 26-30, 74, 80, 191, 222 e n, 223, 234, 253, 261, 262n, 274n, 281n, 295 e n, 326, 342, 360 Massobrio, Giulio, 179 e n, 192n Mastromatteo, Giuseppe, 308n Mastronardi, Vincenzo (Romaniello), 256, 322 Mastronardi d’Amati, 256, 322 Matteotti, Giacomo, 41 Maturi, Egidio, 51n Maturi, Walter, 40n, 60n Mazé de la Roche, Gustavo, 291, 307 Mazza, 226 Mazza, Gaetana, 247n Mazzacane, Vincenzo, 54n Mazzei, Antonio, 235n Mazzeo, Cosimo, 305, 312 Mazzini, Federico, 202n Mazzini, Giuseppe, 53, 112, 144, 187 Mazzoni, 93 Mc Farlan, Ross, 44n, 46n, 51n, 52n, 57n, 60n Mecola, Nunziato, 265, 266n Melchiorre, v. Venneri, Quintino Melchiorre, Lorenzo, 290 Melegari, Carlo, 223n Melis, Guido, 238n Mellone, Viviana, 251, 253, 256 Menarini, Alberto, 61n Mengele, Josef, 146 Mengozzi, Dino, 95n Mensurati, Stefano, 145n Mercante, v. Mancini, Pasquale Mercante, Annamaria, 129n Meriggi, Marco, 98n, 195n Indice dei nomi Napolitano, Giorgio, 168n Nardella, Tommaso, 89n, 193n, 218n Nardelli, Federico, 312n Nasuti, Domenico, 307n Natale, Nicola (Torniello), 266n Negri, Gaetano, 210n, 284 Ney, Michel, 329 Nichols, Thomas M., 147n Nicolini, Nicola, 41n, 47n, 48n, 50n, 61n Nicotera, Giovanni, 102 Nigro, Raffaele, 38n, 61n, 62n Ninco Nanco, v. Summa, Giuseppe Nicola Nisco, Nicola, 25n, 26 e n, 29, 29 e n, 31 en Nitti, Francesco Saverio, 23-25 e n, 27 e n, 29 e n, 30, 32 e n, 69, 139 e n, 243 e n, 334 e n Noiret, Serge, 149 e n Nolte, Ernst, 97 Nora, Pierre, 122n Nünning, Ansgar, 156n Occhie di Celle, v. Marino, Nicola Oddo Bonafede, Giacomo, 218n, 281n Onoratelli, Filippo, 298-302 Oriani, Alfredo, 32, 33 e n Orsi, Laura, 92n Orsini, Francesco (Pescivale), 266n Orsini, Vincenzo, 361 Ortalli, Gherardo, 184n Ortoleva, Peppino, 119n Ostuni, Anna Flavia, 129n Pace, Alessandro, 215 Pacifici, Vincenzo, 238n Padiglione, Vincenzo, 170 Padovani, Vincenzo, 314n Padula, Giacomo, Padula, Vincenzo, 252, 341 e n-350 e n Pagano, Antonio, 161n, 162 e n, 169n, 263n Paisiello, Giovanni, 160n Palamenghi Crispi, Tommaso, 49n Palazzo, Antonio, 104n Palazzo, Daniele, 37n Palma, v. Strafaci, Pietro Domenico Pallavicini di Priola, Emilio, 78, 92n, ©UNICOPLI Mezzanotte, Nunzio, 250, 257, 264n, 265n, 269n-272n, 274n-279n Micciché, Gianfranco, 141n Michel, Ersilio, 54n Mieli, Paolo, 109n Milani, Mino, 351 e n, 352 e n Milicia, Maria Teresa, 26n, 136n, 146 e n, 152n, 155n Milon, Bernardino, 352 Minghetti, Marco, 72, 287, 360 Minniti, Fortunato, 93, 192 e n Minuto, Emanuela, 249n Miozzi, Giuseppe, 53n, 179n Misasi, Nicola, 251 e n, 350 e n Moe, Nelson, 27n, 198n Moletta, Andrea, 169n Molfese, Franco, 7, 15, 16, 25n, 37n, 7483 e n, 85, 88-93 e n, 98, 100, 101104 e n, 110 e n, 111 e n, 138, 177n-179, 182, 190-192 e n, 194, 197, 200, 201, 203, 212 e n, 222n, 234 e n, 235 e n, 249, 263n, 264n, 281, 282 e n, 289n, 293n, 303, 305n, 334 e n, 335, 340n, 352, 353 Monaco, Pasquale, 351 Monaco, Pietro, 350 Monducci, Francesco, 127n Monnier, Marc, 28, 29n, 34, 218n, 281n, 291n, 348n Monsagrati, Giuseppe, 144n, 289n, 299 e n, Montaldo, Silvano, 121n, 136n, 138n-140n Montanari, Mario, 196 e n Montanelli, Indro, 97 e n Monti, Antonio, 57n Morante, Berardo, 270 Morisani, Cesare, 358n Mosca, Antonio, 233, 295 Mosca, Gaetano, 68n Moscati, Ruggero, 73n Motta, Franco, 130n Mottola, Jose, 136n Murat, Gioacchino, 48 Muscetta, Carlo, 341n Musci, Elena, 127n Musella, Luigi, 23n, 24n, 100n, 297n Mussolini, Benito, 58, 59, 62 381 ©UNICOPLI 382 Indice dei nomi 200, 209, 214-216 e n, 218n-220 e n, 224n, 239 e n, , 289n, 349 e n, 361 Pallotta, Michele, 307n Palmieri, Federico, 113n, 121n, 126n, 135n, 136n, 144n, 149n, 202n, 300 Palmieri, Giuseppe, 77n Palumbo, Luigi (Capone), 257, 307, 308 e n, 309 e n Palumbo, Raffaele, 318n Palumbo, Valeria, 212n Panareo, Salvatore, 42n, 46n, 47n, 49n, 51n-53n, 57n, 314n, 318n, 320n Panella, Davide F., 109n, 290n Pani Rossi, Enrico, 246, 253, 330n, 332 e n, 333 Panteleoni, Diomede, 72 Panvini, Guido, 82n Panzieri, Raniero, 74, 83n Paolini, Gabriele, 325n Paparazzo, Amelia, 353n, 357n Papazzoni de’ Manfredi, Fabio, 224 e n, 226 Pappalardo, Ferdinando, 113n Paradiso, Antonio M., 90n Parata, Rosario (Sturno), 317 e n, 318 Pariani, Alberto, 58, 59 Pariser, Eli, 147n Parlato, Giuseppe, 40n, 52n Parlato, Valentino, 84n Pasolini, Pier Desiderio, 350n Passaro, Enrico, 161n Pastore, Luca, 266n, 272, 274, 275 Patruno, Lino, 139n Patruno, V., 127n Pavolini, Alessandro, 58 Pavone, Claudio, 81 e n, 97n, 99 e n, 236 en Pazzaglia, Riccardo, 160 Pedicini, Mario, 290n Pedio, Edoardo, 54n Pedio, Tommaso, 15, 25n, 27n, 28n, 71, 73-75 e n, 87n, 89n, 103n, 153n, 193n, 249, 282n, 303, 313n, 324n, 335 e n Pellegrino, Bruno, 88n, 313n Peluffo, Paolo, 109n Perilli, Ivo, 58n, 59 Perugini, Carlo, 291n Perugini, Michelangelo, 294, 295 Peruzzi, Ubaldo, 216, 230n, 235n, 267 Pescivale, v. Orsini, Francesco Pescosolido, Guido, 7, 102n, 104n, 114n Petella, G., 298n Petraeus, David H., 219n Petrella, Maria, 251n Petruccelli della Gattina, Ferdinando, 328 Petrusewicz, Marta, 91, 95 e n, 96, 97n Pezza, Michele (Fra’ Diavolo), 61, 107, 170 Pezzino, Paolo, 99n, 198n, 217n, 320n Pica, Giuseppe, 41, 42, 45, 67, 68, 80, 81 e n, 88n, 208, 216, 220, 253, 255, 257, 289, 294, 299, 302, 326, 328, 332, 335, 347-349 Pieri, Piero, 92, 93, 178 e n, 179 e n, 189n192 e n, 195, 196 Pietrapaoli (o Pietropaolo), Berardino, 264, 266n Pietrapaoli (o Pietropaolo), Michele, 264, 266n Pimentel De Fonseca, Eleonora, 170n Pinelli, Ferdinando, 216 e n, 217, 263 Pinnolo, 345 Pinto, Carmine, 18, 19, 26n, 101 e n-103 e n, 113, 114n, 121n, 129n, 136n, 137n, 142n, 144n, 154n, 177n, 178, 180 e n, 185n, 194, 198 e n, 199, 202n, 205n, 212n, 217n, 220 e n, 224n, 239 e n, 245n, 251n, 255n, 282 e n, 289n, 293n, 296n, 298 e n, 299n, 303n-305n, 313n, 319n, 320n, 336n, 340n, 343n, 345n, 348n, 349n Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), 218n, 263, 314 Pirandello, Luigi, 307 Piromalli, Antonio, 341n Pisciò, Federico, 266n Piselli, Fortunata, 91n Pizzichicchio, v. Mazzeo, Cosimo Pizzolungo, v. Saraceni, Domenico Placanica, Antonio, 81n, 92n, 346n Poli Bortone, Adriana, 141n Pomaré, 348n Pomata, Gianna, 123n Pombeni, Paolo, 141n Pomponio, Giuseppe, 265, 266n Indice dei nomi Pomponio, Michelangelo, 265, 266n Poppi, Roberto, 140n Potenza, Pasquale, 308n Prampolini, Antonio, 132n Presenza, Antonio, 265n, 279n Presutti, Francesco, 264, 266n Presutti, Giuseppe, 276n Prezioso, Gaetano, 266n Prichillo, v. Cristella, Arcangelo Primiano, v. Marcucci, Fabiano Principe, Ilario, 352, 353 e n Principe, Pasquale, 309 e n Proietti, Andrea, 238 e n Puccini, Gianni, 58 Pugačëv, Emel’jan Ivanovič, 132 Pulzella, Ferdinando Melchiorre, 291n 195, 196 Rodolico, Nicolò, 48 Roger, Alexandra, 247n Romagnoli, Policarpo, 266n Romanelli, Raffaele, 88n, 101n Romani, Roberto, 249n Romaniello, v. Mastronardi, Vincenzo Romano, Aldo, 49n Romano, Alessandro, 140, 162 e n, 163, 164, 169 e n-171 Romano, Angelina, 144n Romano, Antonio, 169 Romano, Domenico, 143n Romano, Liborio, 80, 81 Romano, Pasquale Domenico, 127n, 163n, 166, 254, 305, 312, 313, 315 Romano, Ruggiero, 97n Romano, Valentino, 83n, 86n Romeo, Rosario, 69, 71 e n, 99 e n, 102n, 106 e n, 108, 190, 191, 340n Roppo, Vincenzo, 52n, 58n Rosa Cozza, Gaetano, 358 Rosi, Michele, 44n Rosselli, Nello, 31 e n, Rossi, Luigi, 263n Rossi-Doria, Marco, 24n, 98n Rovinello, Marco, 305n Ruffo, Fabrizio Dionigi, 7, 29, 47, 107 Ruggiero, Michele, 290n Rumi, Giorgio, 88n Rumiz, Paolo, 109n Rusconi, Gian Enrico, 96n, 97n Rüsen, Jörn, 117n, 131n Russo, Maria, 169n Russo, Saverio, 91n Ryan, Marie Laure, 119n Sabbatucci, Giovanni, 37n, 177n, 192n, 248n Sacchi, Gaetano, 351, 352, 357 Sacco, Domenico, 325n Sacco, Leonardo, 24n Saffi, Aurelio, 26-28 e n, 31 Sagrestani, Marco, 325n Saija, Marcello, 238n Saini Fasanotti, Federica, 197 e n, 205n, 206n, 219 e n Saitta, Armando, 334n ©UNICOPLI Racioppi, Giacomo, 28, 254, 330n-333 e n Ragionieri, Ernesto, 238n Rainero, Romain H., 219n Randeraad, Nico, 238 e n Ranzato, Gabriele, 99n, 198n, 217n, 373 Rao, Anna Maria, 66, 184n, 194n Rathmell, Andrew, 175n Ravitti, Ernesto, 225n Recchia, Chiara, 104n Recchia, Pasquale, 311 e n Repoussi, Maria, 118n Ressa, Giuseppe, 169n Revelli, Marco, 98n Riall, Lucy, 87n, 195 e n Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, 132 Ricci, Francesco, 287 Ricci, Giulia, 130n Ricci, Luigi, 310 e n Ricciardi, Aurelio, 264, 266n Riley, K. Jack, 175n Rinaldi, Concezio, 268 Rinaldi, Evelina, 50n Riva, Giuseppe, 146n Rivello, Pier Paolo, 200n Riviello, Raffaele, 254, 330n, 333 e n, 334 Rizzo, Maria M., 98n, 101n Rizzo, Sergio, 109n Rocco, Alfredo, 41, 42 e n, 55, 56, 67, 68n, 80 Rochat, Giorgio, 179 e n, 181n, 192 e n, 383 ©UNICOPLI 384 Indice dei nomi Saladino, Antonio, 73n Salemi, Giovanni, 162n Salhins, Marshall, 156n Saltarelli, Francesco, 310n Salvadore, Marina, 169n Salvadori, Massimo L., 24n Salvemini, Biagio, 95n Salvemini, Gaetano, 23 e n, 24, 25, 69, 73, 198n Salzillo, Teodoro, 291n Saraceni, Domenico (Pizzolungo), 265, 266n Saraceno, Pasquale, 73n, 154n Sarcinelli, Maria, 169n Sarego, Luciano, 90n Savarese, Nino, 61 e n Saviano, Roberto, 164 e n, 165, 166 Savio, Francesco, 58n Sbriccoli, Mario, 229n, 304n Scaglia, Riccardo, 55n Scala, Edoardo, 211 e n, 212n Scardigli, Marco, 225n Scarfoglio, Domenico, 341n Scenna, Salvatore, 266n Schuman, Howard, 172n Schwartz, Barry, 172n Sciarelli, Generoso, 254, 308, 309 e n Sciascia, Leonardo, 193n Scirocco, Alfonso, 15, 25n, 37n, 71, 80, 81 e n, 87n-90 e n, 92 e n, 171, 193n, 206n, 212n, 235 e n, 236, 244n, 245 e n, 259, 282n, 289n, 297 e n, 298, 303n, 313n, 340n, 354n, 356 e n, 357 e n, 360n Scorsa, Savino, 307 Scotti, Arcangelo, 57n Scrivano, Giuseppe, 350 Seife, Charles, 147n, 150n Seixas, Peter, 119n, 132n Sereni, Emilio, 70 e n, 71 e n, 80, 82, 83, 85, 98, 190 Sergi, Giuseppe, 136n Settembrini, Luigi, 91 Sforza, 294, 295 Sierp, Aline, 118n Silva, Pietro, 38n Simone, Davide, 171n Simons Jr., Thomas W., 79n Sipari, Francesco Saverio, 33, 262 e n Sirtori, Giuseppe, 222, 229, 361 Soccio, Pasquale, 90n, 194n, 206n Socrate, 344 Sodini, Elena, 149 Solinas, Pier Giorgio, 166n Sonetti, Silvia, 19, 109n, 143n, 161n, 199n, 244n, 295-297n, 319n Sonnino, Sidney, 140 Sottocarro, Salvatore (Zeppitella), 266n Spaducci, Giggi, 64 Spagnoletti, Antonio, 101n, 211n Spagnoletti, Mario, 74n Spagnoletti, Mauro, 193n Spagnolli, Nicola, 61n, 63n Spagnolo, Carlo, 18, 85n, 109n, 113n, 118n, 149 e n, 191 e n, Spagnolo, Francesco Paolo, 309n Spaventa, Silvio, 101n, 235n, 267 Spoliti, Domenico, 220n Squitieri, Pasquale, 140 Stella, Gian Antonio, 109n Stinielli, Giuseppe, 307n Stocchetti, Francesco, 44n, 57n Strafaci, Pietro Domenico (Palma), 167, 245, 344n, 352, 356, 358, 360n Stramaccioni, Alberto, 98n Stramenga, Bernardo, 262, 263, 266 e n Strillo, v. Fanti, Antonio Studer, Gustavo, 287 Sturno, v. Parata, Rosario Sturzo, Luigi, 198n Suaud, Charles, 153n Summa, Giuseppe Nicola (Ninco Nanco), 167, 329 Talamo, Giuseppe, 39n Talarico, Giosafatte, 345, 354n Tamburriello, Mimma, 125n Tamburrini, Nunzio, 258, 266n, 274-276 en Tarabini, Alessandro M., 59n Tardio, Giuseppe, 287 Tartaglia, v. Colonna, Luzio Tastini, Antonio, 316n Tatasciore, Giulio, 19, 250n, 301n Tedeschi, 294 Thompson, Damian, 147n Indice dei nomi Ursini, Luigi, 294 Vacca, Vincenzo, 264, 266n Vaccari, Roberto, 144n Vajola, Patrizia, 149 Valagara, Giuseppe, 44n, 54n, 57n, 284 e n, 289 e n Valente, Giuseppe, 315 Valente, Gustavo, 351 e n Valerio, Domenico (Cannone), 265, 266n, 279 Valseriati, Enrico, 124n Vancini, Florestano, 138 Varanelli, Giovanbattista, 305, 310, 311 Varisco, Novella, 128n Varvaro, Paolo, 238 e n Venneri, Quintino (Melchiorre), 317, 318 Verga, Giovanni, 58, 84 Vernieri, Nicola, 48n, 49n, 52n, 60n, 61n Verrastro, Valeria, 322n Vespasiano, 268 Vidotto, Vittorio, 192n, 248n Vigevano, Attilio, 41n, 47n, 54n, 55n, 57n, 210 e n Vigna, Marco, 86n, 102n, 144n Villani, Angelo Raffaele, 308, 309 Villani, Claudia, 117n, 120n, 126n, 127n, 129n Villani, Pasquale, 91n, 95 Villari, Pasquale, 27n, 31 e n, 32 e n Villari, Rosario, 15, 25, 26, 71, 73 e n, 75, 95 Viola, Berardino, 264, 266n Violante, Luciano, 98 e n, 99 e n, 192n, 217n Viroli, Maurizio, 96n Visceglia, Maria Antonietta, 318n Visciola, Simone, 247n Visconti, Luchino, 58 Visconti Venosta, Emilio, 359 Vitale, 294 Vitale, Silvio, 137 e n, 139 Vitali, Stefano, 149 e n Vittorio Emanuele II, 144, 187, 247, 268, 269, 275, 306, 318, 322n, 347 Vivanti, Corrado, 97n Volpe, Gioacchino, 16, 40 e n, 49n, 52 e n Wilson, Jeremy M., 175n Winter, Jay, 122n Wouters, Nico, 118n Zagarrio, Vito, 58n Zampa, Luigi, 59 Zanotti Bianco, Umberto, 24n, 34 e n, 47n Zazo, Alfredo, 290n Zazzara, Gilda, 82n Zeppitella, v. Sottocarro, Salvatore Zerella, Francesco, 45n, 50n Zichi, Giuseppe, 244n Zimmermann, Ludwig Richard, 264n, 274n Zingali, Gaetano, 49n Zini, Luigi, 25n Zitara, Nicola, 83n, 140 e n, 155, 159n, 162n, 169n Zuccarini, Mario, 262n Zurlo, Leopoldo, 64 e n ©UNICOPLI Tirone, Emilio, 220n Tito (Josip Broz), 157n Tivaroni, Carlo, 25n, 28 e n, 34 e n Toddi (Pietro Silvio Rivetta), 58 Tofani, Vincenzo, 226-228 e n, 235 Toniolo, Gianni, 114n Torniello, v. Natale, Nicola Torre, Angelo, 250n Torres, Luigi, 272n, 276n, 278n Tortora, Pasquale, 307n Tranchella, Gaetano, 288 Trani, Silvia, 92n, 205n Trapasso, Spera, 266n Trepiccione, Riccardo, 216 e n Trilli, Federico, 268 Tristany, Rafael, 286 Tuccari, Francesco, 92n Tuccari, Luigi, 196 e n, 213 e n-217 e n 385 ©UNICOPLI IL CENTRO INTERUNIVERSITARIO DI STUDI E RICERCHE STORICO-MILITARI (Università di Bologna-Ravenna, Milano Cattolica, Milano Statale, Modena, Padova, Pavia, Pisa, Roma La Sapienza, Roma Tre, Siena, Torino, Valle d’Aosta) I convegni di fondazione del Centro Lucca, 19-21 ottobre 1984, Venti anni di storiografia militare italiana Lucca, 11-12 ottobre 1986, La professione militare: sociologia e storia ©UNICOPLI Il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari sorse nel 1981, grazie ad una legge di riforma dell’Università (n. 382 dell’11 luglio 1980) che prevedeva la costituzione dei centri interuniversitari. Scopo del Centro è la promozione e lo sviluppo della storia militare in tutte le sue componenti e in tutti i campi di ricerca utili all’approfondimento della storia militare nazionale e internazionale. Le molteplici attività di ricerca e di studio del Centro si sono concretizzate in convegni internazionali e nazionali, seminari di studio, promozione di rassegne e bibliografie, presentazioni di volumi, pubblicazioni. Proponenti furono docenti delle Università di Padova, Pisa e Torino (Piero Del Negro, Filippo Frassati, Giorgio Rochat). Nel 1992 hanno aderito docenti delle Università di Milano Cattolica e Pavia (rispettivamente Virgilio Ilari, poi anche Massimo De Leonardis, e Lucio Ceva) e nel 2002 di Siena (Nicola Labanca). Negli anni successivi il Centro si è ulteriormente ampliato e ha rinnovato i propri rappresentanti, anche per via di pensionamenti. Cessati dal servizio i precedenti rappresentanti, ne sono subentrati di nuovi per le Università di Pavia, Pisa, Torino e Padova (rispettivamente Alberto Colombo, poi Fabio Rugge, e ora Mario Rizzo; Franco Angiolini e Gabriele Ranzato, poi Andrea Addobbati e Paolo Pezzino, e ora Luca Baldissara; ora Marco Di Giovanni; e ora David Burigana). Il 2003 ha visto l’adesione di un numero importante di Università: quelle di Bologna-Ravenna, Milano Statale, Modena, Roma La Sapienza e Roma Tre (rispettivamente rappresentate da Luigi Tomassini; Livio Antonielli e il compianto Claudio Donati; Giovanna Procacci, e oggi Fabio Degli Esposti; Giuseppe Conti; e Fortunato Minniti). Nel 2013 ha aderito l’Università della Valle d’Aosta (Paola Bianchi). In questi ormai ben più di trent’anni di attività il Centro è stato presieduto da Giorgio Rochat (1981-1989), Piero Del Negro (1989-2002) e ora da Nicola Labanca (2002-). 388 Il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari Altri convegni alla cui ideazione il Centro ha contribuito Firenze, 14-15 novembre 1985, I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Lucca, 16-18 novembre 1985, Le operazioni militari in Corsica, settembre-ottobre 1943. Spoleto, 11-14 maggio 1988, Esercito e città dall’unità agli anni Trenta. Bassano del Grappa. 25-28 maggio 2000, L’ultimo anno della Grande Guerra. ©UNICOPLI I seminari annuali del Centro I SEMINARIO, 20-22 ottobre 1988, Università di Padova: Gli studi sulla guerra italiana 1915-1918. II SEMINARIO, 19-20 ottobre 1989, Università di Torino: Forze armate e politica militare in Italia 1920-1940. Lo stato degli studi. III SEMINARIO, 8-9 novembre 1990, Università di Firenze: Combattenti italiani nelle due guerre mondiali. IV SEMINARIO, 7-9 novembre 1991, Università di Padova: Storia militare locale e storia militare nazionale. Metodi, problemi, prospettive. V SEMINARIO, 29-31 ottobre 1992, Università di Torino: I sottufficiali e i soldati di mestiere in Italia. VI SEMINARIO, 11-13 novembre 1993, Museo storico italiano della Guerra (Rovereto) e Museo dell’aria “G. Caproni” (Trento): I musei della Grande guerra dalla Val Camonica al Carso. VII SEMINARIO, 3-4 novembre 1994, Università di Firenze (in collaborazione con la Federazione provinciale fiorentina della Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e con la Federazione provinciale fiorentina della Associazione Nazionale ex Internati): I militari italiani prigionieri di guerra (dalle guerre napoleoniche alla seconda guerra mondiale. VIII SEMINARIO, 16-17 novembre 1995, Accademia militare (Modena): La formazione degli ufficiali italiani nelle accademie militari, ieri ed oggi. IX SEMINARIO, 27 novembre 1996, Scuola d’Applicazione (Torino): Università e forze armate italiane (secoli XVIII-XX. X SEMINARIO, 14-15 novembre 1997, Ferrara (in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara): Guerra regolare e guerra di popolo in Italia dall’età napoleonica alla Resistenza. XI SEMINARIO, 16-17 ottobre 1998, Università di Siena, Certosa di Pontignano: Dalla guerra alla pace. Politiche, mentalità, didattiche. XII SEMINARIO, 18-19 novembre 1999, Ministero della Difesa (Roma), (in collaborazione con l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito): Media, opinione pubblica e immagine delle forze armate in Italia tra Otto e Novecento. Il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari 389 ©UNICOPLI XIII SEMINARIO, 16-18 novembre 2000, Università di Padova (in collaborazione con la Commissione italiana di storia militare): Lo spirito militare degli italiani. XIV SEMINARIO, 15-17 novembre 2001, Accademia militare (Modena), (in collaborazione con l’Accademia militare di Modena): Guerre immaginate. XV SEMINARIO, 12-14 dicembre 2002, Università di Firenze-Istituto geografico militare di Firenze (in collaborazione con l’Istituto geografico militare di Firenze): Militari italiani in Africa. XVI SEMINARIO, 20 giugno 2003, Scuola di Applicazione di Torino (in collaborazione con la Procura militare di Torino e la Scuola di Applicazione di Torino): Fonti e problemi per la storia della giustizia militare in Italia. XVII SEMINARIO, 11-13 dicembre 2003, Università di Pisa (in collaborazione con la Società italiana di storia militare): Tra coscrizione e volontariato. Il reclutamento militare nella storia d’Italia. XVIII SEMINARIO, 23-24 aprile 2004, Fondazione Benetton (Treviso) (in collaborazione con la Fondazione Benetton), Il gioco e la guerra. XIX SEMINARIO, 25-27 novembre 2004, Università di Firenze: Militarizzazione e nazionalizzazione nella storia d’Italia. Aspetti e problemi. XX SEMINARIO, 15 aprile 2005, Consiglio regionale della Toscana (Firenze): Militari, Partigiani e Guerra di Liberazione. I Gruppi di combattimento (1944-1945). Studi, fonti, memorie. XXI SEMINARIO, 13-14 ottobre 2006, Consiglio Regionale della Toscana-Circolo unificato di presidio (in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura della Regione Toscana): Le forze armate nella Repubblica italiana. Il reclutamento. XXII SEMINARIO, 5-7 dicembre 2006, Università degli studi di Bologna, sede di Ravenna: Forze armate e beni culturali. la dimensione militare nella tutela e conservazione del patrimonio. XXIII SEMINARIO, 8-10 novembre 2007, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia: Storie di armi. XXIV SEMINARIO, 9-10 maggio, Università degli studi di Siena (in collaborazione con ENS e EPHE di Parigi e Université de Lille – ‘projet A.N.R.’): Les occupations militaires étrangères en Italie. Mythes historiographiques, inventions polémiques, réalités de terrain. XXV SEMINARIO, 2-4 ottobre 2008, Università degli studi di Torino (in collaborazione con Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, Centro Paolo Farneti e Scuola di applicazione): Storie di guerre e eserciti. XXVI SEMINARIO, 18-19 settembre 2009, Museo storico italiano della Guerra, Rovereto: Costruirsi un nemico. La propaganda nella Grande guerra e nei conflitti del Novecento. XXVII SEMINARIO, 27-28 novembre 2009, Museo storico italiano della Guerra, Rovereto, e Fondazione Museo storico del Trentino: Contare i morti. I caduti della Grande guerra. ©UNICOPLI 390 Il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari XXVIII SEMINARIO, 11-13 novembre 2010, Istituto storico della Resistenza in Toscana, Firenze: I bombardamenti aerei e l’Italia nella seconda guerra mondiale. Politica, stato, società. XXIX SEMINARIO, 6 dicembre 2010, Comitato regionale di controllo sulle comunicazioni della Regione Toscana, Firenze: L’immagine delle forze armate nelle televisioni locali. XXX SEMINARIO, 1 aprile 2011, Centro Studi Sereno Regis, Torino: Non fare il soldato. Studi sull’antimilitarismo e sul rifiuto della coscrizione nella storia d’Italia. XXXI SEMINARIO, 12-14 ottobre 2011, Torino, Ufficio Studi della Reggia di Venaria, Fondazione Luigi Firpo di Torino, Società italiana di studi sul XVIII secolo: L’Italia e il ‘militare’. Guerra, nazione, rappresentazioni dal rinascimento alla Repubblica. XXXII SEMINARIO, 23-24 aprile 2012, Militärgeschichtliches Forschungsamt, Villa Vigoni, Loveno di Menaggio (Como): On the road towards european armed forces? changes of national security cultures between homeland defence and missions abroad since 1991. XXXIII SEMINARIO, 3 novembre 2012, Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, Assessorato alla Cultura della Regione Toscana, DBA (Associazione per la documentazione le biblioteche e gli archivi), Centro Studi Musica e Grande Guerra, Firenze: I morti della Grande guerra 1915-1918. Pomeriggio storico e musicale in ricordo dei caduti della prima guerra mondiale. XXXIV SEMINARIO, 14-15 marzo 2013, Dipartimento di Filologia e critica delle letterature antiche e moderne e Dipartimento di Scienze storiche e dei beni culturali, Università degli Studi di Siena: Ricordare la guerra. Memorialistica e conflitti armati dall’antichità a oggi. XXXV SEMINARIO, 9-10 giugno 2014, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali, Università degli studi di Padova: Studiare e raccontare il XX secolo e la guerra. XXXVI SEMINARIO, 4-5 dicembre 2014, Deutsches Historisches Institut in Rom: Neuere Forschungen zum Ersten Weltkrie: Italien, Deutschland, Österreich, Polen / Ricerche recenti sulla prima guerra mondiale: Italia, Germania, Austria, Polonia / Current research on World War One: Italy, Germany, Austria, Poland. XXXVII SEMINARIO, 4-5 maggio 2015, Museo Storico Italiano della Guerra (Rovereto), Fondazione Museo storico del Trentino, Accademia Roveretana degli Agiati, con il patrocinio della Società italiana per lo studio della storia contemporanea: L’Italia nella guerra mondiale e i suoi fucilati: quello che (non) sappiamo. XXXVIII SEMINARIO, 4-5 giugno 2015, Fondazione Associazione Nazionale fra i Mutilati e Invalidi di Guerra - Comitato Regionale Toscano, Firenze: Guerra e disabilità: i mutilati italiani e i conflitti mondiali. Il Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari 391 Principali pubblicazioni curate direttamente dal Centro ©UNICOPLI La storiografia militare italiana negli ultimi venti anni, a cura di Giorgio Rochat, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 238. Bibliografia italiana di storia e studi militari 1960-1984, Milano, Franco Angeli, 1987, pp. XXVII-580. Ufficiali e società. Interpretazioni e modelli, a cura di Giuseppe Caforio e Piero Del Negro, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 571. Ufficiali italiani. Esercito politica e società, a cura di Nicola Labanca, in “Ricerche storiche”, a. XXIII (1993) n. 3, pp. 457-668. Guida alla storia militare italiana, a cura di Piero Del Negro, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, pp. V-282. Dalla guerra alla pace. Studi sulla smobilitazione, a cura di Nicola Labanca, in “Ricerche storiche”, a. XXX (2000) n. 3, pp. 227-320. Lo spirito militare degli italiani. Atti del seminario (Padova 16-18 novembre 2000), a cura di Piero Del Negro, Padova, Università di Padova, 2002, pp. 190. La storiografia militare in Francia e in Italia negli ultimi vent’anni. Due esperienze a confronto. Atti del secondo incontro franco-italiano (Venezia, 2728 aprile 2001), in Società italiana di storia militare, Quaderno 2000, a cura di Piero Del Negro, Napoli, Esi, 2003, pp. 238. Militari italiani in Africa. Per una storia sociale e culturale dell’espansione coloniale, in Società italiana di storia militare, Quaderno 2001-2002, a cura di Nicola Labanca, Napoli, Esi, 2004, p. 493. Fonti e problemi per la storia della giustizia militare, a cura di Nicola Labanca e Pier Paolo Rivello, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 339. Troisièmes rencontres franco-italiennes d’histoire militaire. Les relations militaires entre la France et l’Italie de la Renaissance à nos jours. Actes du colloque des 8 et 9 novembre 2002, Paris, Ministère de la Défense, Secrétariat général pour l’administration, Centre d’études d’histoire de la défense, 2006 (“Cahiers du Cehd”, n. 27). I Gruppi di combattimento. Studi, fonti, memorie (1944-1945) , a cura di Nicola Labanca, Roma, Carocci, 2006, pp. 237. ©UNICOPLI (segue volumi pubblicati nella collana): N. Labanca (a cura di) Studi storici per il centenario dell’Associazione nazionale alpini. Volumi I, II e III F. De Ninno Civili nella guerra totale, 1940-1945 Una storia complessa N. Labanca (a cura di) Il nervo della guerra Rapporti delle Militärkommandanturen e sottrazione nazista di risorse dall’Italia occupata (1943-1944) Tomi I, II, III F. De Ninno Civili mutilati e ciechi di guerra, 1940-1945 Cause, conseguenze ed esperienze Nicola Labanca, Filippo Masina, Carlo Perucchetti e Bruno Zanolini (a cura di) I cori alpini Musiche, testi, esperienze, storia ©UNICOPLI E. Ertola Democrazia e difesa Il controllo parlamentare sulla politica militare (1948-2018)