intervista

Luigi Abete: «Imprese, ecco come ricapitalizzarle per aiutare la ripresa»

di Nicola Saldutti

Luigi Abete: «Imprese, ecco come ricapitalizzarle per aiutare la ripresa»

Quando si guida una banca come la Bnl per 23 anni, quando un accordo storico come quello sulla politica dei redditi del ’93 porta la propria firma, parlare del rapporto tra banche e imprese, della necessità di trovare «un nuovo spirito di ricostruzione, paragonabile a quello del Dopoguerra, per uscire dalla pandemia», è molto di più di un suggerimento, è la consapevolezza di dover guardare più in là. Luigi Abete, classe 1947, non fa una pausa quando parla. «Perché avevo i calzoni corti quando si parlava dell’esigenza di sviluppare i fondi chiusi per rafforzare il patrimonio delle imprese. Ma siamo ancora qui. E dire che qualcosa stava succedendo, il divario tra noi e gli altri Paesi si stava riducendo, ma la pandemia ha riaperto questa emergenza. Tutti si ostinano a guardare alla moratoria e all’allungamento delle scadenze da 6 a 15 anni, e fanno bene Confindustria e Abi, a chiederlo. Ma non basta, non può bastare».

Presidente, perché allungare i debiti alle imprese, estendere le garanzie dello Stato, già arrivate a 180 miliardi, non basta?

«Perché si sottovaluta il tema della nuova finanza che sarà necessaria quando il sistema ripartirà, Tutti dibattono della normalizzazione di questa situazione, più o meno ci sono 158 miliardi di prestiti sospesi e 155 miliardi di garanzie dello Stato. Tutti, a livello economico e politico, si stanno preoccupando di normalizzare il pregresso e di non far diventare i prestiti Non performing loan. Giusto, ma non è la soluzione. Sfugge il problema del futuro. Se la letalità si riduce la domanda ripartirà, anche per il settore dei servizi che ha subìto perdite fino al 70%. Appalti, commesse. Servirà nuova finanza. E qui arriva il nodo, storico».

Quale?

«Le imprese sono sottocapitalizzate, ma non come ripetono tutti, perché gli imprenditori non mettono soldi nelle loro aziende. Questo accadeva forse 30 anni fa. Più o meno mancano 230 miliardi di capitalizzazione, i quali, con le perdite della pandemia arrivano a 300. Ecco, se non affrontiamo in modo combinato questo problema, non sarà un danno solo per le imprese, riguarderà il Paese. C’è chi ha perso il 50% del patrimonio netto, chi tutto: spesso sono imprese di servizi, quelle che promuovono maggiore occupazione. Nonostante la resilienza, il tema è esasperato. Le chiedo: come farà un dirigente bancario a finanziare imprese sottocapitalizzate?».

Non lo farà, dal momento che i vincoli di Basilea lo rendono quasi impossibile.

«Appunto. Vogliamo creare il deserto? Serve un piano con molti strumenti in grado di rafforzare le imprese. La premessa perché le banche facciano la loro parte».

Da dove cominciare?

«Le confesso una cosa, quando ero presidente della Confindustria la mia priorità era chiedere ai banchieri, quasi tutti pubblici, di abbassare i tassi di interesse e quando nacquero i fondi negoziali non mi parve utile coinvolgere le assicurazioni. Adesso sono convinto del contrario. Per affrontare il tema delle piccole, medio piccole e medie imprese, serve una batteria di strumenti, non uno solo».

Ma il governo ha già messo in campo Patrimonio rilancio con Cdp e Invitalia, quasi 100 miliardi?

«Vero. Ma la taglia a cui si rivolgono è troppo grande. Oppure le regole sono disegnate in modo da non rispondere al tessuto. Le faccio un esempio se un’impresa ha venti milioni di fatturato e ha tre imprese cugine sotto una holding non può accedere a questi fondi. Se è più piccola non può accedere a questi fondi. Bisogna flessibilizzare l’impiego di questo strumento, tendendo conto della realtà, non della forma».

Però sono almeno 30 anni che si dice che le imprese sono sotto capitalizzate...

«Ero presidente dei giovani di Confindustria e già si parlava di questo. Ma ecco le cose che secondo me si possono fare. Uno strumento può essere quello dei Pir alternativi. Ma vanno cambiate alcune cose: va favorito l’investimento a lungo termine, non a breve. Un imprenditore ha lo sguardo a 10 anni, non a tre mesi. Si potrebbe estendere il vantaggio fiscale a casse di previdenza, fondi assicurativi, e negoziali. Serve uno sforzo collettivo. Altrimenti dove pensiamo che si possano creare posti di lavoro?».

I numeri sono da guerra, con cali fino al 70-80%.

«Certo il Recovery Fund potrà dare una mano importante sulle infrastrutture, ma servono anche le imprese. Nemmeno Mandrake saprebbe resistere. E le assicuro che i nostri imprenditori sono i più bravi al mondo. Dobbiamo mantenere vivace e vivo il tessuto. Spesso si parla degli zombie, non sono più del 15-20%. Le altre hanno solo bisogno di strumenti. Bisogna flessibilizzare i parametri di accesso ai fondi messi in campo dallo Stato, scendere a 5 milioni. Utilizzare come base di riferimento il bilancio 2020, non quello dell’anno precedente. Liberarlo dal concetto di gruppo. Un numero: l’87% delle imprese Mid cap che hanno utilizzato il fondo centrale di garanzia è costruito con una holding. Ampliare l’incentivo fiscale anche ad assicurazioni ed enti previdenziali per i Pir alternativi, in cambio di un impegno minimo di investimento delle loro masse gestite, diciamo tra il 3 e il 5%, anche gradualmente».

Però alla fine gli imprenditori non aprono facilmente il loro capitale…

«Non è più così, certo occorre il feeling. Per questo credo che si debba puntare anche sull’investimento diretto. Del professionista, del macellaio, agevolare gli investimenti di prossimità. Di chi conosce l’imprenditore che avrebbe una taglia troppo piccola per un investitore istituzionale. Ecco, qui il problema non è tanto l’agevolazione fiscale sugli utili ma introdurre un sistema di garanzie sulle perdite potenziali per i nuovi investitori e un credito di imposta per gli imprenditori che investono sulla propria azienda. Ma bisogna attrarre nuovi azionisti. Diciamo chi ha patrimoni da 250 mila euro a 5 milioni dovrebbe essere attratto ad investire a rischio il 10-20% del proprio patrimonio. Con un orizzonte temporale di almeno 8/10 anni. Le imprese senza gli imprenditori non esistono e vale la dottrina Einaudi sullo sforzo che non si può misurare soltanto sul rendimento. Ragionare solo di moratorie ci porta fuori strada, pensiamo alla nuova finanza che sarà necessaria».

E le banche?

«Lo sforzo di ricapitalizzare renderà anche le banche meno rigide e il sistema potrà ripartire. Negli anni 80 si parlava della Terza Italia, dalle Marche al Veneto. Ecco, bisogna ripartire da quello spirito. Alle 100-150 imprese leader bisogna affiancarne altre. Oggi abbiamo oltre 3.000 imprese, indipendenti da gruppi, che fatturano da 50 a 200 milioni: almeno 300 devono diventare multinazionali tascabili, come le chiamava il mio amico Vittorio Merloni. Sono solo 77 mila in Italia le aziende che hanno più di 20 dipendenti. Ci starebbero tutte nello stadio Olimpico. Questo è il nostro Paese. Possiamo farcela. In questi sette anni di presidenza Febaf abbiamo insistito sulla necessità di rafforzare il sistema delle garanzie. Con la pandemia, purtroppo, ci si è accorti di quando fosse indispensabile. La prudenza non può essere confusa con la normativa asfissiante».

Verso le imprese non è che ci sia stato un bel clima…

«Fare impresa non è solo una cosa di numeri, di rendimenti. In questa fase bisogna fare in modo che gli imprenditori non si sentano psicologicamente soli, che non si trasformino in subfornitori di gruppi globali che sono clienti e finanziatori, disintermediando di fatto le banche. Quello spirito serve al Paese, non solo alle imprese. Perciò credo molto nell’investimento di prossimità. Dovremo ricostruire, come nel Dopoguerra, quando erano gli amici e i parenti a finanziare la crescita delle officine, delle piccole fabbriche».

Ventitré anni alla Bnl, 7 alla Febaf, una vita alla Confindustria, la Luiss, Cinecittà. E ora?

«Ancora più Luiss Business School. E poi… aria per respirare il nuovo. L’altro giorno un sindacalista mi ha scritto una lettera in cui si rammaricava del fatto che i saluti non potessero essere dal vivo. Mi sono commosso».

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