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Sergio Romano
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Domenica 2 ottobre 2011

RITIRARSI SULL’AVENTINO UN ESEMPIO DA NON IMITARE

La secessione dell’Aventino, dove secondo la storia romana si ritiravano i plebei nei periodi di acuto conflitto con i patrizi, fu attuata da alcuni deputati d’opposizione contro il governo fascista, in seguito alla scomparsa di Giacomo Matteotti. L’iniziativa consisteva nell’astenersi dai lavori parlamentari, riunendosi separatamente. Non le sembra che ci risiamo e che invece di continuare sterilmente a richiedere dimissioni che l’unto dal popolo sovrano mai darà, questo potrebbe essere il vero, forse decisivo, atto di coraggio dell’opposizione?

Alberto Scherini ,

 RITIRARSI SULL’AVENTINO UN ESEMPIO DA NON IMITARECaro Scherini, Il più recente Aventino ebbe luogo dopo l’assassinio di Matteotti allorché una parte importante dell’opposizione— i socialisti di Turati, i popolari di don Sturzo, i liberali di Amendola e i seguaci di Nitti—decise di abbandonare il Parlamento e di riunirsi in un’altra sede. La decisione fu presa in una fase in cui il partito fascista sembrava sconcertato, esitante, preoccupato dalla reazione popolare; e lo stesso Mussolini temeva per le sorti del suo governo. Il primo ad accorgersi che la scelta degli «aventiniani» era un errore politico fu Giovanni Giolitti. Quando i tre maggiori esponenti del partito socialista— Filippo Turati, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani—gli fecero visita nel suo appartamento romano di via Cavour per chiedergli un consiglio, Giolitti disse: «A mio avviso dovreste rientrare alla Camera». E quando Modigliani replicò polemicamente: «Per fare a revolverate?», Giolitti rispose laconicamente: «Può darsi ». Pensava che persino qualche episodio di violenza nell’aula di Montecitorio fosse preferibile a un’assenza che avrebbe inceppato imeccanismi decisionali dello Stato e precluso alla crisi qualsiasi sbocco parlamentare. Gli aventiniani non gli diedero retta e continuarono a tenere riunioni in cui ribadivano posizioni di principio, ma dimostravano di non avere alcuna strategia politica, alcun piano di battaglia. Attendevano che il Paese esprimesse la sua decisione e che il re, notaio dello Stato, congedasse Mussolini. Ma Vittorio Emanuele, a coloro che gli facevano visita in quei giorni, diceva che avrebbe agito soltanto se il Paese gli avesse trasmesso un segno della sua volontà. A un senatore, in particolare, disse che i suoi occhi e le sue orecchie erano la Camera e il Senato. I tentennamenti degli aventiniani ebbero due effetti. In primo luogo dimostrarono al Paese che l’opposizione non aveva un progetto e non era in grado di accordarsi su un governo alternativo. In secondo luogo dettero al partito fascista il tempo per riorganizzarsi e a Mussolini l’occasione per pronunciare alla Camera il discorso del 3 gennaio 1925, prima pietra dell’edificio autoritario che il regime avrebbe cominciato a costruire nei mesi seguenti. Come vede, caro Scherini, l’Aventino non fu una bella pagina della democrazia italiana. Aggiungo che a me non sembrano utili e opportune neppure le uscite dall’aula con cui i partiti d’opposizione hanno manifestato in questi anni il loro dissenso per alcune leggi volute dal governo. Credono di rendere più visibile la loro protesta e finiscono per rendere visibile soltanto la loro impotenza.

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