Il patteggiamento non esclude il danno all’immagine dell’Ente

La sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. non esclude che il dipendente comunale possa essere chiamato a rispondere anche del danno all’immagine dell’Ente scaturente dalla condotta di reato: è quanto ribadito dalla Corte dei conti, sez. giurisdizionale per la Regione Veneto, nella recente sent. n. 220/2021, depositata lo scorso 6 ottobre, secondo cui detta sentenza, ai fini del promovimento del danno immagine, ha lo stesso valore della sentenza resa a seguito di dibattimento (cfr. Corte dei conti sez. giurisdizionale Veneto, sent. n. 181/2018 e sent. n. 38/2016).

Secondo i giudici, la decisione dell’imputato di chiedere il patteggiamento della pena può considerarsi come tacita ammissione di colpevolezza e che, pur non essendo precluso al Giudice contabile l’accertamento e la valutazione dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., tuttavia questa assume un valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove contrarie (ex multis, Corte dei conti, sez. I appello, sent. 406/2014).

Conseguentemente, pur non essendo assistita dalla efficacia vincolante che deriva dalle sentenze adottate a seguito di dibattimento ex art. 651 c.p.p., la sentenza di patteggiamento costituisce una prova di tipo presuntivo, la cui esclusione obbliga il giudice contabile a dare ampia motivazione del perché l’imputato abbia chiesto di essere condannato e il giudice non abbia disposto il proscioglimento in assenza della penale responsabilità.

Nel caso specifico, il dipendente comunale si era appropriato di somme di denaro versate dai contribuenti per il pagamento di tributi e la Corte ha ritenuto legittima la richiesta della Procura, secondo cui la condotta del dipendente aveva generato quattro diverse tipologie di danno al Comune:

  • la mancata riscossione di entrate tributarie, incassati illegittimamente dal dipendente;
  • l’utilizzo di risorse umane impiegate dal Comune per gli accertamenti necessari alla ricostruzione dei fatti e alla predisposizione di strumenti e iniziative atti a porre rimedio alle irregolarità e confusione createsi nella gestione e riscossione dei tributi;
  • il vizio sinallagmatico del difetto della controprestazione del pubblico dipendente rispetto allo stipendio percepito, per il periodo in cui il dipendente è stato impegnato non già nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali di riscossione dei tributi locali, ma in una attività mirata esclusivamente al perseguimento del suo personale interesse alla appropriazione indebita di somme di denaro dovute all’Ente locale, venendo meno al suo dovere di perseguire l’interesse pubblico dell’Ente per cui lavorava, quantificata dalla Corte nel totale della retribuzione percepita nel periodo di commissione dei fatti;
  • il danno all’immagine dell’Ente, che si presume, secondo quanto affermato dal comma 1–sexies dell’art. 1 della Legge 14 gennaio 1994, n. 20, “pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”. Su tale aspetto, la Corte ha ricordato i due elementi chiave che giustificano l’azione per danno all’immagine: l’esistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato per un reato del pubblico ufficiale commesso in pregiudizio della pubblica amministrazione; il clamore mediatico (clamor fori) derivante dalla condotta illecita del soggetto agente, che rappresenta il modo attraverso il quale viene realizzato il nocumento alla reputazione dell’ente pubblico per effetto della condotta illecita del proprio dipendente.

 

 

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