×
×
☰ MENU

Intervista

Renato Bruson: «A Parma devo tanto. Restituirò con la mia Fondazione»

Renato Bruson: «A Parma devo tanto. Restituirò con la mia Fondazione»

di Mara Pedrabissi

01 Novembre 2022, 03:01

Orfano di madre a sei anni, solo con il padre e pochi mezzi nella campagna veneta, avrebbe potuto restare intrappolato in un destino da perduto e da perdente. Invece, no. Grazie al talento (suo) e alla generosità (di chi lo ha aiutato) è diventato Renato Bruson, fulgida stella nel firmamento mondiale dei baritoni verdiani, voce brunita e portamento signorile.

Per chi è galantuomo, la moneta ricevuta va restituita. Ottant'anni dopo, Bruson spalanca una finestra sul futuro, puntando sui giovani. Lo fa a Parma, città che per lui, veneto di nascita e romano d'adozione, ha un significato speciale: «L'affetto di questo pubblico, il Teatro Regio e la sua dirigenza seppero incoraggiare e sostenere la mia carriera. Parma è uno dei tre luoghi cui sono più legato, con Vienna e il Giappone. Scelgo Parma come sede della mia Fondazione che avrà come obiettivo sostenere i giovani cantanti, anche quando non ci sarò più. Restituisco quel che mi è stato dato», racconta per la prima volta il baritono, in questi giorni in città per incombenze legate alla Fondazione. Un progetto che aveva accarezzato e condiviso con la moglie, la scenografa e costumista Tita Tegano, scomparsa a marzo. Una ragione in più, ora, per impegnarsi: «Abbiamo individuato la sede, 350 metri quadrati in via Garibaldi, vicino al Regio. Il compromesso è già stato fatto, quanto prima andremo a rogito. Vorrei essere pronto entro la fine dell'anno». Idee già in cantiere: un concorso per cantanti, l'allestimento di un'opera studio, la riproposizione del Premio Renato Bruson...

Parma: 1967, l'opera che molti hanno timore quasi a pronunciare, «La forza del destino» che ha la nomea di portare sfortuna. Invece a lei portò moltissima fortuna. Con lei c'era Franco Corelli.

«Quando arrivai a Parma vidi una coda interminabile davanti alla biglietteria, fino alla Pilotta. Le persone avevano in mano il bigliettino con il numero, si tenevano il posto reciprocamente per andare a mangiare... Quella gente, che aveva lavorato dalla mattina alla sera, era disposta a restare in piedi tutta la notte, per il biglietto all'opera. Quello mi è rimasto impresso».

Un'immagine che i meno giovani ancora hanno negli occhi. Ora è cambiato il mondo e i biglietti si comprano con un “click”...

«Si fa con un “click”, come dice lei, ma anche non c'è più quella voglia di andare all'opera. L'opera era l'unico vero grande spettacolo disponibile, il più diffuso, il più amato».

Parma è terra verdiana e Verdi ha amato tantissimo i baritoni, riservando loro un posto speciale. Cosa cercava nel baritono?

«Secondo me cercava l'affetto del padre, pensi a Rigoletto, Traviata, Giovanna d'Arco, Luisa Miller, I due Foscari, Simon Boccanegra...».

Quale di questi padri lei ha amato di più?

«Non mi sono mai legato a nessun personaggio. Li ho amati tutti, ho cercato di penetrare la loro psicologia, di interpretarli al meglio, documentandomi anche storicamente ma non mi sono mai identificato. Finita la recita, tornavo Renato Bruson, una persona normale» .

Triangoliamo Parma con Busseto e Langhirano, troviamo Carlo Bergonzi e Renata Tebaldi: li ha conosciuti entrambi?

«Solo Carlo Bergonzi con cui feci “I due Foscari” a Roma e “La forza” all'Arena di Verona. Fuori dalla scena, era una persona normale, come me; ci siamo scambiati delle bottiglie di vino, anche lui buongustaio».

Il Teatro Regio è conosciuto per il ”ruggito” del loggione. Anche lei ebbe qualche screzio...

«Accadde una volta, nel Trovatore, fu una cosa passeggera che non incrinò il rapporto d'amore con questo meraviglioso pubblico; qui ho avuto molti amici che purtroppo se ne sono andati e poi toccherà anche a me. Il sovrintendente Peppino Negri tanto mi aiutò, tra di noi un grande affetto, da parte mia come per un padre, da parte sua come per un fratello. Una volta, che era già malato, pur di portarlo a cena lo presi in braccio per farlo scendere dall'auto».

Invece il clima americano nei teatri non le piacque, tornò indietro...

«In America andava a teatro solamente chi aveva tanti soldi, era completamente diverso che da noi. Il primo viaggio per il Met fu un'esperienza terribile; dovetti andare a Roma, da lì ad Amsterdam e, con un volo merci, a New York. Un freddo su quel volo... Non avevo mai fatto viaggi lunghi, se non per il servizio militare, a San Giorgio a Cremano e a Trieste. Beh, arrivato a New York, dopo 15 giorni, ancora ero intontito, non ricordavo la parte, il teatro mi voleva “protestare”. Ho aspettato due giorni e, quando sono andato in palcoscenico, mi sono ricordato tutto».

Quindi non è stato “protestato” dal teatro.

«No, però quando il sovrintendente, Mr Bing, mi chiese di rimanere, io preferii tornare in Europa. Andai in seguito a cantare anche a San Francisco, Chicago, Los Angeles però un contratto continuativo con l'America non lo volli. L'unico Paese in cui ho accettato un contratto continuativo è stato il Giappone, lì mi sono sempre mi sono trovato bene, per l'educazione delle persone e il buon cibo. Ancora oggi ho nostalgia del Giappone ... e di Vienna».

Torniamo a “casa”, in Veneto: c'è un bambino che resta orfano a sei anni...

«Mia madre morì di un male balordo, non si trovavano le medicine. La mia sorellina di 4 anni andò a casa di parenti. Io rimasi con mio padre, facevo “la donna di servizio” e cantavo. In verità cantavo anche da prima, perché era mamma che mi spingeva a cantare. Mi iscrissi al liceo musicale di Padova però non avevo le possibilità, a Natale tornai a casa. Il direttore, il maestro Petrollo, e la mia insegnante, Elena Fava Ceriati, mi mandarono a chiamare: se avessi continuato a studiare, mi avrebbero pagato loro la trasferta dal paese, le tasse. Mi hanno aiutato e, adesso, la moneta avuta va restituita».

Quale l'insegnamento principe della sua maestra?

«È stata una mamma spirituale, mi ha aiutato molto psicologicamente. Mi ha insegnato la fiducia in me stesso».

Non ne aveva?

«No. L'altra persona che mi ha aiutato in questo senso è stata mia moglie».

Con sua moglie intraprese il percorso del collezionismo. Parte del vostro patrimonio è stato donato alla Fondazione Cariparma ed è esposta a Palazzo Bossi Bocchi.

«Abbiamo collezionato soprattutto i Macchiaioli, che mi ricordavano la mia campagna veneta. Ho ancora una cinquantina di quadri, porterò anche quelli a Parma».

Mara Pedrabissi

© Riproduzione riservata

Commenta la notizia

Comment

Condividi le tue opinioni su Gazzetta di Parma

Caratteri rimanenti: 1000

commenti 0

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI