Il luogo comune (sbagliatissimo) è quello del «cinesino» del ristorante o del negozio di casalinghi sotto casa. La verità è che la Cina è una potenza economica mondiale, e alla fine del 2015 sono 162 i gruppi cinesi che hanno investito in Italia (+32% in un anno, secondo un’indagine recente della Coldiretti), con un giro d’affari di oltre 9,5 miliardi di euro, e quasi 18 mila dipendenti italiani. Esempi? A parte l’Inter (e presto il Milan), si va dalla Pirelli alla OM Carrelli, dalla Cerruti a Krizia alla Benelli. E i cinesi si sono affacciati anche nel capitale di Unicredit, Mps, Intesa, Generali, Mediobanca, Enel, Eni e Cdp Reti.

La quarta comunità straniera

E poi ci sono gli «altri» cinesi, quelli immigrati qui. Con 332 mila residenti è la quarta comunità di stranieri in ordine di numerosità; una comunità che è tradizionalmente «chiusa», ma che nelle giovani generazioni mostra importanti cambiamenti. È una comunità omogenea (il 48,9% sono donne), i cui «anziani» tornano a casa (nel 2013 1943 uscite, a fronte di 17 mila richieste di permesso di soggiorno), che è poco interessata alla cittadinanza italiana - ultima, con sole 2545 richieste tra il 2010 e il 2014 - con pochissimi matrimoni misti. Diverso è il discorso per i giovani, che mostrano una forte crescita dello studio. Sempre più cinesi (7.176 nel 2014, +34% sul 2009) frequentano le università italiane. Un laureato non comunitario su sei è cinese.

Dove vivono

Dove stanno? Secondo la Fondazione Leone Moressa, i cinesi si concentrano nelle province di Milano (24 mila), Firenze (14 mila), Roma e Prato (13 mila). La concentrazione maggiore sul totale degli stranieri è a Prato (39%). Un rapporto del ministero del Lavoro sfata un altro luogo comune. Non è vero che i cinesi preferiscono l’impresa o il negozio: la metà infatti lavora alle dipendenze. I cinesi lavorano sodo: il loro tasso di attività - 67% - è molto superiore del 56% medio dei migranti non comunitari e al 55,4% degli italiani. Anche perché la loro età media è più bassa, naturalmente.

Imprenditori nati

Ai cinesi, è vero, piace comunque creare imprese. Gli imprenditori stranieri sono stimati (al 2012) in 56 mila, e costituiscono il 9,5% del totale degli imprenditori stranieri. Le attività maggiormente gestite da cinesi sono il commercio all’ingrosso e al dettaglio (40,0%), le attività manifatturiere (30,3%) e le attività di ristorazione (20,4%). A livello territoriale si concentrano in Lombardia (20,9%), Toscana (18,2%) e Veneto (12,0%). I cinesi sono la popolazione immigrata che invia il maggior ammontare di rimesse in patria (39,1%), per un totale di 2,67 miliardi di euro annui. Pagano anche un sacco di tasse: secondo i dati delle Entrate, nel 2015 92 mila contribuenti cinesi hanno versato quasi 250 milioni di euro di Irpef (+6,5% nel numero di contribuenti, +11,9% come soldi versati).

Le regole

Lo sfruttamento: c’è sicuramente. Di norma chi arriva senza mezzi propri ha già accumulato un forte debito, di circa 20 mila euro, e spesso è costretto a lavorare per uno-due anni in condizioni pesantissime a salari irrisori e senza le tutele minime. La comunità funziona con il meccanismo del guanxi (il sistema di relazioni): chiedere aiuto a italiani significa uscire dai binari delle guanxi cinesi e perdere così i vantaggi che da esse derivano.

Il caso Prato

Prato è una delle città più «cinesi» d’Europa. Qui le piccole imprese cinesi si sono perfettamente inserite nella catena produttiva, fornendo a prezzi bassi prodotti in conto terzi che alimentano il sistema abbigliamento e le grandi griffes.

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