20 luglio 2018

Le muffe melmose ricordano. Ma imparano?

Sempre più prove scientifiche dimostrano che gli organismi senza sistema nervoso possono, in un certo senso, apprendere e risolvere problemi, ma i ricercatori sono in disaccordo tra loro sul fatto che questa sia o meno una "cognizione primitiva"Katia Moskvitch/Quanta Magazine

Le muffe melmose sono tra gli organismi più strani del mondo. A lungo scambiati per funghi, ora sono classificati come un tipo di ameba. In quanto organismi unicellulari, non hanno né neuroni né cervello. Eppure, per circa un decennio, gli scienziati hanno discusso se le muffe melmose (note anche come funghi mucillaginosi o muffe mucillaginose) avessero la capacità di conoscere i loro ambienti e adeguare il loro comportamento di conseguenza.

Per Audrey Dussutour, biologa del francese Centre national de la recherche scientifique (CNRS) e a capo del centro di ricerca sulla cognizione animale dell’Università Paul Sabatier di Tolosa, in Francia, il dibattito è concluso. Il suo gruppo non solo ha insegnato alle muffe melmose a ignorare le sostanze nocive che normalmente eviterebbero, ma ha dimostrato che questi organismi potevano ricordare questo comportamento dopo un anno di quiescenza forzata e fisiologicamente dirompente. Ma i risultati dimostrano che le muffe melmose – e forse una vasta gamma di altri organismi privi di cervello – possono esibire una forma primitiva di cognizione?

Le muffe melmose ricordano. Ma imparano?
Muffa melmosa Physarum polycephalum in un’immagine ripresa al microscopio elettronico. Nonostante la sua semplicità di singola cellula e la mancanza di un sistema nervoso, mostra una forma elementare di apprendimento, secondo i risultati di alcuni studi. Science (Photo Library/AGF)
Le muffe melmose sono relativamente facili da studiare, come i protozoi. Sono organismi macroscopici che possono essere facilmente manipolati e osservati. Ci sono più di 900 specie di muffe melmose; alcune vivono come organismi unicellulari per la maggior parte del tempo, ma si riuniscono in un ammasso per foraggiarsi e procreare quando il cibo è scarso. Altre, le cosiddette muffe melmose plasmodiali, vivono sempre come un’unica enorme cellula contenente migliaia di nuclei. Soprattutto, alle muffe della melma possono essere insegnati nuovi comportamenti; a seconda della specie, potrebbero non gradire la caffeina, il sale o la luce intensa, ma possono imparare che le aree proibite, contaminate da queste sostanze, non sono così negative come sembrano, grazie a un processo noto
come abituazione.

“Secondo le definizioni classiche di abituazione, questo primitivo organismo unicellulare sta imparando, proprio come fanno gli animali dotati di cervello”, ha detto Chris Reid, biologo del comportamento alla Macquarie University, in Australia. “Poiché i funghi mucillaginosi non hanno alcun neurone, i meccanismi del processo di apprendimento devono essere completamente diversi; tuttavia, risultato e significato funzionale sono gli stessi”.

Per Dussutour, “il fatto che questi organismi abbiano la capacità di imparare ha implicazioni considerevoli, che vanno oltre il riconoscimento dell’esistenza di un apprendimento nei sistemi non neuronali”. La ricercatrice crede che le muffe melmose possano aiutare gli scienziati a capire quando e dove nell’albero della vita si sono evolute le prime forme di apprendimento.

Ancora più intrigante e forse controverso è il fatto che la ricerca di Dussutour e altri suggerisce che le muffe della melma possono trasferire i loro ricordi acquisiti da una cellula all’altra, ha detto František Baluška, biologo cellulare vegetale dell’Università di Bonn, in Germania. “Questo è assai interessante per la nostra comprensione di organismi molto più grandi come animali, esseri umani e piante.”

Una storia di assuefazione
Gli studi sul comportamento degli organismi primitivi risalgono alla fine dell’Ottocento, quando Charles Darwin e suo figlio Francis proposero che nelle piante, le punte delle loro radici, in una piccola regione chiamata apice, potessero agire come cervello. Herbert Spencer Jennings, autorevole zoologo e pioniere della genetica, propose lo stesso nel suo libro del 1906, Behavior of the Lower Organisms. Tuttavia, la nozione secondo cui gli organismi unicellulari possano imparare qualcosa e immagazzinare ricordi a livello cellulare è nuova e controversa. Tradizionalmente, gli scienziati hanno collegato direttamente il fenomeno dell’apprendimento all’esistenza di un sistema nervoso. Un certo numero di persone, ha detto Dussutour, pensava che la sua ricerca “fosse una terribile perdita di tempo e che avrebbe raggiunto un punto morto”.

Lei ha iniziato a studiare questi viscidi blob mettendosi “nella posizione delle muffe melmose”, ha detto, chiedendosi che cosa avrebbe avuto bisogno di imparare sul suo ambiente per sopravvivere e prosperare. Le muffe melmose strisciano lentamente e possono facilmente bloccarsi in ambienti troppo secchi, salati o acidi. Quindi Dussutour si è chiesta se le muffe melmose potessero abituarsi a condizioni disagevoli e ha escogitato un modo per testare le loro abilità di abituazione.

L’abituazione, o anche assuefazione, non è solo adattamento: è considerata la forma più semplice di apprendimento. Si riferisce a come un organismo risponde quando incontra ripetutamente le stesse condizioni e al fatto che possa filtrare uno stimolo che ha realizzato essere irrilevante. Per gli esseri umani, un classico esempio di abituazione è che smettiamo di notare la sensazione dei nostri vestiti contro la nostra pelle pochi istanti dopo averli indossati. Allo stesso modo possiamo smettere di notare molti odori sgradevoli o suoni di sottofondo, specialmente se sono immutabili, e quando non sono importanti per la nostra sopravvivenza. Per noi e per altri animali, questa forma di apprendimento è resa possibile dalle reti di neuroni del nostro sistema nervoso che rilevano ed elaborano gli stimoli e mediano le nostre risposte. Ma come può avvenire negli organismi unicellulari senza neuroni?

A partire dal 2015, Dussutour e il suo gruppo hanno ottenuto campioni di muffe melmose da colleghi dell’Università di Hakodate, in Giappone, e testato la loro capacità di abituazione. I ricercatori hanno messo in laboratorio pezzi di muffa melmosa e hanno collocato a breve distanza piatti di farina d’avena, uno dei cibi preferiti dall’organismo. Per raggiungere la farina d’avena, le muffe melmose avrebbero dovuto svilupparsi superando ponti di gelatina punteggiati da caffeina o chinino, sostanze innocue ma amare, che questi organismi cercano di evitare.

Nel primo esperimento, le muffe melmose hanno impiegato dieci ore per attraversare il ponte e hanno cercato di non toccarlo”, ha detto Dussutour. Dopo due giorni, hanno iniziato a ignorare la sostanza amara, e dopo sei giorni ogni gruppo ha smesso di rispondere al deterrente.

Le muffe melmose ricordano. Ma imparano?
Fungo mucillaginoso della specie Fuligo septica.(Wikimedia Commons) 
L’abituazione che le muffe melmose avevano appreso era specifica per la sostanza: quelle che si erano abituate alla caffeina erano ancora riluttanti ad attraversare un ponte contenente il chinino e viceversa. Ciò dimostrava che questi organismi avevano imparato a riconoscere un particolare stimolo e ad adeguare la loro risposta a esso, e a non attraversare i ponti in modo indiscriminato.

Infine, gli scienziati hanno lasciato riposare le muffe melmose per due giorni in situazioni in cui non erano esposte né al chinino né alla caffeina, e poi li hanno testati nuovamente con i ponti nocivi. “Abbiamo osservato che recuperavano la condizione originaria: mostrano di nuovo avversione”, ha detto Dussutour. Le muffe melmose erano tornate al loro comportamento di origine.

Naturalmente, gli organismi possono adattarsi ai cambiamenti ambientali in modi che non implicano necessariamente l’apprendimento. Ma il lavoro di Dussutour suggerisce che le muffe melmose possono a volte assumere questi comportamenti attraverso una forma di comunicazione, non solo con l’esperienza. In uno studio di follow-up, il suo gruppo ha dimostrato che le muffe melmose naïve, cioè non assuefatte, potevano acquisire direttamente un comportamento appreso da quelle assuefatte, mediante un processo di fusione cellulare.

A differenza dei complessi organismi multicellulari, le muffe melmose possono essere tagliate in molti pezzi; una volta rimessi insieme, questi pezzi si fondono e formano un’unica gigantesca muffa melmosa, con collegamenti tubolari simili a vene pieni di citoplasma, che scorre velocemente tra i pezzi mentre si collegano. Dussutour ha tagliato le sue muffe melmose in più di 4000 pezzi e ne ha addestrati una metà con il sale, un’altra sostanza che questi organismi evitano, anche se non così fortemente quanto chinino e caffeina. Il gruppo ha fuso i pezzi assortiti in varie combinazioni, mescolando muffe melmose assuefatte al sale con quelli non assuefatte. Poi ha testato le nuove entità.

“Abbiamo dimostrato che quando c’era una muffa melmosa assuefatta nell’entità che si stava formando, l’entità mostrava assuefazione”, ha detto. “Così una muffa melmosa è in grado di trasferire questa risposta di abituazione a un’altra”. I ricercatori hanno poi separato di nuovo i diversi le diverse muffe melmose dopo tre ore, il tempo necessario a tutte le venature del citoplasma per formarsi correttamente, ed entrambe le parti mostravano ancora assuefazione. L’organismo aveva imparato.

Indizi di cognizione primitiva
Ma Dussutour voleva spingersi oltre e vedere se quella memoria di abituazione potesse essere richiamata a lungo termine. Così lei e il suo gruppo hanno messo i blob in quiescenza per un anno seccandoli in modo controllato. A marzo, hanno risvegliato i blob, che si sono trovati circondati dal sale. Le muffe melmose non assuefatte sono morte, forse per lo shock osmotico, perché non riuscivano a far fronte alla rapidità con cui l’umidità usciva dalle loro cellule. “Abbiamo perso un sacco di muffe melmose in questo modo”, ha detto Dussutour. “Ma quelle assuefatti sono sopravvissute”. Hanno anche iniziato rapidamente a svilupparsi nel loro ambiente salato alla ricerca di cibo.

Secondo Dussutour, che ha descritto questo lavoro inedito in un incontro scientifico ad aprile scorso all’Università di Brema, in Germania, questo significa che i funghi mucillaginosi possono imparare e possono conservare la conoscenza acquisita durante la quiescenza, nonostante i notevoli cambiamenti fisici e biochimici nelle cellule che accompagnano quella trasformazione. Essere in grado di ricordare dove trovare il cibo in natura è un’abilità utile per le muffe melmose, perché il loro ambiente può essere insidioso. “È molto positivo che possano assuefarsi, altrimenti sarebbero bloccate”, ha detto Dussutour.

A un livello più profondo, ha detto, questo risultato significa anche che esiste una sorta di “cognizione primitiva”, una forma di cognizione che non è limitata agli organismi dotati di un cervello.

Gli scienziati non hanno idea di quale meccanismo sia alla base di questo tipo di cognizione. Baluška pensa che potrebbe essere coinvolto un certo numero di processi e molecole, e che possa variare tra organismi semplici. Nel caso delle muffe melmose, il loro citoscheletro può formare reti intelligenti e complesse in grado di elaborare informazioni sensoriali. “Forniscono queste informazioni ai nuclei”, ha spiegato.

Non sono solo le muffe melmose a essere in grado di imparare. I ricercatori stanno studiando altri organismi non neuronali, come le piante, per scoprire se possono mostrare la forma più elementare di apprendimento. Per esempio, nel 2014 Monica Gagliano e i suoi colleghi dell’Università dell’Australia Occidentale e dell’Università di Firenze hanno pubblicato un articolo che ha suscitato clamore sui media, per una serie di esperimenti con piante della specie Mimosa pudica. Le piante di mimosa sono notoriamente sensibili all’essere toccate o altrimenti disturbate fisicamente: arricciano immediatamente le foglie delicate come meccanismo di difesa. Gagliano ha costruito un meccanismo che avrebbe fatto cadere bruscamente le piante di circa 30 centimetri senza danneggiarle. All’inizio, le piante ritiravano e arricciavano le foglie quando venivano lasciate cadere. Ma dopo un po’ le piante hanno smesso di reagire: apparentemente “hanno imparato” che non era necessaria alcuna risposta difensiva.

Le muffe melmose ricordano. Ma imparano?
Physarum polycephalum sulla corteccia di un pino. (Science Photo Library/AGF) 
Tradizionalmente, si riteneva che gli organismi semplici, senza cervello o neuroni, fossero capaci al massimo di un comportamento di stimolo-risposta. La ricerca sul comportamento di protozoi come la muffa melmosa Physarum polycephalum (in particolare il lavoro di Toshiyuki Nakagaki dell’Università di Hokkaido, in Giappone) suggerisce che questi organismi apparentemente semplici siano in grado di prendere decisioni complesse e di risolvere i problemi nei loro ambienti. Per esempio, Nakagaki e colleghi hanno dimostrato che le muffe melmose sono in grado di risolvere il rompicapo del labirinto e di creare reti di distribuzione efficienti tanto quanto quelle progettate dagli esseri umani (in un famoso esperimento, le muffe melmose ricrearono il sistema ferroviario di Tokyo).

Chris Reid e il suo collega Simon Garnier, che dirige lo Swarm Lab presso il New Jersey Institute of Technology, stanno lavorando sul meccanismo grazie a cui una muffa melmosa trasferisce le informazioni tra tutte le sue parti per agire come una sorta di collettivo che imita le capacità di un cervello pieno di neuroni. Ogni piccola parte della muffa melmosa si contrae e si espande nell’arco di circa un minuto, ma il tasso di contrazione è legato alla qualità dell’ambiente locale. Gli stimoli attraenti causano pulsazioni più veloci, mentre gli stimoli negativi causano il rallentamento delle pulsazioni. Ogni parte pulsante influenza anche la frequenza di pulsazione delle sue vicine, non diversamente dal modo in cui i tassi di attivazione dei neuroni collegati tra loro si influenzano a vicenda. Usando tecniche di computer vision ed esperimenti che potrebbero essere paragonati a una versione per muffe melmose di una scansione cerebrale di risonanza magnetica, i ricercatori stanno esaminando come le muffe melmose usino questo meccanismo per trasferire informazioni in tutto il loro gigantesco corpo unicellulare e prendere decisioni complesse tra stimoli contrastanti tra loro.

La lotta per conservare la peculiarità del cervello
Ma alcuni biologi e neuroscienziati criticano i risultati. “I neuroscienziati sono contrari a svalutare la particolarità del cervello”, ha detto Michael Levin, biologo della Tufts University. “I cervelli sono fantastici, ma dobbiamo ricordare da dove vengono. I neuroni si sono evoluti da cellule non neuronali, non sono apparsi magicamente”. Alcuni biologi si oppongono “all’idea che le cellule possano avere obiettivi, ricordi e così via, perché suona come una magia”, ha aggiunto. Ma dobbiamo ricordare, ha detto, che il lavoro fatto nel corso dell’ultimo secolo nel campo della teoria del controllo, della cibernetica, dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico ha dimostrato che i sistemi meccanici possono avere obiettivi e prendere decisioni. “L’informatica ha imparato da tempo che l’elaborazione delle informazioni è indipendente dal substrato”, ha affermato Levin. “Non è questione di che cosa sei fatto, ma di come fai i calcoli”.

Tutto dipende da come si definisce l’apprendimento, secondo John Smythies, direttore del Laboratory for Integrative Neuroscience dell’Università della California a San Diego. Smythies non è convinto che l’esperimento di Dussutour con le muffe melmose che si abituano al sale dopo la prolungata quiescenza mostri granché. “L’apprendimento implica un comportamento e morire non lo è”, ha detto.

Per Fred Kaijzer, scienziato cognitivo dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, la questione se questi comportamenti interessanti dimostrino che le muffe melmose possano imparare è simile al dibattito sul fatto che Plutone sia un pianeta: la risposta dipende molto da come il concetto di apprendimento viene posto nella prova empirica. Tuttavia, ha spiegato, “non vedo ragioni scientifiche chiare per negare l’idea che gli organismi non neurali possono effettivamente imparare”.

Baluška ha detto che molti ricercatori sono fortemente in disaccordo anche sul fatto che le piante possano avere ricordi, apprendimento e cognizione. Le piante sono ancora considerate come “automi simili a zombie invece che organismi viventi in piena regola”, ha detto.

Ma la percezione comune sta lentamente cambiando. “Per le piante, nel 2005 abbiamo avviato la Plant Neurobiology Initiative: anche se non è ancora accettata dalla visione corrente, abbiamo già modificato questa percezione così tanto che termini come segnalazione, comunicazione e comportamento delle piante sono ora più o meno accettati”, ha affermato.

Il dibattito non è probabilmente una lotta per la scienza, ma per le parole. “La maggior parte dei neuroscienziati con cui ho parlato dell’intelligenza delle muffe melmose è abbastanza felice di accettare che gli esperimenti siano validi e mostrino esiti funzionali simili agli stessi esperimenti effettuati su animali con cervello”, ha detto Reid. Quello che sembrano voler discutere è l’uso di termini tradizionalmente riservati alla psicologia e alle neuroscienze e quasi universalmente associati al cervello, come apprendimento, memoria e intelligenza. “I ricercatori che si occupano di muffe melmose insistono sul fatto che il comportamento funzionalmente equivalente osservato in questi organismi dovrebbe indurre a usare gli stessi termini descrittivi degli animali con cervello, mentre i neuroscienziati classici sostengono che la definizione stessa dell’apprendimento e dell’intelligenza richiede un’architettura basata sui neuroni”.

Baluška ha spiegato che, di conseguenza, non è facile ottenere finanziamenti per gli studi sulla cognizione primitiva. “La questione più importante è che agenzie ed enti finanziatori inizieranno a sostenere queste proposte di progetto. Finora, la scienza, nonostante alcune eccezioni, è piuttosto riluttante a questo riguardo, il che è un vero peccato. Per ottenere il riconoscimento ufficiale, i ricercatori che si occupano di cognizione primitiva dovranno dimostrare l’abituazione a una vasta gamma di stimoli e, cosa più importante, determinare i meccanismi esatti in base ai quali si ottiene l’abituazione e come può essere trasferita tra singole cellule, ha detto Reid. “Questo meccanismo deve essere molto diverso da quello osservato nel cervello, ma le somiglianze negli esiti funzionali rendono il confronto estremamente interessante.”

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato il 9 luglio 2018 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente on line promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)