foto di Antonio Treccarichi

 

 

Bedda, cu` fici a tia pinceva finu,
puteva fari scola a Tizianu,
ci travagghiò macari di bulinu
cu la pacenzia di lu franciscanu.

Bedda, cu` fici a tia fu `n Serafinu,
ch`aveva la fattura 'ntra li manu,
ti fici li labbruzza di rubinu
e li capiddi d`ebanu africanu.
Lu pettu ti lu fici palumminu,
li denti janchi e l`occhiu juculanu,
lu nasu privinutu e malantrinu,

nicu lu pedi e séngula la manu...
E doppu ca ti fici, 'st`assassinu,
spizzò la furma e la jittò luntanu.

(Nino Martoglio)

 

E' dedicata alla donna, ma non si saprà mai se Martoglio abbia usato la donna come metafora per celebrare la sua terra. Al sottoscritto piace immaginarla così e se questa è la verità, io sono uno di quei privilegiati a vivere in quella matrice che per fortuna, grazie a quello scultore, non ha avuto forme gemelle nella sua storia. 

 

 

LA TRAPPOLA

E' proprio così, o si ama o si odia.

Per chi non l'ha mai vista, a vederla la prima volta deve fare un brutto effetto essere circondati da tutti questi vecchi palazzi di colore nero e con le rifiniture di bianco calcare. E' il materiale di costruzione che ci ha regalato quel monte che ci sovrasta, che ci saluta ogni mattina all'albeggiare, che ci fa vedere e capire quanto è potente e quanto può decidere le nostre sorti. Ma ormai amiamo pure lui, nonostante i forestieri ci dicano ad ogni eruzione "ma come fate a vivere qui, ma siete così tranquilli?".

Chi viene a vivere qui i primi giorni si sente oppresso da questa città scura, viene preso dalla malinconia per via dei colori pesanti e severi che niente hanno a che fare con i colori siciliani, solari e mediterranei; infatti Catania si contraddistingue dalle altre città siciliane anche per il colore.

Ma soprattutto per quelli che quel colore lo hanno intonacato: i catanesi. Non so se sia dovuto alla temperatura dell'Etna che circola sotto la città o ad uno strano gas invisibile che emana il  suo cratere, ma i catanesi sono proprio figli del Mongibello. Sono vulcanici come lui. E sono anche diversi dagli altri siciliani. Nell'essere "catanese" c'è tutta la furbizia dei napoletani, l'intraprendenza nel commercio degli svizzeri, la genialità degli inglesi, l'ospitalità dei giapponesi, la voglia di far festa dei messicani, la lingua dei toscanacci, la bramosia di scommettere dei texani a Las Vegas, l'amore per i viaggi dei vichinghi (l'accento catanese si avverte  in qualsiasi aeroporto del mondo, sono dovunque) ecc.

Ma l'ironia no. L'ironia e l'autoironia dei catanesi (o liscìa come la chiamano qui) sono proprio marca "Liotru". Questo spirito liscio, la battuta pronta che ti brucia al primo colpo è una cosa che ci appartiene. Storica è la disavventura di quel signore  che, scendendo dal tram in corsa, mise un piede in fallo cadendo rovinosamente sul marciapiede. Molte persone accorsero per aiutarlo a rialzarsi e una di loro, con altruistica sollecitudine, gli chiese: "Chi fici, s'astruppìàu?" (che fa, si è fatto male?). E quello (liscio), prontamente, mentre si tirava su dolorosamente: "Ma no, non m’astruppiari... Iù d'o trammi scinnu sempri accussì" (No che non mi sono fatto male, io dal tram scendo sempre così!).

Oppure l'altra storiella di qualche anno fa, quando la gente di colore non aveva ancora invaso la città e incontrarla era sempre un fatto un po' insolito. Due catanesi passeggiano discutendo pacatamente sotto i portici di Corso Sicilia in un luminoso pomeriggio di sole, quando incontrano un numeroso gruppo di nigeriani, di quelli molto scuri di pelle, proprio neri che più neri non si può. Al passaggio degli africani uno degli amici si ferma e rivolto all'altro: "Au, Giuvanni, scuràu!" (Ehi, Giovanni, si è fatto buio!"). Si può essere più brucianti di così?

 

 

Questa ironia ce la portiamo dovunque, dagli sportelli degli uffici postali - dove l'impiegata viene ricoperta dalle battute più sarcastiche - ai marciapiedi di Via Etnea, culla di questi cervelli in continua fibrillazione. Anche allo stadio, nella tribuna B, reparto "liscio" del vecchio Cibali e famosa per storiche battute rivolte ai giocatori o all'arbitro, si fa ironia. Una è questa: "Abbittru, si i cunnuti avissuru l'ali a tia t'avvissuro a ddari a mangiari ca fionda!" (Arbitro, se i cornuti avessero le ali, tu lo sei tanto  che per farti mangiare dovrebbero lanciarti il cibo con la fionda!!!")

E che dire di un mio conoscente che alla "Fera o luni",  avendo trovato un paio di pantaloni di suo piacimento, non sapeva come provarseli davanti a tutti? L'ambulante: "Prufussuri, si mittissi sta tuvagghia davanti" e l'acquirente, di statura alta:  "Sì, ma arriva a coprirmi soltanto dalla testa alla pancia!! E l'ambulante: "Prufussuri.... ma a lei di sutta cc'u canusci?" (n.d.r.: ma a lei di sotto chi la conosce?). Micidiale! Quando la liscìa diventa filosofia!

Solo qui, se una signora, dopo aver atteso quasi due ore l'arrivo del bus dice al conducente "su tri uri c'a aspettu a lei!" quello le risponde "picchi? chi avevumu n'appuntamentu?".

Solo qui se qualcuno chiede al telefono "chi parla?", si sente rispondere "cchi sacciu, un pocu iu e n'pocu vossia".

Solo qui, se una bella turista entra in un bar e chiede dell'acqua (dopo essere stata "radiografata" dalla testa ai piedi), si sente rispondere "l'acqua a voli naturali o frizzantina comu a lei?". Solo qui le maestre d'asilo, chiedendo in aula "Bambini, come si chiamano quei signori col sacco bianco che tirano il cordone di Sant'Agata?", si sentono rispondere ".... Cuncettu, Arazzio, Turiddu, Melo, ecc. ecc.". Fin da piccoli, lisci!

Solo alla nostra pescheria, alla domanda "ma è fresco?"  la risposta è "signuruzza, qui è tutto combustibile!"

E poi hanno un grande spirito di adattamento e del commercio. Gli stessi che vendevano i panettoni per strada dopo un po' di tempo li puoi trovare  a vendere colombe, uova pasquali e palme per la Pasqua, mimose per la Festa della donna, panini davanti alle discoteche, rose per S. Valentino, giocattoli per la festa dei Defunti, fuochi d'artificio per il Capodanno. La domenica non si riposano: limoni e bibite dalla dubbia marca allo stadio (così vedono anche la partita gratis!). Anche i taxi hanno una grande faccia tosta. La passeggera  si lamenta: "Mi scusi, ma a Mlilano la corsa dall'aeroporto costa molto di meno!" e il tassista, senza battere ciglio: "Signorinella bedda, cchi voli mettiri....  Catania ccu Malanu?"

 

Catania vista dalla Costa Saracena

Ecco, forse anche questo aiuta quei malinconici dei primi giorni a rendersi conto che qui non è come avevano pensato.. Ma la città non fa niente per farsi amare, sta sorniona, come una bella donna non dice niente e  si fa desiderare, non li calcola nemmeno, non li guarda, è tutto un corteggiamento fatto di sguardi che spetta fare al visitatore che alla fine se ne innamorerà  perdutamente e capirà che tutto quel colore scuro non era come pensava, che quel nero non era nero ma  rosso scuro, rosso sanguigno, pressione alta, lava e lapilli che tentano continuamente di fuoriuscire. Il visitatore, poi, in quella lava incandescente ci si tufferà volentieri. Diventerà anche lui, per forza di cose, parte integrante di quel materiale piroclastico che scende ogni sera a valle e va a ricoprire le strade cittadine, facendole rivivere ed esplodere come ad una nuova eruzione. La prova è che molti che sono stati trasferiti qui e poi sono ritornati al paese d'origine hanno ancora Catania nel cuore; altri sono rimasti intrappolati dal suo fascino e non sono più andati via.

Altri ancora, purtroppo,  l'hanno dovuta lasciare per sopravvivere e quando tornano qui mettono da parte qualsiasi appartenenza forestiera, si rimettono addosso la "marca Liotru" e  fanno il pieno di catanesità (a cominciare dalla gastronomia) in quei pochi giorni di vacanza.

 

 

Lasciarla è quasi sempre un dramma. La stazione e l'aeroporto sono i muri del pianto delle partenze. Il catanese è uno dei pochi passeggeri ad affacciarsi dai finestrini del treno. La sua innata curiosità lo spinge a scrutare, a guardare cose nuove, a far riflettere la sua mente vulcanica, ma quando parte dalla sua città si affaccia ancora di più anche se il paesaggio è sempre lo stesso, anche se il viaggio dura soltanto due giorni. E per salutare un suo figlio Catania sceglie le giornate più splendide (vigliacca!): si profuma con una brezza marina da far resuscitare i morti, si bagna i capelli con un mare azzurro al sapor di alghe profumatissime cresciute in fondali meravigliosi, si dà un fondotinta con la luce e il sole che c'è da queste parti, chiama a raccolta i più floridi giardini di aranci che salutano con profumi di zagara e un cielo che è un Carnevale di colori.

E il catanese in partenza sta lì a guardare sua madre, dopo si ritira nel corridoio del treno e avverte subito odori diversi e un'improvvisa malinconia. Apre il pacchetto della merenda e dà il primo morso a un'olivetta di S. Agata, dimezzandola. L'altra metà non può più mangiarla perchè è bagnata dalle lacrime che scivolano dai suoi occhi. Ma lui, da buon catanese, non si dà per vinto e pensa: "sarà stato il vento dal finestrino...... "

 (Mimmo Rapisarda, 2004)

 

Ogni uomo nasce Re. Ma la maggior parte degli uomini muore in esilio, proprio come la maggior parte dei Re.   (Oscar Wilde)

 

 

 

Quante volte, nelle prime del mattino e in partenza (a volte fra le lacrime) per le vostre destinazioni, dall'oblò avete osservato Catania dall'alto che vi si presenta così, sotto le gonne dell'Etna, per salutarvi?

Si fa vedere tutta tutta, dalle spiagge della Plaia ai macigni di Polifemo, dai crateri Silvestri al mare di Ognina, senza perdere nemmeno una goccia di spremuta d'arancia o un olivetto di Sant'Agata.

 

LA CATAPULTA DEL PIANTO

 

Intervista a Vincenzo Spampinato

 

Sei nato a Catania nel ‘53. Com’era la città in quegli anni?

Com’era la città negli anni ‘50? Ero così piccolo che non me la ricordo, ovviamente, ma crescendo, piano piano, mi sono trovato in una città bella, in bianco e nero, con quel barocco giusto e poetico. 

Man mano poi, ovviamente, sul basolato di lava non c’erano più poche macchine, ma tantissime macchine.

Noi si cresceva nel quartiere, il Borgo, un quartiere tranquillo, popolare, giocando dei giochi molto antichi, con i sassi, con i legni, facendo il bagno nella fontana, rincorrendoci.  Erano questi i nostri giochi, era questo il mio mondo. 

Sei nato cantautore o lo sei diventato negli anni?

Io sono nato secondo me con la musica e poi, senza nessuna prosopopea, per la musica.

Lo so che può sembrare scontato, retorico, ma mi calmavo solamente quando sentivo la musica, mi diceva mia mamma, per cui evidentemente quest’arte entrava dentro di me piano piano e non mi mollava. Ecco, questo, sicuramente.

Nel ‘69 incidi con i Rovers l’album “Sono le otto/Nei tuoi sogni”. Che ricordo hai di quell’esperienza?

La prima volta che sono entrato in sala di registrazione con i Rovers, questa questa sala, con tutti questi le,  lucine, sembrava veramente la sala da dove partono le astronavi,i razzi, e sembrava una base americana, come andare sulla luna. Ricordo questa grande emozione, questa grande paura, anche di cimentarmi in delle cose che poi sarebbero rimaste. Però bella, una bella avventura. 

Credo che quella sia stata proprio una cosa che mi ha formato, forgiato, assolutamente.

Nel ‘70 partecipate sempre con i Rovers al Festival d’avanguardia Palermo Pop, organizzato da Joe Napoli, dove suonano anche Aretha Franklin, Brian Auger e Arthur Brown. Com’è stato confrontarsi con artisti di questo calibro?

Quando abbiamo fatto Palermo Pop ‘70, ti devo dire con molto orgoglio, che era l’unica Woodstockstock europea, per cui noi siciliani, che l’avevamo in casa, siamo partiti da Catania con una macchina scalcinata, siamo arrivati allo stadio della Favorita, e ci siamo visti questo po’ po’ di artisti: Aretha Franklin, Brian Auger…

Era veramente il gotha della musica mondiale! Quindi è stata un’esperienza bella, irripetibile. 

E poi è stata anche unica…Beh, ti devo dire che, senza nessuna presunzione, ci sentivamo gasatissimi, come direbbero oggi i ragazzi, carichi ci sentivamo. Ci sentivamo, ci sentivamo anche importanti, pensa un po’…

Nel ‘76 firmi, a soli 23 anni, il tuo primo contratto discografico da solista con la CGD (Messaggierie Musicali). Cos’hai provato in quel momento?

Nel ‘76 i Beans, nella figura, nella persona affettuosa, di Tony Ranno, mi fecero conoscere Gianni Bella, grande artista nostro, e Gianni mi portò in CGD: il mio primo contratto. Veramente lì non si scherzava più, lì si cominciavano a fare i dischi, quelli rotondi col buco in mezzo. Bellissimo, bellissimo, un’esperienza fantastica. Tanti musicisti, mi ricordo la mia prima orchestra. C’erano 32/40 elementi e molti venivano dalla scala. Un’esperienza incredibile sentire suonare questi professori che di solito suonavano la musica classica, sinfonica, ed invece in quella fattispecie suonavano la musica pop, la mia musica.

Quindi bello, una grande esperienza. Sarò per sempre grato a Gianni Bella ed ai Beans. 

Anni fa hai dedicato una canzone molto toccante a Pippo Pernacchia, storico personaggio catanese. Senti anche tu la mancanza in città di personaggi come lui oggi?

Quando c’era questa città che io definivo in bianco e nero, c’erano questi personaggi, semplici. Pippo era un bonaccione, Pippo Pernacchio. Si guadagnava da vivere, si diceva, si raccontava, facendo appunto pernacchie, ed era molto, molto, sui generis. 

Un semplice ma dal cuore d’oro e dalla grande sensibilità ed intelligenza.

L’averlo conosciuto per me è stato un grande privilegio. 

E poi, quando il cielo lo ha chiamato, quando l’ho saputo, ero in via Etnea e salendo verso casa già nasceva la canzone, perché non sapevo come esternare la mia tristezza per questa grossa dipartita.

 Secondo Platone “La musica è per l’anima quello che la ginnastica è per il corpo”. Quanto è stata importante la musica per la tua anima?

Per me Tolstoj è quello che ha centrato più di tutti la questione. Lui definiva la musica la più sensuale delle arti, e quando una cosa ti acchiappa i sensi, te li rapisce, quando ti prende le emozioni, quando ti commuove, quando ti diverte, quando ti fa ballare, quando ti fa piangere, quando ti fa ridere, beh  quello è il cerchio assoluto, la figura perfetta della tua anima. 

Quindi viva la musica, per sempre!

Fonte: https://livesicilia.it/

 

 

L'UTOPIA 

Giorno verrà che questa Terra, diventerà modello per tutte le altre terre che il buon Dio, o chi per LUI, ha disegnato sul mappamondo. Sarà il giorno che il pavone regalerà la sua ruota alla mano di un bimbo, che la farà rotolare fino alla marina.

L'Isola tornerà a respirare, quando il soffio saggio dell’amore Sicano spazzerà via i mostri industriali di Priolo, Gela, Termini Imerese, Sigonella and company, e la "maffia"sarà solo un brutto ricordo.

Le auto, le luci, i nostri micro-onde, gireranno succhiando il vento (macchine d'Eolo) e aspirando il sole (pannelli d'Elios); le telecamere del fratello grande di Orwell non spieranno più nelle nostre ferite, ma ci guarderanno negli occhi innamorati e normanni.

L'orecchio di Dionisio sentirà solo il nostro canto.

Mai più saremo con le ali al muro, mai più daremo giugulare e arance al dente del vampiro di turno.

Le zolle germoglieranno frutti biologici, il terreno non mangerà più chimica e i nostri animali danzeranno sull'aia, beccando la natura.

Saremo la "California" ecologica del pianeta Caput Mundi dell'Universo; vivremo come EGLI ci ha concepito, ospitando tutti gli esseri umani, nutrendoli col cibo di questo Eden.

Questo noi saremo: Isolani...... mai più isolati!

 (Vincenzo Spampinato) ("Utopia del Triangolo" è inserita nel libretto del CD "I diritti dell'uomo", realizzato a scopi umanitari da un mio amico che si chiama Vincenzo Spampinato. E' anche il testo portante di un suo spettacolo che ha per protagonista sua maestà Aitna ed Elephantown, come lui chiama la nostra città in una delle sue canzoni.)

 

L'utopia? E' la verità del domani!  (Victor Hugo)

 

foto di Francesco Tomarchio

L'IMPATTO

Di solito, quando si dice "ho due cose da dirvi, una buona e una cattiva", si chiede anche in aggiunta "quale volete che vi dica prima, la buona o la cattiva?". lo scelgo per prima sempre la cattiva, così poi mi rifaccio la bocca con la buona. E così faccio anche stavolta, parlando di Catania, questa città piena piena di cose. Buone e cattive.

Vi dico quel che di brutto mi è parso, ho provato e mi è successo nel mio rapporto personale con Catania. Che è poi quello che più fa emozione, rabbia e tormento, sentimenti privati e forti che si finisce per patire di più.

La mia "prima volta" con Catania fu quand'ero bambina, venivo da Roma e andavo a passare l'estate nel paese di mio padre, nel Ragusano. Ero frastornata dal lungo viaggio ed eccitata per tutto quel mare che sembrava a volte toccasse il treno, anzi era il treno che pareva in certi punti attraversarlo. Mi aspettavo addirittura di esserne bagnata, sommersa e ridevo e strillavo, concitata e intimorita. E d'improvviso il treno entrava nel nero. Un nero che non era di tunnel, non di viscere di montagna: era un nero che partiva dal grigio, opaco e fumoso. Erano case senza colori e un binario alto su archi neri in mezzo a quelle case spente. Era già la città che non accettava quell'intruso sferragliante e lo respingeva con la sua scontrosità dì pietre funeree. Così, quando il treno arrivò a Catania, io mi sedetti, improvvisamente calma, un po' mortificata. Ripresi a salire, a scendere il vetro del finestrino, a schiacciarci felice il naso contro, soltanto dopo che le rocce s'erano rifatte bianche sulle scogliere di Castelluccio, alle saline di Augusta e alla stazioncina di Targia.

 

 

Poi ci fu il tempo dell'Università e fu allora che entrai davvero in città, via Etnea, le piazze, la villa Bellini. E sempre però affrontavo imbronciata quel nero senza splendore. Camminavo guardinga, e i palazzi alti mi incombevano addosso, arcigni. E anche le strade mi parevano uno stretto groviglio di nero. Detestavo la città ed essa mi detestava. Non legavo con nessuno. Allora venivo da Siracusa, molle, dolce, sciroccosa, e questa gente qui invece parlava con accento pesante, si muoveva troppo in fretta. Ed era sempre sfottente, pronta alla beffa. Se chiedevi a qualcuno dov'era una certa strada, quello ti mandava di sicuro a casa di Dio, intontendoti di indicazioni complicate e di compatimento: "poverina, così lontano!". Poi scoprivi da sola che invece la strada che cercavi era proprio quella su cui stavi camminando quando avevi interpellato quel cittadino tanto solerte quanto truffatore! Schiumavo rabbia contro la nemica Catania e mi chiudevo nella mia riservatezza provinciale.

Scoprii di malanimo che i bagni a Catania si facevano da scogli crestati, taglienti, neri naturalmente, per nere lave colate dall'Etna. E io invece avevo imparato a correre a piedi nudi sui massi rotondi e scivolosi. Così sono i fantastici scogli a Siracusa. Odiai anche queste pietre che mi scorticavano i piedi e le caviglie. L'antipatia reciproca continuava: da una parte stavo io, incaponita nel rifiuto, dall'altra Catania mi sembrava impenetrabile.

Usavo Catania per quello che dovevo farei, per quello che potevo trarne: l'Università, un gruppetto di conoscenze utili - o inevitabili? - per qualche festa in casa dì questo o di quello, o per la compagnia in una passeggiata lenta lenta per via Etnea. Per fl resto me ne stavo immusonita a sognare altri luoghi, case e strade bianche, che non fossero ribollenti casseforti di sole e non scottassero ancora a toccarle nella notte. Avvertivo gli odori più sgarbati, i sentori di vecchie polveri imputridite e delle voci coglievo sempre e soltanto le tonalità più sgraziate. Ero cattiva in una città che non mi amava. E questa è la "cosa cattiva" che avevo da dire.

Per quella "buona" non vorrei proprio diventar zuccherosa, ma alla fine nostalgia e sentimento faranno sciroppo.

La volta che scoprii una spiaggia rosata come una cipria, in una striscia che non vedevo finire, per quel pulviscolo opaco che si faceva lontano, dì sabbia e di umori salmastri.

 

 

E la volta che via Crociferi mi incantò di lampioni tenui, di Chiese che sembrano toccarsi, e il loro barocco si confronta, si emula, si insinua sui lastroni di lava usurati e nelle stradette ripide fino a segrete piazze, tra conventi severamente aristocratici molto più che pii. E la volta che mi incantò la frenesia di colori e di odori sotto le lampadine accese e il vorticare delle strisce di carta per areare il pesce sulle bancarelle della pescheria. E la volta che mi incantò la notte nel giardino del Lido dei Ciclopi, terrazza dopo terrazza, a protendersi sull'acqua. Oppure la voce del venditore di gelsi o il lento percorso in via Etnea, tra vetrine cariche e allettanti come una strada levantina e c'era anche chi invitava ì passanti a comprare le scarpe del suo negozio, il più fornito, il meno caro ... E quando avvertii, oltre agli odori che avevo selezionato per il mio rifiuto oltraggiato della città, nuovi aromi penetranti fino all'ebbrezza, dai limoneti carichi di zagare, l'ironia dei catanesi mi sembrò d'improvviso irresistibile per quella vena di beffa della battuta. Sfacciati catanesi, corrosivi catanesi, t’inchiodano con una frase. Si sopravvalutano e lo dicono sfrontati: e infine sai che ne hanno tutti i motivi, per l'intelligenza, per l'immediata capacità un po' truffaldina di cavare ricchezze da una pietra.

Perdono il senso della comunicazione (e non l'hanno mai avuto); vivono la loro indipendenza, uno accanto all'altro, fingendosi solidali: in realtà ognuno entità suprema per l'altro. Questi catanesi sono isole che possono anche allearsi, ma mai vivere solidalmente l'interscambio della comunità.

E che fa? Non hanno il senso civico? Sono ribelli e insofferenti all'autodisciplina? Eppure poi si fanno mortificare lungamente da politicanti di nessun rango e li lasciano fare i padroni del loro destino. Contraddittori anche in questo, passano dall'orgoglio dei protagonisti al lamento delle vittime. E poi ricominciano, rifanno quel che hanno annientato, ricostruiscono quel che hanno distrutto.

Adesso ho imparato ad amarli, a farli miei, ad essere passionalmente una di loro. Vulcani, essi stessi sono l'Etna. Anche loro fremono, sbuffano, eruttano e mandano al cielo lapilli. E se nel loro sangue si guardasse bene, il coagulo è magma solidificato, è lava.

(Luigina Grasso)

 (da "A Catania con amore" – di A. Motta - Edizioni Greco)

 

 

LA FUGA

Tanto tempo fa, al tempo della Genesi, Dio decise di fare ai Catanesi un dono meraviglioso: farli nascere "tutti, ma proprio tutti" in un Giardino dell’Eden.

Piazzò questo giardino ai piedi di un monte che lo proteggeva dai venti e dalle piogge, gli dipinse davanti un mare intingendo il pennello in un azzurro inesistente in natura, lo profumò di una brezza proveniente da fondali ricchi di pesci unici al mondo, lo seminò di frutti maturati sotto un sole che non voleva più saperne di andarsene ed infine lo illuminò con un sipario di stelle per decantarne tutta la sua bellezza, al punto da suscitare le invidie della Luna appena creata.

Però, non essendoci spazio per tutti, con rammarico pensò di fare delle selezioni permettendo così solo ad alcuni privilegiati di viverci dentro fino alla fine dei loro giorni.

Quindi emanò un editto che diceva: "Coloro che l’indomani troveranno davanti alla porta di casa una piccola mela di marzapane acquisiranno per sempre il diritto di cittadino dell'Eden".

Ma in quella notte i catanesi, essendo golosi di dolciumi fin dalla notte dei tempi, all'insaputa del Padreterno fecero man bassa di tutto quel "ben di Dio". Come se non bastasse, nella foga fecero rotolare alcune mele davanti alle porte sbagliate.

La mattina seguente accadde che alcuni, innamorati della propria terra, furono costretti ad andare via portandosi nel cuore il perenne ricordo di quel Paradiso ed altri invece rimasero controvoglia, anche se avrebbero preferito cercare frutti più grossi e gustosi altrove.

Chiaramente ci furono dei malcontenti per le scelte impopolari e a tutti gli Etnei rimase l'eterno dubbio che Dio, quella notte, forse assonnato o distratto per il gran lavoro della creazione del mondo, avesse ripartito senza alcun criterio e con immotivata ingiustizia il suo marzapane.

Dio non volle saperne niente: disse che i Catanesi avevano fatto scempio del suo dono macchiandolo con la loro ingordigia e che per tale colpa non poteva esserci punizione più giusta. Ecco perchè da quel giorno, in quel Paradiso chiamato "Catania", ad ogni episodio del genere viene pronunciato l'antico detto "U Signuri ci mannau u' (marza)pani a cu non ciavi i denti".

E i cosiddetti fortunati che sono rimasti, al contrario di quelli che son dovuti andare via per sopravvivere? Dopo un po' di tempo aprirono il cancello del giardino e scapparono fuori, spinti dalla bramosia di emergere, dall'ambizione e dalla convinzione di trovare paradisi più belli.

Sono diventati qualcuno, certo. Ma maledicono ancor oggi il giorno che andando via rifiutarono quel frutto perchè anche se hanno trovato mele più grosse, hanno capito che la vita scorre e il tempo passa inesorabile mentre le loro mele marciscono. Ogni tanto ci rientrano, nel giardino, ma poi devono starne lontano perchè non possono viverci. E soffrono.

Dal loro purgatorio, ogni giorno, chiedono alla loro nostalgia in quale direzione guardare il tramonto .....per ricordare il loro Eden. E piangere.

Ma questa è un'altra storia.

(Mimmo Rapisarda)

 I veri paradisi sono i paradisi perduti. (Marcel Proust)

 

 

"Catania è una fimmina sfrontata e provocante. Una di quelle fimmine volgari, ma così sicure di sé da essere irresistibili.

Ride forte Catania, con la bocca aperta e ammicca a tutti quanti con i suoi occhi truccati e neri e grandi.

Enormi! Che pare che ti ci puoi perdere, e forse ti sei già perso: rapito dai suoi seni rigogliosi, dalla carnagione scura e sudata di questa Donna odorosa di umanità.

Non è affatto detto che alla fine ti innamori di Catania, ma di certo non è di quelle fimmine che passano inosservate. Ho sentito di uomini di tutto il mondo che si sono persi tra le sue sottane".

(Giuseppe Fava)

 

 

 

 

Secondo Gaudioso lo stemma di Catania ebbe origine probabilmente nel 1239, quando ad opera di Federico II la città passò dal governo del vescovo-conte al demanio regio. Si vide nell'elefante di pietra lavica il simbolo naturale della città. La rappresentazione araldica più antica, precedente immediatamente il 1376, è quella riprodotta sul basamento del busto di Sant'Agata: sullo scudo, un elefante di profilo rivolto a sinistra di chi guarda con la proboscide alzata e sormontato da una "A" in lettera gotica. Ma cosa ha portato un elefante a rappresentare Catania?
Seconda metà dell'ottavo secolo. Fra pochi decenni, dopo un periodo di scorrerie, l'anno 827 segnerà l'inizio della conquista araba. Catania è un baluardo della fede cristiana, tra i più difficili da espugnare. In città, da quando i cristiani sono in maggioranza, i culti pagani vengono ancora celebrati ma in segreto, i loro templi minacciati. Resistono i riti orientali, importati in epoca ellenistica, e pratiche magiche spesso esercitate da Ebrei. Uno di loro, Eliodoro, è un mago "barbarae patriciae filius" secondo l'Amico che ne scriverà circa un millennio dopo. Il De Grossis, vissuto prima del grande terremoto, lo definisce secondo solo al celebre Simone Mago: fa incantesimi strabilianti e, nonostante pratichi riti pagani e la magia nera, è ammirato dalla gente. Arringa il popolo da un pulpito costituito da un antico elefante di pietra lavica che un manipolo di ardenti cristiani ha trascinato via da un tempio pagano e gettato fuori le mura. Pare che il piccolo pachiderma di pietra sia l'unico sopravvissuto dei diversi che stavano ritti sulle mura e hanno guadagnato a Càtana l'appellativo di "Città dell'Elefante", come afferma nel XII secolo Idrisi, il geografo di Ruggero II, definendo la statua un talismano. Eliodoro, con abilità mediatica, fa credere che il piccolo elefante di lava sia incantato e che cavalcandolo può spostarsi istantaneamente da un luogo all'altro del mondo; tiene in pugno il popolo con incantesimi terrificanti, si scaglia contro le autorità e il dio dei cristiani.
Salvatore Lo Presti, che lavorava al Comune tra le due guerre e consultava documenti che in gran parte sono andati perduti nell'incendio del '44, ha sintetizzato in un racconto vivido le notizie su Eliodoro e l'elefante da diverse fonti. Questa la descrizione delle ultime ore del mago secondo il "De rebus siculis" del Fazello, storico del XVI secolo: «...il Vescovo, S. Leone il Taumaturgo, ...convocati i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria. ...il temerario Eliodoro si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi improvvisamente capelluti e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con denti di cinghiale e altri in stravaganti sembianze in modo da ingenerare il riso". Ma il vescovo compie l'esorcismo e attrae il mago «nell'ardente fornace approntata in una fossa vicino alla chiesa e... il mago divenne un mucchio di cenere in men che non si dica».

 

 

 

 

 

 

E l'elefante? Dopo la morte di Eliodoro, la gente continua a chiamarlo con il suo nome e, storpiandolo nel tempo, Liotru. Stabilito nell'immaginario dei catanesi, viene collocato a cura dei benedettini di S. Agata su un arco adiacente al Palazzo di Città, nel Piano di S. Agata, la piazza antistante la cattedrale normanna che diventerà piazza Duomo. Lì rimane fino al 1508, quando è posto sul prospetto nord del palazzo rinnovato. A squassare il suo nuovo alloggio provvederà il terremoto del 1693. Su suggerimento dell'olandese Filippo d'Orville di passaggio a Catania, Giambattista Vaccarini, l'Abate palermitano allievo di Bernini, chiamato a progettare la città che vuole rinascere, è incaricato di erigerlo insieme a un obelisco recuperato.
È da quel momento che il Liotru, posto davanti al nuovo palazzo comunale al centro della piazza ridisegnata, assurge a simbolo riconosciuto. Quella di Vaccarini è un'epoca in cui i simboli sono usati in profusione. I più hanno origini che si perdono nel tempo, riproposti in associazioni ibride, trovati su manufatti antichi che gli scavi riportano alla luce e all'attenzione di una nuova categoria d'intellettuali che ne riscoprono bellezze, virtù e ancora una volta magie.
Vaccarini non concepisce il monumento con soli intenti di maniera, pur attento all'armonia ricercatissima in cui gli architetti si confrontano. Secondo il suggerimento del colto d'Orville, lo compone seguendo una descrizione contenuta nell'"Hypnerotomachia Poliphili", un'opera vecchia di tre secoli in voga nei salotti intellettuali. Poliphilo (protagonista del racconto, un viaggio immaginario alla ricerca della verità) descrive un elefante di "nigrigante petra" che emerge tra le rovine di un tempio di Iside. Vi si è ispirato Bernini a Roma nel realizzare la fontana di Piazza della Minerva, ma il suo allievo Vaccarini utilizza un obelisco autentico recuperato tra le macerie e l'antichissimo elefante già adottato dalla città.

 


Ancora un catanese che ha amato e studiato la sua città ha descritto il procedere di Vaccarini, l'architetto Francesco Fichera: «Egli così apprese che l'Etna fa e disfà la città; ...che la vita, per vestirsi, si serve da noi degli stessi terribili mezzi che la morte adopera per distruggere: la lava che i "petriatori" eternamente dissodano con opera lenta e pertinace. Nel costruire la fontana dell'elefante (1736).... fece conoscenza con questa pietra dura e forte di cui è composta la massa informe del pachiderma pacifico e longevo, simbolo della città». Fichera individua alcuni tratti del Liotru, noi aggiungiamo che l'elefante è noto anche per la sua intelligenza e per l'amicizia e la secolare collaborazione con l'uomo. Il gonfalone di Catania ha in esso l'elemento principale, nella speranza che i catanesi aspirino, almeno, alle sue virtù; sarebbe questa in parte la funzione del simbolo di una città che, come un logo, deve essere riconoscibile e rimandare con immediatezza a ciò che rappresenta.

Catania è stata chiamata "città dell'elefante" dai tempi dei romani e un esercito di elefantini è a disposizione dei turisti nei negozi di souvenirs. Salvatore Bafumo, titolare del negozio sotto Porta Uzeda, dice: «Mi chiedono perché un elefante è simbolo di Catania, cosa rappresenta. Io rispondo che è un animale buono, paziente e intelligente e per noi rappresenta forza e desiderio di rinascita. Racconto che è di epoca bizantina e che a quel tempo ce n'erano diversi sulle mura della città, rivolti verso Costantinopoli. Porta fortuna e raccomando ai miei clienti di approfittarne: dovranno fargli un giro intorno guardandolo sempre». Francesco, impiegato di Salvatore, tifoso del Catania, dice la sua: «Tengo molto al Liotru, alla tradizione. L'elefante fa pensare alla forza fisica, ma il nostro ha anche l'energia della lava. A guardarlo può fare paura, cosa utile nella competizione. È riconoscibile a livello nazionale e internazionale e questo è importante per la squadra, ma più importante è la sua tenacia che ispira compattezza e partecipazione anche nei momenti difficili. Se le gente rimane vicina anche quando le cose non vanno, la squadra lo sente e le difficoltà si superano».

Gli elefantini sugli scaffali sono di fogge, dimensioni e materiali svariati. Ma un particolare differenzia il Liotru dall'elefante delle rappresentazioni comuni: la sua proboscide è rivolta verso l'alto, rigorosamente. Per un catanese è un dettaglio importante, metafora di un'ulteriore virtù. Del resto, ben vi si accorda l'ipotesi secondo la quale l'elefante, prima dell'adozione da parte di Eliodoro, era in un tempio di rito dionisiaco: una leggenda narra che a cavallo di un elefante Dioniso sconfisse le Amazzoni. Certi aspetti della natura umana non mutano neppure nei millenni. Un'eloquente cronaca, anch'essa di antiche origini, è narrata da Gianfilippo Villari in "Nascita di una Facoltà", pubblicato per il trentennale di Scienze Politiche: «...parlo degli anni in cui ogni matricola "beccata" alla Centrale doveva anzitutto arrampicarsi sotto il Liotru, per pulirgli "le palle" con la retina, quelle stesse "palle" che gli erano state applicate a furor di popolo successivamente alla installazione della stessa statua dell'elefante». Fichera non parla di quell'aggiunta, ma riporta il verbale del consiglio comunale con le istruzioni su come dev'essere eretto il monumento, dove scopriamo che al Liotru mancavano anche… i piedi e che gli sono stati fabbricati per l'occasione. Parla anche dell'obelisco «egiziano, di granito di Siene, che serviva di meta al circo». Sarebbe stato cioè il segnale posto a una delle due curve della pista del Circo Massimo che si trovava a ovest della città e che fu sommerso dalla lava del 1669.
Gli "amici di Piazza Dante", che ogni giorno si riuniscono davanti a via Biblioteca per chiacchierare e per interminabili partite a scopa, non hanno idea della vetustà del Liotru, tanto meno della sua origine, ma sono certi della paternità degli scalpellini che nella loro memoria sono come personaggi mitici: parlano naturalmente dei "petriaturi" che hanno squadrato conci e scolpito il barocco per la ricostruzione: la loro opera li riempie d'orgoglio. Domando cosa significa per loro il Liotru: «A militare, quando chiedevano di unni si', si rispondeva "di Catania, do' liafanti". Per un catanese è come dire la sua casa, a famigghia». E le virtù...? «Iddu nun voli cosi male, cerca d'arripararli. È uno saggio». E soprattutto, sempre a braccetto con la Santuzza che guai a chi la tocca. Non mancano, in cima all'obelisco, i simboli della Patrona che, essendo nata sotto i romani, ha vegliato sulla città per molti secoli e potrebbe aver visto gli elefanti schierati sulle mura.
Ma Agata deve contendere, se non il suo indiscusso primato, almeno un'antica radice alle antiche e benefiche divinità presenti dai tempi dei Greci. Amato riferisce che il Vescovo Leone, per estirpare il paganesimo, fece atterrare gli antichi templi di Demetra e Core, dee della fertilità, quando altri templi che Càtana contava in gran numero erano già scomparsi. Tra questi, era quello di Athena/Pallade, nume tutelare dei Calcidesi, fondatori della città sull'insediamento protogreco. Va detto, infatti, che quella A sul gonfalone, nei primi anni dell'autonomia amministrativa, pare rappresentasse proprio la dea e il verbale con le istruzioni al Vaccarini insiste in questa attribuzione. E, pur affezionati alla Santuzza, nella descrizione dello stemma Agata ci appare inspiegabilmente bellicosa con scudo e arma, forse per meglio proteggerci, ma tremendamente somigliante a Pallade, che però era la dea della saggezza.
La Sicilia 24/07/2010

 

 

«A Catania il provincialismo non ci fa vedere il bello che c'è»

di Ottavio Cappellani - La Sicilia, 5.2.2017

_____________________________________________________________________________________

Pietrangelo, la prima domanda è d’obbligo in questi giorni: Catania e Sant’Agata.

«Sant’Agata incarna una dimensione più ampia della santità, Agata arriva alla dimensione della sacralità, i due termini non sono sinonimi, la sacralità è un concetto che supera la semplice biografia di una santa, abbraccia una consistenza spirituale che viene confermata giorno dopo giorno dall’atteggiamento dei devoti. Mi spingerei a dire che la sacrissima vergine Agata è qualcosa di anteriore addirittura alla sua verità storica, come se nel catanese ci fosse stato un “presagio” di Agata… come se l’essenza universale di Agata si fosse incarnato nel catanese ancor prima dell’apparizione storica di Agata: un anelito, un desiderio, che si è incarnato proprio là dove doveva incarnarsi, dove più grande e perfetto era questo desiderio, questa preghiera, ossia a Catania».

- Qualche giorno fa, in “Provincia Capitale”, seguitissima trasmissione di Edoardo Camurri, dedicata a Catania, hai ricordato che questa città è terra di scrittori.Risultati immagini per buttafuoco catania

«Facendola facile possiamo dire che se Genova è la grande capitale italiana del cantautorato, così Catania è un grandissimo capitolo di quel libro che è la Sicilia e la Letteratura. Dagli autori ritenuti più popolari, come Micio Tempio, alle espressioni più classiche, come Giovanni Verga che fu considerato appunto un “classico” già in vita, non lo si può pensare, leggerlo, senza paragonarlo a Tolstoj, così come in Brancati c’è il riflesso italiano di Gogol. Nel catanese c’è quel piacere dell’affabulazione, quella capacità innata di donare una lingua, di costruire un linguaggio e un mondo, che lo fa unico, che solleva la narrazione a un livello inevitabilmente più alto, che la fa “letteratura” appunto. La narrazione non è mai soltanto un resoconto, ma un vero e proprio dono, nel catanese una storia diventa un regalo che si elargisce. Non bisogna dimenticare quale vetta ha prodotto Catania, quella unione di letteratura e teoretica che è stato Manlio Sgalambro, un gigante, il suo lascito filosofico è immenso. Ma i catanesi sono troppo provinciali, vale per lui la frase di Massimo Cacciari a proposito di Gentile: esiste un provincialismo alla rovescia di cui è vittima la nostra cultura. Uno che è nato a Castelvetrano ha zero probabilità di essere letto a Heidelberg, l' ultimo cretino di Heidelberg ha molte probabilità di essere letto a Castelvetrano».

 

 

- Catania una volta era considerata il laboratorio politico italiano…

«Non è più così, è un capitolo esaurito. Catania è diventata periferica, come la Sicilia tutta. Nel lavoro quotidiano, nelle redazioni, qualunque notizia riguardi la Sicilia, o Catania, viene accolta con un’alzata di spalle, veniamo percepiti come estrema provincia, persino nelle sue manifestazioni più folkloristiche. Credo sia dovuto alla scissione che è avvenuta in città tra le eccellenze professionali e la politica. A Catania la politica era il punto di arrivo di una vita eccellente, penso all’altre grande catanese, Pietro Barcellona, che all’opposto di un politicante è riuscito a dare alla politica una dimensione profondamente intellettuale. Mi auguro che “Palermo Capitale della Cultura 2018” possa cambiare le cose e che Catania possa beneficiarne».

- L’Etna e il mare.

«Questo è un rovello al quale nessuno potrà mai dare risposta. E’ un accoppiamento divino, solo Dio poteva decidere di mettere così vicini questi elementi opposti, il fuoco e l’acqua, la neve e isole. Ricordo un risveglio all’alba in un albergo sulla via Etnea in cui sono stato colto dalla sindrome di Stendhal, a destra Etna (mi piace chiamarlo al maschile) e a sinistra, in quello scorcio di via Etnea, il mare. Mi sono sentito come l’asino di Buridano, fermo indeciso tra fieno e acqua. Anche in questo dimostriamo il nostro provincialismo, affollando i luoghi turistici della massa senza riuscire a cogliere la nostra bellezza. Fortunatamente esiste una élite del gusto che vive la Sicilia come noi non sappiamo fare. Questa élite frequenta Etna, la trovi nei cottage nascosti, a fare escursioni, a leggere i miti, l’Odissea, è capace di percepire cosa sia Etna. Noi no. Siamo provinciali, le cose di fuori ci sembrano sempre più belle».

 

- A proposito della via Etnea, è stato il luogo simbolo dell’agorà, della conversazione politica e intellettuale…

«Non è più così. Fa parte di quel tramonto della politica di cui dicevamo prima. Non è più Il Luogo. La via Etnea era il nostro “dasein”, il nostro “esserci” o con quella splendida metafora usata da Manlio Sgalambro e Franco Battiato il nostro “thè danzante”, consentiva agli spiriti liberi di confrontarsi e confortarsi a vicenda. L’abbandono delle strade del centro storico da parte degli intellettuali, il rintanarsi in luoghi asettici, intonacati, in non-luoghi, dà la cifra di una città che perde la propria identità, il proprio genius loci. Fra un po’ rinunceremo anche alla carne di cavallo».

- Eppure a Catania la sera puoi ancora incontrare intellettuali, persone come Antonio Presti, Mario Venuti...

«Ecco… si contano sulle dita di una mano, di mezza mano. Grazie però mi avermi dato la possibilità di parlare del grande Antonio Presti! Ce ne vorrebbero figure come lui, non solo a Catania, ma in tutte le città! Non si spaventa di sporcarsi le mani, anzi sa che sporcarsi le mani, o forse pulirsele, è l’unica maniera di svolgere il vero lavoro intellettuale. Io citerei anche Nuccio Molino, uno che della città sa tutto, il mio Virgilio».

- A proposito dello stare in mezzo alla gente, a marzo, per “La nave di Teseo”, uscirà il tuo nuovo libro “I baci sono definitivi”, racconti presi in metropolitana, tra le persone ordinarie che trasmettono storie straordinarie.

«E che dobbiamo fare se non immergerci nella vita...»

- Passiamo alla prossima domanda. Il teatro era un luogo di incontro…

«E’ un aspetto di quell’istinto alla letteratura del quale il teatro è figlio, o forse padre. Io identifico il teatro con quella maschera raffinatissima che è stato Angelo Musco, una maschera che vive quotidianamente nelle espressioni e nei tic dei catanesi. Dico maschera raffinatissima perché Musco ha innalzato la farsa a spezia, a condimento dell’intelligenza, è riuscito a fare del comico un’arma della conoscenza, tramutandola in arguzia. Si dice del perditempo, dell’inconcludente, che “fa teatro”, ma a Catania “fare teatro” è una maniera di passare la giornata a contatto della conoscenza. Che non si sia riuscito a fare di Catania una Bollywood rientra in quella tragedia epocale per cui chiudono i cinema, le librerie. La geniale app di Sant’Agata è una metafora di questo tempo: Sant’Agata nell’app e Angelo Musco sullo smartphone».

- L’Islam, che attraversi e dal quale sei attraversato, conserva rapporti con Catania?

«Direi di no. Al contrario di Palermo. A Catania l’Islam viene percepito come una novità dovuta ai migranti. Probabilmente il terremoto del 1693, cancellando le architetture arabe, ne ha cancellato la memoria. Ma c’è anche da dire che a Catania è talmente forte la dimensione sacrale legata a Sant’Agata che ingloba qualsiasi altra esigenza spirituale, Agata non è solo cristiana, è anche, come si sa, paganitas, nel senso non solo di “pagano” ma anche etimologicamente latino, “pagus”, borghese, è

- E veniamo quindi alle “fimmine”. Come sono queste “fimmine” catanesi?

«Sono l’ascolto. Dobbiamo farci muti e ascoltarle. L’espressione massima della “fimmine” catanesi, per quello che dice, per le varie sfaccettature, per la grande capacità di orchestrazione, è Carmen Consoli. Il suo repertorio è insieme la partitura delle “fimmine” e la risposta alla domanda “cosa sono le fimmine a Catania?”. Se invece vogliamo porre la domanda al singolare ed essere filologicamente esatti, allora la risposta non può che essere una: la “fimmina”, a Catania, è solo Sant’Agata».

Dal sacro al profano: la Destra a Catania.

«La Destra a Catania ha solo un nome: Nello Musumeci. I catanesi lo conoscono, conoscono la sua storia e conoscono quale sarà il suo percorso».

E i Cinquestelle?

«A Catania non ce ne sono. Vanno in piazza quando arriva Grillo o Di Battista o Di Maio ma picchì su’ curiusi. Probabilmente non esiste un catanese grillino dal carisma tale da potere fare da traino. Non so, certo che è strano».

Forse perché ai catanesi piace il potere. E fino a quando i grillini non prendono il potere… Prima vedere cammello…

“Vero è! (risate, nda), i catanesi sinni stanu futtennu dei meetup, iddi volunu i segreterie politiche, con le liste… Il catanese dice: prima vediamo se vanno al governo e poi ne possiamo parlare».

La Sicilia 5.2.2017

 

 

 

 

Catania - Nel corso della processione del giro esterno del busto reliquario di Sant'Agata, come ogni anno, in Piazza Stesicoro l'arcivescovo metropolita di Catania monsignor Salvatore Gristina ha rivolto un messaggio alla città

 Secondo un'antica tradizione, la processione in onore della nostra Patrona è accompagnata da alcune soste che ci consentono qualche momento di riflessione. L'alternanza tra il camminare e il sostare costituisce quasi il ritmo e il respiro della nostra vita. Tante volte, infatti, viviamo l'esperienza della sosta, quando, per esempio, la fatica attenua le nostre forze, la malattia rende vulnerabile la prestanza del nostro vigore, la difficoltà demotiva il nostro coraggio. Accade poi che in tutte queste "fermate" possiamo lasciarci prendere dallo sconforto o dalla disperazione, oppure riflettere in modo propositivo su quanto ci sta accadendo, facendo, come si dice, il punto della situazione, cercando di riacquistare le forze che ci consentano di riprendere con rinnovato vigore il nostro cammino.

 E' proprio questo il significato della processione che, avendo avuto inizio stamattina, ci ha già offerto diverse occasioni per riflettere e riprendere il cammino. Tra le tante fermate del Fercolo, la sosta in Piazza Stesicoro ha un significato particolare perché viene fatta vicino ai luoghi dove Agata pubblicamente proclamò il suo amore per Gesù, dando testimonianza di fede coraggiosa dinnanzi alle moleste pretese di Quinziano rappresentante di Roma in Sicilia. E' pure significativa, perché durante questa sosta è il vescovo stesso che rivolge la parola alla comunità presente ed io, in questo momento, sono onorato e lieto di farlo ancora una volta trovandomi accanto al busto reliquiario di Sant'Agata e vorrei essere talmente bravo da riuscire a esprimerLe tutta la nostra commossa ammirazione e dirle: "Brava Agata, noi siamo fieri di te".

 Sant'Agata stessa sembra rispondere alla nostra manifestazione di affetto dicendoci "A te che lotti, a te che speri, a te che soffri, voglio solo dire non smettere di sperare, non smettere di amare, non smettere di pregare perché, io, sono con te, prego con te, soffro con te, ed otterrò da Dio secondo le tua necessità". Trovandoci in questo luogo desidero rileggere con voi il resoconto del primo dialogo tra Agata e Quinziano per ammirare insieme a voi il coraggio della giovane eroina davanti alla tracotanza del potente di turno.

Quinziano chiese ad Agata: di che condizione sei tu? Agata rispose: non solo sono nata libera, ma anche di nobile famiglia, come lo attesta la mia parentela. Quinziano riprese: se affermi di essere libera e nobile perché hai l’aspetto di una serva? Agata rispose: perché sono serva di Cristo, per questo mostro di essere schiava. Quinziano incalza: Ma se sei veramente libera e nobile, perché vuoi farti schiava? Agata proclamò coraggiosamente: la massima libertà e nobiltà sta nel dimostrare di essere servi di Cristo.

 

 

 Carissimi devoti di Sant'Agata, anche noi siamo servi di Cristo, non perché viviamo nei riguardi del Signore un senso di subordinazione, sottomissione o vassallaggio, ma perché, come il servo buono riconosce che è un altro Colui che da senso alla vita ed orienta le proprie azioni. Non dobbiamo pensare alla nostra identità di servi del Signore con il significato dispregiativo che questo termine può avere, perché il Signore ci vuole - e qui sta il paradosso della fede - servi liberi e disponibili. Imitare Agata significa esattamente carpire il suo segreto, il suo modo di vivere il rapporto con il Signore. Se non riusciamo in questo saremo sempre uomini o donne "di mezza misura", con una fede tiepida, che non soddisfa, e che ci rende, fiacchi, demotivati o addirittura, inconcludenti. Possiamo pure essere persone che frequentano la Chiesa, ma non riusciremo mai a diffondere l'Evangelo di Gesù.

 E l'Evangelo di Gesù è quello che ha accolto e testimoniato Agata, quello caratterizzato dal riconoscimento e dall'accoglienza del fratello, dalla misericordia, dalla pratica della giustizia. Ecco perché noi a distanza di tanti secoli ricordiamo ancora Agata e la vogliamo compagna nel nostro cammino.

 Carissimi amici: noi siamo concittadini e devoti di questa coraggiosa giovane. Agata fece la scelta per Cristo; Lo considerò la perla più preziosa da preferire a tutte le ricchezze che possedeva in abbondanza. Si innamorò di Cristo, Lo amò con amore totale e fedele sino a dare la vita per Lui. Certamente Sant’Agata gradisce la nostra ammirazione e il nostro applauso e se sappiamo ascoltarla, lei dice a ciascuno di noi: sii pure tu coraggioso; scegli Cristo, seguilo, cerca ogni giorno di vivere secondo l’esempio di Gesù. Diventerai veramente libero, sarai veramente nobile, con quella nobiltà che nasce dall’onestà, dalla correttezza personale, dal compimento dei doveri civili ed ecclesiali. Libero e nobile sarai veramente buono verso gli altri, accogliente verso tutti, vincendo l’egoismo ed ogni chiusura.

 Questo dice Agata a tutti noi che vogliamo onorarla in modo autentico, cioè imitandola.

 Adesso, per esprimere il nostro desiderio di imitare Agata, compiremo un gesto semplice ed importante allo stesso tempo. Rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo. Quasi tutti siamo stati battezzati pochi giorni dopo la nostra nascita. I nostri genitori, il padrino e la madrina, hanno preso degli impegni per noi. Crescendo siamo stati invitati a fare nostre quelle promesse. Esse vogliono esprimere l’atteggiamento di Agata: la rinunzia al peccato e a tutto ciò che ci allontana da Cristo, e la proclamazione della nostra fede, cioè del nostro legame con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Compiamo allora questo gesto immedesimandoci con Agata che sarà certamente contenta di vederci comportare come Lei, come autentici e coraggiosi discepoli di Gesù.

(dal web)

 

 

 

 

La lava e l’autore ignoto

Conoscendo le leggende legate ’o liotru, collegate al vicino Oriente e cariche di fantasie esotiche, spuntano spontanee alcune curiosità: la scultura è stata realizzata a Catania, da un artista catanese, con lave dell’Etna, come afferma l’iscrizione alla base (ex aetneo lapide simulacrum), oppure no? Il litotipo con cui è stata realizzata la scultura è, probabilmente, una lava effusiva, grigio scura, bollosa, molto compatta. Considerato che gli elefanti nani erano presenti in tutta la Sicilia (ritrovamenti fossili di elephas falconeri e mnaidriensis, in ambito siracusano, etneo, messinese, e nella zona di Carini), ma anche in alcune isole del Mediterraneo orientale presso le coste dell’Anatolia, e che, in alcuni di questi luoghi, si trova quel tipo di lave (M. Etna, M. Lauro, M. ti Troodos, Cipro …), si potrebbe indagare sulla litologia e quindi sulla provenienza delle lave dell’elefante e sulla loro età, incrociando i dati, pur sapendo che l’estinzione dell’elefante nano è collocata intorno a 32000 anni fa e che l’Homo Sapiens è comparso in Sicilia circa 30000 anni fa. Certamente per i catanesi sarebbe amaro scoprire che il loro amato Liotru è stato creato a Cipro da uno scultore turco per un signore di Costantinopoli e poi da lì trasportato a Catania da un mercante dai gusti originali; oppure peggio, "scolpito" a Buccheri, da un pecoraio di Monte Lauro, a tempo perso, dato che anche lì esistono le lave bollose grigio scuro e forse qualche elefantino nano, a suo tempo, smarrito. E comunque la scultura potrebbe rappresentare, in scala ridotta, un elefante africano di taglia "normalmente" elefantina, come i tanti che di certo hanno attraversato la Sicilia servendo pazientemente negli eserciti o destinati a crudeli giochi nei circhi. E’ quasi certo che non sono mai state effettuate indagini litologiche, chimiche o fisiche, dirette, che potrebbero essere il punto di partenza per "saperne di più". Si potrebbero applicare semplici tecniche geochimiche, petrografiche, e radiometriche anche su piccoli frammenti originali. Ma forse è meglio lasciare che il mistero avvolga ancora la litologia dell’elefante e il suo mito.

 

 

CASO DI «EGITTIZZAZIONE», L’OBELISCO AVEVA UNA FUNZIONE RELIGIOSA O DECORATIVA E RIEMERSE CASUALMENTE NEL  1620

L'obelisco dell’elefante di Piazza Duomo continua sotto alcuni aspetti a celare misteri. Il primo riguarda la sua provenienza: soltanto un’accurata analisi petrografica del granito di cui è composto potrebbe chiarire se si tratti di un prodotto locale o di un manufatto importato dall’Egitto.

In secondo luogo esso non presenta geroglifici, ma, per lo più, figure umane e divine disposte dall’alto verso il basso, che non costituiscono nell’insieme una scrittura di senso compiuto, ma hanno un fine ornamentale. Nel sistema figurativo spiccano alcune importanti divinità egizie: Iside e Nephtys quali dee-ureo, Horus nella forma di diofalco, Anubi teriomorfo con testa di sciacallo, il dio Api nell’aspetto di sacro toro con il disco solare tra le corna, il dio Ra circondato dal serpente khut. Da notare anche una sfinge alata con lunga barba, con testa sormontata da una doppia corona. "Egittizzante" è dunque l’aggettivo che meglio qualifica il nostro obelisco, vale a dire si tratta di un manufatto che imita elementi figurativi egizi nell’iconografia e negli attributi regali e divini. Nella storia ci sono state epoche in cui il fascino esercitato dall’Egitto ha spinto la cultura occidentale ad "egittizzare" per cause, a volte, molto diverse tra loro (esigenze di culto o semplicemente moda).

 

 

 

 

Ad esempio in epoca romana, nelle province dell’impero, si diffusero culti misterici legati ad Iside ed Osiride. Una vera e propria "egittomania" dilagò nel Rinascimento quasi nello stesso tempo in cui si diffondeva l’interesse per l’ermetismo. I geroglifici erano considerati alla stregua di una lingua segreta accessibile solo agli iniziati. Dai dotti del Rinascimento per imitazione furono inventati anche geroglifici "moderni" come attesta la "Hypnerotomachia Poliphili" (1499) in cui è presente l’iconografia dell’elefante con l’obelisco sormontato dalla palla. Dopo la campagna di Napoleone in Egitto l’occidente conobbe una nuova fase di "egittomania" e nacque l’Egittologia grazie al ritrovamento della stele di Rosetta che permise a Champollion di decifrare i geroglifici.

In terzo luogo la datazione dell’obelisco dell’elefante appare incerta, ma la più plausibile è da riferire al primo secolo d.C. per alcune analogie con la cosiddetta "Mensa Isiaca" del Museo Egizio di Torino. Inoltre l’obelisco dell’elefante non rappresenta un caso isolato. Infatti Catania conserva altri tre frammenti di obelisco, mentre Messina vanta due pilastri egittizzanti. Il nostro obelisco, sia che avesse avuto una funzione religiosa sia decorativa, perse poi di importanza e fu riutilizzato come architrave di una porta del palazzo vescovile di Catania.

Ritornato in luce nel 1620, nel Settecento venne "risemantizzato" in chiave religiosa con l’aggiunta di ornamenti e attributi del culto di S. Agata ad opera dell’architetto Vaccarini, che prese come modello del progetto della fontana l’iconografia poliphiliana

dell’elefante. SANTO DANIELE SPINA

 

 

 

Mario Biondi: «Vi racconto la mia Catania»

03/04/2018 - 1di Mariella Caruso

 

“Cu nesci arrinesci”, ma è difficile che dimentichi le proprie origini. Non l’ha fatto Mario Biondi, nato a Catania 47 anni fa.

«Sono nato sotto le palle del Liotru, come potrei scrivere musica che non sia influenzata dalla Sicilia?».

Una dichiarazione d’intenti che è un ottimo punto di partenza per far tornare Biondi a immergersi nella dimensione catanese della propria vita. «Ogni tanto ho queste uscite un poco zzaurde, come direbbe qualche mio amico», ride il cantante al ricordo di quell’autodefinizione.

Come vivi quest’appartenenza?

«È una cosa molto sanguigna che mi riporta alla mia infanzia. Quando avevo 2 anni con la mia famiglia ci siamo trasferiti dalla Sicilia in Emilia per poi ritornare a casa quando ho compiuto 12 anni. Mio padre Giuseppe che, oltre a essere un autore di canzoni, era un rappresentante di abbigliamento diventò ispettore di Vestebene, una divisione del gruppo Miroglio, e accettò di lavorare al Nord. In Emilia Romagna, precisamente a Reggio Emilia, ho frequentato i cinque anni di scuola elementare e la prima media. È stato durante i miei anni passati lontano dalla Sicilia che il mio legame si è rinforzato. Quando a scuola mi chiedevano da dove arrivassi ero orgoglioso di dire: “Sono di Catania”. Effettivamente, a ripensarci, non so perché allora ci tenessi così tanto».

 

Forse questo sentimento ti è stato trasmesso dai tuoi genitori?

 «Non è che in casa mia si parlasse il dialetto, anzi i miei stavano molto attenti a non farlo, il riferimento alla città natale però c’è sempre stato. Ed è vero che mio nonno Mario, buonanima, mi diceva sempre: “Non t’a scurdari mai ca sì marca Liotru”. Ecco, noi catanesi siamo così. Malgrado tutte le negatività che ci ha fatto vivere la nostra terra, non riusciamo mai a rompere questo legame così forte».

 Legame che, però, tu hai rinforzato ritornando a Catania quando avevi 11 anni…

 «Sì, accadde tra il 1982 e i primi mesi del 1983 dopo che la canzone scritta da papà (con Gaetano Agate, nda) “Tu malatia” cantata da Franco Morgia vinse il Festival della canzone siciliana. La mia vita, però, è sempre stata accompagnata dalla costante del senso d’appartenenza. Mi spiego: negli Anni Settanta, quando era forte il sentimento antimeridionalista al punto che negli annunci di affitto si specificava il “no ai meridionali” e non di rado alla mia famiglia veniva detto, “Ma i siciliani non sono come voi”, in Emilia Romagna io ero il marocchino, il terrone. Tornato a Catania, invece, alla mia inflessione non puramente etnea la reazione era: “’mpare, ma comu spacchiu parri?”. Anche perché quello era il periodo clou della divisione degli adolescenti tra mammoriani e monfiani».

E tu in quale “categoria” ti ponevi?

 «Sicuramente nella prima, per un periodo ho vissuto anche a Piano Tavola dove c’era la “crème della crème” dei mammoriani».

 Oggi da adulto che ha trascorso la maggior parte della propria vita lontano dalla Sicilia, cos’è Catania secondo te?

 «Il mio luogo del cuore, quello dove torno per rivedere gli amici veri con i quali sono cresciuto dai dodici anni in poi e non solo. Perché è vero che da bambino ho vissuto in Emilia, ma le mie estati erano rigorosamente catanesi. I miei nonni abitavano vicino Porta Garibaldi e tra i miei amici storici ci sono ancora quelli del Fortino e quelli del viale Mario Rapisardi. Poi c’è la marea dei parenti: i Ranno per parte di padre e i Porto per parte di madre».

 

 C’è qualcosa, invece, che ti non riesci più ad accettare?

 «Come tutti quelli che non vivono più a Catania soffro per la delusione delle aspettative. So bene che Catania non è Milano, né Reggio Emilia o Parma, la città nella quale attualmente vivo e con la quale non ho un rapporto molto empatico perché catanesi e parmigiani sono caratterialmente agli opposti, ma c’è l’enfatizzazione del ricordo. E spesso questo fa a pugni con la realtà perché ci si aspetta tanto. Più di quanto è possibile per lo stato della città. Personalmente non ho avuto esperienze particolarmente negative, tranne il solito imbecille che s’è avvicinato con la solita frase di circostanze: “Ora chi fa, t’a spacchii”, ma gli imbecilli esistono dappertutto, non solo a Catania».

 Al contrario ci sono riti immancabili che ti ci legano, luoghi che non puoi fare a meno di tornare a vedere?

 «Catania m’a manciassi tutta. Non esagero se dico che ho un rapporto viscerale, quasi sessuale con lei. La amo fisicamente, ne amo l’odore, la terra, le donne».

 Però non hai mai sposato una siciliana...

 

 «’A virità è ca sugnu schettu, non mi sono mai maritato. Di matrimonio ne ho sempre parlato con tutte, ma prima di arrivarci c’è stato l’addio. Così ho evitato gli avvocati che già ne frequento abbastanza per i figli (sono 8 avuti da donne diverse, nda) i quali hanno dai 20 mesi ai 21 anni e vivono tutti in Emilia tranne la ragazza più grande, 20 anni, che vive a Padova».

 Come parli di Catania ai tuoi figli grandi e piccoli?

 «Li ho sempre resi, quasi tutti, molto partecipi. Li ho portati a Catania e impazziscono per pasticceria e rosticceria nostrana e quasi tutti capiscono il dialetto perché quando posso lo utilizzo perché mi piace il suono, è intimo, esprime passionalità. Come Catania dà energia».

 Ne trai anche per il tuo lavoro?

 «Madonna! La parola d’ordine nel mio ufficio milanese è che quando arrivano richieste dalla Sicilia la risposta è sì, poi i dettagli si mettono a punto».

 Su Youtube girano dei “falsi” che ti attribuiscono una versione in siciliano di “Tu malatia”. Hai mai cantato in siciliano?

 «Anch’io mi sono imbattuto in queste versioni, ma non sono io e non è nemmeno papà. Però ho cantato “Tu malatia” che, oltre a essere stata tradotta in spagnolo, portoghese e napoletano, è diventata un inno catanese. Non ho mai, però, trovato traccia on line di quell’interpretazione. E ho fatto anche un altro pezzo di papà, cocciu d’acqua, in un tributo a lui durante una riedizione del Festival della canzone siciliana».

 Non pensi un giorno di registrare questi pezzi?

 «Ho delle idee, ma finora non ho trovato il tempo di metterle in pratica. C’è un progetto molto dedicato alla Sicilia, totalmente in dialetto e non solo musicale che un giorno o l’altro vedrà la luce».

 Non hai mai avuto dubbi sull’adottare il nome d’arte di papà che si firmava Stefano Biondi?

 «La verità è che me l’hanno appiccicato quando nel 1984 cominciai a girare le piazze per cantare con mio padre. L’allora suo impresario, tale Claudio Bottino di Catania, m’inserì nel manifesto come Mario Renzo Biondi (non mi sono mai dato una spiegazione per quel Renzo). A ripensare a quel manifesto mi viene da ridere: ero un tredicenne dai capelli ricci e biondi, già alto un metro e 80 e magrissimo… scansàtini. Però quel cognome d’arte mi ha portato fortuna ed era quello di papà scomparso il 19 febbraio 1998».

 

 Quindi papà non ha fatto in tempo a godersi il tuo successo...

 «No, ma ci credeva più lui di me. Mi faceva ascoltare spesso i miei provini per convincermi che ce l’avrei fatta. E quando io obiettavo, mi diceva che non mi mancava nulla».

 Cosa diceva del tuo essere uno “studente non brillante”?

 «“Devi prendere un diploma, per forza!”. Al De Felice, però, non andò benissimo. Mi diplomai come odontotecnico in un istituto privato e ho pure cominciato il praticantato ad Adrano. Il mio capo, però, ogni giorno ripeteva: “Chi ci fai ccà intra, ti ‘nna gghiri a cantàri”. E così feci concentrandomi soltanto sulla carriera musicale».

 Nello stesso periodo in cui cominciavi a frequentare le piazze facevi anche il corista in chiesa?

 «Sì, in una chiesa di Piano Tavola e anche in cattedrale a Catania».

 Quindi conosci bene il culto di Sant’Agata. Come ti poni con la fede e la festa?

 «Io, anche per cultura familiare poco attenta alla Chiesa, non ho mai professato. Devo ammettere, però, di essere sempre stato affascinato dal concetto della Santa di cui mia nonna era devota, e dalla festa, che è anche un po’ pagana».

http://www.lasicilia.it/news/cultura/151123/mario-biondi-vi-racconto-la-mia-catania.html

 

 

Chista si chiama meravigghia, ca ti pigghia e ti scumpigghia,

iavi u culuri do’ suli, iavi u sciauru do’ mari.

Quannu a viru mi sentu tuttu priatu, picchi mi lassa senza ciatu”

 

(Mario Cordova per Birra Messina)

“Questa si chiama meraviglia,che ti prende e ti scompiglia,

ha il colore del sole, ha l’odore del mare.

Quando la vedo mi sento tutto contento perché mi lascia senza fiato.”

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/gino.jpg

 

IL MAGO ELIODORO E L'ELEFANTE DI CATANIA
Una domanda alla quale la maggior parte dei catanesi non saprebbe rispondere è quella relativa alla origine del nome Liotru o Diotru, che dir si voglia, attribuito da antichissimi tempi all'elefante di pietra lavica che adorna la monumentale fontana di Piazza Duomo. Perchè mai, dunque, il vetusto pachiderma, elevato al massimo onore di simbolo della Città, viene indicato, ancora oggi, con tale nome? Gli storici riferiscono che esso esercitò sempre nella fantasia del popolo uno strano e misterioso senso di suggestione. Anzi, la più attendibile tradizione, lo fa ritenere, originariamente, oggetto di culto in un tempio di riti orientali della Città. Precipitato dal suo altare ai primordi del Cristianesimo, venne portato fuori le mura, dove rimase per più secoli. Chi tentò, invano, di conservare al vetusto idolo gli onori di un tempo, fu, nella seconda metà dell'VIII secolo, un famosissimo mago: Eliodoro, altrimenti detto Diodoro, Liodoro, Lidoro, ed anche Teodoro.Egli, con i suoi incantesimi (...vir magica arte imbutus, miranda prestigiorum machinatione...), secondo la leggenda, tramutava gli uomini in bestie e faceva apparire le cose lontane improvvisamente presenti.

 


Essendosi, però, burlato anche degli esponenti della Città, questi decisero di condannarlo a morte. Ma, inutilmente, giacchè egli, grazie ai suoi diabolici poteri, riuscì a scampare dalle mani del carnefice: si fece portare velocemente dagli Spiriti per aria in Costantinopoli e, con la stessa celerità, restituire in Catania. Ingannato dal prodigio, il popolo gli tributò onori quasi divini, che ottennero l'effetto di renderlo ancor più temerario.
Di Eliodoro o Teodoro (...Theodorus, aspectu deformis, natione Iudaeus e post Simonem magum nulli in arte magica secundus...) la tradizione popolare ha tramandato il ricordo di altri mirabolandi fatti.
Una volta, per esempio, vuolsi che egli offrisse ad un giovinetto un velocissimo cavallo, per fargli ottenere la palma nei giochi circensi. Ma, dopo la vittoria, il destriero disparve, non essendo che un demonio in quelle sembianze.

 

 

Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere, ma, anche questa volta, riuscì a riguadagnare la libertà, corrompendo le guardie mediante l'offerta di tre false libbre d'oro: una grossa pietra, cioè, dall'apparenza d'oro, che, poco dopo, riacquistò la sua forma naturale.
Tale frode non fu la sola che egli commise: alla stessa maniera si videro portar via tanta roba molti venditori della città.
Reso edotto dei gravissimi e continui fatti che turbavano la quiete dei catanesi, l'imperatore Costantino decise allora di far partire per Catania il suo ministro Eraclio, con l'incarico specifico di condurgli il mistificatore. Ma, quando Eraclio giunse alla mèta ed inviò i suoi armati per arrestare il mago, questi, con i suoi tanti raggiri, li indusse a prendere un bagno: -"Andiamo, dunque, al bagno - disse loro - affinchè ritorniate alle navi con forze rinnovate". Appena i soldati si immersero nell'acqua avvenne un altro grande prodigio: tutti quanti, lui compreso, si trovarono istantaneamente a Costantinopoli, nel bagno dell'Imperatore.

 

 

 

Condannato a morte da Costantino, nel momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli domandò in grazia una catinella d'acqua: vi tuffò la testa e sparì misteriosamente, dicendo: - " Chi mi vuole, mi cerchi in Catania ! ".
Al colmo del furore, l'Imperatore ordinò allora ad Eraclio di ripartire subito, affinchè, con ogni mezzo, riacciuffasse il prigioniero. Ritrovato, quest'ultimo non oppose alcuna resistenza: docile e silenzioso, s'imbarcò, insieme all'inviato dell'Imperatore, su di una nave, da lui stesso costruita per via d'incantesimi, la quale, in un giorno e senza aiuto di remi, li trasportò a Costantinopoli, svanendo subito, appena approdata.
Avvertita dell'arrivo, la moglie di Eraclio mosse, ansiosa, ad incontrarlo, ma, quando scorse l'infame mago, accesa di sdegno, lo apostrofò:- " Uomicciolo sporchissimo, tu sei quello che hai fatto viaggiare mio marito in Sicilia con tanto travaglio?! ". 

E in ciò dire gli sputò in faccia.
Eliodoro ebbe un ghigno satanico: - " Ti farò ben presto pentire di avermi ingiuriato, e con tua somma vergogna ! " - la minacciò. E mantenne, infatti la promessa: in quel momento stesso, in tutta la città e vicinanze, per un raggio di oltre venti miglia, si estinse ogni fuoco, senza che alcuno riuscisse a ottenere nemmeno una scintilla. La confusione, come è da immaginarsi, fu enorme, ma grande fu altresì la meraviglia, quando si vide il fuoco generato solo dalle parti posteriori della moglie di Eraclio. Per tre giorni consecutivi, fu d'uopo che essa rimanesse nella pubblica piazza, affinchè ognuno si provvedesse della necessaria fiamma. Nuovamente ricondotto dinanzi al carnefice, Eliodoro, mentre stava per ricevere il colpo di grazia, si rese straordinariamente piccolo: entrò per la manica destra del carnefice e ne uscì dall'altra, gridando: " Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi volete, cercatemi a Catania! ". E disparve ancora, facendosi trasportare dagli spiriti nella inquieta città.

 

 

Ma a liberare quest'ultima dai suoi sortilegi, accorse, finalmente, il vescovo Leone detto il Taumaturgo (...sed tandem à Leone Catanensi Episcopo divina virtute ex improviso captus, frequenti in media Urbe populo, in fornacem igneam injextus, incendio consumptus est...).
Egli, infatti, dopo avere effettuata la distruzione del tempio consacrato alle due grandi divinità muliebri, Demetra e Cora, fino a quei tempi tanto venerate a Catania, decise di stroncare definitivamente la magìa giudaica di cui era esponente Eliodoro. Convocati perciò i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria.
Si vuole che, oltre a molti Giudei e Gentili, si mischiasse tra la folla anche il temerario Eliodoro, il quale si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi improvvisamente capelluti, e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con denti di cinghiale e altre stravaganti sembianze, in modo da generare il riso. Per ultimo, pretese di provocare il santo vescovo al ballo. 

 

 

Ma le sue nefande arti a ciò non valsero: terminata la messa, San Leone gli si avvicinò e gli gettò al collo la stola: "... Per Christum Dominum meum,nihil hic valebunt magicae artes tuae: deduxitque ad locum, cui nomen Achilleus, ibique flammis ad urendum dedit. Nec manum tuam, quae illaesa cum orario, mansit, ante subduxit, quam miser ille in cineres redigeretur. Sic itaque mos vir factissimus praesenti ope ab illius importunissimi magi periculis eripuit". Eliodoro, infatti, così esorcizzato, venne da S. Leone attratto nell'ardente fornace approntata in una fossa vicina alla chiesa. E mentre il Santo "...se ne uscì illeso, senza che il fuoco bruciasse, nè denigrasse la stola e le vesti ", il mago divenne un mucchio di cenere, in men che non si dica. Il giusto castigo inflitto a Eliodoro è ricordato, ancora oggi, da due piccole tele che si conservano, rispettivamente, nella sacristia della Cattedrale e nel nostro Museo Civico (sala 28, terzo scomparto): la prina, dovuta al pittore trapanese Vincenzo Errante (sec. XIX); la seconda, proveniente dal monastero dei Benedettini, attribuita, da taluni, a Giuseppe Patania (pittore palermitano della fine del Settecento - inizio dell'Ottocento), da altri, al Velasques siciliano.

 

Quanto all'elefante che - sempre secondo la tradizione popolare - aveva servito ai prestigi del mago, quale portentosa cavalcatura per i suoi rapidissimi viaggi da Catania a Costantinopoli e viceversa, dopo essere stato lungamente dimenticato, venne ricondotto in città dai padri Benedettini del monastero di S. Agata e posto ad adornare un antico arco o porta, detta, appunto, "di Liodoro" o "di lu Liòduro".

Nel 1508, però, essendo stato completato il vecchio Palazzo di Città, la porta predetta, che si trovava alla sua destra, venne abbattuta e l'elefante posto sull'alto del prospetto della parte nuova dell'edificio, a settentrione, quale glorioso emblema della città, con la seguente iscrizione: Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege - Elephans erectus fuit a Cesare Jojenio - Justitiario - MDVII
Dopo il terremoto del 1693, l'elefante giacque ancora in abbandono, finchè, nel 1727, l'olandese Filippo d'Orville, trovandosi di passaggio da Catania, sollecitò che esso venisse riinnalzato, insieme all'obelisco egizio che adesso lo sormonta. Il voto si compiva nel 1736, ad opera di Giambattista Vaccarini, il quale, con la visione berniniana di Piazza della Minerva di Roma dinnanzi agli occhi, realizzò con essi la monumentale fontana di Piazza Duomo

Una iscrizione, a tergo del monumento, ricorda ai catanesi: " D.O.M. - Vetus Catanae insigne - elephas - ab aequitate prudentia docilitate - Urbem clarissimam eiusque cives - commendat - hoc ut lateret neminem eiusdem - ex aetneo lapide simulacrum - Heliodori olim praestigys celebre - S.P.Q.C. - Docto oneri substratum voluit - Anno MDCCXXXVI".
Oggetto di frizzi e motti, non sempre benevoli, fin da quando gli venne assegnato l'attuale posto, al "Diotru" o "Liotru", ancora ai tempi nostri, i poeti dialettali della città rivolgono invocazioni e preghiere di un genere tutt'affatto differente da quello usato ai tempi del mago Eliodoro. Come queste, del popolare poeta Francesco Buccheri, alias Boley:

 

Lu Diotru di lu Chianu Lu Diotru di lu Chianu
com'è misu, veramenti, mi scusati si lu dicu, non mi pari giustamenti!

Lu vurrissi ca guardassi non la nostra Catidrali,
ma lu nostru gran Palazzu cusìdittu Cumunali!

Ccu la funcia sò jsata notti e jornu dici a tutti: - Citatinu, fila drittu, si li jammi non vo' rutti!

Sugnu bonu, sugnu caru, ma si viju cosi storti, a cu' sbagghia, ccu 'sta funcia, cci li dugnu...forti forti!.

Si moru ju, ccu n'autri cent'anni, non vogghiu fattu nuddu monumentu
comu si stila ccu li genii granni, pirchì pueta granni non mi sentu!

Voggh'èssiri, precisu, vurricatu sutta la funcia di lu Liafanti:
di lu cullega miu malasurtatu, pri ricurdari a tutti li passanti

chi a trenta metri di la Porta Uzeta, all'umbra di 'sta funcia prizziusa,
riposa un mudistissimu pueta ch'à datu corpa a tutti, a la rinfusa.

 

In conclusione: astraendo dalla leggenda, nella figura di Eliodoro si può anche vedere l'ultimo sprazzo di quel pensiero filosofico che nella nuova dottrina ravvisava i germi che furono causa del decadimento delle antiche virtù. E se, come si crede, l'elefante, rovesciato fuori la cinta delle mura, continuò a essere oggetto di culto da parte degli abitanti del bosco, assurgendo a simbolo della restaurazione dell'antico pensiero religioso tentata da Eliodoro, non v'è dubbio che fra quest'ultimo e le ancora paganeggianti popolazioni si sia stabilita quella corrente spirituale comune per la quale il popolo, scomparso Eliodoro, continuò a ricordarne il nome in quello che fu l'emblema della vecchia fede: il "Liotru".

 

Fonte: Salvatore Lo Presti - Fatti e Leggende Catanesi - Edizione SEM Catania 1938.
Altre informazioni si trovano sulla rivista "JU, SICILIA" organo ufficiale del Centro Studi Storico-Sociali Siciliani.

 

 

Tuccio Musumeci: «Catania desolata che ha perso il suo umorismo»

di Carmelita Celi

 

«Ahi, serva Catania, di dolore ostello/nave senza nocchiere in gran tempesta/non donna di province ma bordello…». Oppure: «T’odio e t’amo. Perché lo faccio forse mi chiederai. Non lo so. Ma sento che accade e mi struggo». E’ un amore tra il dantesco e il catulliano quello che unisce Tuccio Musumeci a Catania: amore “strano” e fortissimo, inossidabile senso d’appartenenza che il più delle volte si camuffa in distacco, sarcasmo, intransigenza.

– Che Catania fa, Tuccio?

«Mmmah! Mi sembra una città desolata che ha perso il suo proverbiale umorismo».

– Ha memoria di un periodo nero come questo?

«Sinceramente no. E sì che del secondo dopoguerra mi ricordo tutto: si veniva fuori da fame e sofferenza ma si era pronti a ricominciare e ci si accontentava. Oggi il catanese si è adeguato perfettamente all’usa e getta ed è buono solo ad arrabbiarsi. Ma con chi prendersela se non con se stesso? ».

– Negli anni ’60, Pippo Fava, con cui ha condiviso amicizia e arte, a partire dall’indimenticata “Cronaca di un uomo”, tracciò un identikit dei catanesi che è ancora incredibilmente attuale. Abili mercanti come i fenici, cultori dell’ironia a tutti i costi…

«Concordo! Da ragazzino, io e il mio inseparabile amico Tuitto Giardina facevamo incetta di scenette surreali. Andavamo alla Fera ‘o luni quando era ancora fatta da catanesi e non da extracomunitari e cinesi, uno di questi giorni la polizia chiederà a me il permesso di soggiorno. C’era, tra le altre cose, una bancarella di scarpe usate, erano ammonticchiate l’una sull’altra e chi voleva acquistarle doveva prima trovare la sua misura e poi l’altra scarpa da abbinare. Un cliente ci riuscì e chiese il prezzo. “Ventimila lire”, gli fu risposto. ”‘Nenti ci po’ livari? ”, insistette. E il venditore: “Chi sacciu, ci pozzu livari i lazza! ”. Un altro luogo deputato era via Etnea: a un passo dall’ufficio postale c’era una fermata d’autobus frequentatissima. Un giorno, una signora, logorata dall’attesa, si lamentò con un autista: “Sono passati tutti i numeri tranne il 48! ”. E quello: “‘E chi voli, signora, ‘o depositu n’arriminunu boni”. Questa era Catania».

– Perché i catanesi non somigliano a nessuno?

 

«Hanno il fuoco dell’Etna, è l’energia vulcanica a fare la differenza».

– E’ per questo che, oltre a “soddi fausi”, sono chiamati “peri arsi”?

«Io sarei più per il primo soprannome, Ciulla fece arricchire molti, ci ni fussi n’autru! Ma “soddu fausu” descrive bene il catanese che tende a fare ‘u “tri oru tri oru”. Se mette su una società a Milano o Torino, il catanese diventa il più grande manager con pieni poteri. Se lo fa a casa sua fallisce perché l’intelligenza del catanese va talmente oltre da diventare autodistruzione».

– Come “sente” l’Etna, maschio o femmina?

«Nella composizione musicale di mio figlio Matteo “Aìtna” è donna, per me è un disastro se sputa sabbia. Ho un rapporto d’odio–amore perché il danno che porta prevale su tutto il resto. Le spese sostenute dai comuni pesano come la sabbia nera che brucia piante e campagne; e, se un tempo cadeva sulla terra vergine, con la speculazione edilizia di oggi, ricopre i palazzi che a loro volta ci “piovono” addosso».

– Il fuoco dell’Etna e quello dei fornelli. Gli spagnoli hanno la “sobremesa” ma i catanesi non sono da meno: per un pranzo domenicale si può stare seduti a tavola dall’una alle cinque del pomeriggio…

«Il catanese se ne fotte di qualunque cosa… basta ca mancia! E ci sono quelli che ancora oggi, con tutte le “case del pesce” che ne hanno di freschissimo, devono per forza comprarlo in pescheria. Come se il luogo facesse parte del piatto di portata, il catanese, in fondo, si “mangia” pure l’ambiente».

– E mai mezze porzioni. Servono solo “p’alluddari ‘u piattu”, no?

«Sì, ma penso che quella catanese non sia poi una cucina così ricca, trovo superiore quella di Palermo che importa molto della cultura araba. Noi, di nostro, abbiamo la pasta alla Norma e quella con il nero delle seppie, il resto è pura invenzione».

– Non ha dimenticato la carne di cavallo?

«Ah, quella è una fissazione del catanese! Ma spesso non si fanno i conti con l’età. Vedo troppe facce con i pomelli rossi: la carne equina è squisita ma va bene per i bambini, dopo i trent’anni dovrebbe essere ridotta se non abolita».

– C’è un manicaretto catanese di fronte a cui è disposto a mandare tutti al diavolo, alla “Montalbano sono”, per intenderci?

«E’ difficile per me, ho girato parecchio mangiando sempre fuori casa e fuori dalla mia città. Dopo il liceo, me ne andai a Modena e lì conobbi il tartufo ed una cucina molto grassa che ben s’adattava al clima freddo. Ma, cu mmìa, non ci pòttiru mancu i grassi del Nord».

– Nemmeno la cucina di mamma?

«Le donne di allora sapevano cucinare (oggi si siddìunu, tutte) ma si preparava solo roba stagionale; oggi, tra surgelati e supermercati, c’è tutto, sempre! Nelle domeniche in famiglia, senza televisione e senza telefonini (tu inviti a unu a cena ma chiddu immeci di parrari cu ttia “mungi” sempri dda cosa!) ricordo ancora la famosa “grassata in bianco”! Chi la sa fare, oggi? Sono cambiati uomini, donne e picciriddi. E male».

– I dolci solo nelle feste comandate?

«Non ho mai fatto pazzie per i dolci catanesi, mi basta del buon cioccolato fondente e, da bambino, la merenda che mi preparava mia mamma: pane spolverizzato di zucchero».

– Un’ostia di cassata?

«All’epoca non circolava granché, era cosa di Palermo».

– Come dire Oriazi e Curiazi?

«Macché! Io non ho mai guardato ai palermitani come avversari, anzi! Ho passato 4 anni allo Stabile di Palermo e da ragazzino passavo le estati da mio zio, fratello di mia madre, medico come tutti i De Gaetani, anatomo–patologo e direttore di clinica. I palermitani amano i catanesi, li vedono più intraprendenti, ammirano l’indole “nottambula”. La rivalità è robaccia di squadre di calcio».

– Agata e Rosalia, donne “celesti”. I fìmmini sono un’altra cosa. Pare che i catanesi (e i trapanesi) risultino gli uomini più fedeli. Che siano diventati moralisti?

«Ma cui? I catanesi mo–ra–li–sti??? Ammucciàti, forse! Il catanese le fa, le corna, ma di nascosto. Ricordo un signore, nella hall del teatro, che parlava al telefono con la moglie: “Stasera non so quando mi sbrigo, devo ritornare in chirurgia”. Accanto a lui c’era una bella donna: la prese sottobraccio e se ne andò a teatro. Ci sono “i conna scassi” e le corna d’oro: se l’amante ha un sacco di soldi ne guadagna tutta la famiglia. Io ho sperato sempre in un’ereditiera».

– E…?

«Una contessa del nord, di cui non posso fare il nome, veniva a Catania per me, organizzava feste solo per me. Insomma, sono stato un cre–ti–no. Viri chi futtùna c’aveva p’i manu! ».

– E se fosse primo cittadino di Catania?

«Se fossi sindaco di Catania, non farei mai il sindaco di Catania. I catanesi accusano le istituzioni ma poi amano la città a modo loro. Si parla di eliminare i cassonetti, come in America: ditte private che prelevano la spazzatura davanti al portone di casa. U catanisi??? I pirati ca ci rassi ai putticati, fussimu chini di munnizza! Però, ci sono cosiddetti assessori alla cultura che hanno la memoria corta, attenti ai “grandi eventi” ma lontani dalla gente e dalla storia della città. Non è grottesco che i catanesi non sappiano chi era Giovanni Grasso mentre mio figlio l’ha studiato all’accademia Strasberg, in America?»

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/296.JPG

foto tratta da "A Catania con amore" di Aldo Motta

 

 

– Un sindaco e un uomo politico di Catania che si porta nel cuore?

«Il sindaco Papale fu una persona perbene, fece molto per la città negli anni ’60. L’on. Sapienza, democristiano d’onestà non comune, fece parte anche del Cda dello Stabile e non s’approfittò mai del suo ruolo».

– Che cosa le manca di Catania quando è fuori?

«Il centro storico. Bisogna scoprirlo di notte o quando la città si svuota, per le ferie. Quando giravamo “I racconti del maresciallo” per la tv, con Turi Ferro, poi, a cena, mi veniva una gran nostalgia di luoghi unici come via Plebiscito che molti snobbano senza capirne il fascino. Ma al mio ritorno, bastavano 4 mesi e mi scurava ‘o cori. Del resto Verga scrisse ‘I Malavoglia’ a Milano. L’amore vero per Catania lo consumi a distanza, da lontano vedi tutto con occhi benevoli e pieni di malinconia».

– Ha mai litigato per difendere Catania?

«Con Arnoldo Foà ci pizzicammo più volte, lui non sopportava il nero della pietra lavica che, diceva, rende Catania lugubre e triste. E invece quella pietra nera è un tesoro per noi: “termosifone” naturale e resistente ai terremoti».

– Tre “eroi” metropolitani?

«Il poeta Boley (Francesco Buccheri ndr), quasi un secondo Micio Tempio; Alfieddu, quello imitato da Pattavina, esisteva davvero, trasportava pellicole e sapeva a memoria i cast di tutti i film. Eppoi Pippo Pernacchia: 100 lire a testa perché assicutasse a pernacchie un nostro prof del Cutelli».

– Se dovesse rifare alla radio “Tutta la città ne parla” del Terzo Millennio?

«Ma quella era creatura di Turi Ferro! Beh, comincerei così: “Dalla nostra bella ex Catania che vuole imitare Venezia quannu chiove. Guardare foto. P. S. I galosce ca m’accattai, a Venezia mi misi du voti, ccà mi sono utilissime. Sempretuo, Tuccio».

 

http://www.lasicilia.it  25.10.2015

 

 

Catania, i miei ricordi ora sbiadiscono ma è la città a non avere più memoria...»

18/11/2018 - di Leo Gullotta

 La storia di Catania è, in qualche modo, la storia dell'Italia. Sono ritornato nella mia città, nei giorni scorsi, ospite del Teatro Stabile, per la messinscena di “Pensaci, Giacomino”. E ogni volta è come fare un tuffo nel passato, ai tempi di quando ero bambino e giocavo tra i vicoli del Fortino. Ricordi sempre più sbiaditi, non perché io abbia perduto la memoria, ma perché è la città, la sua gente che l'ha perduta. Vuoi per colpe nostre, vuoi per come stanno andando le cose dal punto di vista della vita sociale ed economica. Oggi va di moda dire che la colpa di tutto è dei giornali e dei giornalisti che non scrivono la verità, che aizzano le folle. Ma la “vera” , oggi, la fanno i social: Facebook, Instagram, Twitter. I politici comunicano attraverso questi mezzi, non parlano più con i giornalisti. Mi indigna l'idea che non ci sia più ufficialità.

Anziché costruire nuove barriere, abbiamo bisogno di stare insieme come si faceva una volta nei teatri greci si stava insieme a fare teatro, si sorrideva, so soffriva, si graffiava, secondo le situazioni del potere, della storia, si guardava la vita reale com’era, si puntava il dito: il re è nudo! Si parlava, si discuteva.

Qual è, oggi, il senso dell’incontro tra cittadini? C’è paura. Le scuole non funzionano, l’università non funziona. Vorrei vedere la mia città stimolata ad andare a petto in avanti. Vorrei più rispetto per le donne. Quote rosa? Io vorrei che si parlasse di donne in gamba. Perché il maschietto ancora deve fare i conti con la meravigliosa crescita della donna, non l’accetta, non la sopporta. Un uomo violento è un uomo violento, non servono né ascia né coltello. Eppure, ci sono donne che fanno ancora le crocerossine. Ma cosa guardano? Come si informano? Mi auguro che non lo facciano attraverso i social. Come i No Vax. L’ignoranza che genera violenza. Siamo un popolo con una matrice greca. Ci sono stati i normanni, gli angioini, i turchi, gli arabi. Semu antichi. E allora dovremmo partecipare molto di più proprio perché sappiamo di più. La verità è che oggi come oggi hanno messo il cittadino nella condizione di non sapere e di non potersi esprimere liberamente.

Ho sentito dire che a qualcuno dà fastidio la Pescheria perché non è un ambiente igienicamente sano. Ma per risolvere il problema c'è bisogno di cancellare un pezzo di Catania? La Pescheria è un ritratto straordinario e meraviglioso di quello che è stato, che è e che dovrebbe essere anche in futuro questa città. Pulitela, semmai. Fate una bella bonifica. L’Acqua o linzolu, dove italiani e stranieri vengono apposta per vedere questo spettacolo di ironia, di paesaggio fantastico, gente di questa terra con i loro pesci, le loro carni, le loro leggerezze e le loro pesantezze deve restare simbolo di questa città.

 

Chi pensa, chi ha progetti, disturba. Devi essere allineato.

Ogni 5 febbraio, gli amici, io compreso, ricordano Pippo Fava. Si mettono i fiori sulla lapide e, dopo due ore, spariscono, li rubano. Ancora oggi Fava disturba in questa città. Manca l’indignazione e questo mi fa rabbia, ancora. Avendo 72 anni, come dice Pirandello in “Pensaci, Giacomino”, cosa mi possono rimanere, sette, otto, dieci anni... E io dovrei offendere la mia dignità stando muto? Ho subìto ricatti, censure, siamo un Paese dove la censura esiste e viene applicata arditamente, persino nel proprio condominio.

Io sono sempre attento a ciò che succede a Catania attraverso quello che mi dicono gli amici. Sono stato fortunato ma sono andato avanti anche grazie allo studio, alla serietà, all’onestà, al rispetto verso gli altri. Ma perché qua non ci sono più queste cose? Eppure io le cerco ancora. Sono stato l’ultimo di sei figli e sono nato dopo la guerra. Tempi semplici, dove si viveva da poveri, avevamo poco di tutto ma un'abbondante dose di dignità, ricchi e poveri. C’era una città sorridente, pronta a ritrovarsi in un paese nuovo.

Tutti lavoravano sorridenti, gioiosi  Poi, lentamente, il gusto, lo stile, la cultura, lo studio, sono diventate tutte cose inutili. L’importante è essere tutti uguali.

 

 

Oggi dobbiamo fare i conti con personaggi imbarazzanti per l’intelligenza umana. Sapere essere uomini (intendo esseri umani) è una delle cose più difficili, soprattutto in questo Paese, dove l’arte di arrangiarsi è la nota sempre crescente. Catania è in Italia, sta in questa terra che si deve rinnovare, che sa tante cose, ma finché non si finisce di fare trucchetti, lavori sottobanco non si va da nessuna parte.

“Cara Catania, più stai più bedda diventi” diceva Turi Ferro. Io ero ragazzino, già lavoravo con lui, le lezioni che ho ricevuto le ho incamerate per bene perché chi me le ha fatte era una persona per bene, di alto valore artistico. Oggi il riferimento è il selfie.

Per fortuna vedo che c’è un’informazione buona. Mi riferisco ai programmi di La 7, al giornalismo di Mentana. Credo nel valore della carta stampata, di questo giornale, nel ruolo fondamentale di “mediatore” di notizie. Non si può e non si deve mettere il bavaglio all’informazione. Alla Rai, intanto, si sono ammazzati la vita, sono rimasti tre mesi con le cariche sospese perché c’era in corso la nuova presa della Bastiglia. E questo sarebbe il cambiamento?

 

https://www.mimmorapisarda.it/2022/05.jpg

 

https://www.mimmorapisarda.it/2021/addioct.jpg  

 

 

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/038.jpg

di Antonio Rossitto 

 

Era una città invivibile. Oggi Catania è rinata

Quando gli hanno domandato perché un imprenditore dovrebbe investire a Catania, Pasquale Pistorio ha risposto sicuro: "Per i cervelli". Molti laureati e una disoccupazione altissima abbassano il costo del lavoro intellettuale. I "cervelli" siciliani, laureati delle facoltà etnee, pur di lavorare sono disposti a percepire uno stipendio minore. Come fossero in saldo. Come farsi il guardaroba fuori stagione pagando la metà e avendo a disposizione tutta la scelta che si vuole. Un vantaggio indiscutibile per le multinazionali. Che dà al sud un enorme vantaggio competitivo rispetto ad altri concorrenti europei.

Ma c'è dell'altro. Per lo sviluppo dell'Etna Valley sono state, e sono, importanti le sinergie con l'università e gli enti locali. E Giuseppe Brancatelli, aggiunge un altro fattore: la sicilianità. Spiega: "Le persone nate e cresciute in un territorio problematico come il nostro hanno una grande capacità di problem solving. Crescere in una città dove c'era un morto al giorno, dove era necessario avere gli occhi anche dietro la testa aiuta a cavarsela in ogni situazione. Anche nel business. Non è un caso se il mondo è pieno di imprenditori siciliani che hanno avuto successo".

Il rovescio della medaglia è la diffidenza. Voler fare tutto da soli. "L'Etna Valley, ad esempio, è un distretto atipico, disperso nel territorio. Ciò è dovuto alla scarsa propensione all'associazionismo dei catanesi: imprenditori brillanti, ma individualisti". E sorride amaro: lui che negli anni alla guida dell'associazione giovani industriali ha provato a mettere assieme mille teste. Senza riuscirci.

L'ex sindaco di Catania Enzo Bianco, conscio del problema, aveva lavorato a braccetto con l'Università e la St di Pistorio. "Bianco ha dato una spinta decisiva facendo conoscere ovunque il fenomeno: molti imprenditori siciliani all'estero sono rientrati per investire a Catania". E fu proprio l'ex ministro dell'interno a creare al progetto Atena: un pensatoio composto da brillanti imprenditori catanesi dipendenti di multinazionali, che - gratis - hanno sfornato idee e progetti per amore della loro terra. Ma i meriti riconosciuti a Bianco vanno al di là dell'Etna Valley.

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/002.jpg

 

Dieci fa Catania era sporca e cattiva. Il centro storico marciva nell'abbandono, c'era immondizia ovunque, gli abitanti erano costretti al coprifuoco notturno. La città era nelle mani dei Cavalieri del Lavoro: i Costanzo, i Graci, i Rendo e i Parasiliti. Signori dell'edilizia e del malaffare che sul business del mattone, sull'intreccio tra mafia e politica costruivano la loro fortuna. Poi prostituzione, droga, armi: un inferno che tra il 1986 e il 1996 fece oltre 1000 vittime.

Oggi al centro di Piazza Duomo il Liotru, l'elefantino simbolo della città, sorride. Torna a barrire. Tra le piazzette del centro storico rimesso a nuovo sono spuntati decine di pub e caffè concerto. E una fiumana di gente vaga nel dedalo di stradine fino a notte tarda. Senza paura. Visto che il capoluogo etneo è tra le città che ha avuto una maggior diminuzione dei reati negli ultimi anni.

Certo i problemi restano. La disoccupazione sfiora il 30%, la crisi idrica è sempre in agguato, le infrastrutture sono da potenziare. E la mafia? "Non ha le conoscenze necessarie per entrare nel salotto buono dell'high-tech. Per questo non è interessata all'Etna Valley, perché non la capisce, non sa come funziona. E poi i nostri clienti sono spesso società straniere, difficilmente raggiungibili da Cosa nostra". La teoria dell'ingegnere catanese è rafforzata dai fatti. "Mai avuto una minaccia, un sentore. Anche se io l'ho sempre detto: piuttosto che cedere mi sarei fatto ammazzare".

 

 

 

 

Carmen Consoli . «La catanesitudine non è qualcosa da cui si guarisce»

12/02/2017 - Carmen Greco

 Catania - Catania “mamma”. Imperfetta, a volte anafettiva, ma sempre mamma. Quella che ti ha allattato, che ti ha cresciuto e verso la quale «nutri un appagante debito di gratitudine». E’ così che Donna Carmela, in arte cantantessa, vede la sua città.

«Una mamma forte, di grande generosità che esprime a modo suo, ma che nonostante gli acciacchi e l’età, riesce sempre a trascinarsi, ad avere quel filo di rossetto e quel tanto di tacco che ne fanno una donna di enorme eleganza. Io dalla mia città mi sento abbracciata, coccolata, protetta. Evidentemente sono una catanese “malata” perché, lo so, potevo avere la possibilità di vivere a Parigi o altrove...».

 E perché non l’hai fatto?

 «Ci ho provato, ma poi ho fatto come i personaggi verghiani, mi sono ritrovata in pieno nell’ideale dell’ostrica, più mi allontanavo da questo scoglio e più perdevo forza. La catanesitudine non è qualcosa da cui cerchi di guarire».Risultati immagini per carmen consoli catanese

 Dov’è oggi la catanesitudine?

 «Tra la gente comune, nei bar, soprattutto in pescheria, dove ho un discreto numero di amici che mi conoscono da piccola perchè mio padre giocava lì in strada con una palla “arripizzata”».

 Come si vive in centro storico?

 «I primi mesi di vita di mio figlio dovevo uscire con il passeggino. A Catania è impossibile, perché i marciapiedi non esistono. Gestendo anche delle case vacanza, ho dovuto adeguarle abbattendo giustamente delle barriere architettoniche, creare appositamente delle scale, dei bagni idonei, ma mi sono trovata in un imbroglio burocratico difficile da districare. Mi sono chiesta: ma un giovane catanese che dovesse investire in un’attività del genere come fa? Se non riesco già a portare mio figlio con il passeggino per strada, come c’arriva uno con la sedia a rotelle nella mia struttura? Catania, la Sicilia, non aiuta i giovani imprenditori».

Altri problemi?

«I vent’anni di politiche delle tre “I” (impresa, inglese e informatica di Berlusconi ndr) hanno lasciato il segno, non c’è una “C” di cultura sulla quale, invece, dovremmo puntare moltissimo, vedi il Salento con il Festival della Taranta che ha creato una risorsa economica molto importante».

Quindi con la cultura si mangia?

«Diamo pane alla cultura, non è solo roba da parassiti come diceva Brunetta, ma può portare ricchezza e noi potremmo puntare sulla cultura, a partire dalla valorizzazione dei nostri luoghi».

Un esempio?

«Il porto. A Catania il porto è “ammucciato”. Qualche giorno fa ero a Genova e mi sono resa conto che ha delle affinità con Catania, ma lì è tutto basato sul porto. Entri in città e sei sul porto. Chi viene a Catania si aspetta di vedere il mare e, invece, il porto è nascosto, devi veramente conoscere molto bene la città per sapere che c’è un molo dove passeggiare. Noi abbiamo la fortuna di avere un sindaco come Bianco del quale sono molto amica. Con lui sono cresciuta negli anni Novanta e ho visto questa trasformazione della città grazie a un’ottica di valorizzazione degli aspetti culturali. Oggi si cerca di fare la stessa cosa ma c’è l’eredità pesante delle tre “I”. Mi auguro che Catania, come Palermo, possa diventare capitale della Cultura, sarebbe un grandissimo risultato».

Mettiamo che Enzo Bianco ti chiami per proporti di fare l’assessore alla Cultura...

«No, non sarei in grado, faccio quello che so fare, spero di farlo bene e lo faccio per amore. Non penso che un cittadino possa occuparsi di politica e gestire tutta una serie di dinamiche per le quali ci vuole una certa preparazione. I cittadini devono fare il mestiere di cittadini».

E i catanesi sanno essere cittadini?

«Io, lo devo dire? Per me Catania è una città molto moderna su tante cose. Da Roma in giù ha delle architetture, delle idee, nel design, nell’arte, nella musica, in questo tipo di suggestioni, che potresti trovare solo a Milano. Mia madre che ha 71 anni mi scrive “sto andando al pub, ti dispiace?”. Qui si promuove l’aggregazione come strumento principale della qualità della felicità comune, e questa è indubbiamente una forza di questa città». A Catania siamo molto puntuali, molto precisi nel lavoro. Abbiamo un’azienda catanese la "Narciso records", fatta solo di donne, valorizziamo delle aziende catanesi, operiamo benissimo sul territorio anche perché abbiamo la considerevole capacità di saper gestire l’imprevisto, cosa che al nord è raro trovare".

Allora dov’è che sbagliamo?

«Ma, fondamentalmente, non sbagliamo, "Cu mancia fa muddichi". Anzi, penso che in questo momento siamo avvantaggiati, una volta si andava al Nord per lavorare, adesso non c’è lavoro nemmeno lì. Noi stiamo qua e ci inventiamo delle cose, i cittadini del nord stanno soffrendo molto, anche psicologicamente. I disagi, però, sono uguali dappertutto. C’è più munnizza a Catania? E vabbè, me la faccio piacere, alla fine è il valore umano la ricchezza di questa città».

Il famoso capitale umano...

«Certo. L’ho trovato nei medici del pronto soccorso. Ma non perché sono Carmen Consoli. Hanno una capacità, un’empatia, enorme. Quando vai lì non sei un numero. È vero che la situazione sanitaria è disastrosa, ma i medici sono molto, molto, empatici. Questo è il nostro grande capitale, siamo poco narcisisti e molto empatici. Il problema è che non sappiamo fare squadra perché siamo individualisti, ma è un male di tutto l’Occidente come dicevano Bauman o Todorov . Poi, è vero che non siamo capaci di sottostare ad uno “ca ni runa l’òrdini”, perché ognuno vuole comandare e non riusciamo a disciplinarci portando avanti le cose con metodo e coerenza. I giovani che hanno fatto esperienza fuori, hanno acquisito un po’ più di disciplina e infatti quando tornano a Catania e in Sicilia emergono. Oggi rappresentano le eccellenze nel campo dell’agricoltura, delle risorse ecosostenibili...».

Cosa ti dà più fastidio dei tuoi concittadini?

«Quando dimenticano le origini, quando se ne vergognano e dopo due giorni che sono fuori cominciano a parlare chiudendo tutte le vocali. Quando rinnegano le proprie radici mi “smovunu i nervi”, ma non per salvaguardare un atteggiamento folcloristico, è una questione di dignità. L’orgoglio per le proprie radici ci deve essere e non "parrannu sicilianu" con gli ‘mbare, la grammatica dev’essere rispettata da tutti, però le origini sono importanti. Questa città mi sembra molto evoluta, perché nel suo essere così carnale è una città che continua ancora a darti sangue, sudore, qualità nel linguaggio e nello sguardo».

Nel tuo ultimo cd hai scritto di mafia ricordando le stragi del ‘92. Letizia Battaglia che la mafia l'ha fotografata per anni, si è chiesta dov'è oggi la mafia. A Catania dove s'è nascosta?

«Come racconta Emma Dante, "I mafiusi pigghiaru a pistola e a pusarunu”. E come dice Saviano la mafia ha mandato i figli a Detroit li ha fatti studiare e ha trovato nuovi canali per gestire in maniera lecita cose illegali».

Catania è diventata, suo malgrado, città di sbarchi. E’ vera accoglienza?

«Sì. Una volta ho visto un ragazzo giovanissimo, avrà avuto nemmeno 18 anni, forse eritreo, investito da un’auto sotto casa mia. Tutti i catanesi, soprattutto le signore della Civita sono scese per strada a tenergli la man fino all’arrivo dell’ambulanza. E io tra loro, tant'è che lui, stordito per terrà con la testa sanguinante mi ha chiamato mamma. Lì mi sono detta, “io amo questa città”. E’ stata la prova di quanto siamo accoglienti. Non dobbiamo fare per forza gli inglesi o gli americani, possiamo assimilare un po’ dello loro capacità organizzative, questo sì, ma sempre a partire dalla nostra umanità».

Hai detto che i "fimmini su' cumannéri, ma finora una fimmina questa città non l’ha mai comandata. A quando un sindaco donna?

«E’ vero, sulu Sant’Aita. Mah, speriamo presto».

Oggi è ancora S. Agata. Che rapporto hai con la festa?

«La sento molto, molto forte. Mi piace l’idea di questa bambina che tutti proteggono, questa "protezione" collettiva di una fimmina torturata che poi, fondamentalmente, è questo. S. Agata per me è un simbolo anche contro la violenza femminile, è molto molto di moda, attorniata da tutti questi devoti che la proteggono».

Poi magari i devoti tornano a casa e prendono a sberle le mogli...

«Questa cosa Zygmunt Bauman la chiamava “dissonanza cognitiva”, professiamo una cosa e poi agiamo in maniera diversa, una malattia di questo secolo. Se dici che difendi S. Agata a tò mugghieri non la devi toccare nemmeno con un fiore, sennò buttaci le pietre anche a Sant’Aita, devi essere coerente».

Esiste ancora la raggiante Catania o cambiamo aggettivo?

«No l’aggettivo non lo cambio, sono profondamente relativista. Almeno la vitamina D questa città ta duna... ti pare poco? Mi piacerebbe, ma questo vale per tutta la Sicilia, che non ci raccontassero bugie. Per esempio ci dicessero cosa c’è veramente dietro il Muos, per evitare che si finisca come l’Ilva di Taranto con i risarcimenti per le morti dopo 20 anni».

Come immagini questa città nel futuro, quando tuo figlio sarà grande?

«Come Parigi e con un porto tipo Genova. Una città proiettata nell’arte, con una triennale d’arte contemporanea di cui parli tutta Europa, una città in cui le opere che passano dalla Tate o dalla fondazione Cartier di Parigi, prima passino a Catania e poi nel resto d’Europa. Una città d’avanguardia culturale, bella, dove il porto sia aperto a tutti, con tanti festival e iniziative».

Un progetto che appoggeresti?

«Mi piacerebbe che ci fosse un Festival della musica siciliana come quello della Taranta, ma ci vogliono le amministrazioni che si mettono insieme costituendo una rete virtuosa come quella che hanno saputo fare i sindaci della Grecìa salentina. Lì sono superorganizzati. Un progetto del genere lo sosterrei e come me, sono sicura, tanti artisti catanesi. Amiamo questa città e siamo pronti a fare tutto per lei. Noi catanesi siamo giniùsi, Catania punti sulla sua giniusità. Ecco, a "raggiante" aggiungerei "giniùsa" e, speriamo, anche un po' più saggia in futuro».

lasicilia.it

 

 

La mia Catania

di Peterpan - storie di vita e di passione

 

Catania, mi viene incontro, in tutta la sua bellezza di luci che si riflettono sul mare, mentre scendo verso di lei.

L'aria è fresca , profumata, mi accarezza in questa sera di primavera.

C'è qualcosa di magico che si stende su questa città, qualcosa che noi gente del nord percepiamo all'istante, qualcosa che ti cattura, che si infila sotto pelle e che ti rapisce nel profondo del cuore.

Le vie del centro sono gremite di gente che cammina, Via Etnea si apre in un luccichio di colori e si respira aria di festa, di gioia, di allegria.

Si passeggia con calma, qui non esiste la frenesia di arrivare, solo il desiderio di gustare ogni angolo, di scrutare ogni particolare.

Passiamo davanti a Villa Bellini, qui gruppi di ragazzi, coppie di innamorati o anche semplici famiglie, si concedono un momento di sosta, anche solo per gustare un semplice arancino,il cui sapore e profumo sono un vero inno per i palati.

 

Questo posto mi ha sempre incantato per la pace che trasmette.

E poi la sera scende e allora l'atmosfera si fa ancora più calda, più frizzante.

Si arriva fino a Piazza dell'Università, le luci illuminano i suoi palazzi, fatti di storia antica, la città si apre in tutta la sua megnificienza, e lo sguardo rimane incantato davanti a Piazza del Duomo.

Non riesco a trattenere la mia voglia di guardare, lo sguardo è vorace e attento, gli occhi sono illuminati, mi sento una bambina davanti a una vetrina di balocchi, respiro con intensità, respiro ...

e i tuoi occhi scuri e intensi,sorridono a osservarmi.

Un gruppo di persone si radunano sotto l'elefantino, simbolo della città .

Qui un ragazzo forse polacco, intrattiene la folla, il giovane giocoliere con la sua ironia e il suo savoir faire, cattura l'attenzione di giovani e non, e con maestria raccoglie consensi e spiccioli per mangiare.  

Ma la notte è solo all'inizio,si può continuare a vagare fino all'alba tra i chioschi dove si sorseggiano bibite dissetanti al selz dai profumi di agrumi ,oppure scendere nelle vie che si snodano dietro il centro, dove la vita si fa vivace, dove i ragazzi entrano e ed escono dai molti pub.

Li tra quei vicoli di vecchie case, che hanno un fascino unico e indescrivibile,case dai balconcini sporgenti con i panni appesi, case dai colori caldi all'apparenza fatiscenti, , Catania è viva e spumeggiante.

Si torna a casa quando non si ha più la forza di camminare e si aspetta che volga il giorno per scoprire questa città che dalle luci della notte lascia posto alle luci del mare...

Un mare fatto di colori vivi e intensi, dal blu cobalto, un mare che ha conosciuto mille leggende e storie di pescatori.

 

 

 

Una città dove la realtà e l'immaginario si mescolano, dove i visi della gente sono segnati dal sole e dalla salsedine, dove si combatte con fierezza e orgoglio per le proprie tradizioni, per il raggiungimento di una vita dignitosa e giusta, senza compromessi, senza paure, dove la gente gentile, accogliente conserva con se riservatezza e semplicità, quella semplicità che ha il sapore delle cose antiche , genuine e vere.

E allora guardando schiudersi davanti agli occhi questa Catania...nn puoi che tenerla stretta al cuore e amarla per ciò che ti regala e per come sa sorprenderti.

La mia Catania....questa città dal profumo di zagare e agrumi..., quella che amo, e che ho dentro nell'anima.  

 

 

Dall'Etna, sulla vetta di questa meraviglia senza tempo, ogni pensiero tetro si arrende e si sgretola come la materia appena sfiorata dalla lava. La Sicilia dovrebbe essere raccontata molto di più per l'unicità di quello che propone piuttosto che per i suoi dolori mai perdonati.
Il Mare. La Terra. Il Cielo. Il Fuoco. La Neve. Tutto si tiene per mano e si mischia in 20 chilometri di segreto turbamento, avvolgendo i sensi in un percorso che non concede ripensamenti. Ti succede di perderti, di non capire più perché arrivasti qui. Ma qui dove? Tra le vette del mondo o nel pieno del calore mediterraneo. I riferimenti sono troppi: il profumo delle pinete, dei vigneti e dei funghi porcini, di neve fresca e salsedine, di olio abbronzante e cucina casereccia, di nord e di sud insieme, di Grecia e di Roma, di Cristo, di Islam, stuzzicano la fantasia mentre ancora non hai compreso come sia possibile. Come faccia tutto a stare insieme. Dove altrove esiste questo intreccio a portata di mano. La bellezza delle donne. L'onestà degli uomini quando conoscendoli ti accorgi dell'amore sconfinato, ma sempre trattenuto, che provano per il loro tesoro. Per il loro territorio. Nulla viene sfruttato come si dovrebbe forse, quanto si potrebbe. Vorresti si facesse di più, e più alla svelta, in ogni campo del turismo, ma i pochi giorni qui ti lasciano il dubbio che sia meglio così. Che opere e ricchezze naturali tanto uniche nel mondo occidentale possano essere ancora solo tue, per una una volta, in una notte soltanto. La notte dei desideri. Grazie Sicilia.

Cesare Cremonini.

 

 

“Sono tornato qui in Sicilia, col mare davanti, sto a meraviglia. È come essere in California”.

Che fine ha fatto Michele Cucuzza? L’ex giornalista Rai è tornato a vivere e a lavorare nella sua Catania. Qui nacque 71 anni fa, qui ha vissuto per 20 anni e qui oggi conduce un programma mattutino e il tg dell’emittente privata Antenna Sicilia. Michele Cucuzza racconta la sua nuova vita in un’intervista al “Corriere della Sera”: “Sono appena tornato dalla Playa, l’unica spiaggia sabbiosa di Catania, dove ho fatto surf con un gruppetto di amici, molto più bravi di me. Gli stessi che me lo hanno insegnato. Poi grigliata con salsiccia e a casa, sempre in monopattino noleggiato tramite app, mio unico mezzo di locomozione. Ci impiego 20 minuti”.https://www.mimmorapisarda.it/2024/mc.jpeg

A 71 anni il lavoro è al centro della sua vita. Ogni mattina, dalle 8.30 alle 9.30 e poi di nuovo alle 13.30 è su Antenna Sicilia dove conduce un programma mattutino e il telegiornale. “Da poco – svela – sono stato nominato direttore oltre che di Antenna Sicilia, di Tele Color, rete appartenente alla stessa proprietà del quotidiano la Sicilia. Ho ricominciato dall’inizio. Mi diverto moltissimo. Facciamo ascolti notevoli, uno dei più alti nell’isola. Ho una vivace redazione di giovani in gamba”. A riportarlo in Sicilia è stato il caso. “Ho ricevuto a sorpresa la telefonata di Angela Ciancio alla fine del 2021 e ho accettato con entusiasmo – racconta – Anche dal punto di vista personale va benone. Abito in un piccolo appartamento al centro di Catania, in una parallela di via Etnea, accanto ai giardini di Villa Bellini. Mi alzo tutte le mattine alle 6, alle 7 sono in redazione, lettura dei giornali, notiziario, riunione, diretta. Cena leggera, a letto presto per essere lucido all’alba. Mi piace”.

Michele Cucuzza confessa di non essere affatto pentito di aver partecipato al “Grande Fratello”. “Lo rifarei – afferma – Mica è una perdita di dignità per un giornalista. Guardi Giampiero Mughini che ha partecipato all’edizione di quest’anno. Penso che nella vita bisogna essere versatili. Saper fare i servizi sulla guerra del Golfo, la corrispondenza da New York, dove sono stato mandato dalla Rai 10 volte in appoggio alla redazione locale, e anche rinchiudersi in una casa assieme a sconosciuti. Ho provato tutte le esperienze, sempre cercando di dare il massimo. Nella casa mi sono trovato benissimo. Mi allenavo in palestra, cucinavo, ordinavo la spesa. Mi divertivo come in gita. Eravamo al di fuori dal mondo a tal punto da non sapere che nel frattempo era scoppiato il Covid. Sono stato uno dei primi a essere cacciato, dopo un mese. Non mi è dispiaciuto. Ripeto, non mi pento di averlo fatto. Basta con l’immagine del giornalista che non deve contaminarsi con l’intrattenimento”.https://www.mimmorapisarda.it/2024/mc2.jpg

Ancora oggi, si scopre, la sua popolarità è elevatissima. “Mi fermano ancora, ovunque – confessa – Ciao Michele di qua e di la. Se mi chiamano direttore non mi volto, non sono abituato, io che in Rai sono stato al massimo vice caposervizio. Sono felice di non essere stato dimenticato e mi chiedo come possa essere possibile dopo tanti anni di lontananza dalla Rai. Recentemente sono andato ospite da Diaco a Bellama’, all’interno di uno spazio dedicato alla tivù di una volta. Be, mi sorridevano tutti con simpatia, giovani e anziani. È commovente l’affetto che la gente ha per me. La migliore soddisfazione (…) A Catania ogni tanto qualcuno passa sotto casa, citofona e saluta. Un selfie? Ok. Non ho mai smesso di essere Cucuzza”. Il giornalista non parla volentieri della sua vita sentimentale. “Attualmente sono single – si limita a dire – Attraverso una fase di grande attività e non avrei tempo per dedicarmi a altro. Le mie donne sono le figlie. Carlotta, 35 anni, insegna italiano in un liceo di Parigi. Matilde, 30 anni, si occupa di finanza a Milano. Nel tempo libero oltre al surf mi alleno on line con un preparatore che mi segue da Roma collegato su WhatsApp”.

Michele Cucuzza ha alle spalle un curriculum di tutto rispetto. Per 10 anni ha condotto il Tg2, per altri 10 è stato al timone de “La Vita in Diretta” e per tre ha condotto “Unomattina”. Ad un certo punto, l’idillio con la Rai si spezza. “Non mi sono accorto che fosse finita – confessa – Dopo un po’ che ne stavo lontano ho accettato la proposta di Telenorba, emittente regionale con sede a Bari. Per tre anni ho condotto un programma contenitore del pomeriggio, stile ‘La Vita in diretta’”. Oggi per Michele Cucuzza il tempo sembra essersi fermato. “Si è rifatto?”, è il dubbio della giornalista. “Non lo dica neanche per scherzo. Sono sereno e questo forse mi distende il viso – spiega il giornalista – Mangio bene, faccio sport, non mi sento addosso gli anni che ho, 71. Le sembro finito? E poi qui in Sicilia, col mare davanti, sto a meraviglia. È come essere in California”.

https://www.perizona.it/michele-cucuzza-catania/ 

 

 

 

 

 

A Catania è facile dire cornuto.

Potrebbe sembrare una parola di uso comune, soprattutto da quando le statistiche ci hanno dimostrato che l'Italia presenta un alto indice di tradimenti coniugali.

Vi assicuro, però, che nell’ accezione etnea c'è cornuto e cornuto e, come in tante altre cose, come ho già avuto modo di illustrare in altra pubblicazione, il cornuto del Nord è differente dal cornuto del Sud.

In Sicilia, infatti, il termine curnutu non è per niente semplice, anche se è di uso molto più che comune, rispetto al nord.

Curnutu vuol dire letteralmente che ha le corna, che è tradito dalla moglie, dalla fidanzata, ecc.

Tuttavia, se fosse solo questo sarebbe sin troppo facile e noi del Sud non lo siamo affatto: per noi ogni regola ha un'eccezione e forse di più, come nel caso in specie.

Oltre al cornuto coniugale, infatti, c'è anche il cornuto genitoriale: curnutu di matri, e il cornuto di sorella: curnutu di soru. Perché le corna, da noi, checché se ne dica, sono dotate della proprietà transitiva: si trasmettono in linea diretta.

D'altra parte la solidarietà e la familiarità sono tipiche delle nostre zone e per rendercene conto non è necessario disturbare Nino Martoglio e la sua “L’aria del continente”, né il suo protagonista, il povero don Nicola Duscio.

Ma non è finita qui. A differenza di quanto accade per altre categorie, chi diventa curnutu lo resta per sempre. Chi è stato ferroviere, quando smette, diventa pensionato, chi è stato professore diventa professore emerito, ecc.

Il cornuto no! Il cornuto, nonostante non abbia alcuna responsabilità nell'acquisizione dello specifico titolo, salvo che non sia cunnutu c’o sai, cioè consapevolmente tradito, cornuto lo resta a vita e i suoi parenti, ascendenti e discendenti, ereditano l’appellativo insieme al loro nome.

Così si diventa ‘u figghiu do curnutu, ‘u niputi do curnutu, ‘u frati do curnutu”, e così via dicendo, per ogni grado di parentela.

Nella storia italiana c'è solo un altro termine che patisce la stessa sorte: onorevole. Basta aver svolto quelle nobili e sventurate funzioni anche per un solo giorno e il titolo resta per sempre, soprattutto se non lo lo si è meritato. Perché meno lo si è meritato e più ci si tiene.

Ma non è finita qui. Curnutu ha un'altra accezione. Talvolta, infatti, si apostrofa con questo termine non una persona tradita, ma una persona molto in gamba. Un tipo furbo e particolarmente capace.

La circostanza, com'è ovvio che sia, determina notevoli problemi in sede di traduzione, ovvero di interpretazione.  Pochi infatti riescono a cogliere la sottile differenza: il cornuto da tradimento, normalmente, è un povero cornuto, quello abile è un gran cornuto.

In casi del genere, si sfiora il dramma nelle sbobinature delle intercettazioni telefoniche.

Immaginate un carabiniere o un poliziotto di Belluno chiamato a trascrivere il dialogo tra due siciliani che parlano di un cornuto in quanto tradito e di un cornuto in quanto abile.

Una inesatta traduzione potrebbe provocare guai enormi ai cornuti, alle loro consorti e persino agli intercettatori.

Immaginate che uno, parlando del cornuto tradito, venga frainteso e si pensi che stia parlando del cornuto abile.

Il malinteso, gli inglesi lo chiamano misunderstanding, gli italiani lo chiamano equivoco, noi siciliani cunfusioni, può portare lontano e addirittura può provocare gravissimi inconvenienti.

Nel caso descritto, ad esempio, potrebbe accadere che l'errata interpretazione di un’intercettazione faccia scoprire che la moglie fedifraga di un intercettato è una santa donna, mentre quella dell'altro è un'ignobile baldracca, quando, in realtà, è esattamente il contrario.

Se poi i due cornuti affermano che un certo magistrato è un cornuto, vogliono dire che è stato tradito dalla moglie, che è un abile professionista, o che è un emerito stronzo?

Perché, dovete sapere, che c'è anche questo aspetto.

Il cornuto, infatti, potrebbe essere vittima di una moglie infedele, potrebbe essere un tipo in gamba, ma potrebbe essere pure una pessima persona.

Per non parlare di un cornuto e mezzo, termine riferito a maschio superdotato che mette le corna pur senza riceverle.

E pensate allo sbobinatore di Belluno...e alla responsabilità che grava sulla sua testa: sicuramente più di un paio di corna.

Una cosa, però, è certa. Quando si sente dire che un tale ha più corna di un cufinu di vavaluci, l'accezione è unica: la moglie lo cornifica con più persone.

Così come, se si parla di un curnutu cuntentu, si parla di un marito che sa dei tradimenti della consorte e accetta la sua condizione, perché ne trae un qualche beneficio.

E poi c'è‘u curnutazzu, che non è affatto un dispregiativo e‘u curnuteddu, che non è un diminutivo. E vogliamo parlare di chi curnutia? Cioè di chi si comporta in maniera “cornutesca” nelle sue varie eccezioni?

E che dire delle abbinate? Curnutu e sbirru, disonorato e curnutu, curnutu vugghiutu, arbitro cornuto, che è un classico, curnutu ca non ci curpa né to mugghieri, né to matri, né to soru, curnutu di azione, curnutu e vastuniatu, anche questo un classico,  contro un cornuto un cornuto e mezzo, pezzo di cornuto, ecc. ecc.

A Catania può avere questo ed altro, infatti penso che, in quest'ultimo caso, il carabiniere o il poliziotto di Belluno potrebbe pensare che stia per scatenarsi una corrida e invece siamo di fronte a una semplice sfida tra due cornuti.

Ecco, vedete, il dilemma sul significato della parola cornuto è più che cornuto, è molto più che un dilemma, è un trilemma o forse un quadrilemma.

Al Nord, invece, è tutto più facile. Al Nord il cornuto è un cornuto: un normalissimo cornuto tradito dalla moglie o dalla fidanzata.

Al Sud e a Catania in particolare, il cornuto può essere uno, nessuno, uno e mezzo e centomila.  Il capoluogo etneo, poi, è più che una città, è un intero continente, forse un universo. Capite adesso perché le intercettazioni costano tanto e talvolta non servono a niente?

Salvo Fleres.

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/042.jpg

 

 

 

 

 

 

Scusami Catania,

Ti prego di accettare le mie scuse,

forse per troppo tempo abbiamo riso

di cose che a prima vista sembravano “spittizze”.

Ci vantiamo di aneddoti, quasi fossero gesta,

di quannu Ninu, ad esempio,

‘nto sittanta o bar de quattru canti, trasenu ddu straneri

ccu l’occhi ancora chini di biddizza

e ci passò n’cafè ccu du briosci 21 mila liri…

ah chi spittizza.

E cu l’ha vistu cchiù di dui tedeschi.

Chi ffa, ju fazzu a fila ppe bulletti?

Comu, cu me cugnatu ca travagghia a posta!

Mi cci viri arreri a ‘mpinsiunatu 

c’aspettu u tunnu ppi fari u me doveri…

Ca scusa di illu a salutari sautu a fila e…

iddu u sapi ‘nzoccu ha fari.

Risati pi sti impresi grandiosi…

 

 

Nuatri semu chiddi ca suddu c’è primura

sapemu tutti stradi p’arrivari prima

ma sunu controsenso …

E cchi cci fa nuatri semu spetti di natura.

Scusami Catania.

Di oggi in poi vogghiu parrari

da dignità de poviri do cussu, do librinu o di l’angilu custodi

ca muti e saggi vanu a travagghiari

e a sira stanchi motti nte so letti

preiunu o signuri ca i so figghi non c’arrisuttunu spetti.

Scusami Catania.

Ti pottu na carizza di sta genti

ca cririmi

non c’entra propriu nenti.

 

 

di Gino Astorina 

 

 

 

 

 

 

Come si parlava
 

Nell’eloquio del catanese “marca liotru”, ricorre una specie di tic che è, invece, un intercalare ossessivo di cui, chi lo usa, perde il controllo fino al punto di vederselo scappare nei momenti meno opportuni, con le persone meno adatte, in presenza di signore, anche le più “schizzinose”. Nella letteratura classica lo si ritrovava nelle forme di ”ohibò!”, “cribbio!”, “sacripante!” (tutti ci interrogavamo sul significato letterale, ma, di una cosa eravamo certi, manifestava meraviglia), nella letteratura corrente, più realistica, non ci si fa scrupolo di convertirlo, con disinvoltura, in “c….!”(il significato é palese e non ci si meraviglia più). Come non ci si meraviglia più della “m…..!” frapposta ogni tre/quattro parole che, piuttosto che fare perdere il filo del discorso, intende sottolinearlo, contribuendo a dargli colore.
Il nostro, infatti, é un linguaggio colorito ed efficace che colpisce la fantasia dell’ascoltatore e, poiché alle parole si accompagnano i gesti, a quello che le parole non dicono sopperisce la mimica.

 


L’efficacia dei termini e la mimica connessa è inversamente proporzionale alla proprietà di linguaggio, al garbo e alla signorilità dell’interlocutore. Per cui più l’estrazione è popolare più il parlare è colorito ed il gesticolare enfatico Usa termini e gesti che colpiscono, teatrali, ironici, da commedia dell’arte o da tragedia greca. Nel popolo minuto qualsiasi cosa si dica, deve attingere un solo obiettivo: convincere, senza lasciare dubbi nell’interlocutore. Per cui se si fa un giuramento ci si appella al trascendente “Bedda Matri!”, “Quantu vogghiu beni ‘o Signori!”, “Sull’Ostia Sacra” o ai valori altrettanto sacri della vita e della famiglia quali “Quantu stimu ‘a saluti!” o “Quantu stimu ‘a vista di l’occhi”, il famoso “m’ha moriri mò omà !” o il definitivo “m’hanu ammazzari!”.
Le imprecazioni partono dall’eufemistico “caspitina!”, al “caspitina daveru!” , “botta di vilenu!”, “botta di sangu!” per giungere al conclusivo “morti ovva….” cui è implicita l’aggiunta “ca non ti”, “ca non mi”, “ca non nni” “viri”.

 


Infine ci sono “i jastimi”(invettive) un malo augurio all’indirizzo di chi, si ritiene, abbia fatto del male o abbia agito in maniera da procurare danno, ma anche, nel parlare familiare, per scaricare uno stato d’ira. Di queste “jastime” ce ne sono tante e di vario tipo, spessissimo tinte di sangue come “’ncamiu di pettu!”, “t’hanu ammazzari!” o, con la variante, “t’hanu ammazzari a scanciu!”, “t’hanu a purtari tisu tisu!”.
“Diu ni scanzi di li mali lingui!”, non c’è di peggio che incappare nell’ostilità di qualcuno intollerante e di basso lignaggio o di cultura popolare perché mentre l’uno normale ti manda soltanto a quel paese, con l’altro rischi di finire sotto un treno.
Ma il bello della nostra cultura e del nostro linguaggio sono proverbi, motti e modi di dire che arricchiscono la parlata dei nostri vecchi, “genti di ‘spirienza ca canusciunu ‘a vita”. A sentire parlare un vecchio di questi, spesse volte, ti senti scaricare addosso una caterva di ovvietà e di luoghi comuni, ma talvolta, se hai la fortuna di trovare il vecchio giusto, senti la saggezza “trasudare” dalle sue parole, pesate e accompagnate da detti, ricchi di cultura, concentrato di esperienza tramandataci dagli avi ,”i palori d’antichi non ponnu veniri mai menu”. I detti, i proverbi e le massime sono tanti e volere tentarne una esposizione, sia pure una piccola, non è quello che ci si propone, c’è chi lo ha già fatto con competenza, si vuole semplicemente ricordare come la parlata del nostro popolo è cultura, che andiamo perdendo senza farcene scrupolo come, un giorno per fare spazio, ci liberammo d’armuarri, du cantaranu, da crirenza, da buffetta du nannu, du lavamanu e da tuletta da zà Cuncittina e du lettu di ferru da nanna con la testata dipinta a fiori. Oggi, tornato l’interesse per l’antico, ci fustigheremmo.
Cosa succederà ai nostri figli, quando, finita la moda del villaggio globale, sentiranno il bisogno di tornare alle “radici”? Si accorgeranno, allora, della povertà di spirito, del complesso di inferiorità e della meschinità di noi genitori che abbiamo, per una presunta “signorilità”, omesso di trasmettere loro la cultura che i nostri padri hanno costruito “muddichedda a muddichedda” con l’apporto delle civiltà che, nel corso dei secoli, da un canto ci hanno assoggettati, dall’altro ci hanno arricchiti lasciandoci traccia del loro passaggio.
Cose di un altro mondo!

Lasicilia

 

 

"Sono Siciliana. Nata e cresciuta.

Il mio sangue è siciliano, quindi misto, viene dal mondo, oltre tutti i mari e non ha confini... ha forte identità e nessuna razza. La mia sicilia è terra di incanto, di sole forte che ti devi bagnare la testa a manzionnnu (mezzogiorno) le tende chiuse e le tapparelle abbassate almeno fino alle 5 del pomeriggio, ca non si po’ stari, e riserbo e rispetto. Silenzi lunghi.https://www.mimmorapisarda.it/2024/057.jpg

La mia sicilia è terra d’incanto e di fascinazione, di fichi d’india, carnosi e spinosi insieme, di zagara e gelsomino e tuffi dagli scogli alti, che si stava scalzi per tre mesi.

Sono figlia dell’Etna, nata e cresciuta quasi tutti i giorni per ventritrè anni, e ogni volta che torno è un incanto, forse un incantesimo, non riesco più ad andare via.

Sicilia, terra di incanto e grandi cantori, cantastorie, penso ancora a te (che un autore quando lo ami ci parli così) Andrea Immenso Camilleri, che avevo 12 anni quando ho letto il tuo primo libro, e mia mamma entrava nella mia stanza per capire con chi stessi ridendo, e ridevo con te, tra le tue pagine, che avevi scritto quella che poi è diventata una delle mie parole tue preferite, “stracatafottersene”... da questa piazza meravigliosa (Siracusa) che tra le sue bellezze custodisce anche un Caravaggio che non bastano gli aggettivi ... non posso fare a meno di pensarti e di pensare al mio legame con questa terra, dalla quale non si può scappare."

Miriam Leone

 

 

 


CATANIA: ALLA RICERCA DELLA CATANESITUDINE TRA USI E COSTUMI LOCALI - Vera Ambra – ed. Akkuaria

Libri sulla storia di Catania, di foto antiche e dei suoi monumentihttps://www.mimmorapisarda.it/2023/400.jpg ne esistono a iosa ma, a proposito di catanesità in ogni sua forma, il secondo volume del trittico che Vera Ambra ha voluto dedicare alla nostra città è, a mio parere, quello più Marca Liotru e che non può mancare nella libreria di un catanese “cca nocca”.

Piacevole leggere i fantasiosi tamarri Kevin, Concy, Micol che parlano parlano, anzi sparlano come se stessero percorrendo i cortili popolari catanesi, usando un’infinità di modi di dire appartenenti al nostro dialetto che poi, ad analizzarlo bene, non è proprio un dialetto ma un dizionario di codici da decifrare e che nascondono un preciso significato che porta sempre ad un’unica cosa straordinaria: la nostra liscìa!

Probabilmente, fra i calcidesi che salparono da Naxos per fondare Catania, deve esserci stato un ceppo “lisciu” che, stanco dei noiosi concetti filosofici della madre patria, si imbarcò furtivamente su quella nave che fece rotta in direzione della più napoletana delle città siciliane. Quell’ironia l’abbiamo avuta per secoli nel nostro DNA e non ci ha mai lasciati, durante qualsiasi dominazione. Ancora oggi balza fuori indissolubile, estrosa, trasportando dal cervello alla lingua, in un nanosecondo, la geniale battuta catanese che corre tagliente, velocissima. Non sappiamo nemmeno noi perché questo ci accada, sembra quasi un dono di Dio.

Tutta la raccolta di testimonianze nella seconda parte è un carosello di ricordi, aneddoti e storielle (fiero di farne parte con due racconti) volti a presentare la vera Catania agli occhi di chi ancora non la conosce bene e tutto ciò Vera, storica intenditrice di nostre cose, l’ha saputo tirare fuori affidandosi alle penne di Catanesi DOC.

Raccontare di Lorenti, delle sedie Scuderi o della Fossa dei serpenti è un atto doveroso nei confronti delle giovani generazioni; un’attestazione d’amore alla città, racchiusa dentro un libro che descrive profondamente il nostro senso di appartenenza, chi siamo stati, come siamo e come saremo per sempre!

Mimmo Rapisarda

 

 

 

 

 

 

 

 

ieri amante fiera, puledra focosa,

svergognatamente libera,

e candida come neve sulla magnolia

tu sei oggi la città che odio;

ma ormai ti custodisco nelle vene

per i tragitti che insieme, insieme,

facemmo in volo sui destini delle cose.

Eppur vorrei lo stesso fuggire dalle tue braccia

tanto mi appari estranea,

deludentemente rugosa e triste;

ma a starti lontano, baldracca,

tu sai che morirei.

Di sola nostalgia

 

(Anonimo Catanese)

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

in sottofondo E VUI DURMITI ANCORA, by Formisano-Calì