"Grandezza e progresso morale di una nazione si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali", così diceva Mahatma Gandhi. Gli animali domestici sono oggi parte integrante delle nostre famiglie. Per molti di noi, sarebbe difficile immaginare la vita senza di loro. Rispettati, coccolati e umanizzati. Ma quando si è cominciato a pensare a come trattiamo gli animali? Chi sono stati gli uomini e le donne che si sono occupati per primi nella storia della loro tutela? A questo argomento, con la collaborazione della storica Giulia Guazzaloca, è dedicato il numero 24 di Storie di Storia la newsletter di Repubblica. Buona lettura.
LA STORIA
Una scuola di civiltà:
il protezionismo degli animali nell'800
Gli animali ci sono accanto da migliaia di anni e fin dai tempi antichi l'uomo ha sentito il bisogno di riflettere su questo rapporto. Fra Sette e Ottocento si iniziò a ripensare la tradizionale separazione tra umani e non umani; nacquero le prime mobilitazioni per la tutela animale e nel corso dell'Ottocento conobbero una significativa espansione sia i contatti fra l'attivismo zoofilo e i movimenti per l'emancipazione femminile, sia la consuetudine dell'animale da compagnia. Da allora la convivenza tra umani e animali si è caricata di nuove implicazioni, pratiche e morali, e sono cambiati in modo irreversibile il modo di considerare il problema della sofferenza animale e la nostra relazione con i pets. Storie di Storia, per gentile concessione dell'editore, pubblica una parte del libro "Umani e animali. Breve storia di una relazione complicata" scritta da Giulia Guazzaloca nel 2021 per Il Mulino.
Di Giulia Guazzaloca (Storica e Coordinatrice del Corso di Laurea in Scienze politiche, sociali e internazionali).
Le prime forme di attivismo a favore degli animali videro la luce in concomitanza con l'affermarsi dell'economia capitalistica, degli ideali e dei costumi della borghesia urbana. Sebbene la filosofia avesse cominciato ad ammettere la possibilità di estendere ai non umani una qualche forma di protezione morale, non era alle dottrine filosofiche, e neppure alle acquisizioni scientifiche, che si ispiravano i protettori degli animali di inizio Ottocento. In origine la preoccupazione per le condizioni di vita e di morte degli animali, che assai poco riguardava i loro interessi e la loro natura, scaturì dai valori e dalle priorità delle nascenti classi borghesi, le cui campagne a favore dell'autodisciplina e della temperanza, dell'ordine e del decoro pubblico finirono per incorporare anche il trattamento riservato alle altre specie. Culla delle prime attività zoofile fu infatti l'Inghilterra vittoriana, dove il radicamento di questi ideali presso le middle classes, il modello familiare di tipo urbano, le attitudini di cura verso i bambini, l'idealizzazione romantica del mondo agreste e il nuovo culto del pet furono tutti fattori che aiutarono a plasmare una nuova percezione del rapporto con gli animali.
Abbracciata dall'élite aristocratiche e borghesi spesso dedite anche ad altre attività filantropiche, la causa della tutela animale rientrava nel più vasto progetto di "civilizzare i ceti inferiori" tramite il buon esempio e l'educazione; si pensava infatti fossero carenti di compassione perché "essi stessi erano simili ad animali" e "non avevano mai conosciuto il collare o un comando". Se li maltrattavano non era per "cattivo cuore", ma per "effetto di un errore, di una crassa ignoranza, [...] di una lunga viziosa abitudine"; era quindi dovere "delli onesti e dei filosofi" fare qualcosa per "illuminare le moltitudini contro l'erronea credenza che il fare soffrire gli animali non sia un male". L'impulso moralizzatore, la centralità attribuita all'educazione, l'attenzione costante ai principi etici e del buon vivere civile costituirono il filo conduttore di tutto il protezionismo delle origini: poggiava sull'idea che un atteggiamento caritatevole verso gli animali avrebbe sviluppato la "tempra morale" degli individui, accresciuto "la felicità collettiva e una genuina filantropia"; avrebbe ingentilito i costumi e affrancato le masse popolari da "usanze barbare" e "spettacoli schifosi". A muovere gli zoofili non era tanto uno spirito meramente paternalistico o assistenziale, quanto piuttosto la solida fiducia nell'istruzione e nell'educazione che dove "non esistono, le leggi sono impotenti".
Ancora lontana dal rivendicare veri e propri diritti per le altre specie, socialmente circoscritta ai ceti benestanti, l'animal advocacy ottocentesca operava dunque in un ambito etico-pedagogico in cui era massimo l'interesse per le basi morali e civili del vivere collettivo. Se non era nuova l'idea che incrudelire sugli animali fosse il sintomo di un carattere aggressivo e incline alla sopraffazione, durante l'Ottocento la vecchia "tesi della crudeltà" di San Tommaso veniva applicata in modo estensivo, alla morale pubblica, cioè, e non più solo a quella del singolo. "Sconci" e "barbari", gli abusi sugli animali erano un abbruttimento per la società tutta, offendevano la sensibilità umana e il pubblico decoro, erano causa di degrado e disordine, se praticati dai bambini potevano essere l'anticamera di "quei delitti che li mandano poi a popolare le prigioni".
"Un gran numero di episodi - scriveva il bollettino della Società protettrice di Parigi - dimostrerebbe che i tiranni più feroci, gli assassini che hanno ucciso col massimo di piacere e con tecniche di raffinata barbarie, durante la loro infanzia, avevano trovato grande divertimento nel torturare e macellare gli animali". Qualcosa di simile lo documentavano i dati di una ricerca tedesca riferiti in Italia da padre Ignazio Lazzari: "tra le nazioni europee rinomate per la pietà e l'affetto verso gli animali si contano meno omicidi". Collegando i soprusi sugli animali a quelli sui bambini ed entrambi al degrado e alla criminalità, gli zoofili riuscirono a trasformare la sofferenza privata in problema pubblico e innalzarono la loro causa a veicolo per l'"istruzione e l'incivilimento del popolo in generale". Poiché col maltrattare le bestie "senza ragione si opera contro le massime della religione, della morale e d'ogni buon governo", la sensibilità verso tutte le creature vulnerabili diventava una virtù individuale e collettiva, iscritta nell'orizzonte di un umanitarismo fatto di altruismo, solidarietà, costumi gentili, impulsi caritatevoli.
Accanto ai nobili motivi di ordine etico e civile vi erano poi i vantaggi materiali ed economici che sarebbero derivati, per i singoli e per la comunità, dall'accudire con cura l'animale: con "i debiti riguardi si ottiene che lavori meglio, che produca di più, che dia carne più salubre". In una fase di sviluppo del sistema capitalistico in cui occorreva radicare un ordine economico finalizzato all'efficienza e all'ottimizzazione delle risorse, diventava importante che anche la manodopera responsabile del bestiame fosse istruita a trattare gli animali secondo logiche di tipo economico e che, in generale, se ne abbandonassero tutti gli usi improduttivi (combattimenti, spettacoli taurini). Nell'"educare gli ignoranti" facendo appello ai loro sentimenti generosi, i protettori degli animali cercavano quindi di persuaderli che anche "i loro interessi [erano] in linea con tali sentimenti"; che fosse da tiro o destinato alla macellazione, "l'animale ben pasciuto e meglio curato" avrebbe dato "maggiori e migliori risultati economici". Per le società protettrici non si trattava solo di incoraggiare un più razionale sfruttamento degli animali, ma anche di far fronte al problema dell'igiene e della salute pubblica, compromesse dalla presenza delle carcasse animali lungo le strade e dalle attività di macellazione praticate all'aperto. Fu per questa ragione, oltre che per la ripugnanza suscitata dalla vista dell'uccisione degli animali, che gli zoofili spesso si battevano per la costruzione dei macelli, possibilmente in luoghi isolati e poco accessibili; creati a Parigi a partire dal 1809, divennero in seguito una delle richieste più sentite degli attivisti britannici e nel 1883 nacque la London Abattoir Society per promuovere la centralizzazione e il controllo delle pratiche di macellazione. Rimuovendole dalla vista pubblica, la costruzione dei mattatoi avrebbe disabituato gli individui ad assistere alla morte degli animali e nel lungo periodo contribuì a elevare la soglia della sensibilità collettiva verso tutte le forme di crudeltà.
Proteggere gli animali significava dunque, in prima istanza, educare gli esseri umani: viste come "un'alta scuola di civiltà", le campagne zoofile dovevano fornire nutrimento intellettuale ai ceti popolari, radicare il senso morale e il culto della virtù, promuovere la crescita economica e la salute pubblica. Coerentemente con tale approccio e con l'idea che "le crudeltà sui muti animali difficilmente si potevano associare alle better classes", quasi mai il protezionismo delle origini contemplava le forme di sfruttamento legate alle attività e ai costumi dei ceti elevati: caccia, concorsi ippici, pellicce, macellazione a scopo alimentare. Le violenze da combattere erano essenzialmente quelle praticate negli spazi pubblici da parte di quelle categorie di persone - carrettieri, macellai, vetturini, contadini, allevatori - che ogni giorno operavano a diretto contatto con gli animali. Sarebbe stato il tema della vivisezione, a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, a fornire al protezionismo un linguaggio e un impianto concettuale più maturi, a mettere in campo nuovi argomenti e strategie, ad avviare (specie nei paesi anglosassoni) una proficua collaborazione tra zoofili e femministe. Fino ad allora l'animal advocacy rimase un movimento non solo circoscritto socialmente, ma di fatto interessato a un numero esiguo di maltrattamenti e di specie, perlopiù addomesticate, mosso da istanze di tipo morale e materiale che ben poco avevano a che fare con la sofferenza animale.
Le origini del movimento zoofilo: il caso inglese
Essendo rimaste poche tracce della Society for the Suppression and Prevention of Wanton Cruelty to Animals sorta a Liverpool nel 1809, che probabilmente cessò subito le sue attività, la prima associazione zoofila della storia è considerata la Society for the Prevention of Cruelty to Animals, fondata a Londra il 16 giugno 1824 in un pub di St. Martin's Lane che, per ironia del destino, si chiamava Old Slaughter's Coffee House. A istituirla fu un gruppo di esponenti della classe media londinese "che definiva se stessa tramite la distanza dai ceti inferiori, i quali torturavano gli animali per sport ed erano responsabili delle crudeltà indecorose perpetrate ogni giorno sulle pubbliche vie". Il reverendo anglicano Arthur Broome ne fu il patrocinatore e il segretario onorario; tra i partecipanti a quel primo incontro vi erano, fra gli altri, due celebri paladini del movimento antischiavista, William Wilberforce e Thomas Fowell Buxton, il deputato irlandese Richard Martin, che due anni prima aveva fatto approvare dal Parlamento il Cruel Treatment of Cattle Act, il giurista e filosofo scozzese James Mackintosh, lo scrittore William Mudford. Tutt'altro che radicale, il loro intento era di garantire l'effettiva attuazione della legge del 1822, pubblicare "trattati, sermoni e testi vari per influenzare l'opinione pubblica" e "ispezionare mercati, strade cittadine, macelli e la condotta dei cocchieri". Pur condannando anche la pratica degli esperimenti sugli animali vivi, la Società non fu mai in prima linea nella mobilitazione antivivisezionista. E scarso seguito tra i suoi membri ebbero i tentativi di Lewis Gompertz, segretario dal 1826 al 1832, di spingerla su posizioni più estreme. Eccentrico e visionario, fu un animalista ante litteram che non mangiava carne, rifiutava di utilizzare le carrozze trainate da cavalli e nel suo Moral Inquiries on the Situation of Man and of Brutes (1824) auspicava la liberazione totale degli animali dallo sfruttamento; costretto a dimettersi dalla SPCA, forse anche perché ebreo, fondò la Animal Friends' Society e continuò a battersi, tra le altre cose, per l'abolizione dei combattimenti.
Superate le iniziali difficoltà finanziarie, la Società prese a crescere costantemente a partire dagli anni Trenta: aprì sedi in diverse città del Regno Unito, divenne un influente gruppo di pressione, acquisì fama crescente anche all'estero. Nel 1840 la regina Vittoria, amante degli animali e fervente sostenitrice della causa protezionista, volle insignirla dello status reale: diventò la Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals, tuttora esistente. Per iniziativa di John de Beauvoir, membro del suo comitato direttivo, nel 1845 venne creata a Parigi la Société protectrice des animaux e fu grazie ai contatti con gli attivisti londinesi che il diplomatico statunitense Henry Bergh decise di istituire una società protettrice a New York. Venne altresì presto affiancata da altre organizzazioni, come la Association for Promoting Rational Humanity towards the Animal Creation (1830) e la Animals' Friend Society (1832) che avviarono la pubblicazione di periodici per documentare e far conoscere gli abusi sugli animali. La presenza sempre più massiccia all'interno delle città degli animali da lavoro e del bestiame condotto ai mercati, come il celebre Smithfield Cattle Market di Londra, fu all'origine della mobilitazione degli zoofili inglesi. "Le scene di violenza lungo le strade - riferiva un'attivista - sono a tal punto cresciute che ora è impossibile allontanarsi da casa senza assistere a qualcosa che ferisce i nostri sentimenti". Pecore e bovini macellati all'aperto sotto gli occhi dei passanti, cavalli, asini e cani costretti a trainare pesanti carichi, malnutriti e utilizzati fino allo stremo costituirono, all'inizio, la principale preoccupazione delle società protettrici. Ogni settimana, ad esempio, centinaia di cavalli vecchi e malati erano condotti alle boiling houses per essere uccisi e trasformati in candele, cibo per gatti e altri materiali d'uso comune. In difesa dei "cavalli urbani" nacquero anche organizzazioni specifiche, come la Horse Accident Prevention Society, e fra gli obiettivi della Cabmen's Mission Hall di Londra, istituita per promuovere il "benessere spirituale e morale dei vetturini", vi era quello di educarli al buon trattamento dei cavalli. Il fatto che gli animali fossero ormai parte integrante della vita urbana e sempre più spesso l'umanitarismo si rivolgesse anche loro lo testimoniava, ad esempio, la Metropolitan Drinking Fountain and Cattle Trough Association (1859): provvedeva alla costruzione di fontane e abbeveratoi per fornire gratuitamente l'acqua a viaggiatori e animali affaticati. Avversati dai puritani sin dal Sei-Settecento, perché li "collegavano al baccano, alle scommesse e al disordine", anche i combattimenti fra animali (cani, tori, orsi, galli) entrarono subito nel mirino della RSPCA e degli altri sodalizi. Passatempo diffuso soprattutto tra working classes, suscitavano invece il disgusto delle classi medie sia per le crudeltà praticate sugli animali, sia per il degrado sociale che producevano; secondo Wilberforce, tollerare i combattimenti fra animali significava "difendere una pratica che stava degradando la natura umana al livello dei bruti". A seguito delle pressioni degli attivisti e di un sentire diffuso nel quale si combinavano "pietà religiosa e sensibilità borghese", i combattimenti furono proibiti da una legge del 1835; tre anni dopo un ispettore della RSPCA morì per le percosse subite mentre cercava di bloccare un illegale combattimento fra galli. Ci vollero trent'anni di petizioni e mobilitazioni (e l'epidemia di colera che colpì Londra negli anni Cinquanta), ma alla fine anche lo Smithfield Market venne chiuso; il vecchio mercato descritto nell'Oliver Twist di Charles Dickens, col sangue animale che scorreva lungo le strade e le interiora riversate nei canali di drenaggio, cessò di esistere nel 1855 e, ricostruito nel 1868, fu destinato alla sola vendita di animali già macellati.
Se la chiusura dello Smithfield Market, la costruzione dei mattatoi, il divieto dei combattimenti e gli abbeveratoi lungo le strade migliorarono parzialmente la condizione degli animali nelle città, restavano fuori dall'orizzonte degli zoofili quelli impiegati nel lavoro agricolo (un milione e mezzo solo di cavalli a metà Ottocento) e gli animali esotici esposti negli zoo o tenuti come pets dalle famiglie aristocratiche. Interessati quasi solo agli animali con cui erano a contatto quotidianamente e permeati dei valori del risveglio evangelico, gli esponenti delle middle classes britanniche che abbracciarono la causa protezionista ne fecero in primo luogo un segno di identità e differenziazione sociale. Sinonimo di rispettabilità, la benevolenza verso gli animali doveva servire a distinguere la nascente borghesia urbana sia dalla "plebaglia degenere" sia dall'"oziosa nobiltà". Tale punto di vista, da un lato, finì per essere trasmesso agli attivisti europei e statunitensi, spesso influenzati da quelli inglesi e appartenenti al medesimo milieu socio-culturale, dall'altro inserì l'animal advocacy all'interno del più vasto programma di moralizzazione pubblica perseguito dalle associazioni filantropiche, dai riformisti sociali, dalle correnti del protestantesimo non conformista. Non a caso in Gran Bretagna la prima organizzazione che affermò di combattere le crudeltà sugli animali era stata, nel 1803, la Society for the Suppression of Vice. Grazie quindi al tessuto comune di valori e obiettivi che condivideva con il mondo del riformismo sociale, la mobilitazione proto-animalista poté acquisire una crescente visibilità pubblica, diventando una issue politica fuori del Parlamento ancor prima che dentro; per gli attivisti inglesi era altresì una "missione" da diffondere nel mondo. Tra Europa e Stati Uniti Londra, Parigi e New York "hanno le tre più potenti Società. Nell'Europa e negli Stati Uniti nessuna metropoli ne fa difetto": così scriveva Nicolò Grillo nel 1902, contandone nel mondo ben 547, di cui 246 nei paesi anglofoni. Indiscusso, il primato britannico nel campo del protezionismo animale si manifestò anche nell'impegno con cui membri e rappresentanti della RSPCA diffondevano la causa nei paesi stranieri, sollecitavano e finanziavano la creazione di società protettrici. Al Congresso internazionale di Torino del 1911, cui parteciparono i delegati di un centinaio di associazioni europee e latinoamericane, il programma comune di obiettivi e priorità prevedeva il potenziamento delle campagne di informazione, la vigilanza sugli allevamenti degli "animali da servizio", sulle tecniche di macellazione e sulla struttura di stalle e scuderie, la tutela degli uccelli migratori, l'organizzazione dei canili, lo studio dei mezzi idonei per giungere all'abolizione della vivisezione. Come in Gran Bretagna, a promuovere le istanze zoofile erano quasi sempre esponenti dell'élite urbane di orientamento liberal-progressista, "uomini e donne [...] insigni o pei natali o per le cariche o per opere celebrate di scienze, di lettere e d'arti". Era un diplomatico, già in servizio presso l'ambasciata di Russia, Henry Bergh che, dopo aver assistito a una corrida in Spagna e aver visitato a Londra la sede della RSPCA, nel 1866 fondò a New York l'American Society for the Prevention of Cruelty to Animals, dedicando il resto della vita alla causa degli animali. Anche l'inglese Leonard Hawksley abbandonò il suo impiego a Londra per trasferirsi in Italia nel 1890 e per i successivi trent'anni si consacrò all'organizzazione del movimento zoofilo. In Italia, dove l'iniziativa e l'attività delle società protettrici furono a lungo legate "all'elemento straniero", un ruolo importante lo svolsero alcune gentildonne britanniche già attive nella RSPCA o nelle campagne antivivisezioniste. La contessa Anna Winter, "indignata del cattivo trattamento che si usa in Italia verso gli animali", sollecitò Giuseppe Garibaldi a fondare nel 1871 la Società torinese protettrice degli animali; lady Helena Paget, moglie dell'ambasciatore britannico, antivivisezionista e vicepresidente della London Vegetarian Society, fu tra i promotori della Società zoofila di Roma; Isabel Burton, moglie del celebre esploratore Richard, divenne paladina della battaglia antivivisezionista e presidente della Società protettrice di Trieste; quella di Napoli fu istituita nel 1891 per impulso di Elizabeth Mackworth-Praed che ne divenne la presidentessa. Fra gli anni Settanta e Novanta società zoofile sorsero in tutte le principali città italiane, molte di esse ottennero il patrocinio della Casa Reale e furono erette in enti morali; falliti però tutti i tentativi di consorziarle e coordinarne l'operato, rimasero divise fino alla legge fascista del 1938. Anche laddove non furono direttamente coinvolti gli attivisti inglesi, la RSPCA e la legislazione in vigore oltremanica costituivano un modello cui ispirarsi. Già durante l'Ottocento, dunque, la mobilitazione in difesa degli animali assunse i tratti di un fenomeno transnazionale con numerose sinergie e somiglianze fra i diversi paesi. © 2022, Il Mulino, Bologna. LA LETTERA Mio caro Riboli,
|