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VITTORIO MINCATO.
ALLA GUIDA DELLE MULTINAZIONALI DEL PETROLIO

di Luigi Locatelli



L’amministratore delegato

dell’Eni ing. Vittorio Mincato

«Condizioni stazionarie, sensorio vigile senza particolari segni di ripresa, proseguono le terapie iniziate, la prognosi rimane riservata». Una frase senza allarmi né ottimismo, con informazioni e reticenze quanto basta per dire senza dire. I medici sono bravi in questa arte quando il paziente è illustre. Si può presumere che su questa falsariga sarebbe stilato un ipotetico bollettino sulle condizioni della Borsa in tempi di deprimenti e stucchevoli polemiche politiche sullo stato di salute dell’economia italiana, di scossa o non scossa. Incuranti di tanto discutere tra speranza e depressione, un segnale positivo giunge dagli analisti della Società Generale, il grande gruppo bancario francese, che hanno ricercato sul mercato europeo le aziende con buone possibilità di crescita del valore di Borsa e con i dividendi più elevati nel 2003, con prospettiva di analoghi risultati nell’anno in corso.
L’elenco è composto da 13 nomi e comprende diversi settori - farmaceutico, assicurativo, hi-tech, telefonico, servizi pubblici, grandi costruzioni -, con valute in sterlina, corona svedese, euro. Italia compresa, malgrado le modeste dimensioni sia del nostro mercato dei capitali sia del panorama industriale. L’Eni è al quinto posto della graduatoria stilata in base al «dividend yield», il rapporto tra prezzo delle azioni e dividendo distribuito agli azionisti. E una delle società del Gruppo, la Snam Rete Gas dedita al trasporto e al dispacciamento del gas naturale, è addirittura al primo posto con un dividendo del 5,5 per cento nello scorso anno e la previsione di un uguale risultato in quello in corso. Meglio di importanti gruppi britannici come il bancario Alliance & Leicester e l’assicurativo Aviva, meglio del gigante chimico tedesco Basf, dello Skf grande produttore svedese di macchinari industriali, del colosso francese delle costruzioni Vinci, della spagnola Telefonica.
In silenzio com’è da sempre suo costume, l’ingegnere Vittorio Mincato, amministratore delegato dell’Eni, ha messo a segno più di un brillante risultato, con una soddisfazione per lui superiore a quella provata per la laurea ad honorem in Ingegneria gestionale che il Politecnico di Milano gli ha conferito lo scorso luglio «per aver intrapreso strade spesso nuove, per aver ristrutturato la compagnia con un’architettura societaria e organizzativa, per aver saputo gestire i rapporti con il mondo finanziario e il processo di valorizzazione del Gruppo, come testimoniano i 53 miliardi di euro di capitalizzazione raggiunti in Borsa a 8 anni dal primo collocamento e la massiccia presenza di fondi esteri che hanno in portafoglio il 37 per cento della società».
Le motivazioni dei titoli onorifici hanno spesso un linguaggio enfatico, ma in questo caso le parole del rettore Giulio Ballio, in tocco e toga accademica, hanno la concretezza e l’autenticità documentale di un rigoroso revisore dei conti. Ugualmente concreta e farcita di cifre, dati e concretezza, la «lectio» dell’insignito con l’«honoris causa», come Enrico Mattei nel ’58: un saggio sulla gestione di un ente vista dall’interno, negli anni dei condizionamenti politici quando lo Stato, indifferente verso la sua attività principale, rifilava all’impresa petrolifera tutto: imprese fallite o create al di fuori di qualsiasi logica d’impresa, con sfasamento dei rapporti tra holding e società caposettore, e forti perdite per migliaia di miliardi di lire.
Poi l’opera di risanamento avviata da Franco Reviglio e proseguita da Franco Bernabè, la vendita delle attività non strettamente pertinenti, infine la sua opera per ricompattare il Gruppo, asciugato e concentrato su petrolio e gas attraverso tre Divisioni operative - Exploration & Production, Refining & Marketing, Gas & Power -, attivo in 70 Paesi e proiettato sui mercati internazionali. Nello stesso giorno di quella cerimonia accademica milanese, il 14 luglio scorso, la Deutsche Bank valutava l’Eni tra i titoli preferiti del settore petrolifero, insieme a Shell, Total ed Exxon-Mobil, per l’andamento delle quotazioni cresciuto quasi del 40 per cento dal 2000 rispetto a una perdita del settore dell’energia, a livello europeo, quasi del 20 per cento.
Un valore finanziario dimostrato anche da quel termometro sensibilissimo e accorto della fiducia dei mercati verso una società costituito dai fondi internazionali, che attualmente detengono nei loro portafogli il 37 per cento del capitale Eni, contro il 20 per cento degli inizi 2000. Valore confermato dall’inserimento, unica impresa italiana, nella ristretta classifica Dow Jones Global Titans Fifty e dall’incrocio dei rating di tre agenzie assegnati ai bond Eni collocati al primo posto della classifica delle 15 emittenti più sicure nel settore industriale italiano.
Sono soddisfazioni, per l’ing. Mincato, non inferiori al titolo di cavaliere del Lavoro consegnatogli dal presidente della Repubblica nel giugno 2002, alla presenza nel Consiglio di amministrazione del Teatro alla Scala, o nel Consiglio direttivo e nella Giunta della Confindustria, della Assonime e dello Iefe, l’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’Università Bocconi.
Nato in provincia di Vicenza, a Torrebelvicino, centro di 4.500 abitanti con lavorazioni tessili, meccaniche e di abbigliamento, tenace, taciturno, cortese ma fermo, autorevole senza autoritarismi e schivo dalla frequentazione dei salotti, Mincato è all’Eni dal 1957, amministratore delegato del gruppo dal 19 novembre 1998, dopo un curriculum che l’ha portato, in posizioni sempre crescenti, al compito di assistente del presidente Reviglio negli anni 1984-1988, e al ruolo di presidente e amministratore delegato della Savio Meccanotessile, e della Enichem Agricoltura, entrambe riorganizzate e privatizzate, prima del grande salto nell’alto management come vicepresidente e amministratore delegato e poi presidente dell’Enichem, società caposettore della petrolchimica del Gruppo.
Per comprendere il bilancio dei suoi 6 anni al vertice del «Cane a sei zampe», secondo il fortunato logo ideato da Giuseppe Guzzi che fin dall’inizio ha contraddistinto l’ente petrolifero nazionale, basterebbe un’occhiata alla tabella delle attuali multinazionali del petrolio. Nel 1950, quando Enrico Mattei accompagnò Alcide De Gasperi tra le nebbie di Cortemaggiore, il borgo rurale alla sinistra del fiume Adda in provincia di Piacenza diventato oggi la capitale petrolifera italiana, per una visita all’impianto di trivellazione e per estrarre i primi barili di produzione nazionale, il mondo degli idrocarburi, per noi oscuro e misterioso, era dominato in esclusiva da un ristretto gruppo di compagnie inglesi e americane: le Sette Sorelle, potentissime, in concorrenza tra di loro ma strettamente alleate contro chiunque osasse attaccare il loro predominio mondiale.
Mattei aveva concepito il progetto temerario di contrastare questo cartello internazionale che determinava i quantitativi da estrarre, i prezzi all’imbarco e sul mercato. Con la creazione dell’Eni, Ente nazionale idrocarburi, nel 1953 si proponeva di facilitare la nascita di nuovi produttori indipendenti, facendo leva sul risveglio politico dei Paesi arabi e sull’importazione da Paesi, come l’Unione Sovietica, che non soggiacevano al cartello. Mattei finì tragicamente a Bescapè ma la sua creatura, l’Eni, ha continuato a crescere proseguendone la filosofia industriale, sopravvivendo anche al periodo difficile del ‘92 quando finì nel tritacarne del pool giudiziario milanese.
Nel panorama internazionale intanto si sono verificate fusioni, acquisizioni, cessioni che hanno modificato la foto di gruppo del grande potere petrolifero. Oggi la maggiore compagnia è l’americana Exxon Mobil, con una riserva di 20 miliardi di «boe», ossia barili equivalenti di petrolio, e una produzione giornaliera di circa 4 mila boe, seguita dall’olandese Royal Dutch Shell, dall’inglese Bp, dalla Chevron Texaco, dalla francese TotalFinaElf, dalla Conoco Phillips e dall’Eni in settima posizione, con 7 miliardi di riserve e un milione e mezzo di produzione, precedendo la spagnola Repsol e altre 4 compagnie di varie nazionalità.
Alla fine del 1999, varando il suo primo Piano industriale, l’ing. Mincato confermò l’intenzione, manifestata all’inizio del suo incarico al vertice dell’azienda trasformata nel 1992 da Ente statale in società per azioni, di puntare a una forte crescita industriale con un’espansione internazionale nelle attività centrali che non aveva precedenti nella storia della società, che pure non aveva mai tradito l’audacia e la fantasia del suo padre-fondatore Enrico Mattei.
In particolare in 4 anni l’Eni si proponeva 6 obiettivi principali: crescita del 50 per cento della produzione di petrolio e gas; vendita di almeno 10 miliardi di metri cubi di gas all’estero; ristrutturazione di buona parte delle stazioni di servizio; redditività in linea con i principali concorrenti internazionali; indebitamento massino pari alla metà dei mezzi propri; ringiovanimento del management e riorganizzazione gestionale. Il momento più importante nell’attuazione del primo punto del Piano è stato nel maggio 2000, quando con un’opa amichevole alla Borsa di Londra è stata acquisita la compagnia petrolifera British Borneo.
Era la prima volta che l’Eni realizzava un’operazione del genere, ed è stato un test per il futuro; nel dicembre 2000 è stata acquisita un’altra compagnia britannica, di dimensioni ben maggiori, la Lasmo, seguita due anni dopo dalla finlandese Forum Norway: il milione e mezzo di barili equivalenti di petrolio al giorno era raggiunto con un anno di anticipo, attraverso una piccola se non piccolissima operazione alla volta, con un successo straordinario di credibilità e reputazione internazionale. «Corollario di questa operazione–è stato il commento di Mincato–, è l’obiettivo di mirare alla guida operativa dei progetti di esplorazione e sviluppo degli idrocarburi, un tempo dominio quasi esclusivo delle grandi multinazionali del petrolio».
Oggi oltre il 60 per cento della produzione internazionale di petrolio e gas dell’Eni è lavorato dalla società, con l’obiettivo di superare il 70 per cento nel 2006. Risultato di questa strategia l’attribuzione della guida operativa nello sviluppo del campo di Kashagan, in Kazakistan, il più grande giacimento di petrolio scoperto negli ultimi 30 anni, cui l’Eni ha concorso in competizione con le grandi multinazionali. Un investimento di 5 miliardi di dollari con la previsione iniziale di una produzione di 75 mila barili di petrolio al giorno nel 2008, che potranno aumentare a 1,2 milioni a regime.
Un impegno complesso per le dimensioni produttive che arriveranno a 13 miliardi di barili in 40 anni, per l’investimento di 29 miliardi di dollari e per le severe condizioni climatiche dell’area. Ma per Mincato è importante anche un altro risultato: «A Kashagan partecipano anche Shell, Total, Exxon-Mobil, Conoco-Phillips e la giapponese Impex, ma sarà l’Eni a guidare il consorzio; anche lì siamo riusciti a ottenere la guida operativa, un ruolo considerato un tempo quasi esclusivo delle grandi compagnie britanniche o americane–spiega–. L’anno scorso un investitore americano mi chiese se volevamo andare negli Usa, domanda significativa perché dimostra che le resistenze del mercato a considerarci una grande compagnia sono state superate». Mattei ballerebbe di soddisfazione nel vedere la sua creatura guidare major come Shell, Total ed Exxon-Mobil nei campi petroliferi in riva al Mar Caspio.
La radiografia dell’Eni denota grande salute: fatturato di 51,5 miliardi di euro in aumento del 7,4 per cento; utile netto di 5,6 miliardi di euro, in aumento del 27 per cento; 76 mila dipendenti, di cui 34 mila all’estero; 13 miliardi di investimenti; quasi 3 miliardi di dividendi che consentiranno di consegnare al Ministero dell’Economia, azionista di riferimento, 910 milioni di euro. Sale così a circa 30 miliardi di euro l’incasso dello Stato derivante dalle 5 tranche di azioni cedute al mercato e dai dividendi annuali. Il 29 febbraio 2004 il capitale sociale era di 4.002.923.076 azioni del valore di un euro ciascuna. Gli azionisti sono 418.208. Oltre il 20 per cento delle azioni è posseduto direttamente dal Ministero dell’Economia. Gli azionisti principali sono 98, per un totale del 33,04 per cento del capitale. Partecipano alla proprietà azionaria 41 mila dipendenti.
Con il titolo con maggiore capitalizzazione della Borsa italiana e tra i migliori in Europa, l’Eni ha in portafoglio oltre 230 milioni di azioni proprie che, ai prezzi di listino attuali, comportano una plusvalenza sui 300 milioni di euro e rappresentano un’interessante riserva. Oggi le principali società sono Eni Power, con presidente e amministratore delegato Giovanni Locanto; Snam Rete Gas, presidente Salvatore Russo; Stoccaggi Gas Italia, presidente Giorgio Ruffoni; Polimeri Europa, presidente Giorgio Carizia e amministratore delegato Piero Raffaelli; Saipem, che esegue piattaforme, posa di condotte e perforazione, presidente Pietro Franco Tali, amministratore delegato Hugh O’ Donnell; Snam Progetti, società di ingegneria, presidente Luigi Patron, amministratore delegato Angelo Caridi. Tutte queste società hanno sede a San Donato Milanese; a Torino ha sede l’Italgas, presieduta da Alberto Meomartini, attiva nella distribuzione e nella vendita del gas naturale in ambito urbano.
«È un totem aziendale», dicevano di Mincato all’Eni quando venne nominato al vertice della società scavalcando le pesanti candidature esterne di Vito Gamberale e di Franco Tatò. Oggi accanto a lui e al presidente Roberto Poli sono 21 top manager, 3 direttori generali, 9 direttori di Gruppo. L’età media è di 58 anni, in linea con un’azienda che opera in tempi medio-lunghi. Una squadra che concorre, con i risultati di bilancio, a formare il valore dell’impresa soprattutto in tempi di scandali societari, con la struttura tenuta d’occhio attentamente da società di valutazione, azionisti, investitori.
Tanti barili pieni solo di soddisfazioni? Da una parte il dollaro ai minimi storici, dall’altra il prezzo del greggio che sale, con le compagnie petrolifere grandi e piccole incerte su quale indice puntare, se valuta o petrolio, per stabilire quote di estrazione, volumi di investimenti, impegni finanziari per acquisizioni, con un orizzonte difficile da interpretare tra guerre, attentati, capovolgimenti elettorali, dominato dall’incertezza e dalla paura. Per questo, forse, i gestori dei risparmi, per quanto riguarda il comparto petrolifero, se la cavano suggerendo ai loro clienti un «equalweight», ovvero bilanciare, che può dire assolutamente nulla o tutto.
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