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Storia della famiglia del capitano Carresi Di Franco Caratozzolo

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ARCHIVIO STORICO FOTOGRAFICO BAGNARESE<br />

DA BAGNARA A GIOIA TAURO<br />

<strong>Storia</strong> <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> <strong>del</strong> <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong><br />

<strong>Di</strong><br />

<strong>Franco</strong> <strong>Caratozzolo</strong><br />

" La storia vista dall'altra parte <strong><strong>del</strong>la</strong> strada, quella che subisce la gente più<br />

debole e nulla può fare per cambiarla.<br />

Concentrata nelle due famiglie <strong>Carresi</strong> e <strong>Caratozzolo</strong>, native di Bagnara, che per<br />

effetto dei grandi drammi che periodicamente si abbattono su questa terra(terremoti<br />

ed emigrazione) scelgono strade diverse. Poi in maniera strana si<br />

rincontrano a Gioia Tauro ed affrontano la vita sorretti da (la ricchezza) conquistata<br />

con la vera sofferenza: la fede."<br />

P.2009<br />

Edizione A.S.F.B.


Il sig. <strong>Caratozzolo</strong>, erede <strong>del</strong>le due famiglie protagoniste di questo racconto, ha trascritto la vera storia che<br />

ha caratterizzato la vita dei suoi discendenti per circa mezzo secolo. Egli cronologicamente ci narra <strong>del</strong>le<br />

vicissitudini, a tratti molto drammatiche, che ha visto protagonisti gli uomini e le donne <strong><strong>del</strong>la</strong> sua stirpe, dal<br />

terremoto <strong>del</strong> 1908 e fino alla conclusione <strong><strong>del</strong>la</strong> seconda guerra mondiale.<br />

La storia viene raccontata da chi osserva dall’altra parte <strong><strong>del</strong>la</strong> strada ed annota senza pregiudizio alcuno<br />

quanto accade, verità sopra verità. Atti di cru<strong>del</strong>tà, momenti di tensione, caparbietà di padri buoni e<br />

coscienti che comprendono la varie situazioni. Delusioni tristezze e sconfitte si rimarginano con il ritrovarsi<br />

in comunione tra le famiglie stesse dopo un percorso durissimo di sofferenze soprusi e prepotenze che<br />

portano alla conquista <strong><strong>del</strong>la</strong> “fede”.<br />

Gianni Saffioti<br />

Questo racconto è inserito nel contesto <strong>del</strong> progetto di diffusione <strong><strong>del</strong>la</strong> storia cittadina e <strong>del</strong> popolo<br />

bagnarese raccontata dagli stessi protagonisti, che l’archivio storico fotografico bagnarese da anni oramai<br />

propone senza alcuno scopo di lucro ma con il solo intento di valorizzare la cultura popolarecittadina.<br />

La grossa difficoltà di diffondere tali piccole ma importanti opere sta tutta nella paura di proporre, da parte<br />

chi dovrebbe promuovere la cultura popolare, argomenti e temi lontani dai soliti motivi preconfezionati fatti<br />

di feste e sagre paesane con le quali, secondo la mentalità odierna, si dovrebbe far lievitare la cultura.<br />

Lontano da questo modo altamente restrittivo di vedere le cose, credo che quello di proporre questi lavori e<br />

portare alla conoscenza di tutti scritti sconosciuti di storie di vita come questa, sia fondamentale per uno<br />

sviluppo sano e civico <strong>del</strong>le nuove generazioni. Certamente almeno lo scritto resta ed inciderà sulla<br />

coscienza di quanti avranno la bontà di leggerlo, forse potrà anche essere utile a chi saprà apprezzarlo.


collana<br />

“marineria gioiese”<br />

1


Dedica<br />

“Al mio amatissimo,inimitabile, mitico figlio Peppe,<br />

che ha reso felice la vita dei suoi genitori sulla terra<br />

e continua a farlo ancora dal Paradiso; ai miei adorati genitori e gli indimenticabili<br />

nonni conosciuti e non. A tutti i miei zii e zie, esempi mirabili di dedizione familiare,<br />

cristiana e forza d’animo.<br />

<strong>Franco</strong><br />

Gioia Tauro gennaio 2006<br />

2


Prologo<br />

Se avessi intitolato questo lavoro, da Palmi a Gioia, da Amalfi o Napoli o Genova,<br />

Sicilia o Puglia a Gioia, non ci sarebbe stato nulla di offensivo o scandaloso. Gioia<br />

Tauro era sorta per sua fortuna e per quella di tanta gente, in una posizione<br />

geografica invidiabile, posta com’era(ed è) a capo di una fertile area agricola<br />

pianeggiante, conosciuta fin dai tempi più antichi.<br />

La sua vocazione commerciale di prodotti agricoli, legnami idonei alla costruzione di<br />

naviglio, vini per la presenza di estesi vigneti, granaglie varie, carbone, s’incrementò<br />

col passare <strong>del</strong> tempo, per la nascita di una serie di infrastrutture e impianti ed<br />

enormi magazzini di stoccaggio ove era conservato l’olio lampante o il vino o il grano.<br />

Prodotti che, in una fase successiva, erano rilavorate e smerciate in tutti i porti <strong>del</strong><br />

Mediterraneo da una numerosa ed efficiente flotta di bastimenti, che facevano capo<br />

sulla spiaggia gioiese.<br />

Quivi esistevano due ampi magazzini costruiti durante il periodo borbonico che<br />

servivano a conservare la merce quando il mare non consentiva il carico o lo scarico<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> stessa.<br />

In ultima analisi Gioia fu per tanti anni il punto di riferimento economico <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

provincia reggina se non <strong>del</strong>l’intera Calabria<br />

Ma, la vocazione di un paese dipende non solo dalla sua felice posizione geografica o<br />

dalla presenza di infrastrutture tali da permettergli di operare con minori difficoltà<br />

rispetto ad altri lidi, di fronte ad una regione montagnosa e difficile, con pochi<br />

sbocchi marini.<br />

A mio parere a ciò bisogna aggiungere, anche, coloro che ne hanno intuito e sfruttato<br />

tale posizione in maniera profittevole.<br />

L’assunto finale è che il capitalismo moderno, a mio modo di vedere, è nato proprio<br />

qui, a Gioia Tauro. E’ sbarcato con i forestieri.<br />

Il detto: “Sant’Ippolito protettore dei forestieri.”, luogo comune per ogni paese in<br />

Calabria(non è chiaro perché il protettore <strong><strong>del</strong>la</strong> propria cittadina, debba proteggere<br />

sempre i forestieri!), a Gioia ha trovato una felice conferma, più che altrove.<br />

La fortuna economica di questa cittadina è dovuta ai forestieri che ebbero il coraggio<br />

di utilizzare le opportunità che gli si pararono davanti(il 1807, si dice,fu l’anno<br />

<strong>del</strong>l’arrivo <strong>del</strong> primo campano a Gioia).<br />

Nella proposizione precedente, ho parlato di coraggio e questa parola la si deve<br />

intendere non come “il coraggio di fare impresa”, ma, come coraggio di vivere in una<br />

zona altamente infetta dalla malaria, spauracchio di chi vi doveva passare la notte.<br />

Se si pensa che i lavoratori giornalieri dei paesi vicini rientrassero nelle loro case a<br />

fine turno di lavoro, indica la grave insalubrità <strong>del</strong>l’aria che si respirava, d’estate, nei<br />

paraggi.<br />

Nonostante tutto questo i forestieri, con audacia, trasformarono Gioia nel fulcro di<br />

ogni operazione commerciale <strong><strong>del</strong>la</strong> provincia.<br />

Questo racconto è la cronistoria <strong>del</strong>le famiglie da cui sono nato, che per uno strano<br />

gioco <strong>del</strong> destino e degli eventi, terribili per ciò che hanno prodotto, siano essi eventi<br />

sismici o l’endemica emigrazione, si rincontrarono in questa municipalità.<br />

3


Parallelamente, potrebbe essere la cronistoria di altre centinaia di famiglie che si<br />

sono trovate in simili situazioni, che hanno subito medesima sorte malvagia: chiamateli<br />

Macrì, Caruso, Romeo, non cambia nulla nella sostanza.<br />

E’ anche la storia vista dall’altro lato <strong><strong>del</strong>la</strong> strada: quella dei deboli, <strong>del</strong>le vittime<br />

innocenti, prese nella tenaglia di chi ha fatto la storia con la “S”maiuscola,<br />

che gioca con la gente come fossero birilli.<br />

Ai quali ultimi non rimaneva che il riparo sicuro di una fede diamantina e come arma<br />

l’ottimismo <strong><strong>del</strong>la</strong> Speranza.<br />

Ma, è anche la storia di altri numerosi paesi che seguono le vicende umane con finto<br />

distacco: i paesi non sono solo le case, è anche l’anima di chi ci vive e subisce gli<br />

accadimenti terreni.<br />

4


introduzione<br />

Nelle buie sere d’inverno, quando il violento e cupo rumoreggiare <strong>del</strong> mare in<br />

tempesta, rintronava nelle nostre orecchie; il vento di maestrale infilandosi tra le<br />

fessure di porte e finestre sibilava paurosamente; i bagliori dei lampi perforando<br />

l’oscurità <strong><strong>del</strong>la</strong> notte illuminavano le deserte strade <strong><strong>del</strong>la</strong> marina accompagnate dal<br />

brontolio dei tuoni; il nonno con il basco blu in testa ed uno spesso giaccone di pelle<br />

sulle spalle con il gomito appoggiato sullo stipite <strong><strong>del</strong>la</strong> finestra seguiva, da vecchio lupo<br />

di mare, gli effetti <strong>del</strong> vento sul nostro albero di fichi che oscillava ad ogni folata<br />

come un albero di maestra dei vecchi velieri,fumava la pipa mandando volute di fumo,<br />

che lentamente salivano in alto; noi ragazzini seduti attorno al calduccio <strong>del</strong> braciere,<br />

ascoltavamo la nonna che ci raccontava le favole di mitiche fate dei boschi, dei<br />

folletti e <strong>del</strong> terribile “sarancuni” che rapiva i bambini monelli. Noi ragazzi, sull’onda<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> fantasia, <strong>del</strong>l’immaginazione, seguivamo quei lontani angoli <strong>del</strong> mondo dove, alla<br />

fine, l’eroico cavaliere azzurro vinceva sempre salvando i deboli o le innamorate e<br />

punendo i cattivi.<br />

Poi, finita la favola, candidamente, chiedevamo alla nonna perché da Bagnara fossero<br />

venuti a vivere a Gioia.<br />

La nonna ricominciava a raccontare la loro avventura di emigranti.<br />

E la nostra immaginazione seguiva parola per parola, il nuovo racconto. <strong>Di</strong> quei tempi<br />

ormai lontani ed altrettanto mitici.<br />

L’autore<br />

<strong>Franco</strong> <strong>Caratozzolo</strong><br />

5


Romanzo<br />

“Da Bagnara a Gioia Tauro”<br />

Fu così che il <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong>, perse la casa, quella fredda mattina <strong>del</strong> 28 dicembre <strong>del</strong> 1908 a<br />

causa di un terremoto seguito da maremoto, che sconquassò la Sicilia e la Calabria provocando la<br />

morte di oltre centomila persone.<br />

Si stava preparando a partire, per imbarcarsi al comando <strong>del</strong> veliero da 50 tonnellate Nuova<br />

Antonietta, in rada a Gioia Tauro.<br />

Mentre sorbiva un caffè assieme alla moglie Felicia in cucina, udì un boato, cupo, grave, seguito da<br />

un sussulto. Anche la fioca luce <strong>del</strong> lume a petrolio sembrò spegnersi.<br />

‐“Terremoto”‐, rifletté tra sé il <strong>capitano</strong>, e, senza parlare, lentamente, per non impaurire la moglie<br />

Felicia aprì la porta.<br />

E’ noto che gli animali sentano con anticipo l’arrivo dei terremoti, ma stranamente, nell’occasione,<br />

il <strong>capitano</strong> non udì il solito latrare dei cani o il chiocciare <strong>del</strong>le galline o altri rumori amici. Vi era un<br />

silenzio irreale, come se tutta la natura si fosse fermata, presagio che qualche cosa stesse per<br />

accadere. <strong>Di</strong> li a poco, sentì un violento e secco movimento ondulatorio che lo fece rientrare<br />

rapidamente, svegliò i figli ed urlò “Fuori, fuori"! "Prendete le coperte e scappate!”<br />

Il terremoto ebbe una durata di circa trentotto secondi. Mezzi addormentati i figli più grandicelli<br />

uscirono correndo, mentre i genitori portavano in salvo i più piccini, tentando di tenersi in<br />

equilibrio con il pavimento <strong><strong>del</strong>la</strong> loro casa che oscillava e sussultava come un uomo in agonia.<br />

Felicia, con la figlia più piccola in braccio, Antonietta, guadagnò l’uscita, urlando. E i suoi gridi si<br />

confondevano con quelli degli altri scampati formando un tragico coro greco.<br />

D’improvviso la parete sud <strong><strong>del</strong>la</strong> casa, sotto l’effetto <strong>del</strong>lo stimolo potente scatenatasi dal ventre<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> terra crollò come un fuscello sradicato durante una bufera di vento. La caduta <strong><strong>del</strong>la</strong> parete si<br />

portò appresso le travi di legno che reggevano il soffitto e le tegole e il rumore <strong>del</strong> crollo <strong><strong>del</strong>la</strong> casa<br />

<strong>del</strong> <strong>capitano</strong> si confuse con quello <strong>del</strong>le altre abitazioni che venivano giù, amplificati dal silenzio<br />

mattutino.<br />

Come periodicamente accadeva la morte bussava ancora una volta in quelle contrade povere e<br />

sventurate.<br />

In quel lembo <strong>del</strong>l’Italia meridionale, martirizzato dall’infausto evento, Bagnara contò novantasei<br />

morti e 720 feriti, e l’80% di case distrutte o danneggiate.<br />

Accorato di fronte al caos, al terrore <strong><strong>del</strong>la</strong> moglie e dei figli, alla polvere che si alzava verso la volta<br />

<strong>del</strong> cielo, il <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong> si chiedeva, perché ? Perché una terra tanto più è bella e povera, tanto<br />

più deve subire gli oltraggi di una sorte avversa ?<br />

E’ come se la natura stessa, gelosa <strong><strong>del</strong>la</strong> propria bellezza, abbia voluto punirsi, per<br />

controbilanciare nascondendo nel suo seno un mostro che, di tanto in tanto fa uscire a sfregiare<br />

ciò che ha creato violentando crudamente lo splendore <strong>del</strong>le sue creature: un mare stupendo,<br />

dove il cielo vi si specchia col suo più vezzoso azzurro per trasformarsi in grigio quando il cielo è<br />

nuvoloso. Completava tanta bellezza, l’affascinante visione <strong>del</strong>le isole Eolie e <strong><strong>del</strong>la</strong> Sicilia, ancor<br />

più splendide da ammirare durante la stagione fredda, quando l’aria tersa schiarisce i profili e<br />

l’immaginazione, fino a farti scoprire i personaggi mitici che ispirarono grandi poeti e alimentarono<br />

tante leggende: Scilla, Cariddi, Eolo il dio dei venti e re <strong>del</strong>le isole Eolie, Ulisse.<br />

Bagnara, è racchiusa in una affascinante insenatura, protetta da montagne alte e selvagge che si<br />

caricano di variegati colori a seconda <strong>del</strong> tipo di macchia arborea abbarbicata sui suoi fianchi le<br />

cui forre, d’improvviso, si addolciscono, degradando in terrazze coltivate a vigneto e che produce<br />

l’uva zibibbo famosa già dai tempi più antichi.<br />

6


Un’economia debole faceva da contrappunto a tanto mitico incanto: la pesca, l’agricoltura,<br />

l’industria boschiva e un cantiere navale, erano le attività economiche principali di Bagnara.<br />

Qui nacque una genia di armatori e di abili navigatori che fecero parte <strong><strong>del</strong>la</strong> storia <strong><strong>del</strong>la</strong> marineria<br />

italiana. L’esempio più fulgido e qualificante fu l’impresa <strong>del</strong> <strong>capitano</strong> Vincenzo Fondacaro che<br />

attraversò l’Atlantico partendo da Rio de la Plata e approdò in Europa dopo 96 giorni di<br />

navigazione con un battello di 9 metri a vela chiamato “Leone di Caprera” in onore di Giuseppe<br />

Garibaldi. ott. 1880‐genn. 1881<br />

Da allora, chi compie oggi, una traversata <strong>del</strong> genere è sempre una dimostrazione di coraggio,<br />

ma, con le moderne tecnologie, i rischi sono calcolati al massimo ma, niente a che vedere con il<br />

coraggio e l’ardimento <strong>del</strong>l’equipaggio <strong>del</strong> “Leone di Caprera”. Il <strong>capitano</strong> Fondacaro volle<br />

dimostrare al mondo intero il valore e l’inventiva <strong>del</strong> marinaio italiano.<br />

Aveva ideato, infatti, un’ancora “galleggiante per spargere l’olio e placare le onde <strong>del</strong> mare in<br />

burrasca” come da lui sostenuto e dagli altri marinai non ritenuto vero.<br />

Il coraggio e l’inventiva di quei marinai non ebbero in Italia il giusto riconoscimento (la storia si<br />

ripete sempre!).<br />

Nel 1895 tentò un’altra impresa eccezionale: raggiungere Chicago da Rio de la Plata; attraversare<br />

cioè l’Oceano Atlantico da sud a nord fino alla città nordamericana: ma l’impresa fallì per il<br />

naufragio <strong>del</strong> battello “Cesare Cantù” e la morte di tutto l’equipaggio, fra cui il fratello <strong>del</strong> <strong>capitano</strong><br />

<strong>Carresi</strong>. Poi la buona razza degli armatori. Bagnara diede i natali a uno dei più grossi armatori<br />

calabresi che operarono tra l’ottocento e il novecento: Francesco Patamia.<br />

I suoi velieri trasportarono merci in tutti i porti <strong>del</strong> Mediterraneo con al comando tutti i suoi figli<br />

maschi.<br />

L’armatore Patamia s’imbarcò come mozzo a sedici anni a Gioia. Qui si fece le ossa. <strong>Di</strong>ventò<br />

armatore, utilizzando questo scalo come punto logistico, l’emporio <strong><strong>del</strong>la</strong> piana, che offriva ai<br />

velieri, molte più occasioni di lavoro.<br />

A Bagnara e nel suo mare, <strong>Carresi</strong> si fece le ossa. Dopo aver frequentato la scuola, acquisì il<br />

libretto di navigazione, navigando sui “buzzetti”. Poi s’imbarcò sui velieri. Il suo primo viaggio lo<br />

fece sulla tartana “Corriere di Bagnara”, il veliero postale ufficiale, nel 1876, da mozzo.<br />

Fin da allora Francesco si era dimostrato un ragazzo sveglio, curioso e la curiosità è segno<br />

d’intelligenza, diceva un antico adagio. Apprendeva tutto con l’osservazione, ficcando il naso<br />

dentro le cose, ma principalmente chiedendo, chiedendo e chiedendo.<br />

Quando la notte , in navigazione, il nostromo mezzo intronato dal sonno, se lo vedeva spuntare<br />

vicino al timone, invece di dormire, gli chiedeva: “Stasera cosa vuoi sapere?”, <strong>Carresi</strong>, sorridendo<br />

rispondeva.<br />

“Nostromo di giorno è facile navigare perché ci muoviamo sottocosta. Ma, quando è buio, o,<br />

siamo lontani dalla terra, come fa un marinaio ad orientarsi?”. Allora il nostromo osservava il<br />

firmamento stellato e con l’indice gli indicava una serie di stelle:<br />

“Guarda Francesco quel disegno in alto: quello è il “carru maistru” e quella stella più lucente <strong>del</strong>le<br />

altre è la stella polare, essa indica il nord; è la guida <strong>del</strong> marinaio durante la notte. Un marinaio, se<br />

la segue, non sbaglia mai”. E Francesco ricominciava:<br />

“E quelle altre stelle, pure quelle fanno strani volteggi in cielo”. E il nostromo pazientemente<br />

spiegava:<br />

“Quello invece è u “carru grandi”, mentre quell’altro ammasso di stelle che vedi laggiù in fondo, è<br />

la “strata i santu iapicu” o la “strata di tempi”, queste stelle stanno ad indicare, a seconda <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

posizione che assumono, il vento che verrà e la sua direzione.” affermava molto convinto il<br />

nostromo.<br />

7


Naturalmente la formazione dei venti e la loro direzione dipendevano da altri fattori che il<br />

nostromo, poverino, non poteva sapere, perché, allora, i marinai navigavano in conformità a<br />

tradizioni orali tramandate di padre in figlio, miste a credenze religiose. La conoscenza tecnica era<br />

appannaggio <strong><strong>del</strong>la</strong> Reale Marina o <strong><strong>del</strong>la</strong> marina mercantile che pilotavano navi a vapore di grossa<br />

stazza. Lo strumento <strong><strong>del</strong>la</strong> marina mercantile principe era sempre la bussola usata da tutto il tipo<br />

di naviglio che allora percorrevano i mari. Per i viaggi più lunghi, quindi velieri di grossa stazza, i<br />

marinai usavano anche il “teodolite” con la quale si misuravano gli angoli sia azimutali che<br />

zenitali. E’ noto che fino al 1874 i marinai calcolavano solo la latitudine, misurando l’altezza <strong>del</strong><br />

sole sull’orizzonte di giorno, o <strong><strong>del</strong>la</strong> stella polare di notte. La longitudine fu introdotta solo qualche<br />

anno dopo, utilizzando il meridiano di Greenwich (Londra) indicante 0°.<br />

Ritornando ai nostri vecchi marinai, si tramandava che la “strata di santu iapicu” normalmente<br />

avesse la direzione (rosa dei venti) da maestrale a scirocco. Quando si poneva da ponente a<br />

levante, soffiavano i venti da nord, e secondo loro, veniva la bufera; se si poneva da grecale a<br />

ostro, soffiava lo scirocco o il libeccio, che i vecchi pescatori chiamavano “u tempu chi veni du<br />

canali”.<br />

Anche la luna entrava a pieno titolo nelle credenze marinare, non perché “intenerisse i loro<br />

cuori” ma perché poteva essere segno che il tempo cambiasse, e sentenziavano: “Luna a barchetta<br />

marinari all’erta !” che secondo gli antichi indicava un natante nel mare in tempesta; il detto “luna<br />

diritta marinari in cuccetta !” indicava buon tempo. Per tutto il tempo che Francesco navigava, era<br />

un continuo chiedere, approfondire entro i limiti <strong>del</strong>le conoscenze dei nostri esperti marinai:<br />

“perché la luna, a volte, ha quella nebbiolina attorno ?”‐‐<br />

“indica che domani ci sarà vento”, ‐<br />

“nostromo perché il vento di terra è chiamato così ?”<br />

“perché viene da terra, come dice la parola stessa !”<br />

Erano risposte senza alcun fondamento tecnico o almeno ne avevano poco considerato che così<br />

ci si spostava da una parte all’altra in quegli anni.<br />

<strong>Carresi</strong> le cognizioni tecniche razionali e utili le avrebbe apprese durante il servizio militare<br />

prestato nella Regia Marina.<br />

Studiò in maniera approfondita, con scienza e coscienza, sui testi che riusciva ad acquistare a<br />

Napoli o su quelli che gli davano in prestito gli ufficiali <strong>del</strong>le navi militari. Così capì che il vento di<br />

terra, come tutti i venti, era uno scambio di calore tra il mare e la terra collegato al tasso di<br />

umidità, nuvolosità, alle differenze di pressione tra una parte e l’altra <strong>del</strong>le aree geografiche <strong>del</strong><br />

globo…; che non sempre la luna in quella posizione significava bufera o bonaccia.<br />

Ma, che la luna influenzasse i mari e gli oceani con la forza di gravità, e che il suo effetto<br />

raddoppiava quando il sole e la luna stavano lungo lo stesso asse <strong><strong>del</strong>la</strong> terra, assieme all’utilizzo<br />

<strong>del</strong> barometro o il sestante, divennero conoscenze normali per il <strong>Carresi</strong>, tanto da affrontare<br />

l’esame d’idoneità per ottenere il titolo di Padrone marittimo e superarlo brillantemente. Il<br />

patentino lo abilitava al comando dei velieri.<br />

Il <strong>Carresi</strong> era un uomo alto di colorito bruno, con due labbra carnose che gli davano un' aria di<br />

serietà, d’imponenza per i due baffoni a manubrio che gli trapassavano il labbro da una parte<br />

all’altra; occhi scuri e sopracciglia ad arco che evidenziavano due zigomi alti ma non pronunciati;<br />

una dentatura perfetta, ovale lungo, un naso regolare ed una fronte ampia e spaziosa: un<br />

bell’uomo. Aveva un' eleganza naturale, uno stile inconfondibile, vestiva con cura ma sobriamente.<br />

Rispettava tutti e tutti ricambiavano. Francesco da qualche tempo corteggiava una ragazza di<br />

nome Felicia, figlia di commercianti di tessuti <strong>del</strong> posto soprannominati “i calarchi” per via <strong>del</strong><br />

cognome <strong><strong>del</strong>la</strong> madre, appunto Calarco . Era una ragazza esile d’altezza media, capelli neri e<br />

ondulati; attraeva più per la simpatia che suscitava quando parlava, che per la bellezza dei<br />

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lineamenti. Era magra ma soda, due occhi piccoli e semicoperti, con uno sguardo sempre spaurito,<br />

come quello che hanno gli uccellini indifesi, e questo faceva tenerezza al <strong>capitano</strong>. Era un tipo<br />

stravagante nel vestire. Si sarebbe detto un tipetto in altri tempi.<br />

Felicia nonostante le stravaganze, era una donna istruita. Sapeva leggere e scrivere e conosceva<br />

le erbe medicinali: consigliava parenti e amici come alleviare un mal di denti, e le sue mani<br />

massaggiavano <strong>del</strong>icatamente ogni tipo di stiramento muscolare. Suonava la chitarra<br />

egregiamente, spesso intratteneva parenti e amici con canzonette in voga allora.. Era sveltissima<br />

nelle faccende di casa. Come il Capitano era sollecito nella partecipazione alla vita <strong><strong>del</strong>la</strong> Chiesa e<br />

<strong>del</strong>le sue manifestazioni, altrettanto non lo era Felicia. Non che fosse non credente, ma era più<br />

fredda.<br />

Però, seguiva alla lettera i dettami <strong><strong>del</strong>la</strong> Chiesa in fatto di costumi, di comportamenti, di etica.<br />

Una bella mattina Vincenzo <strong>Carresi</strong>, padre di Francesco, mandò l’imbasciata alla <strong>famiglia</strong> dei<br />

calarchi, per combinare il matrimonio. Dopo ampia esposizione <strong>del</strong>le qualità dei rispettivi<br />

congiunti, s’imboccò la strada più difficile, che era quella <strong><strong>del</strong>la</strong> dote. Ma, tra persone di buona<br />

volontà, i problemi si superano sempre. Così l’accordo fu stipulato tra le famiglie.<br />

In quegli anni il matrimonio era celebrato prima civilmente, per vincolare la ragazza all’uomo<br />

davanti alla società civile, poi con il rito cattolico, per vincolarli davanti a <strong>Di</strong>o. Solo dopo il secondo<br />

ufficio, il matrimonio poteva essere consumato. Francesco vincolò Felicia civilmente il 4 aprile<br />

1885, poi espatriò in Argentina; l’idea sua era quella di farsi un gruzzoletto, rientrare ed<br />

acquistare casa a Bagnara.<br />

Quelli furono gli anni d’oro <strong>del</strong>le migrazioni verso l’Argentina da parte <strong>del</strong>le plebi meridionali.<br />

Sotto l’incalzare <strong><strong>del</strong>la</strong> povertà naturale di queste aree <strong>del</strong> paese e la crisi agraria di fine<br />

diciannovesimo secolo, milioni di persone oltrepassarono l’Oceano.<br />

Francesco <strong>Carresi</strong> rimase quattro anni in quei posti, guadagnò il suo gruzzolo e rientrò in Italia.<br />

Acquistò una casetta lungo la salita che portava alla chiesetta <strong>del</strong> Rosario. Coronò il suo sogno<br />

d’amore sposando Felicia in Chiesa, e, nel dicembre 1890 nacque un maschietto che fu chiamato<br />

Vincenzo come il nonno. Vincenzo fu battezzato nel gennaio <strong>del</strong> 1891.<br />

In quella casa vi nacquero altri sei figli, anzi, sei figlie una dietro l’altra, mentre il <strong>capitano</strong><br />

percorreva i mari al comando di velieri che facevano spola fra Gioia Tauro e i porti <strong>del</strong><br />

Mediterraneo. Era costume allora fare partecipe il vicinato, sia nei lieti eventi sia in quelli luttuosi,<br />

e quando le figlie più grandicelle avvisavano i vicini <strong>del</strong> lieto evento,cioè <strong><strong>del</strong>la</strong> nascita di una nuova<br />

femmina, questi non facevano loro neanche gli auguri! perché vi era un detto antico: “i figli maschi<br />

come il miele, le figlie femmine come il fiele"!<br />

Infatti, tante figlie femmine voleva dire tante doti da mettere assieme. Ma, <strong>Carresi</strong> non era tipo da<br />

scoraggiarsi: “la Provvidenza divina ci aiuterà, perché non abbandona mai i buoni cristiani !”.<br />

Questa giaculatoria fu il manto con il quale il Capitano si riparava quando le vicende umane lo<br />

colpivano. E su questo sentiero aveva educato tutti i suoi figli. Scuole per tutti; poi gli uomini<br />

indirizzati al mestiere <strong>del</strong> padre; alle femmine il tradizionale ruolo casalingo: cucito, ricamo, lavare,<br />

stirare, <strong>del</strong>le perfette donne di casa; poi garbo, cortesia verso tutti, senza distinzione di classe, nel<br />

rispetto <strong>del</strong>l’amore di <strong>Di</strong>o e <strong>del</strong> prossimo. Così crebbe la <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong> fino a quel momento.<br />

Così avrebbe continuato a vivere, nella buona e nella cattiva sorte.<br />

Ora il povero capo <strong>famiglia</strong> era lì, ancora stravolto dall’avvenimento, mentre teneva stretti a sé<br />

tutti i suoi figli, tra la polvere, il caos, le grida e i pianti <strong>del</strong>le persone salve e il lamento dei feriti,<br />

osservando dolorosamente la moglie che da quel momento in poi rimase col sistema nervoso<br />

scosso per sempre(sindrome da terremoto).<br />

Anni ed anni di sacrifici, sogni, illusioni, distrutti in meno di un minuto. Nell’incoraggiare la<br />

<strong>famiglia</strong>, il suo pensiero andava al figlio Vincenzo, in quel momento in navigazione con la tartana<br />

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“Morgantina”, che collegava Bagnara con Messina, carica di merce. Il <strong>capitano</strong> non sapeva ancora<br />

<strong>del</strong> cataclisma umano e geografico che aveva sconvolto la Calabria e la Sicilia, ringraziava <strong>Di</strong>o che a<br />

suo figlio gli era stata risparmiata l’inumana vicenda. Non avrebbe mai e poi mai immaginato il<br />

rischio corso dall’equipaggio <strong><strong>del</strong>la</strong> tartana. In fase di aggancio degli ormeggi <strong>del</strong> veliero anche i<br />

marinai avevano udito quel pauroso e cupo rombo e, di colpo, una serie d’incendi scoppiò in vari<br />

punti di Messina; a questo si era aggiunto una grande quantità di vapore acqueo provenire dalle<br />

profondità <strong>del</strong> mare, molto strane in verità. Fu un’intuizione <strong>del</strong> Capitano <strong><strong>del</strong>la</strong> tartana quella di<br />

serrare la vela e prender più vento per allontanarsi. Poi si sentirono sollevare come un fuscello da<br />

un' ondata enorme, da una seconda e da una terza, che andavano a schiantarsi con fragore sui<br />

moli <strong>del</strong> porto di Messina completando l’opera distruttiva iniziata dal terremoto e dagli incendi,<br />

uccidendo coloro che si erano rifugiati verso il mare pensando di salvarsi.<br />

Gli aiuti arrivarono con molto ritardo (la storia si ripete sempre). A Bagnara i senza tetto furono<br />

migliaia, trovarono riparo dal freddo pungente di quei giorni, sui vagoni ferroviari bloccati<br />

opportunamente dentro le stazioni o utilizzando le poche case intatte.<br />

La solidarietà nazionale e internazionale fu straordinaria. Navi cariche di rifornimenti e medicinali<br />

raggiunsero le zone terremotate, dove, intanto, la flotta russa, aveva dato i primi soccorsi<br />

trovandosi in esercitazione, sul mar Tirreno in quei terribili frangenti.<br />

Il <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong> considerava di cominciare daccapo, ricostruendo la casa. Ma, fece i conti senza<br />

l’oste. Felicia, alterata dall’evento, <strong><strong>del</strong>la</strong> sua casa crollata da rifare non ne volle saper nulla. E a<br />

nulla valsero le preghiere dei figli o i quarantotto anni suonati <strong>del</strong> marito.<br />

Costretto dal sistema nervoso ormai epilettico <strong><strong>del</strong>la</strong> moglie, il <strong>capitano</strong> decise di trasferirsi,<br />

ricominciare una nuova vita a Gioia Tauro marina.<br />

Gioia Tauro, per sua fortuna e dei suoi abitanti, fu risparmiata da questo spaventoso cataclisma:<br />

qualche edificio danneggiato, nessuna vittima. La cittadina, divenne il punto nodale di stoccaggio<br />

di legname per le baracche o di generi alimentari, da distribuire ai terremotati.<br />

Il <strong>Carresi</strong> acquistò, con l’aiuto dei tanti amici che aveva a Gioia, il terreno dal demanio con un<br />

finanziamento garantito da una legge <strong>del</strong>lo Stato, ottenne legname Americano, e, da un falegname<br />

<strong>del</strong> luogo fece montare la baracca, voluta fortemente da Felicia in legno, che divenne la sua nuova<br />

abitazione. Così nell’estate <strong>del</strong> 1909 la <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong> lasciò Bagnara tra le lacrime assieme a<br />

tante altre famiglie colpite da identico destino.<br />

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2<br />

Un turista inglese, tale Edward Lear, così descrive il suo arrivo nei pressi di Gioia Tauro nel 1847:<br />

“Tutta la parte bassa <strong><strong>del</strong>la</strong> sua grande pianura è celebre per la malaria, così, sebbene lo scalo di<br />

Gioia Tauro è il centro di questo tratto molto fertile, dopo i primi di maggio non è abitabile, e a<br />

luglio e ad agosto dormendo lì è quasi certa la conseguenza <strong><strong>del</strong>la</strong> febbre …………………..finalmente,<br />

continuando il nostro cammino, piccole ondulate alture coperte di querce e densi boschi ci hanno<br />

dato il presagio che eravamo nelle vicinanze <strong><strong>del</strong>la</strong> strada maestra da Napoli a Reggio, e<br />

attraversandola eravamo ben presto all’interno di Gioia, un semplice villaggio che consisteva in<br />

qualche deposito di olio e una grande osteria che era vicina al mare, Stella maris. Gioia è, infatti,<br />

uno dei più afflitti paesi malarici, perché, sebbene il commercio <strong>del</strong>l’olio è considerevole e<br />

numerosi operai trasportano barili da ogni parte, queste persone provengono dalla adiacente<br />

Palmi, vengono al mattino e rientrano la sera.<br />

Nel 1847 Gioia Tauro contava circa 900 abitanti. Nel 1909, all’arrivo dei <strong>Carresi</strong> il quadro stava<br />

cambiando, anche se lentamente, ma in maniera costante e continua: vi risiedevano circa 5000<br />

persone.<br />

Gioia Tauro era un paese medioevale, arroccato su una collinetta a 29m s.l.m. aveva una forma<br />

romboidale, i cui vertici lunghi indicavano rispettivamente il nord e il sud. Il lato nord era a<br />

strapiombo sul fiume Bu<strong>del</strong>lo, il pestifero fiumiciattolo, che con i suoi miasmi ammorbava l’aria<br />

circostante, in estate in modo particolare. Lo stesso pericolo mortale era in agguato nei pressi<br />

<strong>del</strong>l’altro fiume il Petrace, il mitico Metauros, che circondava assieme al Bu<strong>del</strong>lo il territorio gioiese<br />

in un abbraccio malevolo. Le vie <strong>del</strong> paese, come tutti i borghi medioevali erano strettissime, tanto<br />

da far passare appena un carro con i buoi quelle più grandi, e , come in tutti i paesi medioevali, vi<br />

era un coacervo di vicoli bui, che s’intrecciavano gli uni agli altri, larghi per appena una persona,<br />

che sboccavano infine nella piazza principale o sulla via di collegamento principale, chiamata via<br />

commercio, che attraversava tutto l’abitato declinando dolcemente verso il pianoro. Si accedeva al<br />

centro <strong>del</strong> paese tramite ripide scalinate. Una volta questo paesetto era circondato da solide e<br />

spesse mura con le sue torri di avvistamento elevate in punti diversi distanti l’una dall’altra:<br />

segno che il paese veniva assalito dai pirati saraceni, in epoche remote, molto spesso. <strong>Di</strong> giorno<br />

era un brulichio di persone e di bambini che giocavano tra i vicoli; lungo la strada principale tutti<br />

quei panni stesi ad asciugare, sui balconi o a pianoterra, assieme a vestiti, lenzuoli, sembravano<br />

tanti fantasmi svolazzanti da fare spavento e mossi dalla brezza che veniva dal mare. C’era anche<br />

un puzzo insopportabile che impregnava l’aria intorno all’abitato, generato da cause diverse. Non<br />

era l’odore putrido <strong>del</strong>le acque stagnanti <strong>del</strong> fiume: quelle case non avevano scarichi fognari; le<br />

varie famiglie <strong>del</strong> luogo preparavano il sapone con i sottoprodotti <strong>del</strong>l’olio provocando rigetti<br />

acquosi puzzolenti.<br />

Le cause che portarono alla crescita <strong><strong>del</strong>la</strong> popolazione gioiese furono diverse. Primo punto: l’igiene<br />

personale e ambientale. La malaria stava per essere sconfitta sotto l'azione di diverse sinergie<br />

messe in atto dai governi centrali e locali (non trascurando quello fatto dai Borboni) che vanno<br />

dall’inalveamento <strong>del</strong> Bu<strong>del</strong>lo, alla piantumazione di quantità rilevanti di eucalipti o cipressi o pini,<br />

piante che avevano la caratteristica di assorbire molta acqua dal terreno in cui vegetavano, la cui<br />

azione, quindi, prosciugava gli acquitrini, sede <strong><strong>del</strong>la</strong> zanzara anofele. A seguire l’invenzione di un<br />

nuovo preparato chimico: il chinino, che diede un colpo fatale alla malattia. Buon ultimo, ma,<br />

certo non meno importante, la creazione di scoli per le acque stagnanti, l'uso di pozzi neri.<br />

Migliorando le condizioni ambientali, i lavoratori da avventizi divennero stanziali.<br />

Gioia Tauro per la sua posizione geografica era l’emporio <strong><strong>del</strong>la</strong> piana. Posta sulle rive <strong>del</strong> Mar<br />

Tirreno al confine ovest <strong><strong>del</strong>la</strong> stessa, cui diede pure il nome, si legava, rispetto ad altri lidi, in<br />

maniera dolce alle sponde <strong>del</strong> suo mare: si raggiungeva direttamente senza ostacoli<br />

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insormontabili. I carri a trazione animale potevano “senza gran fatica” portare le merci utilizzando<br />

una serie di infrastrutture, pronte nell’area gioiese. Il prodotto notevolmente più<br />

commercializzato era l’olio lampante prodotto in gran quantità nella piana dai frantoi.<br />

Altri prodotti commercializzati e trasportati nel Mediterraneo con i velieri erano: legnami, grano,<br />

granone, carbone da legna, agrumi, vino. Lo stoccaggio <strong>del</strong>l’olio lampante era fatto in grandi<br />

cisterne verticali poste sottoterra un po’ dappertutto a Gioia Tauro: il paese era cresciuto sul<br />

vuoto quasi totalmente, tanto che la città vecchia era chiamata, per questo motivo, Piano <strong>del</strong>le<br />

Fosse ma, anche la parte più moderna era altrettanto piena di fosse.<br />

I proprietari di queste cisterne erano stranieri e avevano in mano il monopolio <strong>del</strong> commercio<br />

<strong>del</strong>l’olio; essi erano :<br />

1. Cisterne “Maurigoffe” una società olandese che edificò la struttura nel 1783 (da cui prese<br />

nome la salita, che poi divenne via Trento). Le sue cinquattotto cisterne potevano<br />

contenere 24000 quintali di olio.<br />

2. Cisterne Serra‐Cardinale (palazzo Musco) edificata nel 1700 circa.<br />

3. Cisterne Gagliardi in piazza Mercato risalenti al 1780 circa.<br />

4. Cisterne Averni di Genova in via Trento risalenti al 1780.<br />

5. Cisterne Cordopatri in via Rimembranze <strong>del</strong> 1830.<br />

6. Magazzini Gargano, Zaffiro, Gambar<strong><strong>del</strong>la</strong>, Pisani, risalenti al 1845 tutti in via Lomoro.<br />

7. Cisterne Rossi salita Giffoni <strong>del</strong> 1845.<br />

8. Magazzini barone Musco <strong>del</strong> 1800 circa, via De Rosa.<br />

9. Magazzini Bianchi piazza <strong><strong>del</strong>la</strong> posata <strong>del</strong> 1850 circa.<br />

10. Cisterne Starace via Roma <strong>del</strong> 1850 circa.<br />

11. Cisterne Castellano via Roma <strong>del</strong> 1850 circa.<br />

12. Cisterne Aloia via Roma <strong>del</strong> 1850 circa.<br />

13. Cisterna Gargano via piccola velocità <strong>del</strong> 1835.<br />

14. Magazzini D’urso via Torino <strong>del</strong> 1895.<br />

15. Magazzini di via 24 maggio.<br />

I sopraelencati gestivano in proprio il commercio o erano rappresentanti consolari di paesi<br />

stranieri. L’oro verde era utilizzato dalla maggior parte <strong>del</strong>le nazioni europee per l’illuminazione<br />

pubblica.<br />

I vice‐consoli ebbero in mano il potere politico oltre che economico <strong>del</strong>l’area. Molto spesso<br />

costoro erano in lotta fra loro per la poltrona di sindaco o per quella di consigliere provinciale, tra<br />

questi: il cav. Briglia, il cav. Giffoni, il cav. Baldari, il cav. Tripodi.<br />

Assenti sul piano politico ma non su quello economico i latifondisti nobili.<br />

I nobili con sede a Gioia erano i Serra‐ Cardinale maritata Musco, il barone Cordopatri.<br />

L’attività di trasporto <strong>del</strong>l’oro verde, tramite velieri, era curata da un’ efficiente dogana,<br />

localizzata alla fine di via marina, scendendo, sul lato sinistro <strong><strong>del</strong>la</strong> spiaggia. I rapporti tra dogana,<br />

capitaneria e rappresentanze varie erano gestite da agenti marittimi e spedizionieri doganali:<br />

Tarantino, Sofi ecc. Gioia Tauro dipendeva dall’agricoltura <strong><strong>del</strong>la</strong> piana e questa dalle infrastrutture<br />

gioiesi per la loro commercializzazione. A complemento di tutto, una serie d' impianti industriali,<br />

localizzati in loco, chiudeva un ciclo di trasformazione, con un elevato grado di verticalizzazione<br />

produttiva: nulla si perdeva di queste attività. Si fosse trattato di olive, agrumi, uva o boschi di<br />

conifere, grano.<br />

“ Scendendo lungo la sterrata via marina, a metà strada, era localizzata una raffineria costruita da<br />

una società straniera, poi diventata Benedetto e C. oleificio". Quasi al confine con la spiaggia<br />

sorgeva la distilleria Cannizzaro.” I proprietari erano di Palmi. Questo impianto produceva alcool<br />

etilico dai residui <strong><strong>del</strong>la</strong> pigiatura <strong>del</strong>l’uva cumulati davanti alla distilleria. I carri tirati dai buoi o<br />

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muli provenienti dai vigneti <strong><strong>del</strong>la</strong> piana, scaricavano il materiale di fronte; poi carriole o carretti<br />

tirati da asini lo trasportavano all’interno <strong>del</strong>lo stabile e qui calato in vasche di lavaggio. Dopo il<br />

lavaggio si procedeva ad una spremitura ulteriore con grossi torchi meccanici. Il liquido ottenuto si<br />

introduceva nel distillatore. Un procedimento fisico‐chimico forniva nella parte inferiore <strong>del</strong><br />

distillatore l’alcool etilico. Il quale era poi immesso nelle botti e venduto. Ci lavoravano una<br />

ventina di operai stagionali.<br />

A sud <strong><strong>del</strong>la</strong> marina, tra le fine <strong>del</strong> XIX° secolo e l’inizio <strong>del</strong> XX° secolo era sorto un altro grosso<br />

impianto di distillazione ad opera di una società barese: Mazzurano. Questo impianto lavorava i<br />

residui <strong><strong>del</strong>la</strong> spremitura <strong>del</strong>le olive: la sansa. Tutti i frantoi pianetini vendevano i residui alla<br />

società, i cui grossi cumuli si notavano sia dentro sia fuori l’impianto. Poi con un procedimento<br />

similare a quello visto per l’alcool etilico, si otteneva l’olio, che in questa fase non era<br />

commestibile.<br />

Il prodotto era caricato su grossi vapori e trasportato in Sicilia o Liguria. Qui subendo ulteriori<br />

trattamenti, tagli e filtrature, l’olio diventava commestibile e venduto in Europa: il valore aggiunto<br />

per il commerciante si otteneva in questa fase. L’impianto occupava una quarantina di persone a<br />

pieno regime, poi diminuiva fino ad arrivare al massimo a dieci operai. Successivamente l’impianto<br />

fu acquistato dalla Gaslini S.A. di Genova, come l’ impianto similare sorto a ridosso <strong><strong>del</strong>la</strong> F.S. Lato<br />

nord nei pressi <strong>del</strong> fiume Bu<strong>del</strong>lo, accostato al boschetto di eucalipti, piantati dai “cuatti” al tempo<br />

dei Borboni, il commerciante campano Andrea Gambar<strong><strong>del</strong>la</strong> aveva montato un impianto di<br />

sfarinamento già nell’ultimo ventennio <strong>del</strong> XX° secolo. Produceva farine di vario tipo che<br />

commercializzava lui stesso nella piana e oltre. Altra attività vigorosa era il cantiere navale che tra<br />

l’otto e il novecento produsse parecchio naviglio di media grandezza e piccole imbarcazioni. Il<br />

cantiere era di dimensioni minori che non quello di Bagnara o di Messina, ma molto attivo.<br />

L’agricoltura <strong><strong>del</strong>la</strong> piana alimentava i processi produttivi di cui sopra , e questi generavano un<br />

indotto corposo e vario di attività artigianali: falegnamerie per botti, segherie, vetture da<br />

trasporto, maniscalchi, fabbri, fiscolifici, maestri d’ascia, ramaioli, cordai, calafatari.<br />

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3<br />

Il collegamento fra la marina e Gioia centro era composto da una lunga strada sterrata, che nel<br />

periodo <strong>del</strong>le piogge diventava impraticabile anche per i carri o i traini, creando danni alla<br />

principale attività economica <strong><strong>del</strong>la</strong> piana intera. Tanto che da diversi anni, gli imprenditori privati,<br />

commercianti, artigiani, armatori ecc. avevano espressamente chiesto al sindaco la sistemazione di<br />

quell’unico collegamento viario.<br />

“Nel 1905 il consiglio comunale <strong>del</strong>iberò di contrarre un mutuo con la C.D.P. di ottantamila lire “<br />

……………. e con il supporto fattivo e congruo <strong><strong>del</strong>la</strong> prefettura di R.C. …… ed il 25 novembre 1905 il<br />

prefetto visita la via marina ……….. coadiuvando il comune onde facilitare il perfezionamento <strong>del</strong><br />

mutuo”.<br />

Come sempre l’ente pubblico sopperiva le necessità dei privati. Una vecchia teoria economica<br />

affermava che il vero capitalista nasceva dal commercio, cioè, non era il proprietario dei mezzi di<br />

produzione, il proprietario terriero o l’artigiano, ma colui che acquistava il prodotto e lo rivendeva<br />

nei mercati più remunerativi.<br />

Le imprese commerciali private pur traendone le maggiori ricchezze non contribuivano al<br />

sostegno <strong>del</strong>le spese necessarie per asfaltare la strada (siamo in regime liberale).<br />

Finalmente nel 1908 quella vitale arteria di collegamento fu asfaltata con lastroni lavici,<br />

provenienti dalla Sicilia e trasportati dai velieri. La capitale <strong><strong>del</strong>la</strong> industria olearia e, più in<br />

generale, <strong>del</strong> commercio <strong><strong>del</strong>la</strong> provincia, attivava un consistente giro finanziario che costituì una<br />

<strong>del</strong>le risorse economiche <strong><strong>del</strong>la</strong> regione principali.<br />

Anche la pesca era importante nell’economia gioiese. Bastava recarsi sulla spiaggia lato Bu<strong>del</strong>lo<br />

per notare una variopinta quantità di barche da pesca di grandezza variabile: rinchie, luntre,<br />

buzzetti, paranze, iole. Ognuna di queste barche apparteneva, in genere, ad un gruppo familiare.<br />

Le paranze avevano un equipaggio con al comando un padrone marittimo. Le prime, le piccole,<br />

erano barche a remi, le altre a vela. I pescatori, a forza di braccia andavano a pescare al massimo<br />

entro due miglia; in luoghi più distanti ci arrivavano con le vele.<br />

La barca era il loro sostentamento, assieme agli usuali strumenti per la pesca: le reti, a paranza,<br />

ragno, strascico, giacchio, lampara, tramaglio, conso, “rizzilli” ecc. , ed essa veniva badata, curata<br />

come persona di <strong>famiglia</strong>. Nei giorni di ferma il pescatore, che era il medico, la visitava per<br />

riscontrare eventuali malattie: controllava il fasciame battendo con una mazzetta per ascoltarne la<br />

risposta. Un eco <strong>del</strong> legno diverso poteva significare una qualche lesione. Toglievano con un<br />

raschietto quella barbetta dovuta all’acqua di mare o pitturavano la poppa o la prua. Mentre un<br />

membro <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> svolgeva questo compito, un altro apriva la rete sulla spiaggia e riparava la<br />

lacerazione provocata durante qualche calata in mare. Alcuni di essi avevano un abbigliamento<br />

particolare che si tramandava da secoli: cappellino formato basco di cotone spesso, ed un<br />

maglione intrecciato in modo particolare dalle loro donne con i ferretti, pantaloni alla zuava, però<br />

stretti ai ginocchi e non usavano scarpe: chi li osservava avrebbe potuto supporre che non<br />

usassero calzature perché sempre con i piedi in acqua: non era un accorgimento tecnico, ma una<br />

questione di povertà. Allora le disuguaglianze di classe erano visibili ad occhio nudo, chiare,<br />

distinte: il loro aspetto esteriore; i poveri svestiti, scalzi, sporchi con il cappello in mano; la piccola<br />

e media borghesia curata e vestita discretamente; la nobiltà terriera o i ricchi borghesi, eleganti<br />

con bastoncino, cappello, scarpe in suola o stivaloni, giacche di lana pettinata, carrozze ecc.<br />

I pescatori, come i contadini, seguivano il ritmo <strong>del</strong>le stagioni per la loro attività: il periodo <strong>del</strong>le<br />

alici, <strong><strong>del</strong>la</strong> neonata, dei tonnetti, <strong>del</strong>le seppie, per questo usavano varie reti o lenze o arpioni o la<br />

lampada a cherosene o petrolio per le aguglie.<br />

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Con il mare, la spiaggia, le barche, i pescatori, formavano una cosa unica: ci vivevano, ci facevano<br />

igiene (quando la facevano), i loro bisogni. “La marina conosce i miei passi” diceva padron ‘Ntoni<br />

ne i “Malavoglia” di Verga; la spiaggia gioiese conosceva ogni parte corporale dei pescatori .<br />

Cresciuti in un ambiente che sembrava non cambiare mai, non istruiti perché troppo poveri e<br />

troppo attenti a sopravvivere, vendevano il frutto <strong>del</strong> loro lavoro o lo conservavano sottosale.<br />

Quando la pesca era buona le donne dei pescatori, femmine dalla forza fisica eccezionale,<br />

sistemavano la cesta di vimini, ed urlando come ossesse attiravano i potenziali compratori o<br />

portavano il pescato alla vendita in piazza municipio, a piedi e con le caratteristiche saie.<br />

Molto spesso, specie in inverno, il maestrale impediva loro l’attività lavorativa. I pescatori, con i<br />

volti induriti dal sale, osservavano, lungo la spiaggia dove la sera prima avevano tirato in su le<br />

barche presagendo l’arrivo <strong><strong>del</strong>la</strong> burrasca; i cavalloni che man mano si avvicinavano alla riva<br />

crescevano sempre più, e sbattendo sul bagnasciuga, sollevavano spruzzi e schizzi bianchi che<br />

trasportati dal vento colpivano i loro visi; poi, mentre l’acqua schiumante si ritirava, ecco che un<br />

altro cavallone gli si sovrapponeva in un continuo e crescente rincorrersi come fosse un gioco. Per<br />

un’antica tradizione, conosciuta molto bene anche a Bagnara, quando il mare impediva ai<br />

pescatori di esercire la loro attività, essi, muniti di chitarre cantavano canzonette di “sdegno” o<br />

“d’amore” lungo le vie <strong><strong>del</strong>la</strong> marina, addolcendo la giornata di lavoro perduta .<br />

Qualche sciocco ignorante sosteneva che gli uomini fossero vagabondi, mentre le loro femmine<br />

lavoravano: il classico luogo comune. Esse si davano da fare perché, per il tipo di lavoro gli uomini<br />

erano sempre assenti dalle loro case, per cui le donne erano obbligate a fare tutto: figli, cucinare,<br />

vendere e, se necessario, menavano certi schiaffoni da abbattere un toro. Ma era gente<br />

poverissima, abitavano in baracche di legno nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong> spiaggia. Avevano famiglie numerose,<br />

ma con un alto tasso di mortalità. I loro piccoli erano sporchi e laceri con dei pantaloncini corti e<br />

forniti di un taglio centrale nel posteriore per facilitare i loro bisogni. Infatti non usavano mutande.<br />

Quando il mare, per troppo tempo, non permetteva ai pescatori di procurarsi <strong>del</strong> cibo, si<br />

rivolgevano agli enti parrocchiali, allora molto numerosi per la gran quantità di affamati, o a<br />

qualche <strong>famiglia</strong> generosa. La casa <strong>del</strong> <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong> e dei Gambar<strong><strong>del</strong>la</strong>, divenne un incrocio<br />

obbligato quasi, per questa gente così povera. E con quello spirito che distingue il cristiano,<br />

l’amore verso il prossimo, la generosa <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong> li aiutava, donando cibo, vestiti dismessi,<br />

consigli igienici (tanto che donna Felicia ai loro neonati toglieva la ianca); in caso di malessere la<br />

stessa Felicia era il loro medico personale nell’attesa che arrivasse il vero medico.<br />

La marina lato Petrace era abitata dai “parmisani”, gli originari di Palmi, che , dopo i<br />

miglioramenti igienici, si stabilirono definitivamente in loco. Era una classe sociale appartenente<br />

alla media piccola borghesia armatoriale e artigianale. Questa zona <strong><strong>del</strong>la</strong> spiaggia era piena di<br />

velieri in secca per lavori di manutenzione, posti uno di fianco all’altro con i grossi ganci laterali<br />

che bloccavano il veliero al “palo”.<br />

Si notavano a distanza con i loro altissimi alberi ed i pennoni con le vele in campana raccolte ed<br />

agganciate alle corde; si distinguevano diversi tipi di naviglio, differenti per velocità, stazza,<br />

distinguibili dalla vela o dal numero di alberi: golette, brigantini, tartane, cutter, feluche. Davanti<br />

allo specchio di mare antistante i magazzini di stoccaggio borbonici, sostava il naviglio attraccato a<br />

boe d’ormeggio e pronti a caricare, ripartire ovvero scaricare merce varia. Più lontano si notava<br />

qualche piroscafo, di stazza molto più grande, con il fumo che uscendo dal fumaiolo si perdeva<br />

nell’aria. Operavano, allora, tanti armatori locali, in gran parte bagnaresi, palmesi, siciliani,<br />

genovesi.<br />

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La <strong>famiglia</strong> Patamia di Bagnara; Gentile; Albonico; Purrone; Alessio Pasquale; Alessio Antonino;<br />

Auteri; Longo; La Capria, Costa e lo stesso <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong> Francesco socio per vari carati.<br />

L’infrastruttura marinara era utilizzata soprattutto per esportare botti di olio. A seguire legname,<br />

granaglie, carbone, botti di vino ecc. o per importare merci per i grossi commercianti campani o<br />

pugliesi o siciliani: Achille Normanno, S.re Proto, Matteo Anastasio, Aloia, Corvo, Gambar<strong><strong>del</strong>la</strong>,<br />

Gargano, Pisani, Vissicchio, che rivendevano a tutta la piana.<br />

Tra la fine <strong>del</strong> XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale, su stime fatte dai giornali <strong>del</strong> tempo<br />

(Il tartarin) si fermavano, per carico o scarico, nella rada, oltre 500 velieri all’anno, senza contare i<br />

piroscafi ed i legni locali di piccola stazza. Un movimento ben più importante che Reggio o Vibo<br />

(allora Monteleone):<br />

“Ci fosse stato un semplice pontile d’approdo, l’attività si sarebbe raddoppiata”. Questo pensava<br />

il <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong> quando dal suo veliero osservava quel movimento di navi e genti.<br />

Fosse vissuto qualche anno ancora il suo sogno l’avrebbe visto realizzato nel 1950, quando non<br />

serviva più a nessuno. Esiste a questo proposito un nutrito carteggio fra la camera di commercio di<br />

Reggio Calabria ed il ministero dei lavori pubblici fin dal 1874, dove si “pietiva” la costruzione di un<br />

pontile d’approdo e, se i costi fossero troppo alti, almeno due boe d’ormeggio.<br />

Ma i politici reggini riuscirono a far costruire il porto a Reggio Calabria e non un misero pontile<br />

d’approdo a Gioia Tauro, centro di grandi attività economiche al servizio <strong>del</strong>l’intera provincia.<br />

Ancora una volta si era persa l’occasione buona per decollare. A dimostrazione <strong><strong>del</strong>la</strong> notevole<br />

attività economica <strong>del</strong>l’area si annotava presso la camera di commercio di Reggio che le<br />

falegnamerie gioiesi riuscivano a sfornare 18 mila botti all’anno di media.<br />

Quell’anno l’armatore La Capria riarmò il veliero “Nuova Antonietta” affidandone il comando al<br />

<strong>Carresi</strong>. Nel settore marinaro, allora, non esistevano contratti di lavoro: il rapporto si stipulava<br />

personalmente (per la verità era così in tutti i settori economici): si faceva la proposta,<br />

l’accettazione, una stretta di mano e il contratto era fatto, salvo il passaggio presso l’unico ente<br />

pubblico che c’entrava al momento, la capitaneria di porto per il timbro sul libretto di navigazione.<br />

<strong>Carresi</strong> effettuava viaggi da Gioia Tauro a Salerno o ad Amalfi. E da uomo attivo e forte qual’era, al<br />

ritorno, si concedeva alle gioie <strong>del</strong>l’amore. La coppia pensò che fosse sicura dai rischi di una nuova<br />

gravidanza. Ma, come è il detto “tanto tuonò che piovve!” un bel giorno Felicia telegrafò al marito<br />

annunziandogli la nuova gravidanza.<br />

“Perdinci!” ‐ esclamò il <strong>capitano</strong> stupito ‐ “Signore ti ringrazio per questo, ma … spero che non si<br />

tratti di un'altra femmina! In ogni caso dove mangiano sei mangeranno sette.” Come se il buon <strong>Di</strong>o<br />

avesse sentito la sua preghiera, Felicia partorì un maschietto. Il parto fu felice, ma il piccolo<br />

nacque gracile ed era sempre malaticcio e prima che fosse battezzato fu colpito da paralisi al<br />

braccio sinistro: rischiò di morire. Il <strong>capitano</strong> informato continuamente dalla figlia Carmela si<br />

struggeva da morirne.. Nei momenti più bui, quando il mondo sembrava gli crollasse addosso,<br />

<strong>Carresi</strong> alzava gli occhi al cielo e si affidava alle misericordiose braccia di Gesù. Si recava in una<br />

qualunque chiesa e pregava. Quel giorno mentre vagava a Napoli in preda allo sconforto, entrò in<br />

una chiesa, bagnò le dita nell’acquasantiera e girando gli occhi si trovò davanti alla statua di S.Ciro.<br />

S’inginocchiò e pregò:<br />

“S.Ciro, tu che stai al cospetto <strong>del</strong> creatore, ti prego intercedi tu per il mio piccino, che possa<br />

salvarsi. Ascolta questo misero peccatore avvilito …….. io ti prometto: se la tua intercessione lo<br />

salverà lo battezzerò chiamandolo in tuo onore Ciro!” Il bambino si salvò. Dopo la conferma di<br />

Carmela, il <strong>capitano</strong> telegrafò ordinando di chiamarlo Ciro.<br />

Durante il periodo estivo, ad ogni viaggio che il <strong>capitano</strong> compiva verso la Campania o la Sicilia,<br />

portava con se a turno, una <strong>del</strong>le figlie. Le ragazze a bordo osservavano con curiosità e meraviglia<br />

16


le operazioni di carico <strong>del</strong> veliero: notavano che i velieri più grossi venivano raggiunti da una serie<br />

di barche con al traino le botti di olio da caricare. Due marinai <strong>del</strong> veliero, quando la barca era<br />

sotto bordo, agganciavano le botti con funi e tramite un paranco manuale sollevavano la merce in<br />

coperta e la sistemavano in modo opportuno. I velieri più piccoli, invece, si avvicinavano alla riva e<br />

tramite una passerella in legno, gli operai caricavano le merci, che poi l’equipaggio sistemava<br />

sottocoperta. Una volta effettuate le operazioni di carico, si aspettava la sera per partire. Ci<br />

potremmo dilungare molto nel discorso sull’attività portuale <strong>del</strong> tempo di cui raccontiamo se lo<br />

paragoniamo ipoteticamente all’attuale: i containers o contenitori, forse, non sono una invenzione<br />

moderna, ma abbastanza antica, basta tener conto <strong>del</strong> fatto che spesso nelle botti s’introduceva<br />

non solo olio o vino o alcool etilico ma pure grano o farina.<br />

Le ragazze, molto curiose, chiedevano al loro papà perché si dovesse attendere la sera. Il <strong>capitano</strong><br />

spiegava loro che si “alzava” il vento di terra, il quale permetteva al veliero di muoversi. Infatti ad<br />

una certa ora <strong><strong>del</strong>la</strong> sera, il “segnavento” si tendeva ed il <strong>capitano</strong> dava gli ordini necessari alla<br />

partenza: il nostromo al timone, i marinai addetti alle vele le scioglievano, dopo che il veliero era<br />

stato sganciato dalla boa d’ormeggio; uno dei marinai accendeva due lumi a petrolio a prora e a<br />

poppa, si suonava il campanone in segno di saluto. Poi sotto la forza <strong>del</strong> vento di terra le vele si<br />

gonfiavano ed il veliero acquistava velocità.<br />

“Prua a Capo Vaticano, nostromo ! Rotta nord !”. Capo Vaticano aveva un faro illuminato a<br />

petrolio. Le ragazze al rientro, raccontavano alle amiche o ai vicini, ancora con gli occhi pieni di<br />

meraviglia mista ad orgoglio, quello che avevano visto nelle grandi città. Le automobili in strada o i<br />

tramvai che circolavano su piccoli binari come quelli <strong>del</strong> treno, trasportando numerose persone; le<br />

vetrine dei grandi negozi illuminati <strong>del</strong> centro; le tante persone eleganti che passeggiavano in<br />

strada o seduti ai tavolini dei bar.<br />

17


4<br />

D’inverno le ragazze conducevano la vita semplice di un piccolo paese <strong>del</strong> sud. Si davano da fare<br />

in casa, specie ora con il nuovo arrivato che aveva bisogno di tanta attenzione e cura. La domenica<br />

e le feste comandate, tutte insieme si recavano alla S.Messa, che si celebrava a Gioia nella chiesa<br />

madre al “Piano <strong>del</strong>le fosse”, il centro storico.<br />

La chiesa era posta di fronte al grande magazzino di Don Achille Normanno, commerciante<br />

campano, ottimo amico <strong>del</strong> <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong>. Prima di avviarsi donna Felicia, faceva le solite<br />

raccomandazioni alle figlie: come un maresciallo:<br />

“Tenete gli occhi bassi, salutate educatamente, poi testa giù!” Ella era talmente insistente,<br />

pervicace, esagerata con queste raccomandazioni, che le figlie più grandicelle scimmiottavano la<br />

loro mamma, divertendosi per le risate.<br />

“Perché pure guardando si fa peccato … e allora lo dovete confessare !” diceva categoricamente<br />

Felicia.<br />

Ma lei aveva, un motivo valido per ripetere sempre quelle cose: non era solo un aspetto<br />

culturale, ma aveva notato che Fortunata, la primogenita, quando passava davanti la falegnameria<br />

di mastro Peppe Orlando o sulla piazzetta di fronte alla distilleria Cannizzaro, era solita girare la<br />

testa a 180° per guardare insistentemente un bel ragazzo biondo con gli occhi chiari di nome<br />

Francesco. Era costui figlio di Maria Minutolo, rimasta vedova in giovane età e Francesco<br />

<strong>Caratozzolo</strong> deceduto in Argentina. Felicia di cognome andava Patamia e il Patamia,Francesco,<br />

erano primi cugini.<br />

I coniugi <strong>Caratozzolo</strong> erano emigrati in Argentina, dopo essersi sposati prima civilmente<br />

nell’anno 1885 e, subito dopo, col rito di Santa Romana Chiesa. Poi, da Messina, assieme a tanti<br />

emigrati, lasciarono l’Italia. Il padre di Francesco, Tommaso, il viso rigato di lacrime, alla richiesta<br />

di Francesco: “Beneditemi padre!” rispose, come di consueto: “Ti benedico figlio!” e fece il segno<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> croce sulla sua fronte. Non era sicuro che lo avrebbe rivisto; ma Tommaso pensava, da<br />

vecchio, alla propria morte, non a quella <strong>del</strong> figlio Francesco. E non lo rivide più veramente.<br />

Francesco, quando decise di emigrare, era avanti negli anni (32). Fino ad allora aveva lavorato<br />

per la <strong>famiglia</strong>; nel sud si ha l’obbligo culturale e morale di far sposar prima le sorelle, solo dopo<br />

gli uomini si potevano ritenere liberi. Se poi le sorelle erano bruttine, si correva il rischio che gli<br />

uomini invecchiassero, e rimanessero “zitelli”. Comunque fosse, la paga bassa, la vita dura <strong>del</strong><br />

mare, le notizie provenienti dall’Argentina sulle ricchezze da sfruttare, lo spinsero a lasciare<br />

Bagnara per un futuro migliore. Ma voleva trovare una moglie nel suo paese d’origine, per seguire<br />

il detto: “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. A parte l’età Francesco <strong>Caratozzolo</strong> era un bell’uomo:<br />

capelli castano chiari, divisi a metà, occhi azzurri e baffi alla siciliana. Abile marinaio, deciso e<br />

coraggioso, era una soddisfazione vederlo guidare la barca, alla barra <strong>del</strong> timone. Il padre<br />

Tommaso gli indicò una ragazza di circa vent’anni: Maria Minutolo. Originaria di Siderno, era<br />

orfana di entrambi i genitori. Una zia materna residente a Bagnara si era incaricata di accudirla.<br />

Era il tipo adatto a lui, pur senza dote: era un’ottima sarta, e ciò bastò a Francesco per chiedere la<br />

sua mano. Malgrado la differenza d’età, Maria accettò di buon grado il matrimonio: avere una<br />

<strong>famiglia</strong>, un futuro sicuro sia pure lontano da Bagnara era per lei, povera orfana, l’inizio di un<br />

sogno; sposarsi avere dei figli. Questo pensava Maria, mentre la nave a vapore si staccava dalla<br />

banchina <strong>del</strong> porto e si allontanava fino a diventare un punticino nell’azzurro <strong>del</strong> mare. Il vapore li<br />

stava conducendo, con un biglietto di terza classe, verso la lontana Argentina. A Buenos Aires i<br />

coniugi tramite il Consolato italiano e, con l’aiuto di parenti e amici, trovarono casa in un grosso<br />

rione <strong><strong>del</strong>la</strong> città: Palagonissa. Nel giugno <strong>del</strong> 1888 nacque la primogenita Giuseppina. Intanto,<br />

18


Francesco forte <strong><strong>del</strong>la</strong> sua esperienza di marinaio, si era inserito bene nell’ambiente <strong><strong>del</strong>la</strong> pesca, in<br />

quell’insenatura dove l’acqua dolce incontra l’acqua salata: Il Rio de la Plata e l’oceano Atlantico.<br />

Dopo l’impresa <strong>del</strong> <strong>capitano</strong> Fondacaro e <strong>del</strong> suo equipaggio la reputazione dei marinai italiani era<br />

cresciuta notevolmente. In seguito a Francesco fu affidato il comando di un peschereccio. Era il<br />

1891. Alla nascita <strong>del</strong> secondogenito il 26 marzo avvenuta nel quartiere Barrio di Buenos Aires, la<br />

sventura si abbatte’ sulla <strong>famiglia</strong> <strong>Caratozzolo</strong>: durante un fortunale, il peschereccio affondò con<br />

tutto l’equipaggio. Francesco aveva seguito lo stesso amaro destino <strong>del</strong> fratello Rosario perito in<br />

mare in un simile incidente.<br />

Maria Minutolo, dopo essere rimasta da ragazza, orfana dei genitori, si trovò ancora sola, con a<br />

carico due figli piccolissimi. Rientrò in Italia per il tramite <strong><strong>del</strong>la</strong> Società di Patronato e Rimpatrio<br />

per gli immigrati in Argentina: la stessa organizzazione che li aveva portati lì, li riportava in Italia,<br />

senza un avvenire certo. L’ultimo nato fu battezzato e chiamato come suo padre Francesco e non<br />

come il nonno Tommaso. I lucciconi nei suoi occhi addolorati, <strong>del</strong>usi, si vedevano da lontano<br />

mentre la nave si avvicinava al porto di Messina: quando partì pianse di gioia e di speranza per un<br />

futuro migliore, questa volta per il marito annegato, un futuro incerto e due piccolissimi figli da<br />

far crescere.<br />

Fu accolta con affetto dai parenti di Bagnara.<br />

In quegli anni la sorella di Francesco, Anna , aveva sposato Francesco Patamia l’armatore ed<br />

abitava già a Gioia. Anna prese con se Maria e i suoi due figli e li portò a vivere con sé, dove la<br />

flottiglia <strong>del</strong> marito faceva capo. La <strong>famiglia</strong> Patamia risiedeva in una casa lungo via marina. Vicino<br />

a codesta casa vi era il forno <strong><strong>del</strong>la</strong> signora Ventre sposata Scarcella, un uomo di Palmi stabilitosi a<br />

Gioia.<br />

Maria aiutava la cognata Anna nelle faccende domestiche e nello stesso tempo, da sarta<br />

provetta lavorava per gli altri. Gran parte <strong>del</strong> suo lavoro di sarta consisteva in vestiti da rivoltare.<br />

Spesso le veniva molto difficile farlo perché erano vestiti già rivoltati varie volte. Guadagnava<br />

qualcosa ma riuscì a mandare i figli a scuola, Francesco il secondogenito imparò pure a suonare il<br />

mandolino.<br />

I tempi erano difficili veramente. Il basso ceto ne soffriva di più.<br />

I giornalieri agricoli, al mattino presto, si fermavano in piazza <strong><strong>del</strong>la</strong> Posata, si mettevano in fila con<br />

gli stracci che avevano addosso ed un fazzoletto con dentro un pezzo di pane raffermo (quarta<br />

classe ) ed al massimo un pezzetto di formaggio. Poi, subito dopo, arrivava il nobile o il suo fattore<br />

(meglio caporale) e passando in rassegna quei poveracci come fossero militari, sceglievano la<br />

gente da assumere per quella giornata di lavoro nei campi. I più forti venivano caricati su un<br />

carretto ed avviati, i più deboli e macilenti venivano scartati. Maria percorreva la strada che da<br />

casa Patamia portava a piazza municipio (o tre canali) per acquistare verdura e frutta. Spesso,<br />

mentre si trovava in mezzo a quel via vai di gente e di sporte piene di roba ed il vociare dei<br />

venditori che si sommava al raglio degli asini legati a dei grossi anelli al muro di fronte alla<br />

piazzetta (la pescheria), ecco che spuntava il banditore. Questi con voce stentorea dava notizie di<br />

qualche avvenimento nazionale o notizie riguardanti il comune stesso: apertura di scuole, tasse, o<br />

altro. Così si avvisava la gente, a quei tempi, non essendoci giornali di uso comune, e per il tasso<br />

elevato di analfabetismo. Quella mattina il banditore avvisò che i reali carabinieri avevano sparato<br />

sui socialisti “sovversivi” che avevano scioperato e che volevano assaltare la prefettura,<br />

uccidendone parecchi: “Che è successo?” chiedeva Maria spaventata a Natalina “faccia di gallina”.<br />

Questa rispondeva:<br />

“<strong>Di</strong>ce che i carabinieri sono stati ammazzati dai socialisti mentre stavano in prefettura assieme!” ‐<br />

“No!” riprendeva Rocco “panzazza”:<br />

“I carabinieri hanno sparato ai rivoluzionari!”.<br />

19


“Gesù mio!”‐ esclamava la “ciciarara”‐ E ci sono stati morti?”. “Non ho sentito bene!” ribadiva<br />

Concetta. Così tra un vociare confuso di spavento e i gridolini <strong>del</strong>le donne, il cavalier Giffoni<br />

gridava dal pre<strong>del</strong>lino <strong><strong>del</strong>la</strong> sua carrozza:<br />

“Così si trattano i sovversivi socialisti … bisogna prenderli a fucilate ! Che cosa vogliono? Che uno si<br />

spogli <strong><strong>del</strong>la</strong> propria roba, sudata, e la divida con gli altri? Tutto in comune? Pure la moglie? Questi<br />

senza <strong>Di</strong>o, così bisogna trattarli!”<br />

E mentre arringava, osservava la gente intorno, per notare se approvassero o meno la sua sfuriata,<br />

naturalmente c’era l’unanimità. E riprendeva a parlare mandando fendenti con il suo bastoncino<br />

nell’aria <strong>del</strong> mattino. E mentre il cavaliere ripartiva con il suo bel calesse la gente cercava di capire<br />

le parole <strong>del</strong> banditore e <strong>del</strong> cavaliere.<br />

“Ma che vogliono questi socialisti?” domandava “faccia di gallina”. Teresa “la narda” rispondeva:<br />

“Mio marito mi raccontava che se uno ha due galline, una la deve dare a chi non ce l’ ha ! e se ha<br />

due baracche una la deve dare sempre a chi non ne ha”.<br />

Rosa “mussuni” toccata nel vivo con la storia <strong>del</strong>le galline strabuzzava gli occhi e ribadiva :<br />

“che nessuno si avvicini a casa mia ! Le galline sono mie e me le tengo !”<br />

Maria, ironicamente, ribatteva:<br />

“Si, commare Rosa, però bisogna dividere pure la fame a mio parere!”<br />

Poi con la borsa di paglia piena rientrava a casa.<br />

Lungo via marina, all’angolo, nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong> distilleria Cannizzaro, vi era la bottegha <strong>del</strong><br />

falegname mastro Peppe Orlando, ereditata dal padre Paolo e originario di Palmi che all’epoca<br />

aveva ventuno anni. Costui, ogni giorno, al passaggio di Maria Minutolo si faceva trovare sull’uscio<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> bottega e, con modi gentili, la salutava . E lei rispondeva tranquillamente al saluto,<br />

abbassando con pudore gli occhi. Tutti i giorni.<br />

Mastro Peppe, con astuzia volpina, aveva messo due specchi sulle ante <strong><strong>del</strong>la</strong> finestra <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

bottega, che s’apriva verso l’esterno. In quella posizione strategica osservava la gente che vi<br />

passava. Quando adocchiava l’arrivo di Maria, si toglieva il cappello e la giacca piena di segatura e<br />

si fermava sull’uscio <strong><strong>del</strong>la</strong> sua porta, sciogliendosi in brodo di giuggiole. Dapprima Maria non ci<br />

fece caso, pensava:<br />

“E’ un vicino e mi saluta educatamente; nei paesi, si sa, ci conosciamo tutti ….”.<br />

Cominciò a sospettare quando Mico “pane di granu” e sua moglie Ciccia, intrattenendola con la<br />

scusa di un vestito da far aggiustare, tiravano fuori discorsi tipo:<br />

“Donna Maria la vita si fa dura: è difficile vivere da soli con quello che si vede e si sente in giro: tra<br />

socialisti, <strong>del</strong>inquenti. Io avrei paura a vivere sola”. Maria li guardava divertita e dava loro corda:<br />

“Ma io non sono sola, ho due figli a cui badare … Ma ditemi una cosa comare Ciccia, avete<br />

qualcosa da dirmi? Dove volete arrivare?”<br />

Questa volta Mico “pane di grano” s’intromise dicendo:<br />

“Avete ragione comare Maria, mia moglie parte sempre dalla creazione <strong>del</strong> mondo per dire una<br />

cosa: il fatto è che mastro Peppe Orlando, il falegname, ottima persona, seria, onesta, e gran<br />

lavoratore essendo solo e voi siete sola … “ e fece un gesto inequivocabile, come dire: unite le<br />

solitudini……<br />

“Basta così compare Mico. Io ho già due figli a cui badare, loro sono la mia passione e il mio futuro,<br />

il mio unico amore !”. Chiudeva così, garbatamente, la discussione e le parole non dette<br />

sottostanti. Ma non poteva fare a meno di pensare a quanto le avevano proposto, i vicini.<br />

“D'altronde sono ancora giovane.” A chiusura <strong>del</strong> discorso comare Ciccia ripeteva:<br />

“Comunque, donna Maria se avete bisogno di qualcosa, siamo qui: che “è meglio una mala matina<br />

che una mala vicina!”.<br />

20


Ciò che impediva a Maria di considerare realistica la faccenda, era l’età di mastro Peppe: lei aveva<br />

2 figli e trentanni suonati, lui una ventina di anni. Allora questa differenza d’età tra i potenziali<br />

sposi era ritenuta scandalosa, specie se vi erano di mezzo due figli di un altro.<br />

In tutti i paesini <strong>del</strong> sud come Gioia, negli anni di cui si parla, si andava molto presto a letto.<br />

Maria coricava i figli, e, dietro le loro insistenze recitava una preghiera di devozione a Maria, che<br />

essa aveva imparato da bambina:<br />

“Eu mi curcu ‘nta stu lettu<br />

cu’ Maria ‘nta lu me pettu,<br />

eu dormu e idda vigghia,<br />

se ‘ndaiu bisognu mi risvigghia;<br />

mi cumbogghia cu so’ mantu,<br />

patri, figghiu, spiritu santu.<br />

E va curcati e riposa, non pensari a nudda cosa.<br />

A li cosi di la chiesa, comunioni, confessioni,<br />

ogghiu santu, patri, figghiu, spiritu santu !<br />

Bona sira santa cruci, chi di rosi siti ornata<br />

E Gesù fu misu in cruci, bona sira santa cruci.<br />

Bona sira, mia madonna, di lu cielu siti colonna,<br />

di lu cielo siti regginan e vi dassu la bona sira<br />

e vi dassu la santa notti,<br />

saluti ai vivi e rifriscu a morti.<br />

E comu ’ndi benedicistivu a santa iornata,<br />

se possibili, benedicitindi<br />

a santa nottata.”<br />

Addormentatisi i figli, Maria completava qualche lavoretto. Poi stanca spegneva il lume e si<br />

apprestava a dormire. Da quella notte, dopo il dialogo con i vicini, e per tutte le notti, Maria era<br />

svegliata da una serenata che un innamorato cantava alla sua bella.<br />

“Ohi Marì, ohi Marì, quanto suonno ca perdo pe te … “<br />

Una mattina mentre, assente la cognata e i suoi figli, mastro Peppe piombò a casa di Maria. Lei si<br />

vide un uomo con il cappello in mano che emanava un forte odore di legno:<br />

“Buongiorno Donna Maria. Se mi date licenza di parlare, sarò breve … perché sono un uomo di<br />

fatti e non di parole. Perché di parole per dirvi ciò che provo per voi, ce ne vogliono poche. Ciò che<br />

provo per voi lo testimoniano le mie serenate o il cuore che mi batte come un tamburo quando vi<br />

vedo passare. Vi prego ascoltatemi fino alla fine. Non posso aspettare più. Sono un uomo semplice<br />

e non chiedo molto alla vita, se non una donna da amare e avere dei figli … se i figli arrivano va<br />

bene … se no due li abbiamo già e bastano.”<br />

Maria rimase stupita dalla repentina e decisa dichiarazione di mastro Peppe. Ma si riprese subito:<br />

“Mastro Peppe ma io sono più vecchia di voi … potete trovare una donna più giovane … “<br />

“Questo vi fa capire quanto vi ami … mi metterò contro tutti e tutto per la mia e la vostra felicità !”<br />

E così fu, dopo una lunga lotta con i suoi genitori mastro Peppe la spuntò e convolarono a giuste<br />

nozze. Da questo matrimonio nacquero altri cinque figli: Paolo, Carmela, Antonino, Giovanna,<br />

Giuseppe.<br />

Il primogenito di Maria, Francesco figlio di F.sco <strong>Caratozzolo</strong>, suo primo marito, dopo le scuole<br />

elementari, si dedicò alla stessa attività <strong>del</strong>lo “zio” Peppe Orlando e diventò ben presto un bravo<br />

ebanista. Ma era un tipo particolare: libertario, odiava le camicie di forza, superbo, gran<br />

bestemmiatore, irascibile, affabile, con una voglia di ciliegio sulla mano destra. Da giovanotto, l’età<br />

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in cui il mondo sembra si possa prendere con una mano e infilarlo in tasca, per una sorta di<br />

reazione psicologica alle ingiustizie e disuguaglianze allora esistenti, manifestava idee socialiste .<br />

Ma non si rendeva conto che più che socialisteggiante era libertario(anche perché i suoi parenti<br />

Patamia erano di verso opposto).<br />

Era, anche, un giovane ricco d’iniziativa. S’inventava disegni ornativi da stampigliare a fuoco sui<br />

mobili; generoso ed altruista, geloso, come la cultura <strong>del</strong> tempo “pretendeva”: ognuno al proprio<br />

posto, l’uomo al lavoro, la donna in casa. Quando le sei sorelle <strong>Carresi</strong> più il maresciallo Felicia<br />

passavano davanti alla falegnameria, inevitabilmente gli sguardi tra Fortunata e Francesco<br />

s’incontravano. E pur conoscendosi bene le due famiglie, per via <strong><strong>del</strong>la</strong> parentela, tra essi non<br />

correva buon sangue, ma si salutavano rispettosamente. Francesco, quando la vedeva arrivare, si<br />

metteva sull’uscio e con fare gentile le salutava. Il maresciallo Felicia rispondeva per tutti:<br />

“Buongiorno!”, e via di corsa.<br />

Nonostante la severità di Felicia, Fortunata era attratta irresistibilmente da quel ragazzo che<br />

sembrava un vichingo, alto, magro, sempre elegante, con il baffetto alla siciliana e l’aria ironica,<br />

da guascone.<br />

Ogni sera puntualmente, la <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong> si recava alle funzioni in chiesa per il rosario e la<br />

benedizione . Così faceva Francesco altrettanto puntualmente. In un piccolo paese, il<br />

corteggiamento di una ragazza di buona <strong>famiglia</strong> non potava passare inosservato, tanto che<br />

l’amplificatore umano trasmetteva la notizia e la ingigantiva a dismisura . Quando la voce arrivò a<br />

Maria, madre di Francesco, ella proibì al figlio di corteggiarla.<br />

“Ti proibisco di andare appresso alla figlia di <strong>Carresi</strong>!<br />

“E per quale motivo?” rispondeva lui risentito.<br />

“Sono sei femmine da sistemare, non otterrai una lira di dote. E poi, ricordati che hai una sorella<br />

nubile da sposare!<br />

“A me interessa la ragazza e non la sua dote !” e se ne andava piccato: per quella sera avrebbe<br />

dormito in falegnameria.<br />

Le vie <strong><strong>del</strong>la</strong> marina, allora un piccolissimo borgo, erano illuminate da qualche raro lampione a<br />

cherosene posto qua e la. Ma tutto sommato scarsamente illuminato. Ogni sera assieme a mastro<br />

Peppe “u burdinu” ed altri amici, armati di chitarra e mandolino, offrivano una serenata a<br />

Fortunata.<br />

Gli strati sociali <strong><strong>del</strong>la</strong> media borghesia cantavano o canzoni napoletane o romanze.<br />

Francesco per la sua innamorata aveva scelto “ideale” di F. Tosti:<br />

“Io ti seguì come iride di pace<br />

lungo le vie <strong>del</strong> cielo, io ti seguì<br />

come un amica face, nella notte <strong>del</strong> velo …<br />

e ti sentii nella luce e nell’aria<br />

nel profumo dei fior e fu piena la stanza<br />

solitaria di te e dei tuoi splendori.<br />

Torna caro ideale,<br />

torna un istante a sorridere ancora …<br />

Piano piano, nel sentire quella dolce voce e quelle parole che le attraversavano l’anima,<br />

Fortunata, con la complicità di qualche sorella, apriva piano, piano l’imposta per vedere il suo<br />

cavaliere azzurro che la omaggiava con tanto amore. E così ogni sera.<br />

L’indomani Felicia, affidato l’ultimo nato ad una <strong>del</strong>le figlie, si avviava per far la spesa in piazza,<br />

accompagnata dalla secondogenita. In quel tratto di strada s’incrociava c on tanta gente .<br />

“Cata a tignusa!”, una vecchia pettegola con pochi capelli persi per una malattia, ma la gente<br />

sosteneva che li avesse persi a causa dei suoi pettegolezzi, incontrando Felicia le diceva: “Donna<br />

22


Felicia, è vero che avete fatto “zita” vostra figlia Fortunata con il figlio di Maria l’argentina quel<br />

vagabondo donnaiolo ?”<br />

Ognuno ci metteva la sua.<br />

Felicia risentita, sgranando gli occhi e puntando i pugni sui fianchi, rispondeva piccata, suscettibile<br />

com’era:<br />

“Questi sono cazzi che non vi riguardano ! Ma guardate che gentaglia, mettono il naso negli affari<br />

degli altri !”<br />

Qualche faccia tosta di vicina, ancora più maliziosa, non si allontanava, dopo la sfuriata di Felicia, e<br />

pervicacemente insisteva:<br />

“Donna Felicia, guardate sull’onore dei nostri figli, che a me lo hanno raccontato; voi sapete che io<br />

mi faccio i fatti miei … anzi vi posso dire nome e cognome di chi mi ha riferito queste cose … “ e<br />

ripeteva il nome di una parente di Felicia. Apriti cielo! Pare che le cose dette da estranei, non<br />

provochino la stessa reazione che provoca una cosa detta da un parente …<br />

E Felicia andava su di giri:<br />

“Che badi ai fattazzi propri per non dire una parolaccia, si è dimenticata che sua figlia è stata<br />

lasciata dal fidanzato?” E la vicina seguitava:<br />

“Ma vedrai,diceva quella vostra parente, che questo bel tomo la lascerà … e non la sposerà! A dire<br />

la verità Donna Felicia mi sono seccata pure io, e le ho risposto: “ Vi sbagliate questa è cattiveria.<br />

E’ gente per bene e timorata di <strong>Di</strong>o, sono casa e chiesa.” E sapete cosa mi ha risposto la vostra<br />

parente ?: “Ma quale casa e chiesa, quelle svergognate che vanno a ballare dai Gambar<strong><strong>del</strong>la</strong>, i<br />

napoletani !”.<br />

Felicia diventava un’ira di <strong>Di</strong>o e vomitava parole di fuoco:<br />

“Gentaglia da quattro tornesi, qui vi abitano bandiere di persone sane e timorate di <strong>Di</strong>o veramente<br />

… e poi le mie figlie ballano tra loro ! Ed avranno tutte la loro dote, perché ci sono uomini con due<br />

coglioni grossi così !”<br />

Finita l’omelia Felicia, come suo solito, esagerata, apriva la cassapanca dove era conservata la dote<br />

o roba <strong>del</strong>le figlie e la sciorinava davanti alla vicina, soddisfacendo così la curiosità <strong><strong>del</strong>la</strong> maliziosa.<br />

Quella stessa battaglia, intrisa di spiate e controspiate, creata ad uso e consumo dei buoni vicini,<br />

si svolgeva anche in casa <strong>Caratozzolo</strong>.<br />

Ma a Francesco i pettegolezzi non l’interessavano più di tanto. Voleva Fortunata e tutto il resto<br />

non esisteva.<br />

In effetti, Fortunata era la più bella <strong>del</strong>le figlie <strong>del</strong> <strong>capitano</strong>. Piccolina, magra, con un viso sottile, il<br />

naso pronunciato e l’espressione melanconica, con due zigomi alti e la bocca carnosa e<br />

pronunciata. Capelli nerissimi ed arricciati che erano l’invidia <strong>del</strong>le sorelle e <strong>del</strong>le amiche. <strong>Di</strong> poche<br />

parole, riservata ma rispondeva a tono nelle discussioni, a volte con sprudenza, specie a difesa<br />

<strong>del</strong>le sue opinioni. Non era molto espansiva per carattere, non lo dava, perlomeno, a vedere.<br />

Come tutte le sorelle era di una fede diamantina. Sapeva suonare la chitarra e accordarla. La<br />

domenica tutte insieme cantavano, in Chiesa stonando terribilmente. Ma questa storia di<br />

Fortunata e Francesco aveva creato qualche malumore in casa, più per i pettegolezzi che per altro.<br />

In fin dei conti, sul legittimo e naturale desiderio di una coppia di giovani che si volevano bene, si<br />

amavano, si desideravano, la gente ci ricamava talmente tanto che un sarto ci faceva una brutta<br />

figura al confronto. Ognuno immaginando le situazioni, deformava la realtà, per proprio conto, e<br />

poi, tiravano le somme. Già la vedevano incinta o in qualche angolo buio a baciarsi. Insomma<br />

ognuno ci metteva la sua e qualcosa di più. In effetti, né i genitori di lui né quelli di lei erano<br />

d’accordo su questo fidanzamento. I genitori di lei non vedevano di buon occhio quel ragazzo<br />

spocchioso e donnaiolo, chiacchierone e libertario, che la corteggiava. Non per la <strong>famiglia</strong>, per<br />

carità, era brava gente. Ma per lui … quell’atteggiamento di mangia mondo, che non accettava<br />

pareri e tanto meno consigli o quel modo di vestirsi, da sprecone, non gli stava bene la<br />

23


frequentazione di circoli a giocare a carte con gli amici. L’unico spasso per i giovani, la domenica<br />

era fare qualche partita a carte, oppure a padrone sotto con il vino tanto per stare assieme.<br />

Quest’ultimo era un gioco molto in uso nei paesi <strong>del</strong> meridione. Era il passatempo preferito dagli<br />

strati più popolari nelle cantine. Il gioco <strong>del</strong> “padrone e sotto” per sua cultura aveva molte<br />

sfaccettature, ed acquistava significati a volte densi di messaggi crittografati. L’ambiente <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

<strong>del</strong>inquenza ne era pieno. Qui si metteva alla prova il “giovane d’onore”, la sua capacità di<br />

offendere e difendere, di rispettare capi riconosciuti nella tavolata. Il padrone era colui che nella<br />

fase iniziale <strong>del</strong> gioco aveva vinto: era, cioè, il dispensatore <strong>del</strong> vino. Ma solo il dispensatore.<br />

Poteva solo berlo, da “padrone”. Se avesse voluto distribuirlo agli altri <strong><strong>del</strong>la</strong> tavolata doveva avere<br />

il permesso <strong>del</strong> “sotto”. E qui veniva fuori la capacità di condurre il dialogo innanzi tutto, di<br />

convincere l’altro <strong><strong>del</strong>la</strong> bontà <strong><strong>del</strong>la</strong> propria proposta. La bravura <strong>del</strong> padrone era quella di far bere<br />

le persone che più gli aggradavano, specie se vi era il “ramo principale”. Ogni giocatore per farsi<br />

bello offriva sempre da bere al ramo principale, il sotto doveva, ecco i segnali ambientali,<br />

dimostrare la stessa bravura <strong>del</strong> padrone. Nel senso che avrebbe dovuto tirare per i suoi o per se<br />

stesso. Se, per esempio, tra i suoi vi era il “ramo principale” non vi erano problemi; ma, spesso,<br />

alcune teste calde non ci pensavano due volte a far scoppiare la lite. Si finiva spesso con il coltello<br />

in mano, prigionieri dei fumi <strong>del</strong>l’alcool e <strong><strong>del</strong>la</strong> cultura <strong>del</strong>lo “sgarro”. Nella media borghesia la<br />

partita a carte era un modo per stare in compagnia e passare il tempo, chiacchierando <strong>del</strong> più e<br />

<strong>del</strong> meno nei circoli. Una vola accadde che nella cantina di “sangunazzo” entrò Santo Scidone,<br />

noto <strong>del</strong>inquente di Palmi e riconosciuto “tronco” <strong><strong>del</strong>la</strong> malandrineria locale. Nella discussione,<br />

che in quel momento era accesa, tra i due contendenti e vertente se una persona dovesse avere o<br />

meno il suo vino, entrando “Don Santo” disse:<br />

“E se lo bevo io, questo bicchiere di vino, c’è qualcuno in questa bella compagnia, che ha qualcosa<br />

da dire?”.<br />

Tutti salutarono devotamente ed il padrone rispose per tutti: “Per voi e per il vostro seguito, tutta<br />

la cantina Don Santo !”<br />

“Siete gente di rispetto quà e fuori di qua !” rispose don Santo Scidone. Quello era l’atto di<br />

sottomissione di quella tavola al capo riconosciuto.<br />

<strong>Di</strong> questi gaglioffi Gioia Tauro ne era piena e venivano combattuti dai carabinieri in un ambiente<br />

difficile se non ostico. Furono i ricchi borghesi o i nobili che condizionarono la vita di Gioia, proprio<br />

utilizzando la cosiddetta “gente di panza” per evitare i tanti furti che avvenivano nei loro poderi,<br />

per via <strong><strong>del</strong>la</strong> gran fame allora regnante.<br />

E proprio gli affamati, i poveri erano quelli che meno si davano da fare per aiutare la legge; per<br />

un falso senso <strong>del</strong>l’onore, che non perdevano se rubavano ai ricchi lo perdevano se relazionavano<br />

ai reali carabinieri; nel primo caso era “valenzia”, nel secondo “indegnità” .<br />

“L’uomo che è uomo non fa queste cose … e i fatti propri se li aggiusta da solo … !”.<br />

Questo era il modo di pensare dei bassi ceti <strong>del</strong> tempo. La piccola e media borghesia artigianale e<br />

professionista, pur rifiutando quelle presenze arroganti ed indisponenti, era anch’essa impregnata<br />

di quella cultura. Forse, più per un fatto di convenienza, opportunità, si tenevano alla larga da<br />

certe azioni, e non vedevano mai nulla.<br />

24


5<br />

Nell’estate 1910, il <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong>, di ritorno da Salerno al comando <strong><strong>del</strong>la</strong> Tartana “Nuova<br />

Antonietta”, che trasportava paste alimentari e formaggi per conto <strong><strong>del</strong>la</strong> ditta Scaramella,fu<br />

avvisato dalla moglie di quanto capitava tra Fortunata e quel bellimbusto: Felicia come tutte le<br />

donne fe<strong>del</strong>i e rispettose dei mariti, gli riferiva ogni cosa al ritorno dal viaggio. Così, assieme<br />

decisero di far fare a Fortunata un viaggio fino a Salerno: così la gente non parlerà per un pò di<br />

questa vicenda da romanzo d’appendice. Fortunata, riluttante, non voleva, ma il <strong>capitano</strong><br />

garbatamente ma con fermezza la convinceva.<br />

Naturalmente il giovane Francesco, non vedendola passare assieme alle sorelle, domandava con lo<br />

sguardo perché Fortunata non fosse con loro e quasi impazziva per la rabbia. Una <strong>del</strong>le sorelle, con<br />

la quale si era creata una certa complicità, lo avvertì <strong><strong>del</strong>la</strong> sua partenza, consegnando a Paolo,<br />

fratello di Francesco, un biglietto di Fortunata. Intanto, mentre il veliero navigava verso Salerno,<br />

sotto la spinta di un maestralino che era una <strong>del</strong>izia sentirlo sulla pelle, Fortunata se ne stava in<br />

disparte imbronciata. <strong>Carresi</strong> a prua si godeva la frescura <strong><strong>del</strong>la</strong> brezza marina, o, gli spruzzi che la<br />

prua provocava quando tagliava l’onda a tre quarti. Cercava, inutilmente, di convincere Fortunata<br />

che Francesco non fosse il tipo adatto a lei, che poteva aspirare a partiti migliori. Era troppo<br />

spaccone, stravagante, donnaiolo. Niente da fare. Muta partì e muta rimase. Intanto Felicia, libera<br />

dalle tensioni causate dalla presenza di Fortunata con la sua storia d’amore, insieme alle altre<br />

figlie, s’interessavano solo ed esclusivamente di badare al piccolo Ciro.<br />

La spesa in piazza la faceva o l’una o l’altra <strong>del</strong>le sorelle più grandi. L’incontro con le ficcanaso,<br />

naturalmente, era quasi impossibile evitarlo. Ma le signorine sapevano come e cosa rispondere;<br />

con garbo e decisione rispondevano: “Sarà quel che <strong>Di</strong>o vorrà !” e bloccavano qualunque discorso.<br />

C’era una immagine, che rimase stampata per sempre nel loro cuore e nelle loro menti, quando si<br />

trovavano in piazza: la gran quantità di poveri che stazionavano attorno alla fontana o sui gradini<br />

che portavano alla casa comunale.<br />

Ognuno di loro si lamentava o faceva vedere le loro storpiature per sensibilizzare la gente. Esse si<br />

accoravano ogni volta che vedevano quei figli di <strong>Di</strong>o così lacrimosi … e davano qualcosina. Poi si<br />

infilavano in mezzo alle bancarelle, dove le voci dei vari venditori formavano un coro disarmonico,<br />

confuso con gli asini che ragliavano o con il nitrito dei cavalli. Giravano tutto e tanto, prima di<br />

allontanarsi, perché godevano a stare li in mezzo a sentir le liti fra chi acquistava e vendeva; bere<br />

l’acqua fresca <strong>del</strong> “tre canali”, il tutto sotto lo sguardo attento di due reali carabinieri che, con<br />

cipiglio, le loro divise scure con le strisce rosse ed un cappellone di traverso, seguivano quel via vai<br />

con i loro baffoni a manubrio. Prima di tirare verso la marina, le signorine s’indirizzavano verso la<br />

chiesa. Vi entravano con il velo in testa, recitavano le loro preghiere e tornavano a casa. Intanto la<br />

loro mamma, era alle prese con il marmocchio. Lo stava cambiando: gli toglieva quel rotolo di tela<br />

che serviva a tenere diritto il busto <strong>del</strong> bambino, altrimenti, dicevano gli antichi, potevano<br />

diventare gobbi. Timidamente, Filomena “occhi di gatta” (per via <strong>del</strong> colore) bussava e chiamava:<br />

“Donna Felicia ! Donna Felicia … mi leggete questa lettera?” e lei rispondeva:<br />

“Entra, entra Filomena … siedi, cambio il piccolino e sono da te.”<br />

Poi cominciava l’operazione. Filomena non poteva fare a meno di osservare e meravigliarsi<br />

<strong>del</strong>l’abilità con cui Donna Felicia svolgeva con leggerezza il rotolo di stoffa bianca e un po’ rigida,<br />

con cui si avvolgevano i bambini. Dopo il rotolo, in pelle vi era un altro giro di cotone più leggero e<br />

soffice. Lo srotolamento era fatto dalla mamma con <strong>del</strong>icatezza alzando quel batuffolino per i<br />

piedi <strong>del</strong>icatamente, tanto che il bambino, non si lamentava. Una volta nudo, gli faceva il<br />

bagnetto, lo incipriava e poi lo rivestiva.<br />

25


Donna Felicia era considerata “strana” dalla gente, ma non superba , specie tra i pescatori,<br />

considerati, nella scala sociale, lo strato più basso. Dato che il figlioletto a Carmela, si sedeva,<br />

inforcava gli occhiali e leggeva, non prima di aver rilevato che la lettera fosse di suo figlio Saro.<br />

“<strong>Di</strong>ce che sta bene dove l’hanno mandato a fare il militare, e che, forse, con la nave, partirà verso<br />

la Libia … saluti e baci Saro.” La lettera, ovviamente, era scritta da un'altra persona, in quanto<br />

Saro, come i suoi parenti, era analfabeta. Poi, prima che Filomena “occhi di gatta” parlasse, Felicita<br />

prendeva l’inchiostro e la penna, mentre Filomena tirava dal tascone <strong>del</strong> “faddale”, (grembiule)<br />

una busta e un foglio per la risposta. Filomena dettava e Felicia scriveva:<br />

“Caro Saro, speriamo che stai bene, noi pure stiamo bene e anche se non vogliamo dobbiamo<br />

stare bene per forza. L’annata <strong>del</strong>le alici non è andata tanto bene; perché alici non ce n’erano<br />

manco di passaggio.<br />

“Il papà con il pappù e i tuoi sette fratelli stanno riparando la barca e la rete, ti raccomando mettiti<br />

la maglia di lana per non prendere freddo, perché mi hanno detto che lì il freddo lo ammaccate<br />

con le mani. Saluti e baci da (seguiva elenco di tutti i fratelli e sorelle) oltre che dalla mamma e dal<br />

padre la nanna e il pappù.”<br />

Il foglio infilato dentro la busta, con la lingua umettava il bordo <strong><strong>del</strong>la</strong> stessa, poi Filomena,<br />

dimenando l’ampia saia, usciva. Lungo la giornata, spesso, si avvicinava tanta gente, la maggior<br />

parte <strong>del</strong>le volte sempre bagnarote, che accusavano qualche malessere. Il medico era troppo<br />

lontano. Così, ci si rivolgeva a persone di grande esperienza: Donna Felicia,come a Bagnara, era<br />

una di queste. Conosceva le erbe medicinali. Prima che la chimica prendesse piede, ci si curava,<br />

una volta, con ciò che offriva la natura. Ma la bontà di un erba non era proporzionale ad alcuna<br />

certezza. Molto spesso, la valenza di questa la si doveva al caso; se qualcuno, per esempio,<br />

soffrendo di un certo malore, avesse assaggiato un certo tipo di foglia, e spariva il malore si aveva<br />

la prova provata che quella foglia era buona. Da qui l’uso di quell’erba e la trasmissione orale agli<br />

altri. In alcune parti <strong>del</strong> meridione, l’uso <strong>del</strong>le erbe era accompagnato da atti o parole che<br />

sapevano di magia. Per esempio, chi aveva avuto la disavventura di toccare le ortiche, il fastidioso<br />

bruciore era eliminato (sic!) strofinandosi con foglie di sambuco e gridando: “Nesci ardica e trasi<br />

sambucu !”<br />

Donna Felicia sapeva, invece, che il taglio che procurava emorragia era bloccato con i dischetti<br />

presi all’interno <strong><strong>del</strong>la</strong> canna verde; con la bocca infiammata ti consigliava di masticare le foglie di<br />

basilico; per il “nervoso” la camomilla; il cavolo per le ulcere varicose, mentre l’aglio per le punture<br />

d’insetti; la lattuga per le infiammazioni <strong><strong>del</strong>la</strong> pelle; il limone per la digestione lenta; le noci contro<br />

la stitichezza. Tutte queste conoscenze Felicia le metteva a disposizione degli altri.<br />

Nelle lunghe sere d’inverno, quando il cielo annuvolato e nero prometteva pioggia, si preparava<br />

il braciere per riscaldare la stanza. Lo si lasciava fuori dopo aver messo sotto legna secca e in<br />

mezzo il carbone, <strong><strong>del</strong>la</strong> carta che si accendeva con un fiammifero. Se c’era il vento, ci pensava lui a<br />

mantenere la fiamma e infocare la legna e carbone altrimenti il ventaglio a listelle era più che<br />

buono per lo stesso fine. Le sorelle si mettevano a giocare con le scintille, che si sollevavano dal<br />

braciere per il vento e sparivano in alto. Le sorelle si lasciavano avvolgere da esse fino a quando la<br />

madre non le richiamava:<br />

“Attente agli occhi … poi ricordatevi che le scintille sono le animelle dei bambini morti che girano<br />

nell’aria !”<br />

Così rientravano tutte, impaurite.<br />

C’era un orario particolare <strong><strong>del</strong>la</strong> sera, che era caratterizzato dal passaggio, su quella via, di varia<br />

umanità. Come se si fossero dati appuntamento. Alla marina non vi abitava solo gente di mare, vi<br />

erano anche contadini. Venivano dalle campagne, bonificate, in parte, <strong><strong>del</strong>la</strong> Ciambra. Così, da una<br />

parte arrivavano, in fila, i contadini con tutta la <strong>famiglia</strong>: in testa il padre, poi a seguire la madre e i<br />

figli. Sempre identico, sempre uguale quel passaggio; il padre aveva la roncola o l’accetta, la madre<br />

26


portava in testa un cesto con verdure varie; i figli portavano la legna per il braciere o per la cucina.<br />

Qualcuno più fortunato aveva un ciuco, che manco a dirlo, abitava nella stessa casa. Si<br />

incontravano allo stesso orario con i pescatori, che rientravano alle loro case, con le rete in testa,<br />

accompagnati dalle donne e dai figli, che portavano remi o altre attrezzature <strong><strong>del</strong>la</strong> barca. Orario<br />

uguale per stagione uguale. La vita <strong>del</strong> mare assomigliava tanto a quella dei contadini. Era molto<br />

duro il mestiere <strong>del</strong> mare; era molto duro il mestiere <strong>del</strong> contadino. D’estate il pescatore si alzava<br />

molto presto per armare la barca e andare a pescare; quando il caldo non ti faceva respirare<br />

dormiva sotto di essa, sulla spiaggia; poi, salpavano. La pesca poteva andare bene o male.<br />

Il contadino d’estate, anche lui, si alzava molto presto per seminare o zappare; perché col sole<br />

forte poi diventava difficile lavorarci. Raccoglieva quello che offriva l’estate; anche in questo caso,<br />

l’attività poteva andare bene o male. Il contadino poteva, volendo, rimanere a dormire nel<br />

pagliaio. I pescatori, però, a volte mancavano due giorni di fila, rimanendo in mezzo al mare; il<br />

contadino, volendo, poteva rientrare quando voleva. Questi ultimi, si rassomigliavano tutti nella<br />

postura; nel camminare flettevano tutti in avanti il busto, per via <strong><strong>del</strong>la</strong> posizione che assumeva il<br />

corpo per utilizzare la zappa o la falce o la roncola. Le loro dita erano annerite e le nocche<br />

ingrossate, perché artrosiche, a furia di raccogliere erba o toccare acqua. Questo appariva davanti<br />

agli occhi <strong>del</strong>le sorelle. Poi, con il buio che arrivava rapidamente, si mettevano attorno al braciere<br />

e pregavano per il loro papà e il fratello Enzo che navigavano:<br />

“Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam, Deus meus, in auditorium<br />

nostrum Deum intende …” diceva Carmela. Le altre rispondevano: “Domine ad audiuvandem me<br />

festina”.<br />

“Nel primo mistero gaudioso … “ Ogni sera recitavano il Rosario, cenavano e, cominciava l’ora dei<br />

giochi, dopo i servizi domestici. “Giochiamo ?” diceva una <strong>del</strong>le sorelle. “A cosa ?” rispondeva<br />

l’altra. “A nasconderella ?” “No … a gallinella zoppa” “Si, si”.<br />

Si sedevano attorno al braciere. Ognuna di loro metteva sulla gamba il dito indice, poi un’altra<br />

cominciava la litania “Gallinella zoppa, zoppa, quante piume porti ‘n groppa; io ne porto 24, uno<br />

due tre e quattro !” chi contava, al quattro si fermava sul “reo” corrispondente e costei doveva<br />

pagare pegno. E il gioco riprendeva di nuovo, con altre vittime. Altre volte, l’intrattenimento serale<br />

era la favola. Felicia aveva una particolare attitudine a raccontare le favole. Utilizzava le parole<br />

adatte e le accompagnava con tutta la sua arte espressiva; la mimica di consumata attrice le<br />

permetteva di trasformare il suo viso in un aspetto truce, accompagnato da una voce bassa e<br />

lugubre. Ed era talmente reale che le sorelle toccavano quasi con mano il “sarancuni” di turno o il<br />

“tagliacore” ovvero raccontava di qualche miracolo mariano, accaduto tanti anni fa. E cominciava<br />

con maestria a parlare:<br />

“O bona genti statimi a sentiri<br />

nu miraculu vi vogghio cuntari .<br />

‘Ncera ‘nu povaru cristianu c’avia e dari<br />

o patroni di ‘na ricca mercanzia e non<br />

potiva lu debitu pagari e sempri carceratu<br />

u teniva.<br />

Vinni Pasca e vinni Natali,<br />

la mugghieri lu iu a visitari,<br />

pe’ dari ‘cchiu turmentu a ‘sta<br />

fimmina, u picciriddu ‘nci catti a mari.<br />

Povara fimmana chi a chiesa iva,<br />

ed era la chiesa di la nostra Maria.<br />

‘Na monachedda ‘nci cumpariu a latu<br />

“Pecchì ciangi devota mia ?”<br />

27


“Bella ‘gnura aiu lu sposu carceratu,<br />

ma pe’ ‘cchiù pena lu figghiu ‘nnegatu !”<br />

Nci dissi la Signora:<br />

“Vatindi figghia mia e non dubitari,<br />

e ‘pe setti mercolì pe’ Maria hai e digiunari.”<br />

Li marinai ettàru li riti ‘nta<br />

chiddu mari e cù ‘na fedi grandi.<br />

Iddi stessi restaru stupiti quando<br />

Tirare ‘nu picciriddu ciangenti.<br />

Li marinari restaru stupiti dicendu:<br />

“Figghiu, cu ti sarbau ?”<br />

“Fu la Madonnedda chi a fiancu<br />

di la me mamma ‘nc’appariu !”<br />

“Questo fu uno dei miracoli compiuti dalla Madonna <strong>del</strong> Carmine tanto tempo fa. Salvò il bambino<br />

e fece uscire il marito dal carcere!” concluse la mamma. Le figlie erano rimaste con gli occhi<br />

incantati, durante il racconto <strong>del</strong> miracolo. Poi una di esse chiese:<br />

“Mamma ci raccontate un miracolo <strong><strong>del</strong>la</strong> Madonna <strong>del</strong> Rosario? –<br />

“No, no ‐ rispondeva l’altra ‐ raccontateci un miracolo <strong><strong>del</strong>la</strong> Madonna dei poveri !”<br />

Alla fine Felicia le spediva tutte a letto seccata.<br />

La sveglia mattutina era anch’essa un rituale scandito dai soliti rumori, che tutta la <strong>famiglia</strong><br />

conosceva bene. I primi a passare erano i contadini, che si recavano verso gli orti, incrociando,<br />

contemporaneamente, le capre di massaro ‘Ntoni che, belando si fermavano, per abitudine,<br />

davanti alla porta dei clienti, come se una voce li obbligasse a farlo. Felicia o una <strong>del</strong>le due figlie<br />

più grandi, porgeva il “botto” (contenitore metallico) per il latte e, come al solito, rimproveravano<br />

il capraio:<br />

“Non fate tanta schiuma!” lo pagava e rientrava in casa.<br />

L’igiene, nella <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong>, era fondamentale. Ogni mattina tutte le signorine, comprese le più<br />

piccine, facevano toeletta. Scioglievano i capelli e li lavavano, dandosi il cambio l’una con l’altra o<br />

facevano il bagno dentro una vasca mobile di legno. Usavano saponi profumati che il Capitano o<br />

Enzo portavano dalle città lontane. Semmai ci fu proverbio più azzeccato per le sorelle, è stato:<br />

“Tutte per una, una per tutte !”. Le loro discussioni, non erano mai esagerate.<br />

28


6<br />

Una classe politica più lungimirante, come pure imprenditori illuminati, avrebbero dovuto, davanti<br />

a una tale rilevante attività economica, ammodernarsi e ammodernare le varie infrastrutture ivi<br />

presenti, seguendo la modernità che già camminava velocemente.<br />

Abbiamo già parlato <strong><strong>del</strong>la</strong> costruzione di un pontile d’approdo che il governo avrebbe dovuto e<br />

potuto costruire. Se ne parlò tanti anni prima . Questi era stato previsto già, nella L. <strong>del</strong><br />

20/11/1859, nr. D’ordine 27, ove s’indicava; “Gioia‐costruzione di un porto cabotaggio categoria<br />

3^‐1’’. La vicenda si evolve negli anni successivi con “Nota <strong>del</strong> 20/3/1886 <strong>del</strong> Genio Civile di Reggio<br />

Calabria alla prefettura di Reggio Calabria”. Si specificava che il porto o approdo di Gioia Tauro è<br />

classificato di 2^ categoria, 2^ classe, 2^ serie; che gli enti interessati al porto sono la provincia, i<br />

34 comuni <strong><strong>del</strong>la</strong> piana e qualcuno <strong><strong>del</strong>la</strong> provincia di Catanzaro.<br />

Secondo il T.U. erano porti di 2^ categoria i porti e gli approdi che servivano precipuamente alle<br />

attività commerciali; 2^ classe erano i porti che servivano una o più province e quelli dove le merci<br />

movimentate non dovevano essere inferiori a 25.000 tons, in ognuno degli anni <strong>del</strong>l’ultimo<br />

triennio. In data successiva si parla di boe d’ormeggio (1867‐1887) cioè, la pratica cominciata nel<br />

1868, solo nel 1886 il Genio Civile di Reggio Calabria parla <strong><strong>del</strong>la</strong> “intenzione” <strong>del</strong> Ministero dei<br />

LL.PP. di far “costruire un ponte sbarcatoio ed una boa d’ormeggio nello scalo di Gioia Tauro”. Con<br />

verbale successivo, 11‐3‐1889, la spiaggia di Gioia Tauro fu consegnata allo stato in conseguenza<br />

<strong>del</strong> D.L. <strong>del</strong> 3‐6.1888 che annoverò la spiaggia medesima fra i porti di 2^ categoria, 2^ classe ecc. A<br />

fronte di questo “A Gioia funzionava un Ufficio di Porto munito di regolare sigillo di ferro (R.D. 24‐<br />

7‐1885 n°3271); il D.L. conteneva una norma che affermava che i Comuni interessati, nonché la<br />

Provincia, avrebbero dovuto aiutare a sostenere il costo <strong>del</strong>l’opera (1894‐95). Naturalmente (sic !)<br />

i Comuni <strong><strong>del</strong>la</strong> Piana non aderirono al progetto … perché si sosteneva da più parti (Polistena nel<br />

1897) “che nessun utile ne sarebbe venuto a questo paese, perché non sono né marinai né altro,<br />

ma solo contadini …”<br />

Un’ottica, come si vede, molto corta. Ma, a parziale giustificazione <strong><strong>del</strong>la</strong> posizione sopradetta, c’è<br />

da dire:<br />

Sicuramente gli imprenditori ed i politici <strong>del</strong> tempo intuendo che la ferrovia, che in tutta Italia dava<br />

nuova linfa vitale alla pur arretrata economia italiana; che le macchine mosse dal motore a<br />

scoppio avrebbero ben presto messo all’angolo l’uso <strong>del</strong> veliero come infrastruttura utile di<br />

trasporto merci; il minor tempo, minor rischio, costi minori pensarono che non sarebbe più stato<br />

utile costruire un pontile d’approdo.<br />

Questi argomenti erano, spesso oggetto di discussione tra il <strong>Carresi</strong> con l’amico Achille Normanno<br />

che andava a salutare appena uscito dalla Chiesa Madre, mentre i suoi figli, ascoltavano assieme<br />

ad altra gente, un cantastorie che con dei quadretti disegnati ed appoggiati tutti assieme su un<br />

cavalletto di legno, raccontava le gesta <strong>del</strong> brigante Peppe Musolino, con tale partecipazione che<br />

incantava il pubblico presente. Finita la recita, la moglie <strong>del</strong> cantastorie passava con un piattino,<br />

raccogliendo ciò che la gente poteva dare.<br />

“Penso di fare gli ultimi imbarchi con la reale marina di Taranto alla guida di un rimorchiatore.”<br />

“Allora non farai più di questi viaggi ?” rispondeva il buon Achille Normanno.<br />

“Non conviene più … sono più le volte che si viaggia scarichi … il prezzo dei noli cala sempre più e<br />

non si coprono neanche le spese! Tu lo sai bene, visto che la merce, in parte, ti arriva col treno!”<br />

ripeteva sornione il Capitano, ridendo con allegria.<br />

“Guagliò!” rispondeva Don Achille con il suo accento campano: “Costa meno il viaggio in treno !”.<br />

29


L’emporio di Don Achille era allocato nel centro storico <strong><strong>del</strong>la</strong> città, di fianco al municipio e di fronte<br />

alla chiesa madre. In quello stesso palazzo, che fu la residenza di uno dei sindaci di Gioia Tauro, il<br />

Cav. Baldari, vi era anche allocata la caserma dei reali carabinieri (cambiarono sede in quegli anni).<br />

La chiesa era piccola, misurava appena 9,24 m x 18,48m ed un altezza di 6m, e per un paese che<br />

cresceva a vista d’occhio sia in estensione che in abitanti, non riusciva a contenere la quantità dei<br />

fe<strong>del</strong>i, il cui sentimento religioso, allora, era molto più sentito. Cosicché la curia vescovile di<br />

Mileto, da cui dipendeva Gioia, provvide a far costruire una chiesetta nel rione ferrovieri, che<br />

proprio allora, per la presenza <strong><strong>del</strong>la</strong> ferrovia, aveva incrementato il numero dei locali. La stessa<br />

decisione non fu presa per il quartiere <strong><strong>del</strong>la</strong> Marina: iniziata verso la fine <strong>del</strong> XIX° sec., venne<br />

interrotta per mancanza di mezzi finanziari. Fu completata verso il 1915 in legno.<br />

La vita civile <strong><strong>del</strong>la</strong> cittadina, si svolgeva nella citta<strong><strong>del</strong>la</strong> o “piano <strong>del</strong>le fosse”. Le signorine<br />

chiedevano perché la citta<strong><strong>del</strong>la</strong> si chiamasse in modo così contraddittorio. Il Capitano,<br />

pazientemente, spiegava loro che la città era nata su questo cucuzzolo, come si vede dalla marina,<br />

ma era pieno di cunicoli o fosse, dove gli abitanti, al tempo dei saraceni nascondevano le ragazze o<br />

la roba da mangiare.<br />

Un giorno mentre la famigliola (di solito le ragazze da marito) si trovavano in via commercio<br />

assieme al loro papà assistettero ad un a scena particolare: un uomo guidava un carrozzino con un<br />

cavallo bianco; era grande e grosso il conduttore, con un grosso paio di baffoni, pantaloni di<br />

velluto scuri e una giacca chiara con una paglietta sulla testa. Le sorelle notavano la deferenza con<br />

cui le persone lo salutavano, qualcuno addirittura saliva sul carrozzino e gli baciava la mano come<br />

fosse il papa o il re.<br />

“Padre chi è quell’uomo ?”<br />

“Uno che è meglio non conoscere.”<br />

“Ma perché gli baciano la mano ?”<br />

“Perché la gente ha paura di lui: è un poco di buono, un <strong>del</strong>inquente, figlio <strong>del</strong> diavolo !”<br />

A quelle parole le sorelle si segnavano con il segno <strong><strong>del</strong>la</strong> croce.<br />

Stava intanto per finire uno dei periodi più pacifici per l’Europa … il primo segnale fu la guerra<br />

italo‐turca. Sull’onda <strong>del</strong>le altre potenze europee, anche l’Italia cercava il suo posto al sole. La<br />

giustificazione gliela fornì la Francia, che aveva posto il protettorato sul Marocco. Così Giolitti<br />

occupò la Libia e al canto di “Tripoli bel suol d’amore …” l’annesse alla scadenza <strong>del</strong>l’ultimatum al<br />

sultano di Costantinopoli. Dopo poche scaramucce, la Turchia sia arrese e l’Italia occupò le isole<br />

<strong>del</strong> Dodecanneso, così chiamate perché erano dodici, poste al largo <strong><strong>del</strong>la</strong> Turchia. Isole montuose<br />

e brulle, un paesaggio carsico. Qui si viveva di pesca, agricoltura, allevamenti di ovini.<br />

Gli equilibri europei si stavano rompendo.<br />

Dopo qualche giorno <strong>Carresi</strong> partì al comando di un vapore, il piroscafo “Tirreno”, invece che per<br />

Taranto. Era una nave che faceva spola tra Amantea e Salerno, adibita al trasporto sia di merci<br />

varie, sia passeggeri.<br />

Dopo aver salutato gli amici più cari, i Gambar<strong><strong>del</strong>la</strong>, Normanno ed altri commercianti, s’imbarcò<br />

sul treno e ad Amantea prese il comando <strong>del</strong> piroscafo Tirreno.<br />

Il 1912 fu un anno pieno e denso di avvenimenti per la <strong>famiglia</strong> <strong>del</strong> Capitano. Fortunata e<br />

Francesco non si erano dimenticati l’uno <strong>del</strong>l’altro. Un bel giorno Francesco inviò una lettera<br />

all’amata ragazza. La lettera la invitava a rompere gli indugi ed a fuggire con lui, se, ancora lo<br />

amava. Fortunata accettò senza pensarci due volte. Fuggirono lasciando alle rispettive famiglie<br />

una lettera dove spiegavano il loro gesto.<br />

Felicia quando lesse la lettera cominciò a strillare come un’ossessa:<br />

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“Che vergogna ! Che vergogna ! In questa casa onorata … dove mai era successa una cosa <strong>del</strong><br />

genere, <strong>Di</strong>o mio, <strong>Di</strong>o mio !” girava per le stanze e si strappava i capelli come avesse il morto in<br />

casa, spaventando così il piccolo Ciro. Carmela, lo prendeva in braccio e lo calmava,<br />

allontanandolo dalla guerra. La reazione di Felicia, come spesso le accadeva, fu spropositata<br />

rispetto all’avvenimento. Chiuse tutte le finestre come fosse un lutto (allora così si faceva per una<br />

fuitina ). Naturalmente i vicini, più per curiosità morbosa che per la comprensione, chiedevano<br />

cosa fosse successo. Le signorine a questo punto dovevano spiegare l’accaduto. Questa volta la<br />

tempesta, neanche il Capitano potè evitarla. Non si era reso conto che sua figlia, lungi dall’essersi<br />

dimenticato di Francesco, era invece tanto decisa. Lui, a cui bastava uno sguardo per capire le<br />

intenzioni e le reazioni umane. Eppure sua figlia aveva ingannato la sua sensibilità. Come aveva<br />

ragione Felicia a preoccuparsi ! sentiva che Fortunata evitava lo sguardo suo. Ma i suoi genitori<br />

contavano sul tipo di educazione impartita ai figli: rispetto, onore, morale cristiana e altruismo.<br />

Evidentemente per Fortunata il prossimo era rappresentato da Francesco. Cosicché il Capitano, si<br />

vide un giorno recapitare un telegramma sul piroscafo: “Vieni subito tua figlia Fortunata stop<br />

scomparsa stop Felicia “.<br />

Con un telegramma così concepito, immaginate la paura che il povero Capitano si prese.<br />

Immediatamente chiese licenza all’armatore. Anzi lo stesso armatore si preoccupò di<br />

tranquillizzare <strong>Carresi</strong> facendolo parlare con il sindaco. Che informatisi esclusero incidenti fisici,<br />

ma solo sentimentali.<br />

Il Capitano rientrò a Gioia e quello fu il viaggio più tempestoso <strong><strong>del</strong>la</strong> sua vita !<br />

“Ne ho passati di mari tempestosi, ma come questo mai !” così diceva mentre la carrozza si<br />

avvicinava a casa sua.<br />

La trovò ancora con finestre e porte sbarrate: alla messinscena mancavano solo i manifesti a lutto,<br />

e Felicia con l’oltraggio stampato sulla faccia:<br />

“Hai visto che ha combinato quella svergognata ? E’ fuggita con quel poco di buono … è una casa<br />

disonorata !”<br />

Questa volta <strong>Carresi</strong> non la prese bene:<br />

“Smettila ! Ma ti rendi conto che telegramma mi hai mandato? Torna subito Fortunata<br />

scomparsa…? Cosa avrei dovuto pensare? E poi, quale onore hai perso ? Noi abbiamo sbagliato a<br />

negare l’esistenza <strong>del</strong> suo amore!<br />

Chiuderemo la storia con il matrimonio … è tutto qui, chiaro? Ora andrò a parlare con i genitori di<br />

lui.” Bevve una tazza di caffè, si lavò viso e mani, si cambiò d’abito e si avviò verso il domicilio <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

<strong>famiglia</strong> Orlando, con il suo bastoncino, il cappello all’americana, ed un cappotto blu con martin<br />

gala.<br />

Camminava a passo svelto e deciso verso la casa di quei signori e stranamente a testa bassa.<br />

Lui, che assomigliava a una torre di guardia per come era impettito, col collo dritto e i suoi occhi<br />

che guardavano sempre avanti, si fosse trattato <strong>del</strong> mare in burrasca o di qualche poveraccio che<br />

aveva bisogno di aiuto. Ma le sue erano scottature morali.<br />

“Se non fosse successo sarebbe stato meglio” pensava il Capitano. “Ma al cuor non si comanda. E<br />

questa umiliazione ce la siamo cercata col lanternino.” Mugugnava mentre scansava le<br />

pozzanghere molto numerose esistenti sul selciato che da casa sua portava fino a casa Orlando. Si<br />

sentiva umiliato perché la figlia, con un colpo di spugna, aveva cancellato tutti i suoi insegnamenti<br />

… come se anche le altre sorelle potessero, da allora in poi, seguire l’esempio di Fortunata; e<br />

immaginava i “mali vicini” che in quello stesso momento sghignazzavano contro di lui, li vedeva<br />

che si tenevano la pancia mentre il loro ombellico sussultava per le risate. “Meglio non pensarci !”<br />

Era contrito perché capiva di avere sbagliato con la figlia, impedendo l’amore tra i due. “Questo<br />

succede quando i figli non si confidano con i genitori, perché noi non li capiamo; non vedono in noi<br />

degli amici a cui far conoscere i propri problemi. Ma è un peccato, Gesù mio, quello d’amare una<br />

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persona fino al punto da combattere contro convenzioni e convinzioni ? E’ l’amore che muove il<br />

mondo e lo fa vivere. Esso è nato dall’amore di <strong>Di</strong>o e per amore <strong>del</strong>l’umanità ha sacrificato il figlio.<br />

Allora qual è il peccato ? Chi fa un atto per amore, o chi quell’atto vuole impedire per egoismo ?<br />

Dammi luce tu, mio <strong>Di</strong>o, e forza per trovare la via !”.<br />

Mentre la folla di pensieri lo torturava arrivò nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong> bottega <strong>del</strong>lo zio di Francesco, Peppe<br />

Orlando. Questi notando il <strong>capitano</strong> uscì e gli andò incontro e disse:<br />

“Capitano <strong>Carresi</strong>, io sono un uomo d’onore e ne rispondo per tutta la <strong>famiglia</strong> mia; vi darò tutte le<br />

soddisfazioni che volete ! Stabilite voi la data e tutto il resto e si riparerà la situazione”. Il Capitano,<br />

in verità, fu sorpreso dall’anticipo di mastro Peppe Orlando e dalla sua risposta perentoria.<br />

“Ci sono rimasto male, mastro Peppe, ma chiudiamo questa storia subito discutendo di ciò che si<br />

deve discutere. Facciamo rientrare gli sposi. Se sapete dove sono !”<br />

Mastro Peppe di rimando:<br />

“Non lo sappiamo manco noi dove siano, ma lo sa un suo caro amico di sicuro: Mastro Peppe<br />

Tomaselli ‘u burdino !”.<br />

“Bene! ‐ disse il Capitano ‐ vi aspetto questa sera alle diciassette a casa mia!” Quel pomeriggio di<br />

gennaio <strong>del</strong> 1912, puntuale come un orologio svizzero, la <strong>famiglia</strong> Orlando si presentò in casa <strong>del</strong><br />

Capitano. Essi discussero degli aspetti più materiali <strong>del</strong> matrimonio ed il 14 marzo 1912 Francesco<br />

e Fortunata si sposarono prima civilmente e poi in Chiesa, coronando il loro sogno d’amore al<br />

grido augurale:<br />

“Auguri e figli maschi !” (sic !)<br />

Nel settembre <strong>del</strong>lo stesso anno nacque il primogenito <strong><strong>del</strong>la</strong> novella coppia, cui fu dato il nome di<br />

Francesco come il nonno paterno, accontentando così anche quello materno. I due sposi<br />

andarono ad abitare in una casetta nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong> falegnameria. I mobili furono costruiti nella<br />

bottega di mastro Peppe, con l’aiuto di Paolo e Nino fratelli di Francesco.<br />

IL Capitano mentre leggeva “Il giornale d’Italia” non poteva fare a meno di dire amaramente,<br />

quando alla fine <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra italo‐turca si affermava retoricamente: “Si porterà una grande civiltà,<br />

una grande economia,quella italiana in quelle contrade:<br />

“Ma guarda che imbroglioni, nel sud d’Italia scarseggia tutto: strade, soldi, salute e si spendono<br />

denari per portare la grande civiltà italiana in Libia: se la grande civiltà è questa, stanno freschi i<br />

Libici ! Non potevano utilizzarli qui quelle finanze?”.<br />

Anche per una persona istruita come lui, era difficile capire quali meccanismi si mettessero in<br />

moto, quali interessi giocassero quando si prendevano tali decisioni. E’ come il famoso sassolino<br />

che cadendo dalla cima provoca una frana inarrestabile. Il <strong>capitano</strong> dopo la vicenda familiare<br />

conclusasi felicemente, era ripartito verso Amantea. Qui riprese il comando <strong>del</strong> piroscafo “Tirreno”<br />

ed a Salerno si recò a ringraziare l’armatore. Su questo piroscafo navigò esattamente per 36 mesi<br />

e 20 giorni. Rientrò verso la fine <strong>del</strong> 1914, quando quel famoso equilibrio europeo si era rotto:<br />

l’erede al trono austro‐ungarico Francesco Ferdinando fu assassinato da un croato. L’Italia nella<br />

prima fase <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra si mantenne neutrale. Ma le tensioni sociali erano al calor bianco tra<br />

interventisti e neutralisti.<br />

32


7<br />

Nei primi anni <strong>del</strong> secolo, uno status‐simbol era rappresentato dalla fotografia. La foto fatta in un<br />

salotto, vero o falso che fosse, distingueva la gente abbiente, rispetto al popolino. Non per la foto<br />

in se stessa, ma, perché in essa si racchiudeva l’unità <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong>, il suo valore, il focolare, il<br />

rifugio ultimo di ogni vita umana. La foto fatta in un salotto costituiva la cornice, l’imprimatur di<br />

<strong>famiglia</strong> moderna. Anche cantare o conoscere le canzoni napoletane o le romanze, era un<br />

elemento di distinzione sociale tra fasce abbienti ed il popolo basso, che si sollazzava con<br />

tarantelle. Alla modernità sociale il Capitano <strong>Carresi</strong> ci teneva molto, pur dovendo ammettere che<br />

con la moglie era una guerra perduta. Felicia non intendeva cambiare il suo piccolo mondo, fatto<br />

di cose semplici, di abitudini e abiti che non cambiavano mai; non volle mai indossare un abito<br />

diverso da quello ereditato.<br />

Nel 1914 Fortunata partorì il secondogenito, a cui fu dato il nome di Vincenzo. Quando <strong>Carresi</strong> era<br />

in licenza, spesso, si recava presso l’agente marittimo Tarantino.<br />

Avete mai visto due uomini parlare, quando s’incontrano, di aspetti diversi <strong>del</strong> proprio lavoro ? E’<br />

difficile.<br />

“Stiamo quasi per chiudere, caro Capitano …”diceva Tarantino.<br />

“Lo so bene, per questo ho preso il patentino di prima … per pilotare i piroscafi … ormai i velieri<br />

hanno chiuso , non hanno più futuro.<br />

Solo il naviglio motorizzato e a struttura in ferro può essere concorrenziale al treno …”,<br />

“Già”‐ rispondeva Tarantino mentre si puliva gli occhiali con un fazzoletto‐, E i soldi chi li mette per<br />

rimodernare il naviglio? Non ci sono neanche banche a Gioia che ha un simile giro economico “.<br />

In effetti le uniche banche presenti avevano sportelli solo a Palmi. La prima che mise piede a<br />

Gioia Tauro fu il Banco di Napoli, fortemente voluto dai Serra‐Cardinale sposata Musco,<br />

consigliere di questo istituto di diritto pubblico, nel 1915.<br />

“Ci voleva l’intervento <strong>del</strong>lo stato ‐ diceva il Capitano. Ora non è più possibile, con la<br />

nazionalizzazione <strong><strong>del</strong>la</strong> ferrovia dove prendono i soldi?” “Questa è la mazzata finale per il nostro<br />

naviglio !” rispondeva il Tarantino.<br />

Uscendo l’agente Tarantino raccontava al Capitano <strong>Carresi</strong> <strong>del</strong> naufragio <strong>del</strong> veliero “Nuovo<br />

Peppino” davanti la costa di Termini Imerese con 40 botti di olio. Per un forte vento di scirocco…”.<br />

“Già, lo scirocco”‐ rispondeva il Capitano‐ Spesso è considerato un vento da quattro soldi, ma se<br />

non si sa prendere è pericoloso tanto quanto il maestrale !”.<br />

L’agente Tarantino mandava poi uno scrivano a sdoganare la merce arrivata col brigantino‐goletta<br />

S.Giovanni di 158 tons <strong>del</strong>l’armatore Patamia Francesco, proprietario per 16 carati e di Costa<br />

Antonino per 8 carati. Si trattava di granaglie e legname.<br />

“Gran bel veliero il S. Giovanni ‐ affermava Tarantino.<br />

“Veloce e solido …”.<br />

“Mi pare che sia di recente costruzione … “ rispondeva il <strong>Carresi</strong><br />

“Si, circa tre anni e mezzo … ‐ rispondeva l’agente..<br />

Poco discosto dalla dogana vi era in manutenzione una goletta <strong>del</strong>l’armatore Gentile di Palmi. Era<br />

un vecchio veliero, a cui il mare in burrasca , il caldo e il freddo, avevano cambiato colore; la sua<br />

carena scura sembrava il terreno di un orto; lo scafo era coperto di alghe sia verdi che brunite. I<br />

suoi alberi dritti e l’ossatura erano state costruite col miglior legno calabrese; il ponte era<br />

consumato dai passi compiuti da decine di marinai; le sartie legate agli scalmi metallici sui<br />

parapetti salivano verso la cima degli alberi, poi con abile salto si incrociavano con altre corde che<br />

attraversavano il veliero; due fori, che sembravano due occhi, uscivano ai lati <strong><strong>del</strong>la</strong> prua con<br />

l’ancora penzoloni e le gomene arrotolate sui paranchi. Le corde di canapa scorrevano dentro<br />

bozzelli di legno duro, castagno o noce di solito, scorrevoli su cuscinetti metallici pieni di sego.<br />

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I due uomini si fermavano nei pressi <strong>del</strong> veliero ne osservavano il fasciame che era stato da poco<br />

raschiato dal maestro d’ascia mastro Nino assieme al calafataro mastro Nicola.<br />

“Questo fasciame‐ diceva il Capitano con competenza ‐ E’ deformato, sarebbe da sostituire: non<br />

reggerà per molto la pressione <strong>del</strong>le onde”.<br />

“Capitano”, rispondeva mastro Nino mentre fumava il suo trinciato, Io metto l’asino dove vuole il<br />

padrone … loro vogliono solo ritocchi ed io ritocco !”<br />

“Oh certo! ‐ rispondeva <strong>Carresi</strong> ‐ se è sufficiente per l’armatore, lo è anche per me!” e sorrideva<br />

allontanandosi. Poi qualche vecchio amico lo incontrava e discuteva <strong>del</strong>le condizioni<br />

meteorologiche, il Capitano alzava gli occhi su nel cielo, arricciava le narici e sentenziava:<br />

“Sta cambiando la direzione <strong>del</strong> vento … Se avrà forza ci sarà “lavatura”. Quando faceva siffatte<br />

affermazioni era difficile contestarlo.<br />

Nei primi anni <strong>del</strong> secolo, il veliero aveva raggiunto il massimo <strong><strong>del</strong>la</strong> perfezione sul piano<br />

strutturale. Già da anni si usava la carena in rame. A seconda <strong>del</strong> tonnellaggio <strong>del</strong> veliero si<br />

frazionava la velatura, per sfruttare meglio il vento anche ad altezze elevate; allo scopo di<br />

stringere meglio il vento si montavano rande leggere ma robuste.<br />

Le vele di cotone pesante o di tela venivano usate per naviglio a tre alberi; cotone leggero per il<br />

naviglio più piccolo.<br />

Il tre alberi era un veliero che toccava tutti i porti <strong>del</strong> mediterraneo e superava le cento<br />

tonnellate. L’albero di maestra piantato a centro scafo, era composto in alto da i “velacci”; a metà<br />

albero dalle vele di “gabbia”; nella parte inferiore dalla vela “maestra”.<br />

L’albero di trinchetto composto, al massimo, da cinque vele e relativi “pennoni” stava allocato a<br />

prua; l’albero di “mezzana”, il più corto, costituito da vele “belvedere”, vele di contromezzana,<br />

vele di mezzana.<br />

Le “sartie”, fissate allo scafo, sui fianchi fin su gli alberi, erano composte da lunghe corde che<br />

fissavano l’albero <strong><strong>del</strong>la</strong> nave, lo irrigidivano; queste lunghe corde erano legate trasversalmente tra<br />

loro formando dei gradini, che permettevano di raggiungere la “coffa” o i pennoni superiori. Sotto<br />

l’albero di mezzana vi era posta la “randa”, una vela “aurica”, inferiormente al “boma” e nella<br />

parte superiore al “picco”. A prua stavano fissati i “fiocchi,” vele di tipo latino dette anche di<br />

“taglio”.<br />

I vecchi marinai sapevano che il veliero si muoveva con le vele degli alberi superiori solo quando il<br />

vento veniva dritto alle stesse: con vele latine (fiocco, contro fiocco) il vento poteva anche essere<br />

di taglio per far muovere il bastimento.<br />

I maestri d’ascia guidavano il montaggio dei vari elementi che componevano un veliero: questi era<br />

pronti da un pezzo in zona. Poi il veliero veniva assemblato. Il calafataro, a sua volta, riscaldava la<br />

“pece bianca e nera” proveniente dai boschi calabri ed impermeabilizzava l’imbarcazione assieme<br />

alla “stoppa”.<br />

<strong>Carresi</strong> osservava assieme al Tarantino quelle operazioni di montaggio eseguiti con paranchi<br />

manuali, nel vocio <strong>del</strong>le tante persone che ruotavano attorno al veliero. E in tanto movimento ogni<br />

tanto chiacchierava con il padrone marittimo Luigi Purrone, commerciante <strong><strong>del</strong>la</strong> marina. Il<br />

Capitano gli chiedeva informazioni <strong>del</strong> cutter “San Giuseppe” acquistato in Sicilia ma costruito nel<br />

1892, un po’ vecchiotto.<br />

“Vecchiotto? … il San Giuseppe?” affermava Luigi Purrone sgranando gli occhi per la meraviglia.<br />

“Ancora non ha fatto i 50 anni di navigazione!” e il suo viso bonario si apriva in un simpatica risata<br />

che dilatava i suoi baffoni a manubrio.<br />

“Questo veliero si fermerà quando il mare si prosciugherà!” E giu un'altra risata che si trascinava<br />

anche il serioso Capitano <strong>Carresi</strong>.<br />

34


“E il mio San Giuseppe avrà, fra poco, un altro santo in compagnia, il San Ciro, così si va tutti in<br />

paradiso!”. E tutti a ridere. Era un gran mattacchione Luigi Purrone.<br />

Al suo rientro a casa, <strong>Carresi</strong> trovava la moglie alle prese con il piccoletto, lo trastullava assieme<br />

alle figlie: il Capitano lo prendeva in braccia, lo baciava e lo sollevava in alto. Come d’abitudine si<br />

sedeva si toglieva scarpe e calze e si medicava quella fastidiosa unghia incarnita <strong>del</strong> piede destro.<br />

Poi cominciava la lettura <strong>del</strong> giornale e non poteva fare a meno di scuotere la testa e di borbottare<br />

qualcosa. Felicia nel sentirlo esclamava:<br />

“Che hai? Che dici?”.<br />

“Nulla di tranquillizzante Felicia … che i governi europei fanno di tutto per far entrare l’Italia in<br />

guerra; non sono stanchi di contare morti … e oltretutto contro i cattolici austro‐ungarici !”. Felicia<br />

si faceva il segno <strong><strong>del</strong>la</strong> croce come per allontanare la tempesta che si avvicinava esclamando:<br />

“Mio <strong>Di</strong>o ! Può essere pericoloso per te !”.<br />

“No per me no … per i giovani, per i poveri !”.<br />

35


8<br />

Avevamo lasciato i due sposi nelle loro casa con due figli ancora piccoli. Spesso Fortunata si<br />

recava dai genitori, in modo particolare quando uno dei figli stava male. Felicia dava i suoi saggi<br />

consigli: toccava le parti più <strong>del</strong>icate dei bimbi, con una lieve pressione sul loro pancino sentiva se<br />

vi fosse presenza d’aria; toccando le orecchie la presenza di un’ otite e poi il rimedio erboristico in<br />

uso.<br />

A Francesco non andava giù che la moglie si allontanasse da casa: il suo era un amore totalizzante<br />

ed il solo immaginare lo sguardo lussurioso degli uomini, gli faceva fare solenni litigate con<br />

Fortunata.<br />

Ma tutto finiva, poi, in un abbraccio finale. Anima e corpo si fondevano, si sublimavano. Poi, come<br />

seguendo un programma scritto, discuteva <strong>del</strong> futuro <strong><strong>del</strong>la</strong> sua <strong>famiglia</strong>, dei suoi figli che voleva<br />

professionisti o imprenditori: i sogni, normalissimi, di tutti i padri.<br />

La sociologia chiama questi desideri, valori borghesi (piccola‐media‐borghesia). In questo senso la<br />

parte <strong>del</strong> leone la facevano le donne. Si ostentava sempre qualcosa che gli altri non avevano.<br />

L’incontro fra queste in piazza o nel recarsi in chiesa, era un chiacchiericcio continuo su vestiti,<br />

figli, i loro successi, la casa … era un grande incrocio di situazioni, di giustificazioni, di parole dette<br />

e ridette in maniera tale che la vicina o la parente o la comare sentisse bene quel che aveva<br />

poc’anzi affermato; l’altra per contro scienza ribatteva sullo stesso argomento. Era un rincorrersi<br />

continuo e tutto finiva senza né vinti né vincitori.<br />

Francesco da uomo sveglio e d’iniziativa, cercava di convincere lo zio Peppe ad allargare il giro<br />

d’affari <strong><strong>del</strong>la</strong> falegnameria. Ma mastro Peppe non era d’accordo. Francesco, bestemmiando come<br />

un turco andava via e sfogava con la moglie:<br />

“Io mi separo da mio zio, lavorerò per conto mio, sangue <strong>del</strong> diavolo! Non capisce che la<br />

falegnameria arranca. Bisogna allargare il giro, variare le opportunità, partecipare alle gare<br />

d’appalto bandite dalla ferrovia, per la riparazione <strong>del</strong>le carrozze, dei posti a sedere, non fermarsi<br />

ai mobili soltanto o alle botti.Ma mastro Peppe non si convinceva. Il lavoro che aveva gli bastava a<br />

mantenere la <strong>famiglia</strong> ed a sposare le sue figlie femmine. Alla fine Francesco insistendo la spuntò.<br />

“Però, queste cose te le segui tu. Io non ne capisco molto di appalti!”‐ disse, non convinto mastro<br />

Peppe Orlando.<br />

La moglie, come tutte le mogli, interveniva poco in certe questioni degli uomini.<br />

Quando Francesco era alterato, ascoltava, con la consueta espressione melanconica, quello che le<br />

sembrava uno sfogo <strong>del</strong> marito. A volte rispondeva sì; a volte, quando un’ombra le passava<br />

davanti agli occhi, si preoccupava ed esprimeva il suo parere:<br />

“Ma zio Peppe, forse, si preoccupa che possa andare male …”<br />

“Ma non si può stare tutta la vita ad avere paura che le cose possano andare male! E se va male<br />

pazienza! Dobbiamo guardare avanti! Ma se lui non si convince, non lo posso obbligare. Ma<br />

neanche lui può obbligare me! Rispondeva irato Francesco. Ma dopo il si <strong>del</strong>lo zio Peppe, non si<br />

parlò più <strong><strong>del</strong>la</strong> nuova iniziativa. Un altro servizio di grande valenza allora, era il trasporto a trazione<br />

animale. Per passeggeri e merci. Era tanto importante ed esercitato da tanta gente da fondare<br />

una società di Mutuo Soccorso. Questa esisteva, in modo non ufficiale, sin dal 1884 …” nell’anno<br />

1884, Giuseppe Bagalà, con la collaborazione di pochi altri, si rendeva promotore <strong><strong>del</strong>la</strong> fondazione<br />

<strong>del</strong> sodalizio, <strong>del</strong> quale, diveniva primo presidente.” … “Presidente onorario fu nominato,<br />

all’unanimità , il Comm. Francesco Tripodi, Sindaco di Gioia a cavallo tra fine ‘800 ed il ‘900”.<br />

Ufficialmente la S.M.S vetturale si costituì nel 1890.<br />

La vettura a trazione animale, fu per tantissimi anni il solo mezzo che collegava Gioia con l’interno<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> Piana ed i paesi litoranei; fino a quando il treno non sostituì, e, negli anni successivi, anche la<br />

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ferrovia secondaria, questo tipo di trasporto. Della ferrovia a scartamento ridotto si parlava fin<br />

dall’ultimo decennio <strong>del</strong> 19° secolo. Ma era ancora fiorente il trasporto animale negli anni in<br />

corso, almeno sui tratti brevi; per qualche urgenza, senza obbligo di aspettare gli orari fissi dei<br />

treni. La grande quantità di questi mezzi in attività, voleva dire una serie di attività collaterali:<br />

falegnami, conciatori di pelli, sarti per mantici, maniscalchi per i cavalli … le vetture sostavano<br />

davanti alla stazione ferroviaria, specie all’orario di arrivo dei pochi treni che vi passavano, oppure<br />

nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong> spiaggia per trasportare qualche passeggero o traini più grandi per il trasporto di<br />

merce varia. La vita nei paesi <strong>del</strong> sud era scandita da poche cose rituali: una vita semplice, umile,<br />

che prevedeva tanta fatica nella case e tanta fatica degli uomini a lavoro. Gli unici sussulti<br />

provenivano o dal banditore comunale, qualche festività o matrimonio o funerale; il massimo era<br />

qualche omicidio.<br />

Uno spettacolo caratteristico da vedere era un matrimonio. Gli sposi, con tutti gli invitati, erano<br />

costretti a fare una bella sfacchinata con il corteo per raggiungere la chiesa e, poi, rientrare in<br />

casa per i festeggiamenti, a base di vino e di qualche dolce casalingo, Alla fine, fra gli strati<br />

popolari, la festa si completava con una tarantella. Anche il funerale seguito dal lutto era uno<br />

“spettacolo” niente male.<br />

Una volta Felicia, fu chiamata perché l’anziana zia Sara era morta durante la notte. Naturalmente<br />

la si doveva vestire come convenzione. Un vestito, quello che indossava normalmente, scarpe (se<br />

le aveva), pettinatura curata. Ma non tutti erano in grado di farlo. Più che il garbo , era la paura o il<br />

dolore che impediva ai parenti di intervenire direttamente. Così Felicia, accompagnata dalla figlia<br />

Carmela compiva il doloroso compito di vestire la defunta. Mentre i parenti davano inizio alla<br />

perfetta scenografia <strong>del</strong>l’avvenimento. Cominciavano a piangere, a strapparsi i capelli, a gridare in<br />

maniera tale da far paura. E questa sceneggiatura durava tre giorni interi (i parenti si davano il<br />

cambio). Così si dimostrava affetto alla defunta di fronte alla società. Anche se, ed accadeva<br />

spesso che, in vita non fosse affatto rispettata. Spesso capitava che i parenti, incapaci di esternare<br />

il loro dolore, “assumevano” una o più donne che piangessero al loro posto. E queste donne, da<br />

brave attrici consumate, ai bordi <strong><strong>del</strong>la</strong> bara, nella stanza addobbata per l’occasione con il murale<br />

ed i grossi ceri attorno alla bara, tutti gli specchi coperti, le donne decantavano le doti <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

defunta o <strong>del</strong> defunto. Mentre gli uomini nell’altra stanza, vestiti di nero e con le barbe lunghe,<br />

ricevevano le persone.<br />

Così, l’osservatore estraneo pensava che fosse soddisfatto il <strong>Di</strong>o <strong>del</strong> cielo, la morta o il morto, e, in<br />

primo luogo, era soddisfatta la convenzione sociale. Poi arrivava il prete, le corone, i soci <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

società con tanto di bandiera a mezz’asta e in lutto. Il defunto veniva accompagnato fino al<br />

cimitero. La Società di M.S. a cui il defunto apparteneva provvedeva a tutte le spese: bara,<br />

ornamenti, carro funebre intarsiato ed addobbato con paramenti a lutto, in armonia con i cavalli<br />

alluttati pur essi.<br />

Le occasioni per uscire, nei paesi <strong>del</strong> sud, erano “garantite” dal rito religioso: era la grande<br />

occasione per le figlie in età da marito. Le portavano in chiesa per la Santa Messa. Le giovinette,<br />

addestrate in precedenza, giravano gli occhietti, maliziosamente, per guardare qualche giovanotto<br />

interessante o già da tempo in “occhiata”, che, di solito, erano tutti raccolti in fondo alla navata,<br />

quasi si vergognassero di stare assieme alle donne con i veli in testa: esse erano tutte sedute<br />

avanti. Alla fine <strong><strong>del</strong>la</strong> Santa Messa, gli uomini uscivano per primi, si mettevano con le loro<br />

pagliette o berretti vari, pantaloni di fustagno marrone e giacche attillate, con camicia a colletto<br />

tondo bianca e baffoni alla moda, il cravattino.<br />

37


9<br />

Francesco partiva col suo inseparabile amico Peppe u burdinu e rientrava con i bandi <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

ferrovia.<br />

Quando scoppiò la guerra e l’Italia aveva annunciato il suo ingresso nella contesa il 24 maggio<br />

1915, il Capitano <strong>Carresi</strong> aveva lasciato la rotta Amantea‐Salerno ed il comando <strong>del</strong> piroscafo<br />

“Tirreno”. Fece qualche viaggetto con compagnie locali: prima col piroscafo “Pietro Micca”; poi<br />

con la Rosina Barone goletta a due alberi,per viaggi fra Messina, Palermo, Napoli.<br />

Nel pieno <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra fu chiamato al comando <strong>del</strong> piroscafo “Storione”; poi il Genio Marina di<br />

Taranto gli affidò il comando <strong>del</strong> rimorchiatore “<strong>Di</strong>ana”, viaggi: Crotone‐Taranto.<br />

Ma Gioia, come affrontò l’evento <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra? Niente di straordinario. Come tutti i paesi italiani.<br />

La gente bene era favorevole all’intervento armato, considerandola una “guerra d’indipendenza”:<br />

ma consideravano che a combatterla fossero gli altri. I poveri non avevano né potere d’ evitare che<br />

la guerra si facesse, né il potere di evitare che la guerra la combattessero loro stessi; la piccola e<br />

media borghesia artigiana locale (la gran maggioranza) professionale, marinara era favorevole<br />

all’intervento perché pensavano che avrebbe incrementato l’ attività economica e la crescita dei<br />

noli; i socialisti (che a Gioia erano pochini) erano, in campo nazionale, schierati contro l’intervento,<br />

perché a morire ci andava la sua base elettorale; i cattolici contro, per quella visione universale<br />

<strong>del</strong>l’amore di <strong>Di</strong>o e <strong>del</strong> prossimo. La grande borghesia agraria, industriale; i papaveri militari erano<br />

favorevoli. Ed avendo, costoro, il potere politico in mano dichiararono guerra all’impero austro‐<br />

ungarico.<br />

Mico il fornaio vendeva pane, ed ascoltava il padrone marittimo Gentile, sostenitore <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

liberazione <strong>del</strong> Trentino da:<br />

“Quei senza <strong>Di</strong>o degli austriaci. Quello è territorio italiano e devono restituirlo agli italiani.”<br />

“Come, padre Vincenzo, i governanti si ricordano dopo 50 anni che il Trentino è italiano? Prima<br />

fanno i balli assieme, poi, si ricordano dei trentini e dichiarano guerra a questi senza <strong>Di</strong>o, come<br />

dite voi, e sono cattolichi come noi!”<br />

“Ma quali balli assieme? E’ la politica questa … e noi non la possiamo capire! A mio figlio lo farò<br />

arruolare, se vuole, e chi ha fegato lo faccia!”.<br />

“Padre Vincenzo, c’è la leva obbligatoria! Lo chiamano per forza, come chiameranno mio figlio<br />

Gaetano !”<br />

A volte la discussione si accendeva in piazza: era un caos incredibile, ognuno diceva la sua, che,<br />

poi, era la stessa cosa; ma ognuno voleva il primato di averla detta prima degli altri !<br />

Mico il fornaio s’incavolava di brutto quando si sosteneva da più parti che con la guerra ci<br />

sarebbero stati affari per tutti.<br />

“Testoni, possibile che a nessuno di voi viene in mente che la guerra uno la può perdere ? Allora<br />

che cazzo ci guadagni? Anzi‐ tuonava Mico ‐ fateli partire subito i vostri figli prima che finisca!<br />

Tanto chi ci lascia la pelle sono sempre i poveracci! Mentre i ricchi hanno tutti i mezzi per non fare<br />

il soldato oppure stanno al comando !”.<br />

Mico si accalorava sempre, per carattere a dire la verità, ma diceva grandi verità, mentre infilava la<br />

lunga pala dentro la larga bocca <strong>del</strong> forno, per estrarne il pane caldo, caldo, sudato e con la farina<br />

sulla sua faccia che formava una colla speciale.<br />

Anche suo figlio Giuseppe, gran lavoratore, che aveva scelto il lavoro <strong>del</strong> padre e non il marinaio,<br />

cercava di calmarlo, con quella faccia da bravo ragazzo; un faccione tondo e le labbra grosse,<br />

capelli biondi confusi con il bianco <strong><strong>del</strong>la</strong> farina, che gli davano un’ aria seria, fidanzato con una<br />

ragazza <strong>del</strong> luogo detta “sturni”:<br />

38


“Non ve la prendete papà, tanto è inutile … Se “quelli lassù” hanno deciso per la guerra, noi la<br />

dobbiamo combattere, pur non volendo “.<br />

Mico il fornaio aveva, di ben donde, a preoccuparsi <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Gaetano il figlio maggiore, come<br />

nocchiere a bordo di un incrociatore <strong><strong>del</strong>la</strong> Reale Marina Italiana. Peppino partito qualche anno<br />

dopo in fanteria verso il Trentino.<br />

Peppino rientrò in una bara, colpito da pallottole nemiche mentre, in quelle fasi convulse e inutili, i<br />

soldati andavano alla baionetta a riprendere posizioni perdute qualche ora prima. E se lo sentiva<br />

Peppino ch’era giunta la sua ora. Prima <strong>del</strong>l’ennesimo attacco scrisse una lettera ai genitori.<br />

“Cari padre e mamma,<br />

spero che state bene, anche io sto benino, se si può dire. In questo momento sono in una trincea<br />

piena d’acqua che trapassa le nostre scarpe e i vestiti sono ‘mbunati (zeppi)d’umidità. Stiamo<br />

aspettando le cibarie, che come al solito è rappresentato da brodaglia con qualche pezzo di grasso<br />

a cui è attaccata un po’ di carne e <strong>del</strong> pane stantivo. Acqua ne abbiamo tanta ! Ma io non capisco,<br />

dobbiamo continuamente correre con i fucili da una trincea all’altra. Possibile che non sanno che si<br />

deve mangiare come si deve per fare questo? Siamo troppo indeboliti. Gaetano come sta? E le mie<br />

sorelle assieme a Mico e Rocco ?<br />

Fra poco ci avviseranno che dobbiamo occupare nuovamente la stessa trincea di due giorni fa e che<br />

ci prenderono gli austriaci. A che serve tutto questo? Tanti miei compagni sono morti … non<br />

preoccupatevi di me, io prego sempre.<br />

Un abbraccio a tutti voi. Vostro figlio Peppino. “<br />

I genitori lo piansero una vita. Al lutto partecipò tutto il paese. Stavolta non ci fu bisogno di<br />

lacrime a pagamento. Sgorgavano come un fiume dal cuore di parenti e amici. I vicini si davano da<br />

fare per alleviare il dolore <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong>: parlavano <strong>del</strong> destino, di fede in <strong>Di</strong>o che è una gran<br />

medicina in tali occasioni. Stemperare il dolore <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> con i guai di altri o propri come Maria<br />

Minutolo faceva, sia perché ci era passata, sia perché era abile nel parlare. E ogni <strong>famiglia</strong> che<br />

aveva figli in guerra pregava <strong>Di</strong>o che li riportasse a casa sani e salvi. Come faceva Ciccia. La moglie<br />

di Mico, che pregava, adesso, per il figlio Gaetano.<br />

Francesco fu richiamato, durante quelle fasi cru<strong>del</strong>issime <strong>del</strong>le trincee e la ritirata di Caporetto.<br />

Fu mandato nei bersaglieri in bicicletta. Durante un bombardamento con obici fu ferito ad una<br />

mano. Intanto da qualche anno erano cominciati ad apparire nei cieli gli aerei. Avevano eliche di<br />

legno e struttura metallica, potevano essere armati con mitragliatrici e con granate di poco peso,<br />

altrimenti con roba più pesante si correva il rischio che l’aereo non si sollevasse da terra.<br />

Essendo un ottimo ebanista, Francesco fu mandato a Napoli presso l’officina militare <strong>del</strong> comando<br />

aereo <strong><strong>del</strong>la</strong> stessa città. Fortunata lo seguì con i due figli e vissero lì, fino alla fine <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, non<br />

prima di aver sfornato il terzo figlio cui diedero il nome Giuseppe. Il parto fu complicato e, il<br />

bambino nacque con il braccino sinistro storto, ma non impedì a Giuseppe di muoversi<br />

regolarmente e normalmente.<br />

Chi aveva sperato, ingenuamente, che la guerra avrebbe risollevato l’economia <strong><strong>del</strong>la</strong> Piana,<br />

contando su un aumento dei prezzi <strong>del</strong>le derrate alimentari prodotte sul posto, ovvero l’utilizzo e<br />

l’incremento <strong>del</strong> prezzo dei noli dei velieri, si era ingannato, era caduto in una trappola, doppia.<br />

Gran parte <strong><strong>del</strong>la</strong> gente valida, particolarmente i braccianti agricoli, gli operai e la gioventù medio<br />

borghese <strong>del</strong>l’area, fu mandata a morire al fronte, in quel macello <strong>del</strong>le trincee e degli inutili<br />

attacchi alla baionetta, ovvero con i letali gas asfissianti, ultimo ritrovato tecnico per uccidere di<br />

più. I velieri di Gioia rimasero fermi, perché gran parte dei loro equipaggi furono richiamati in<br />

servizio nella Regia Marina Militare. Chi riusciva a salpare con un ridotto equipaggio, lo faceva a<br />

rischio e pericolo <strong>del</strong>l’armatore. L’impero Austro‐Ungarico aveva a Trieste una flotta di navi militari<br />

forte, compresa una <strong>del</strong>le ultime invenzioni utilizzate a fini di guerra: il sommergibile.<br />

39


Gli armatori gioiesi, ne ebbero una prima prova il 4 novembre <strong>del</strong> 1916. La Goletta a due alberi<br />

“Nuovo San Luigi” di 45 tonnellate, carico di merce varia, mentre navigava con destinazione<br />

Taranto, al largo di Capo Spartivento, fu affondato dal siluro di un sommergibile austriaco. Gli<br />

armatori di quel veliero erano i signori Saffioti Paolo di Santo, Mesta Salvatore, Saffioti Giovanni<br />

ed Auteri Saverio che lo comandava, residenti a Palmi ma domiciliati a Gioia Tauro. I primi tre<br />

stavano discutendo con lo spedizioniere signor Pizi Nestore, <strong><strong>del</strong>la</strong> possibilità di fare un viaggio in<br />

Sicilia con botti piene di vino e olio, fino a Palermo, quando una telefonata interruppe le loro<br />

discussioni. Erano i reali Carabinieri che comunicavano di aver ricevuto dalla Capitaneria di Porto<br />

di Reggio Calabria il seguente telegramma: “La nave Goletta Nuovo San Luigi è stata affondata al<br />

largo di Capo Spartivento da un sommergibile Austriaco, vi sono 4 uomini feriti, ma salvi tutti !<br />

Attendiamo o l’armatore o lo spedizioniere !‐<br />

“Signor Pizi andateci voi ‐ disse il Saffioti.<br />

Il <strong>capitano</strong> Mesta era incredulo; prese in mano il telefono e cominciò a parlare:<br />

“Veramente maresciallo? Possibile che abbiano silurato una nave a vela? “<br />

“Certo che è possibile”‐ rispondeva il maresciallo Pizzuto ‐ la guerra è guerra per tutti! non<br />

conosce raccomandati!” e attorcigliandosi i baffoni a manubrio come fosse canapa riprendeva:<br />

“Ora vorrei i nomi e i cognomi <strong>del</strong>l’equipaggio e il tipo di carico, così contestiamo ai nemici che il<br />

veliero non era armato; eventualmente gli chiederemo i danni!” scherzava il maresciallo. Lo<br />

spedizioniere riprese il telefono e diede l’elenco <strong>del</strong>l’equipaggio, assieme alla tipologia di merce<br />

trasportata: 8 uomini più il comandante, legname per il cantiere navale di Taranto.<br />

La notizia si sparse immediatamente e fece molta impressione a Gioia Tauro. Finora la guerra era<br />

passata dalla cittadina con qualche soldato deceduto. Ora gli armatori cominciavano a<br />

preoccuparsi, davvero, <strong><strong>del</strong>la</strong> sorte dei propri velieri. Come Felicia, ma suo marito conoscendola<br />

bene, con un telegramma la tranquillizzava.<br />

La guerra fu lunga, difficile. I soldati di leva se scampavano alle pallottole e ai gas nemici, non<br />

sfuggivano alla Corte marziale italiana, per via di quei rifiuti a farsi massacrare con attacchi inutili.<br />

Intanto la guerra si combatteva, come s’è visto anche in mare, nei nostri mari. Così tra Caporetto,<br />

l’intervento Americano, la fine <strong>del</strong>lo Zar in Russia e la nascita <strong>del</strong> primo paese socialista nel<br />

mondo, la marineria gioiese fu di nuovo sconvolta dall’affondamento <strong>del</strong> tre alberi Brigantino “San<br />

Giovanni” di 158 tonnellate. La notte <strong>del</strong> 10 dicembre 1917 gli armatori Patamia Francesco fu<br />

Rosario di Bagnara, domiciliato a Gioia Tauro in via Tripodi, e Costa Antonino socio di minoranza<br />

<strong>del</strong> suocero, in via Solferino, furono svegliati e invitati in caserma. Spaventati gli armatori vi si<br />

recarono e furono avvisati che il loro Brigantino “San Giovanni” , aveva urtato una mina nel Golfo<br />

di sant’Eufemia Lamezia: vi furono 2 morti e 5 feriti.<br />

Non migliore sorte toccò al brigantino a tre alberi “Virginia Gentile” di 140 tonnellate nuovissima,<br />

avendo quattro anni di vita, appena. Identica sorte toccò al Brigantino “Sant’Antonio da Padova”<br />

di 113 tonnellate <strong>del</strong>l’armatore Gentile Giuseppe di Nicola residente a Palmi, affondato dal siluro<br />

di un sommergibile nelle acque di Capo San Vito (Taranto) con un equipaggio di 20 persone: 5 feriti<br />

e tanta paura. Ennesimo affondamento dovuto ad un sommergibile fu il Brigantino‐goletta <strong>del</strong><br />

Capitano Gentile Vincenzo di 163 tonnellate di Palmi, carico di legname e frutta secca al largo <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

Tunisia. Affondò anche la goletta “Maria S.S. <strong>del</strong>le Grazie” di 44 tonnellate <strong>del</strong>l’armatore Alessio<br />

Pasquale, bombardata da una nave militare prussiana nella primavera <strong>del</strong> 1917. Gli armatori<br />

Patamia Francesco e Gentile Vincenzo, negli anni <strong><strong>del</strong>la</strong> 1° guerra mondiale persero diversi legni.<br />

L’ultimo <strong><strong>del</strong>la</strong> serie fu il Brigantino “Assunzione” <strong>del</strong> Gentile, di 155 tonnellate affondato a largo di<br />

Fiumicino.<br />

La guerra lungi dal portare fortuna alle imprese, portò morti, feriti con mutilazioni gravi, crisi<br />

economica, tensioni sociali.<br />

40


Dopo la guerra le tensioni fra gli Stati si erano acuite ed allargate al loro interno.Gli Stati Uniti si<br />

presentarono al mondo come la potenza economica e militare che “aveva salvato” l’Europa dagli<br />

imperi centrali; mentre la Russia con la rivoluzione dei Soviet nel 1917, diventava per la gente<br />

povera, ed anche meno povera, il punto di riferimento di una società di “uguali” da esportare in<br />

tutto il mondo al grido:<br />

“Aboliamo al proprietà privata !” e “Ad ognuno secondo le sue necessità !”. Il mondo era ancora<br />

in ebollizione.<br />

Le sezioni socialiste nacquero come funghi in tutta Italia. In Calabria dappertutto meno che a Gioia<br />

Tauro. La più vicina fu fondata a Palmi.<br />

Gioia ebbe molti simpatizzanti, ma non furono in grado di fondare una sezione. Essa, per quanto<br />

fosse viva nelle attività economiche, era sonnacchiosa e indifferente nella politica attiva o<br />

nell’associazionismo, ovvero le associazioni di M.S. di Gioia furono numerose. Ma non ebbero<br />

rilievo politico o ideologico. Chi le capeggiava, si era sempre guardato bene dal lasciarle fare il gran<br />

salto nella politica.<br />

<strong>Di</strong>fatti, erano capeggiate dai notabili <strong>del</strong> paese. Quantomeno ne erano soci onorari coloro che<br />

avevano in mano l’economia <strong>del</strong> paese. L’unica volta che alzarono la voce contro il rappresentante<br />

<strong>del</strong> governo, il Prefetto, fu: “il 26 giugno 1899 il consiglio <strong><strong>del</strong>la</strong> Società Vetturale Agricola e quello<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> Società Operaia deplorano il comportamento <strong>del</strong> Signor Prefetto di Reggio Calabria, contrario<br />

a risolvere un problema di estrema importanza per il futuro <strong><strong>del</strong>la</strong> popolazione di Gioia Tauro. Il<br />

signor Rocco Nostro, in qualità di Presidente <strong><strong>del</strong>la</strong> Società Operaia e <strong>del</strong>l’assemblea, pronunziò un<br />

discorso molto sentito ed anche polemico nei confronti <strong>del</strong> Signor Prefetto, per l’importanza<br />

storica <strong>del</strong>l’evento … alla fine <strong>del</strong> discorso <strong>del</strong> focoso Presidente, ne scaturì, solamente, un<br />

telegramma al Ministero <strong>del</strong>l’epoca. Questo il testo: “A sua Eccellenza Ministro Interno‐Roma<br />

Società Operaia, Vetturale Agricola riuniti note pratiche fatte Amministrazione comunale per<br />

appalto conduttura acqua potabile, giusto progetto Mezzatesta dichiarato Sovranamente utile<br />

pubblico, plaudendo operato stessa Amministrazione classe lavoratrice e deplorando condotta<br />

Prefettura che finora ostacolato appalto importantissimo opera reclamata dall’intero paese senza<br />

nemmeno esservi degnato rispondere ai voti fatti dalle Società predette contenuti nella<br />

<strong>del</strong>iberazione 31 maggio presentato sotto Prefettura Palmi da apposita commissione, rivolgiamo<br />

preghiera E.V. disporre che diasi termine inqualificabili abusi verso Amministrazione e<br />

popolazione, le quali devote verso Augusta <strong>Di</strong>nastia e liberi Istituzioni reclamano rispetto propri<br />

diritti e sollecitano inizi lavori che daranno occupazione classe operaia affamata, cui ha dato finora<br />

sufficienti prove rispetto legge autorità costituita. E.V. strenuo difensore nostre liberi Istituzioni<br />

voglia degnarsi risolvere subito grave problema. Conformemente istanza fatta da accurata, solerte<br />

ed onesta Amministrazione Municipale cui opera mira solo pubblico bene, richiamando autorità<br />

prefettizia a più corretto e prudente indirizzo nei provvedimenti arruolati. Fidante nel suo colto<br />

senno, vivamente ringraziamo” … seguono firme Presidenti.<br />

L’ambiente Gioiese era questo. <strong>Di</strong> fronte alla gravissima situazione per la mancanza d’acqua<br />

potabile, in una zona ancora malarica, con un progetto datato 1863, sindaco Lombardo, ancor<br />

bloccato dopo 16 anni, le S.M.S. si erano “ribellate” con un semplice telegramma inviato con<br />

“rabbia” al ministro <strong>del</strong>l’interno.<br />

41


10<br />

L’ormai anziano Capitano <strong>Carresi</strong>, pur essendo nato e cresciuto marinaio, non aderì alla società<br />

di M.S. lavoratori <strong>del</strong> mare. Su richiesta <strong>del</strong> suo grande amico Achille Normanno si iscrisse a S.M.S.<br />

“mista lavoratori” con sede al “piano <strong>del</strong>le fosse”.<br />

Intanto da qualche anno, si stava alacremente lavorando alla costruzione <strong><strong>del</strong>la</strong> ferrovia a<br />

scartamento ridotto Gioia‐Seminara.<br />

Finalmente dopo un trentennio circa di lotte campaniliste fra i vari paesi <strong><strong>del</strong>la</strong> piana ovvero fra i<br />

politici di quel tempo, una parte <strong>del</strong> progetto trovò compimento nel 1917: il primo passo di una<br />

infrastruttura che si infilava nel cuore <strong><strong>del</strong>la</strong> piana, al servizio dei vari comuni. Bisognava continuare<br />

a lavorare per collegare il versante tirrenico con quello ionico.<br />

Nel 1918 a guerra terminata Francesco fu congedato e rientrò con tutta la <strong>famiglia</strong>, con grande<br />

gioia <strong>del</strong> parentado;proprio mentre vi erano i preparativi per il matrimonio <strong><strong>del</strong>la</strong> secondogenita<br />

<strong>del</strong> Capitano Domenica, promessa ad un marinaio gioiese di nome Rocco Bonazza. Era costui, un<br />

bell’uomo alto e robusto, di colorito bruno che aveva una particolare predisposizione alla tecnica.<br />

Conosceva perfettamente i velieri nella loro struttura, conosceva l’apparato macchina dei piroscafi<br />

ed aveva buone cognizioni di elettricità. Suo padre fu uno dei fondatori <strong><strong>del</strong>la</strong> società di mutuo<br />

soccorso “lavoratori <strong>del</strong> mare” , un padrone marittimo di origine Palmese.<br />

Fu proprio lui ad insistere per il fidanzamento tra suo figlio Rocco e la figlia <strong>del</strong> Capitano <strong>Carresi</strong>. Le<br />

famiglie per bene cercavano altre famiglie per bene per sistemare i figli. Al <strong>Carresi</strong> bastavano la<br />

serietà dei costumi, la voglia di lavorare, l’onestà, il rispetto. Al Bonazza la serietà <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong>,<br />

che per un mestiere come il marinaio era un marchio di fabbrica. Non ci si poteva avvicinare ai<br />

<strong>Carresi</strong> in cerca di ricca dote: rimaneva <strong>del</strong>uso. Ma erano ricchi di categorie <strong>del</strong>lo spirito: dedizione<br />

alla <strong>famiglia</strong>, spirito di sacrificio, rispetto per i mariti, che per quei tempi era moltissimo.<br />

Carmela, la terzogenita “filava” con un altro uomo di mare, Gaetano, primogenito di Mico il<br />

fornaio e fratello di Peppino, perito durante la prima guerra mondiale. Mentre Serafina, la quarta<br />

nata <strong>Carresi</strong>, filava con il cugino di Gaetano, Peppino. Serafina era bella come Fortunata, bruna,<br />

capelli lisci, zigomi alti, magrolina ma, instabile nel sistema nervoso, come la mamma; Peppino era<br />

con capelli castano chiaro, occhi azzurri, un cespuglio di capelli che terminavano con un gran ciuffo<br />

sulla fronte. Aveva un carattere molto chiuso. Riuscire a farlo parlare era un’impresa e quando<br />

rispondeva, lo faceva con risposte secche e decise.Una persona o parente s’intimoriva a sentirlo<br />

rispondere.<br />

Quel giorno il Capitano <strong>Carresi</strong>, con il fidanzamento tra Rocco Bonazza e Domenica, ebbe come un<br />

presentimento, mentre si festeggiava il suggello matrimoniale. Qualcosa d’indefinito, di strano,<br />

stonava in quelle felicitazioni, ma non riusciva a capire cosa. Ma scacciò subito il fastidioso<br />

pensiero.<br />

Gaetano un marinaio alto e robusto, di colorito castano chiaro, occhi chiari cangianti, aveva<br />

anch’esso navigato tutti i tipi di velieri, compresi quelli a motore. Aveva un vocione robusto, che<br />

incuteva rispetto, e il cuore molle come la panna. Gran lavoratore, instancabile. Quando i fidanzati<br />

erano invitati a pranzo dai suoceri, il maresciallo Felicia predisponeva il posto che a ognuno<br />

toccava: naturalmente i fidanzati erano tutti a ponente e le promesse a levante, sotto il suo occhio<br />

vigile: niente occhiate da pesce lesso. Se ne accorse il buon Gaetano che dopo aver bevuto <strong>del</strong><br />

vinello, offrì il suo bicchiere a Carmela, invitandola a fare altrettanto, Felicia, reagì togliendo il<br />

bicchiere e disse con cipiglio:<br />

“Queste cazze di cose non mi piacciono !”. “Vediamo ora quali novità ci portate dalle navi !”.<br />

Carmela, la più saggia, riflessiva <strong>del</strong>le figlie <strong>del</strong> Capitano, faceva segno a Gaetano di non<br />

preoccuparsi, conoscendo bene il carattere <strong><strong>del</strong>la</strong> mamma, che a volte, per evitare ciò che ai suoi<br />

occhi era un peccato, ne commetteva uno più grosso. Carmela: sarebbe facile parlare di questa<br />

42


donna , ma, nello stesso tempo difficile. Facile perché con un animo così disponibile e nobile verso<br />

il prossimo, si può solo dirne bene.<br />

<strong>Di</strong>fficile era riuscire a capire la molla che la spingeva ad essere disponibile verso gli altri; la sua<br />

temperanza e la sua saggezza; il garbo con cui si poneva davanti alla gente per invitarle ad esporre<br />

i suoi problemi e con essa tentare di risolverli, ne facevano il punto di riferimento <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> e<br />

dei tanti amici, anche per compiti ingrati, come vestire qualche defunto o nelle liti. Tutto questa<br />

poteva nascere solo da una grande fede in <strong>Di</strong>o, in Gesù, di quell’uomo che si caricò <strong>del</strong> compito di<br />

portare la verità e l’amore, soffrendo: “Quando vedranno come agirete capiranno che siete<br />

cristiani “. Era la sua fede nel prossimo e nel Cristo che ne faceva un porto in cui rifugiarsi? O c’era<br />

altro? Il cuore semplice e nobile? Ma questi erano aspetti positivi di tutta la <strong>famiglia</strong>: la fede era il<br />

loro naturale rifugio. Ma a differenza <strong>del</strong>le altre sorelle era meno impulsiva. Gli aspetti positivi <strong>del</strong><br />

Capitano e di Felicia si erano fuse mirabilmente.<br />

Nel 1919 Concetta e Rocco si sposarono, l’anno successivo, nel gennaio <strong>del</strong> 1920 contrassero<br />

matrimonio Gaetano e Carmela. In quello stesso anno il Capitano andò in pensione al compimento<br />

<strong>del</strong> 60° anno di età. Ma neanche a terra riuscì a stare fermo. <strong>Di</strong>ventò rappresentante di macchine<br />

per cucire Singer.<br />

Nell’ottobre <strong>del</strong> 1920 si sposò la figlia Serafina con Giuseppe Ventre, detto lo scrivano. Grazia<br />

<strong>Carresi</strong> la quinta <strong>del</strong>le sorelle fu la meno fortunata. Anch’essa fidanzata con un marittimo locale,<br />

dopo circa un anno di frequentazione, l’uomo ruppe il fidanzamento perché aveva ricevuto offerte<br />

migliori da un'altra <strong>famiglia</strong>. Ritorniamo al Capitano ed al suo lavoro di rappresentante di<br />

macchine per cucire. Le ragazze di buona <strong>famiglia</strong>, finita la scuola <strong>del</strong>l’obbligo venivano indirizzate<br />

a imparare una qualche attività, in genere: taglio e cucito o ricamo presso qualche maestra. Infine<br />

vi erano i sarti per gli uomini (i custureri). Era qui che il Capitano indirizzava il suo lavoro nel<br />

tentativo di piazzare il prodotto ed essendo un uomo di stile, affabulatore e competente, spiegava<br />

il prodotto cercando di convincerli all’acquisto:<br />

“Questa è una invenzione americana, uno strumento che a mio parere non deve mancare nelle<br />

case dei sarti. Con poche, semplici operazioni, questa cuce un vestito intero senza ditale al dito e<br />

senza schiena curva. Muovendo appena le gambe, ci si trovava il vestito già pronto senza soverchia<br />

fatica”. Quando restava in casa teneva la contabilità <strong>del</strong>le figlie maritate. I rispettivi mariti<br />

spedivano i soldi guadagnati e il suocero li versava a loro conto alla posta.<br />

Nell’arco di un anno e mezzo tutte le figlie <strong>del</strong> Capitano partorirono. Carmela dopo un aborto,<br />

partorì una bambina nel dicembre <strong>del</strong> 1921; Fortunata un altro maschio, il quarto, Mario;<br />

Domenica una bambina, Vincenzina; Serafina un maschietto, Antonino.<br />

Per il mestiere che facevano, era raro che i cognati si trovassero tutti assieme, compagnie di<br />

navigazione diverse, viaggi diversi.<br />

In quegli anni che vanno dal 1920 al 1922, le tensioni sociali in Italia erano alle stelle, con scioperi<br />

continui, occupazione <strong>del</strong>le fabbriche, i braccianti agricoli meridionali, partiti in guerra con la<br />

promessa <strong><strong>del</strong>la</strong> terra da parte <strong>del</strong> governo, si trovarono con un pugno di mosche in mano perciò<br />

misero mano all’occupazione dei fondi agricoli incolti.<br />

Nel 1922 tutti i cognati, Rocco, Gaetano, Giuseppe e Vincenzo, si trovarono tutti assieme dal<br />

suocero. Tra una chiacchiera e l’altra il Capitano spiegava loro di quando espatriò in Argentina ed<br />

al ritorno acquistò la casa di Bagnara.<br />

Una pulce s’insinuò nell’orecchio dei cognati e dopo averne parlato con le rispettive mogli,<br />

decisero di espatriare (disertare si diceva allora) farsi il gruzzoletto nel paradiso americano e<br />

rientrare, che voleva dire assentarsi per tanti anni. I cognati Rocco, Gaetano,Vincenzo, Peppino<br />

nell’anno 1922, mentre la crisi liberale toccava l’acme cedendo sotto i colpi <strong>del</strong> fascismo e la<br />

marcia su Roma con a capo Benito Mussolini, partirono dopo la benedizione <strong>del</strong> suocero.<br />

43


Ma prima di partire <strong>Carresi</strong> chiamò in disparte Gaetano e gli chiese di stare attento a Rocco che<br />

ultimamente si comportava stranamente. Gaetano fece strada espatriando regolarmente, gli altri<br />

abusivamente.<br />

Il fascismo si presentò alla gran massa come il “nuovo”, come gli “aggiustatorti” capace di metter<br />

le briglie ai sindacati rossi, metter all’angolo gli imbelli liberali ormai marciti nel loro stesso brodo<br />

ed i cattolici piagnoni.<br />

Anche Gioia Tauro rispose alla chiamata di quello che sembrava il “nuovo”. Il fascio a Gioia fu<br />

costituito tra il 1919 e il 1920. Il fondatore fu Filippo Surace che trovò soci e sostenitori in un<br />

gruppo di ex combattenti, di studenti, artigiani: Vincenzo Chiappalone, Rocco Magazzù, Giuseppe<br />

Agresta, Carmelo Genovese, Antonino Caprì, Gaetano Tomaselli, Giuseppe Ardissone, Saverio<br />

Bagalà, Francesco Fe<strong>del</strong>e, Salvatore Cavallaro, Gaetano Capri.Cui s’aggiunsero, qualche anno dopo,<br />

il Padrone Marittimo Giuseppe Vinci, Giuseppe Arlacchi, Domenico Labate. Il Surace fu il primo<br />

segretario politico <strong>del</strong> fascio gioiese ed una squadra d’azione formata dai primi aderenti, che,<br />

partecipò alla grande adunata di Napoli <strong>del</strong> 1922. I fascisti gioiesi ebbero modo di farsi notare in<br />

azione, quando manganellavano i “disfattisti socialisti” o i decadenti “liberali” o i “dormienti<br />

cattolici” o chiunque fosse loro contrario. Se non omicidi, come riportò la cronaca allora. In quegli<br />

anni le classi più abbienti, passavano le domeniche e le feste comandate, presso i circoli privati.<br />

Qui si incontravano amici, conoscenti, pensionati, giovani, a fare qualche partita a carte o a<br />

sorseggiare qualche bibita fra una battuta e l’altra o a osservare le carrozze passare o a “tagliare<br />

cappotti” su misura. Non scampava nessuno. Uno di questi circoli era chiamato “Stesicoro”.<br />

Il 13 dicembre 1924 ad un angolo <strong>del</strong> salone interno stavano giocando a briscola quattro amici:<br />

Vittorio La Capria, Rocco Zappia, Vincenzo Agresta e Totò Lo Presti. Questi giovani avevano in<br />

comune l’età, la voglia di vivere ed erano socialisti. Stavano ridendo e scherzando mentre<br />

giocavano. Ad un certo punto arrivarono alcuni fascisti, tra cui il noto Vincenzo Chiappalone. I<br />

quattro amici appena li videro si scambiarono un’occhiata d’intesa. Lo stesso fecero i fascisti. Il<br />

Chiappalone fanatico e provocatore, anche nella vita normale, apostrofò il gestore:<br />

“Ora pure i disfattisti trovano asilo in questo locale ! Allora vuol dire che non dobbiamo entrare<br />

noi, è vero Pietro ?” naturalmente il gestore <strong>del</strong> circolo, rispose timidamente:<br />

“No, è un locale per soci … e loro sono dei soci, come lo siete voi …!” e i fascisti:<br />

“Se ci sono vermi qui, non ci saremo noi !” e il La Capria abboccò:<br />

“E noi non stiamo con i topi di fogna, andate ad armare cricche, magari in dieci assalire uno solo !”<br />

Apriti cielo ! Tra gridate di topi di fogna, vermi, si presero a botte. Fu qui che il fanatico<br />

Chiappalone, avendo la peggio, estrasse una pistola, sparò ed uccise il La Capria, lo Zappia e ferito<br />

Agresta. Un’altra volta fecero allontanare dal podio l’oratore socialista On.Cefalì che doveva<br />

tenere un comizio per le elezioni. Il loro motto era questo: violenza su violenza in nome di una<br />

intolleranza becera ed un nazionalismo da quattro soldi. Il Capitano ancora lucido, capiva quanto<br />

stava accadendo, in maniera tragica, in tutta Italia, ed alzando gli occhi al cielo pregava: “Signore<br />

indica tu la strada migliore per tutti !”. Poi andava alla ricerca di nuovi clienti a cui vendere le<br />

singer. Il piccolo Ciro intanto prendeva lezioni di musica presso un maestro al piano <strong>del</strong>le fosse.<br />

Da qualche tempo il Capitano, presso il suo amico Normanno, aveva conosciuto il generale Adolfo<br />

Musco, consigliere <strong>del</strong> Banco di Napoli, sposato con la nobile Serra‐Cardinale. Questa <strong>famiglia</strong> di<br />

grandi latifondisti, aveva lungo la strada Salerno‐Reggio, nell’area di Vallamena, un mulino. Qui vi<br />

aveva costruito una centrale elettrica, da cui partivano le linee aree che alimentavano la pubblica<br />

illuminazione. La turbina era mossa dall’acqua <strong>del</strong> fiume Bu<strong>del</strong>lo. Alla turbina vi era coassialmente<br />

collegata una dinamo, che forniva energia elettrica a C.C, necessaria alla illuminazione di uffici,<br />

piazze o qualche via importante. Il comune pagava al Musco 2.000 lit. annue per lampade da 16<br />

can<strong>del</strong>e, o, se si preferiva pagamento a contatore. La distribuzione, pali, cavi, fu data in appalto<br />

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all’impresa ing. Leonardo Albonico e c. Naturalmente non tutti i gioiesi, allora, si potevano<br />

permettere la luce elettrica: tanti ancora usavano la lucerna a olio.<br />

Uno dei primi dipendenti fu il signor Napoli, fine elettricista, che gestiva l’impianto.<br />

Dopo la marcia su Roma <strong>del</strong> 28 ottobre 1922. Il debole Re affidò la formazione <strong>del</strong> nuovo governo<br />

al Cavalier Mussolini Benito.<br />

Durante gli incontri familiari, il Capitano <strong>Carresi</strong> discuteva spesso <strong>del</strong>le vicende italiane e si<br />

chiedevano cosa, ancora, dovesse succedere in questa martoriata Italia.<br />

“Non è bastata la guerra? Come l’umanità si dimentica presto dei loro morti ! Ancora vogliono<br />

altre vittime … <strong>Di</strong>o ci punirà per questo !” diceva accorato il Capitano.<br />

“Ma no”‐ rispondeva ironico Francesco ‐ ormai è arrivato l’aggiustatorti, tra manganellate e olio di<br />

ricino, i fascisti secondo il Re, metteranno le cose a posto. E così la pensa mio cognato Peppino che<br />

è un loro estimatore. Basta solo che ad essi si uniscano i deputati cattolici, basta solo che il Papa<br />

dia il via, ed il cerchio si chiuderà”‐ disse il genero.<br />

“Vedrai che il Papa non darà l’autorizzazione ai cattolici a sostenere il governo fascista, ed il Papa<br />

non si sbaglia mai … non si può stare dalla parte dei violenti, come non si può stare dalla parte dei<br />

rivoluzionari.”<br />

Anche questa volta il Capitano si sbagliò. I cattolici sostennero il primo governo Mussolini. I fascisti<br />

nelle sedi istituzionali predicavano pace e fratellanza, in “periferia” praticavano la violenza, a Gioia<br />

qualche anno dopo successe questo episodio:<br />

Una domenica mentre la gente era attenta alle funzioni religiose, un manipolo di fanatici fascisti,<br />

guidati da Peppino Vinci detto “u salito”, arrogantemente, con protervia, fece smettere le funzioni<br />

religiose, obbligando la gente ad uscire. Era solo uno dei tanti episodi <strong><strong>del</strong>la</strong> violenza eletta a<br />

sistema.<br />

Mentre suocero e genero chiacchieravano <strong>del</strong>le vicende umane, le sorelle <strong>Carresi</strong>, in un’altra<br />

stanza e con una gran quantità di figlioli che facevano un pandemonio, tra pianti, litigi, rincorse,<br />

discutevano dei loro problemi casalinghi o dei mariti lontani o di qualche vicina poco simpatica.<br />

Ma qualunque scusa era buona per stare tutte assieme.<br />

Poi congedatosi dal suocero, passava a salutare la sorella Peppina, che si era maritata, in quegli<br />

anni, con un artigiano Giuseppe Arlacchi, il cui padre era stato uno dei fondatori <strong><strong>del</strong>la</strong> S.M.S.<br />

Operaia, originario di Palmi ma da tempo stabilitosi a Gioia, al Piano <strong>del</strong>le fosse. La sorella Peppina<br />

era mamma di un figlio chiamato Antonino. Il lavoro in quegli anni stentava per tutti. Arlacchi<br />

aveva una segheria per botti nella zona dei “cuatti”, diventata poi via S.Martino. Si lavorava per<br />

qualche botte, per qualche mobile o si vendeva legna o segatura per le fornaci o forni. Francesco<br />

era ancora assieme allo Zio Peppe e i due fratelli Paolo e Antonino.Tra molti sforzi tiravano a<br />

campare con l’economia italiana in recessione che nel Meridione si sentiva ancor di più.<br />

<strong>Di</strong>minuendo il lavoro, diminuiva la circolazione monetaria e non si potevano pagare debiti,<br />

cambiali, lavoratori, i magazzini non vendevano. Anche Francesco e suo zio non potevano pagare i<br />

debiti, come i debitori loro non pagavano i lavori eseguiti, ed erano continue alterazioni <strong>del</strong><br />

sistema nervoso. Sia Francesco che mastro Peppe evitavano di fare discorsi di tale natura in<br />

presenza di Antonino, che era un tipetto niente male: “Una mosca davanti al naso non se la faceva<br />

passare !”. Questo era il gergo, segno di rispetto. Ma Antonino pur non essendo da malavita, una<br />

mosca dal naso non se la faceva passare veramente. Un giorno venne a sapere che un tale non<br />

aveva ancora pagato un mobile costruito da loro. E andò a ricordaglielo. Quest’uomo, lungi dal<br />

ricordarsi <strong>del</strong> debito, con atteggiamento da duro, mafiosetto, cominciò a provocarlo, pensando di<br />

impressionarlo. Antonino, calmo, calmo, rispose che era venuto solo per avere i soldi <strong>del</strong> mobile.<br />

L’altro, come giocasse con una tavola irta di chiodi, rispondeva sempre picche. Fino a che Antonino<br />

perse la pazienza e rispose:<br />

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“Fai il prepotente perché sei a casa tua: se hai fegato vieni e fammi vedere quanto vali, dove vuoi<br />

tu, mano a mano!” doveva essere una scazzottata. Finì in tragedia. L’uomo fece finta di accettare<br />

la sfida mano a mano, ma ci andò armato di coltello. Antonino era minorenne, ma fisicamente<br />

piazzato e svelto come un gatto.<br />

Durante la lotta, l’avversario capendo di aver sottovalutato il ragazzo, estrasse un lungo coltello a<br />

serramanico. Alla presenza di tante persone che assistevano alla scena, Antonino afferrò i braccio<br />

di quell’uomo, e ruotando il suo braccio, lo colpì mortalmente.<br />

Antonino fu arrestato e poi, con i testimoni a suo favore, fu assolto per legittima difesa.<br />

Con l’attività che arrancava, Francesco s’inventava nuove soluzioni tecniche: ornamenti più<br />

moderni, mobili nuovi, qualche macchina nuova, partecipazione a gare d’appalto, cassette per<br />

agrumi. “Ci vorrebbe un po’ di fortuna“ ripeteva Fortunata “e sarebbe ora che questo debito la<br />

fortuna lo pagasse !”.<br />

“Coraggio Fortunata, la provvidenza <strong>Di</strong>vina ci verrà in aiuto !”‐ diceva Francesco.<br />

I cognati “americani” puntualmente scrivevano alle loro famiglie per raccontare la loro vita di<br />

“disertori”, di lavoratori portuali a Nuova York, come fosse la loro casa americana di“broccolino”.<br />

Solo Rocco scriveva molto raramente alla sua <strong>famiglia</strong>. Ma Domenica non sospettava nulla,<br />

pensava che suo marito non avesse avuto il tempo di scrivere. Il buon Capitano, invece, era<br />

informato da Gaetano di quanto stesse accadendo in America: Rocco aveva deciso di restare li per<br />

sempre.<br />

A questo punto Gaetano mise all’opera la sua capacità di convinzione, e spinse il cognato riottoso<br />

a rientrare in Italia.<br />

“Ora il gruzzoletto ce lo siamo fatti, possiamo rientrare in Italia. Ci reimbarchiamo qui e<br />

sbarchiamo a Genova”.<br />

“E che devo fare in Italia ? Qui si sta bene … si è liberi … c’è lavoro‐ diceva Rocco.<br />

Ma Gaetano insisteva: “Rocco, goditi la figlia, che ancora non conosci, come non conosco io la mia,<br />

è per i figli che abbiamo fatto questi sacrifici!” e Rocco si convinse.<br />

Dopo più di quattro anni dallo loro partenza per Nuova York i cognati rientrarono. Ed acquistarono<br />

dal demanio il terreno su cui costruire la loro casa: alla fine la scelta cadde sul terreno di fronte<br />

alla casa <strong>del</strong> Capitano o poco lontano.<br />

Intanto il fascismo aveva completato il suo colpo di stato tollerato. I moderati cristiani si resero<br />

conto nel gennaio <strong>del</strong> 1925, dopo l’omicidio Matteotti, <strong>del</strong>le “qualità politiche” <strong>del</strong> fascismo e <strong>del</strong><br />

suo “conductor” che annunciava di fatto la fine <strong>del</strong>le libertà sia individuali che collettive. Fu<br />

abolita la libertà di stampa, sciolte le organizzazioni sindacali, i partiti politici, e, i loro deputati<br />

decaduti, fu abolito il diritto di sciopero. Molti intellettuali e semplici oppositori fuggirono<br />

all’estero o si zittirono. Da oggi ogni provincia, ogni comune, ogni villaggio aveva il suo ducetto.<br />

Ogni fascista dettava legge. In ogni località, per il solo fatto di avere una camicia nera e il fez in<br />

testa, ogni fascista si sentiva padrone.<br />

Nelle strade, nelle piazze, nelle adunate o nei circoli si gridava: “Viva il Re !”‐ “Viva Mussolini !”.<br />

“Verrà un giorno che quel grido si muterà in abbasso. Verrà un giorno in cui parleranno quelli che<br />

oggi tacciono!”<br />

Così si esprimeva Pietro Nenni in quei giorni. E coloro che amavano le libertà democratiche<br />

tacquero per ventanni.<br />

Anche a Reggio e provincia fu stroncata ogni tipo di opposizione. Da quel momento in poi, ogni<br />

parola poteva costare cara; anche la semplice chiacchierata in una cantina o dal barbiere, era<br />

preceduta dal timore di essere ascoltati dal <strong>del</strong>atore di turno, che, per dispetto o per farsi bello<br />

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davanti al rappresentante <strong>del</strong> potere , accusava la gente di antifascismo (lo stesso timore che si<br />

aveva per la <strong>del</strong>inquenza).<br />

Se non si fosse stati più che sicuri dei presenti nessuno fiatava. Nemmeno il Capitano <strong>Carresi</strong>,<br />

quando si recava da mastro Luigi il barbiere per un’aggiustatina ai capelli, fiatava. Poi, sottovoce,<br />

mastro Luigi diceva: “Capitano, come la pensate voi ? Pensate che questi risolveranno i problemi<br />

che abbiamo ? Lavoro che manca, strade sterrate, la <strong>del</strong>inquenza … ?”<br />

“Mah !” rispondeva con rassegnazione il Capitano “c’è troppa violenza in giro … e con la violenza<br />

non si risolvono i problemi: la violenza chiama violenza !”<br />

“E ditemi un'altra cosa Capitano, le nostre vite, insomma, saranno migliori? domandò ancora Luigi.<br />

“Mi auguro di si per tutti questi giovani come mio figlio. “<br />

A questo punto entrava nella discussione il terzo convenuto, noto come socialista ed oppositore<br />

<strong>del</strong> fascismo: Carlo Castellano. Che con rabbia sosteneva: “Questo ci porterà alla rovina diritto<br />

diritto … altro che stare meglio !”. E’ noto che il modo migliore di far fare una cosa a un altro è<br />

quello di proibirglielo: così mastro Luigi quando vedeva la piega che prendeva la discussione si<br />

preoccupava, e agitando il rasoio o la forbice:<br />

“Carlo per piacere, non alzare la voce, se no questi mi incendiano il locale!”<br />

Carlo ribadiva ancora più forte:<br />

“Ma vi rendete conto che siamo guidati da quattro straccioni? Da chi in vita loro non ha mai<br />

contato? Che erano ladri di galline? Che non sanno né leggere né scrivere e comandano?” Mastro<br />

Luigi ancora più preoccupato:<br />

“Carlo non alzare la voce, tu mi rovini!”<br />

Poi interveniva il Capitano a calmare le acque autorevolmente:<br />

“Questi sono i saltafossi, caro Don Carlo! Sono quelli che s’imbarcano sul carro dei vincitori, di<br />

ogni vincitore … i principi, le idee vengono messe da parte … ora vediamo cosa sanno fare, può<br />

darsi che col tempo … !<br />

“Capitano, credetemi, l’unica loro logica è la violenza; i loro principi, i loro valori sono riposti in<br />

quel manganello o nell’olio di ricino! Questi cantano il Te Deum in chiesa, poi, nelle strade cantano<br />

l’ufficio <strong>del</strong>le tenebre! Questi sono servi dei padroni più reazionari: sono forti con i deboli e deboli<br />

con i forti! Sapete, Capitano, quello che è successo l’altra sera?”<br />

“No” – rispose incuriosito il <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong>. Carlo Castellano raccontò il seguente episodio:<br />

“La camicia nera Mico Labate stava chiacchierando con alcune persone, con indosso la sua camicia<br />

nera, il fez, il manganello in mano e gli stivaloni impolverati; un pecoraio, passando di la, lo urtò<br />

senza volerlo. Mico per tutta risposta, lo pestò di botte. Costui era uno dei pecorai di Filoreto<br />

Fondacaro.<br />

Quando il Fondacaro si ritrovò il pecoraio pestato a sangue, che sembrava un Cristo in croce, si<br />

mise la palandrana ed un nervo di bue in mano, e andò a chiedere spiegazioni a Mico Labate.<br />

Filoreto Fondacaro era un uomo molto rispettato, se non temuto, sia a Gioia Tauro che nei<br />

dintorni. Da poco tempo era uscito dal carcere, dove aveva scontato diversi anni per omicidio. Era<br />

un duro. Generoso ma duro. Rispettoso se lo rispettavano. Malandrino con gli irrispettosi<br />

Filoreto andò a trovare Mico Labate a casa. Lo chiamò, facendolo uscire.<br />

“Mico! ‐ disse con il ghigno da duro Filoreto Fondacaro ‐ mi hai pestato a sangue il pecoraio …<br />

perché ? … Lo hai combinato maluccio sai ?” e mentre parlava si avvicinava ‐“pure le mie pecore si<br />

sono risentite. Ora chi mando con loro?:” e via con un gran colpo in faccia.<br />

“Ahi!” esclamava Mico, mentre bianco in volto arretrava. “Ma, ma, Don … Don … Filoreto io non<br />

sapevo! Non pensavo” e il Fondacaro giù un altro colpo. E colpiva parti diverse <strong>del</strong> corpo enorme<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> camicia nera Labate, per fare più male. Avete capito Capitano? I colpi se li è tenuti e con la<br />

coda in mezzo alle gambe è rientrato di corsa in casa. La gente di rispetto non si deve toccare. E<br />

così è trattata la criminalità organizzata ! “<br />

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In effetti, come affermava, con lungimiranza e saggezza il Capitano: saltare sul carro dei<br />

vincitori, era una abitudine umana difficile da smontare. Tuttavia, nonostante la conoscenza <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

presenza <strong><strong>del</strong>la</strong> criminalità organizzata, un regime politico autoritario come il fascismo, in possesso<br />

di molti strumenti di repressione, avrebbe potuto combatterla in maniera decisa. Questo non<br />

avvenne, perché saltafossi lo erano un po’ tutti compresa la classe dirigente di allora.<br />

Ricordiamo il Comm. Francesco Starace Tripodi già sindaco negli anni <strong>del</strong> liberalismo, ora passato<br />

nelle file fasciste, che a guardia dei propri possedimenti e magazzini di olio, aveva messo un<br />

“uomo di rispetto” come Alfredo Barbaro, riconosciuto capo di un’associazione malavitosa e che<br />

ora si portava appresso. E come il Tripodi avevano agito gli altri ricchi borghesi <strong><strong>del</strong>la</strong> zona.<br />

Quando vi era questo genere di rapporto, meglio alleanza perché si trattava di questo, tra la<br />

ricca borghesia e la criminalità organizzata il territorio si poteva considerare completamente<br />

soggiogato. Ed il passaggio da un regime all’altro, da un sistema all’altro, gattopardescamente,<br />

significava continuare a spadroneggiare. Il Tripodi da liberale venne eletto sindaco; poi passò sotto<br />

le insegne <strong>del</strong> fascismo diventando podestà e la stessa cosa fecero i malavitosi. Il potere cerca<br />

sempre il potere. Fino a quando è possibile si deve tentare di trovare l’accordo.<br />

Intanto Vincenzo, il primogenito <strong>del</strong> Capitano, si era sposato con una ragazza di Bagnara da<br />

qualche anno ed aveva avuto un maschietto a cui fu dato il nome <strong>del</strong> nonno: Francesco. Navigava<br />

con la società “Neptunia” e, come tantissimi lavoratori <strong>del</strong> mare, era un antifascista <strong><strong>del</strong>la</strong> prima<br />

ora. Non sopportava le malversazioni e le guasconate di tanti “camiciotti”, come li chiamava lui,<br />

che s’arrogavano il diritto di sostituirsi alla libera determinazione <strong>del</strong>le OO.SS. o alla democrazia<br />

con la violenza.<br />

“Ti raccomando Vincenzo di essere prudente con questa gente ! Ormai hanno il potere in mano …<br />

hanno tutte le leve <strong>del</strong>lo stato che muovono a loro piacimento !‐ gli ripeteva il <strong>capitano</strong><br />

continuamente.<br />

Intanto il “cantiere familiare” di Francesco e Fortunata lavorava a tutta forza. In quegli anni<br />

ebbero altri due figli, Dante e Renato. In compenso l’attività <strong><strong>del</strong>la</strong> falegnameria stentava; alti e<br />

bassi si succedevano come le montagne russe tanto che Francesco si lamentava in casa:<br />

“Questo governo qualcosa dovrà pur fare per sollevare l’economia nazionale, ci vogliono<br />

investimenti pubblici, completare la ferrovia a S.R. Gioia‐Cittanova e commesse ferroviarie;<br />

bastimenti sono anni che non si costruiscono più … “. Però le banche crescevano: è <strong>del</strong> 1926<br />

l’apertura degli sportelli <strong><strong>del</strong>la</strong> Banca Commerciale Italiana: lo stesso anno <strong><strong>del</strong>la</strong> dipartita di sua<br />

madre Maria, moglie di mastro Peppe Orlando, all’età di 62 anni. Mastro Peppe si sarebbe<br />

risposato più tardi a Reggio Calabria dove trasferì la sua attività e con sé tutti i suoi figli. Il 21<br />

aprile 1927, a Gioia Tauro, vi fu una grande festa per l’arrivo <strong>del</strong> primo podestà, il commendator<br />

Francesco Starace Tripodi, che fu accolto dalla cittadinanza in divisa, fra cui i figli <strong>del</strong> Capitano, e<br />

con la santa benedizione <strong>del</strong> parroco don Pasquale De Lorenzo.<br />

Francesco non ci andò volutamente. Né ascoltava le parole di suo cognato Peppino che lo invitava<br />

a presenziare per non inimicarsi il fascismo.<br />

“Sentimi Francesco ‐ diceva Peppino con le mani dietro la schiena ‐ non parlar male di questa<br />

gente, perché sono vendicativi … se tu sfoghi così alla fine … “ Francesco lo interrompeva stizzito:<br />

“Io non capisco che ci trovi di appassionante in questa teppaglia, ti metti sullo stesso piano di<br />

questa massa di ignoranti e violenti …!”.<br />

“Vedrai che l’Italia diventerà grande con Mussolini e la sua mano dura… !”.<br />

“Intanto anche tu stenti con il lavoro … finora solo questo è arrivato: il costo <strong><strong>del</strong>la</strong> vita in aumento<br />

!”.<br />

Effettivamente le cose non andavano bene. “Considerato 100 il costo <strong><strong>del</strong>la</strong> vita nel 1913 … nel<br />

1926 era arrivato a quota 657 … !”<br />

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“L’Italia era tormentata dal suo malessere cronico: lo squilibrio <strong><strong>del</strong>la</strong> bilancia commerciale.<br />

Importava tante materie prime di cui era povera: petrolio, grano. Il primo atto <strong><strong>del</strong>la</strong> politica<br />

economica <strong>del</strong> fascismo fu: la battaglia <strong>del</strong> grano. Aumentava il dazio d’importazione<br />

progressivamente con l’obiettivo dichiarato di incrementare la produzione interna di cereali,<br />

bonificando terreni acquitrinosi.<br />

“Altre iniziative furono la riduzione dei consumi di petrolio, carta e la riduzione dei dipendenti<br />

pubblici. Mussolini e il fascismo avevano promesso rinascita e gloria, finora erano arrivati solo<br />

sacrifici. Ci si stava avviando verso l’autarchia, lentamente.<br />

Questo bastava a stizzire Francesco:<br />

“Lo sapevo, ora il legno d’importazione ci costerà più caro !” e giù una bestemmia. “Queste sono<br />

tutte le promesse che ha fatto nei suoi comizi o scritto sulla stampa!”<br />

Ma si stava preparando all’orizzonte <strong>del</strong> mondo una nuova catastrofe economica e finanziaria: era<br />

il 1929.<br />

Carmela e Gaetano ebbero il sospirato figlio maschio dopo tanti anni a cui fu dato il nome <strong>del</strong><br />

nonno: Domenico. L’ultima figlia <strong>del</strong> Capitano <strong>Carresi</strong>, Antonietta sposò un altro marinaio di nome<br />

Giuseppe Romeo, nel 1928 e partorì nello stesso anno un altro maschietto a cui fu imposto il nome<br />

di Francesco, e, tanto per cambiare, come quello di suo nonno.<br />

Mentre la tempesta di Wall Street si avvicinava, Francesco discutendo con i figli più grandicelli ,<br />

Francesco e Vincenzo aveva espresso la volontà di spostare la segheria dalla marina (l’attuale via<br />

Trimacria), presso il quadrivio Sbaglia di Gioia, nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong> ferrovia <strong>del</strong>lo stato e <strong><strong>del</strong>la</strong> ferrovia a<br />

scartamento ridotto.<br />

Quella era diventata una zona di grande espansione commerciale, dopo la costante e continua<br />

caduta <strong>del</strong>l’uso <strong><strong>del</strong>la</strong> infrastruttura navale.<br />

In quella zona <strong>del</strong> quadrivio Sbaglia, dove s’incrociavano la S.S.111, la cosiddetta zona dei<br />

“caconghi”, piena di cisterne, depositi di granaglie, cereali, paste alimentari, fabbriche che<br />

trattavano gli agrumi, vetrerie, altre segherie, Francesco e i figli montarono, dopo aver affittato il<br />

terreno, i macchinari necessari all’attività.<br />

Un principio economico liberale ma ancora valido affermava che, in un mercato, il prezzo più<br />

concorrenziale è destinato ad emergere, tenendo conto <strong><strong>del</strong>la</strong> qualità <strong>del</strong> prodotto. Ma in un paese<br />

che si nutriva di falsi miti e di un individualismo esagerato, non era ammessa la capacità tecnica<br />

superiore di uno rispetto all’altro, e, invece, di tentare di superarlo, con la propria bravura, si<br />

calunniava il concorrente o si ricorreva ad atti di viltà. Mentre le cose si aggiustavano per<br />

Francesco piano, piano, una notte <strong>del</strong> 1929, dopo la nascita <strong>del</strong>l’ultimo maschio, Renzo, un tale De<br />

Stefano diede fuoco alla segheria di Francesco.<br />

I danni subiti furono gravissimi. La malasorte sotto l’aspetto <strong>del</strong> De Stefano aveva calato il suo<br />

asso. Tutta la materia prima prese fuoco facilmente; si salvarono solo le grandi seghe a nastro e a<br />

disco. I motori elettrici andarono persi, come pure l’impianto elettrico <strong>del</strong> capannone. Francesco<br />

era avvilito, distrutto, avrebbe voluto urlare al mondo intero la sua rabbia che addolorava il suo<br />

corpo oltre che l’anima. Lo stesso sentimento dei figli e <strong><strong>del</strong>la</strong> moglie. Ora era un problema molto<br />

serio. Il buon Capitano <strong>Carresi</strong> cercava di trovare i modi giusti per rincuorare la <strong>famiglia</strong> di<br />

Fortunata. “Benedetta <strong>famiglia</strong> ‐ diceva tra se ‐ mi faranno morire prima <strong>del</strong> tempo. Ma Signore<br />

mio soccorri chi ha bisogno con la tua misericordia”. Carmela e le altre sorelle, anch’esse,<br />

cercavano di attutire quel brutto colpo. Francesco immaginava che fosse tutta opera <strong>del</strong> De<br />

Stefano, come lo immaginava il figlio Francesco Jr e Vincenzo.<br />

“Ma se non abbiamo prove per denunciarlo, ci prenderemo la controdenuncia per calunnia,<br />

rimanendo cornuti e bastonati!”‐ ripeteva avvilito Francesco.<br />

“Gliela faccio pagare io a questo bastardo!” tuonava Francesco figlio. Ed altrettanto ferocemente<br />

rispondeva Vincenzo, un tipo che era tutto un programma.<br />

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L’umiliazione, il rancore sordo, l’impossibilità di sfogare mise a dura prova Francesco e il suo fisico,<br />

e pur non perdendosi d’animo, invitava i figli a darsi da fare per recuperare i macchinari, mentre<br />

lui si recava dai carabinieri per avere notizie o per essere ascoltato dal maresciallo dei reali<br />

carabinieri: Ciccio il massaro. Così chiamato per via dei metodi poco urbani che adoperava su chi<br />

infrangeva la legge. Questo maresciallo era, oltretutto, un buon amico di <strong>famiglia</strong> spesso si<br />

prestava la moto da Francesco Jr per andare a caccia di latitanti. Nonostante gli avvertimenti <strong>del</strong><br />

padre a non compiere atti inconsulti, il primogenito armato di una vecchia pistola a tamburo, tra le<br />

ombre <strong><strong>del</strong>la</strong> notte, aspettò il passaggio <strong>del</strong> De Stefano e scaricò tutti i colpi <strong>del</strong> caricatore, senza,<br />

per fortuna colpirlo. L’uomo si mise a correre gridando aiuto. Francesco guadagnò la via di fuga,<br />

nascosto dalla notte. Il De Stefano, dopo la paura, denunciò il tentativo d’omicidio nei suoi<br />

confronti, contro ignoti (anche se lui immaginava l’autore). L’indomani “massaro Ciccio” invitò il<br />

capo<strong>famiglia</strong> a recarsi presso la caserma al Piano <strong>del</strong>le Fosse. Questo locale sembrava una fortezza<br />

ed aveva un che di sinistro, anche se nell’altra metà <strong>del</strong>lo stesso stabile vi abitava l’amico <strong>del</strong><br />

Capitano Achille Normanno da cui si recava spesso, quasi ogni giorno , per via <strong>del</strong> suo lavoro di<br />

esattore <strong><strong>del</strong>la</strong> luce assieme al figlio Ciro, per conto <strong>del</strong> Barone Musco. Era sinistro quello stabile<br />

solo per i <strong>del</strong>inquenti incalliti. I reali carabinieri non avevano riguardi per questa gente: colpevoli o<br />

innocenti che fossero quando uno di questi arrivava là, erano botte da orbi. E quando era reo<br />

confesso, massaro Ciccio lo incaprettava e lo portava in giro per il paese urlando:<br />

“Guardate che fine fanno i malandrini, guardate e pensateci bene prima d’infrangere la legge !”.<br />

In caserma il maresciallo spiegò l’accaduto a Francesco: tentativo d’omicidio contro il De Stefano.<br />

“So che avete avuto <strong>del</strong>le questioni con lui … “. <strong>Di</strong>sse il maresciallo.<br />

“Ah … maresciallo ero convinto che eravate riusciti a scoprire chi ha messo fuoco alla mia segheria<br />

… ma io e i miei figli, lo sapete bene, di queste cose non ne facciamo. E poi siamo rimasti sempre a<br />

casa, abbiamo chi può confermare il nostro alibi”.<br />

Intanto era arrivato il resto <strong><strong>del</strong>la</strong> parentela: il Capitano ed i cognati. Le indagini, comunque sia, non<br />

portarono a risultati concreti. La notte successiva Francesco cedette. Il suo fisico provato dal<br />

continuo stress, fu colpito da emiparesi sul lato destro <strong>del</strong> corpo: il viso storto, non riusciva a<br />

muovere il braccio e la gamba destra. Fu ricoverato all’ospedale di Taurianova.<br />

“<strong>Di</strong>o mio, perché altre sofferenze ? Ma sia fatta la tua volontà !” pregava così il Capitano mentre<br />

assieme a Carmela si recava dalla figlia Fortunata. La sua vita fu salva, ma il suo fisico restò<br />

menomato per sempre: neanche le scosse elettriche riuscirono a migliorare le sue menomazioni.<br />

Il regime fascista aveva plagiato ormai la società civile italiana: non aveva solo eliminato le<br />

libertà democratiche, ma l’aveva militarizzata creando organizzazioni che avevano lo scopo di<br />

rendere visibile in ogni attività umana il fascismo ed i suo creatore Mussolini. Furono quelli gli anni<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> cosiddetta “fascistizzazione” <strong>del</strong>lo stato: dalla cultura, creando “l’Accademia d’Italia”, la legge<br />

sulla “bonifica integrale”, per coltivatori diretti, braccianti che migliorò le condizioni di alcune<br />

regioni; si ammodernarono le reti di trasporto; fu completata la ferrovia a scartamento ridotto<br />

Gioia‐Cinquefrondi; leggi a favore dei lavoratori, inquadramento di tutta la gioventù tramite<br />

l’O.M.B.; camere di commercio. Ind. Agr. Art. , furono ristrutturate e guidate da fascisti; tutto era<br />

pervaso dallo “spirito fascista”. Ogni aspetto <strong><strong>del</strong>la</strong> vita doveva contenere il fascismo: più<br />

volgarmente, veniva chiamata “tessera <strong>del</strong> pane”. Opporsi significava l’esilio.<br />

Il tassello mancante il fascismo lo inserì l’11 febbraio <strong>del</strong> 1929 con i Patti Lateranensi, che avrebbe<br />

portato la chiesa nell’orbita <strong><strong>del</strong>la</strong> dittatura definendo i rapporti fra stato e chiesa, i confini, il<br />

cattolicesimo religione ufficiale <strong>del</strong>lo stato ecc.<br />

Fu un colpo da maestro. Mussolini da Pio XI fu proclamato “L’uomo <strong><strong>del</strong>la</strong> provvidenza !”. In ogni<br />

omelia, in tutte le chiese si gridava “Viva l’uomo <strong><strong>del</strong>la</strong> provvidenza!” Così esultava Don Pasquale<br />

De Lorenzo. Il fascismo, tra l’altro, diede inizio alla costruzione di nuove chiese. In quell’anno fu<br />

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iniziata la costruzione <strong>del</strong> Duomo di Gioia Tauro su un terreno, donato al vescovado dal Barone<br />

Cordopatri, vicino alla ferrovia. (il posto attuale)<br />

I Patti lateranensi,sotto l’ottica politica, furono firmati contro la volontà dei politici cristiani. De<br />

Gasperi scriveva nel 1929 a Don Simone Weber: “Il vero pericolo piuttosto è nella politica<br />

concordataria. Ne verrà una compromissione <strong><strong>del</strong>la</strong> chiesa con un regime antidemocratico … “. La<br />

stessa amarezza traspariva dalle lettere di Don Sturzo, fondatore <strong>del</strong> Partito popolare italiano,<br />

movimento cattolico.<br />

Il 1929, come già preannunciato, fu un anno ricco di avvenimenti, non solo per la <strong>famiglia</strong><br />

<strong>Caratozzolo</strong>, <strong>Carresi</strong>, per l’Italia, ma per il mondo intero: calava la notte <strong><strong>del</strong>la</strong> crisi economica che<br />

avrebbe trascinato intere Nazioni <strong>del</strong> mondo a contare i disoccupati e gli affamati.<br />

“Nella piana e nella provincia di Reggio Calabria gli effetti <strong><strong>del</strong>la</strong> crisi non potevano non essere<br />

visibili sul mercato dei prodotti agricoli e <strong>del</strong>l’olio in particolare “.<br />

A questo stato di crisi economica internazionale si aggiungeva la politica economica <strong>del</strong>lo stesso<br />

fascismo tendente a racimolare risorse finanziarie per l’esercito al fine di rafforzarlo per le<br />

conquiste imperiali. A Gioia la crisi <strong>del</strong>l’olio significava, in sequenza, il fermo di tante attività<br />

indotte e salari in circolazione ridotti. Francesco dopo l’incendio e la malattia era fiaccato nel<br />

corpo ma non nello spirito. La voglia di ricominciare gli era riapparsa: “Tu sei stato colpito alla<br />

gamba ed al braccio non al cervello”‐ gli diceva sua moglie Fortunata mentre gli accarezzava la<br />

testa bionda. Ma c’era stata anche la solidarietà, la vicinanza, l’affetto dei parenti tutti, che<br />

facevano a gara per infondere coraggio a Francesco. Spesso una grande <strong>famiglia</strong>, non nel senso <strong>del</strong><br />

numero dei componenti, ma nei valori che rappresentano sono un toccasana per lo spirito, che<br />

spinge a combattere contro le avversità <strong><strong>del</strong>la</strong> vita. Il Capitano <strong>Carresi</strong> poteva essere soddisfatto di<br />

questo, di quanto insegnato ai propri figli. Le sorelle di Fortunata facevano a gara per starle vicino<br />

in quei momenti terribili. Carmela e Gaetano si offrirono con generosità. Già da tempo Vincenzo<br />

dormiva a casa loro. Anche i fratelli arrivarono in soccorso di Francesco. Dopo l’incendio <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

segheria, l’operatività <strong><strong>del</strong>la</strong> stessa, fu spostata in via Asmara in un terreno vicino alla stazione di<br />

proprietà di un tale Savastano Nicola.<br />

Ed ognuno si dava da fare lavorando, come poteva, dovunque. Peppino il terzogenito, chiamato<br />

dagli amici e dai parenti Pineo perché piccolo come la mamma. Francesco,il suo papà, che fumava<br />

come un turco, provvedeva a rifornirlo di sigarette, trasformando le foglie <strong><strong>del</strong>la</strong> vite, seccate e<br />

polverizzate, poi acquistava le cartine e ne faceva <strong>del</strong>le sigarette.<br />

Vincenzo partiva con lo zio Gaetano e lo zio Rocco che avevano un appalto presso il porto di Villa<br />

S. Giovanni.<br />

Vincenzo era un tipo molto chiuso di carattere, un temperamento indipendente e libero, nervoso<br />

quanto bastava, per zittire tutti; ma gran lavoratore e con una forza fisica eccezionale. Riusciva a<br />

spingere una barca in mare con la forza <strong>del</strong>le braccia. Ma poteva portare guai a non finire.<br />

“Assomiglia alla madre ‐ dicevano le sorelle ‐ per il carattere”.<br />

Un giorno poco prima di rientrare a Gioia in treno, mentre era con gli zii, un uomo che lavorava lì<br />

vicino l’apostrofò ironicamente:“A te pianoto, vieni qua !” Vincenzo lo guardò di brutto e non<br />

rispose.<br />

”Sto parlando con te, sei pure sordo ? Vieni qua”‐ continuava quello e rideva. Vincenzo lo guatò<br />

corrucciato e gli rispose:<br />

“Sono per caso tuo fratello di sangue? Alla larga e lasciami in pace !”.<br />

Un vecchio proverbio declamava: “Tanto va la gatta a lardo che ci lascia lo zampino !” e ce lo lasciò<br />

veramente lo zampino il “cercatore” di guai. Ad una nuova provocazione, minaccioso Vincenzo si<br />

avvicinò all’uomo, quello capì di aver esagerato e prese un bastone, ma Vincenzo svelto come un<br />

gatto gli zompò addosso e lo colpì con un coltellino col quale tagliava il pane per il pranzo.<br />

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Gaetano lo fece nascondere invitandolo a scappare. L’uomo fu ferito in maniera leggera. Il medico<br />

gli disinfettò le ferite:<br />

“In una settimana guarirà “. L’uomo non sporse denuncia, perché aveva torto, come da<br />

testimonianze presenti. Corrente l’anno 1930, nel mese di luglio, un grave sisma colpì alcune<br />

regioni meridionali. Si contarono morti e feriti, tanti paesi furono distrutti completamente. Una di<br />

queste regioni, la più colpita <strong>del</strong>le altre, fu la Lucania. Ad un avviso pubblico <strong>del</strong> ministero<br />

interessato, Francesco montò le macchine e sbarcò a Melfi, con i figli maggiori.<br />

Era uno di quei paesi di montagna, ai piedi <strong>del</strong> monte Vulture, con le strade strette e sterrate, le<br />

case vecchie addossate una sull’altra con tegole grigie e muri spessi fatti con grosse pietre poste<br />

l’una sull’altra, cespugli d’erba uscivano dalle fessure dei muri crepati già per la vecchiaia. Gli<br />

abitanti erano contadini o pastori e, di giorno, le sue viuzze erano attraversate da greggi di capre o<br />

pecore e da asinelli con due sporte ai lati pendenti sulla loro schiena. Francesco la stessa iniziativa<br />

di costruire baracche, la prese anche sul territorio di Sulmona, devastato dallo stesso terremoto.<br />

Il primo contatto con la cittadinanza semidistrutta fu per i figli di Francesco traumatico. Ovunque<br />

case crollate, cumuli di calcinacci e pietre, le traversine di legno dei tetti sul pavimento, le già<br />

difficili stradette diventarono impraticabili. I morti furono centinaia. A quella vista il loro cuore si<br />

fece piccolo piccolo. La <strong>famiglia</strong> osservava quella tragedia umana dal vivo, da vicino, in diretta.<br />

Francesco allo sgomento dei figli, rispose con la parola:<br />

“Coraggio!” e raccontava loro che nel 1908, quando lui era giovanotto. Il terremoto di Reggio e<br />

Messina era stato ancora più tremendo.<br />

“I morti furono migliaia e migliaia e lo stesso nonno Francesco, a Bagnara perse la casa e si salvò a<br />

stento con tutta la <strong>famiglia</strong>: il maremoto completò l’opera di distruzione. Il fratello <strong><strong>del</strong>la</strong> mamma,<br />

zio Vincenzo, si salvò dal maremoto assieme al veliero perché ancora non erano attraccati alla<br />

banchina “.<br />

Questo dialogare e spiegare ridiede vigore ai ragazzi. Poi guardando in alto notarono un castello<br />

con le sue alte mura, le torri merlate e grandi finestre con le inferriate, ancora integro; e si<br />

chiedevano come avesse potuto resistere a tale furia devastatrice. Francesco spiegava,<br />

affermando:<br />

“Perché, in quel tempo, il medievo, le abitazioni si costruivano con criteri diversi ma solo per i<br />

signori, senza risparmio di materiali e manodopera. Quei nobili erano padroni <strong><strong>del</strong>la</strong> vita e <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

morte dei loro vassalli. Come fanno ora i fascisti. Con la differenza che i nobili sapevano leggere e<br />

scrivere, i vassalli no. Ora i fascisti spadroneggiano, pur essendo ignoranti, con il manganello … “<br />

“Certo ‐ annuiva Vincenzo ‐ ma solo con i deboli … con i forti ci pensano due volte !”<br />

“E’ gente da quattro soldi e noi dobbiamo stare al gioco perché comandano loro. Se non avessi<br />

preso la tessera, non avremmo potuto lavorare !. Perciò ora diamoci da fare, facciamo scaricare la<br />

roba, sul posto che ci avranno assegnato … e coraggio, prima o poi, toccherà anche a loro subire …<br />

guardiamo avanti, lasciamo questi momenti brutti che abbiamo passato “‐ disse Francesco padre.<br />

“Papà, diteci voi cosa dobbiamo fare ora … vado al comune a chiedere dove mettere le macchine?<br />

– chiese Francesco figlio.<br />

“No, vado io. Chiederò notizie al municipio se è ancora in piedi … o direttamente al podestà <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

cittadina – rispose il padre.<br />

Cominciò così, l’avventura lucana di una parte <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> mentre l’altra era rimasta in buona<br />

compagnia a Gioia Tauro. Il Capitano continuava a fare l’esattore con il figlio Ciro per conto <strong>del</strong><br />

barone; le sorelle erano sempre dalla loro mamma a farsi compagnia l’un l’altra.. La loro vita<br />

scorreva tranquilla: mare in bonaccia avrebbe detto il Capitano. Qualche novità derivava<br />

esclusivamente dalle intemperanze dei fascisti o dall’arrivo di qualche esiliato. Le scuole<br />

elementari dove le sorelle accompagnavano i figli, erano poste in un locale baraccato, all’incrocio<br />

tra lo stradone e via Solferino.<br />

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Obbligatoriamente in divisa, poi li accompagnavano alle organizzazioni fasciste per altre attività,<br />

chi aveva i mezzi mandava i figli a scuola di musica. Anche i più poveri furono inquadrati nelle<br />

organizzazioni fasciste. Ma il fascismo con tutta la sua “etica”, non riuscì ad alfabetizzare “i<br />

bagnaroti” che rimasero, nella scala sociale, sempre ai margini. A scuola di musica fu mandato<br />

anche il quinto figlio di Fortunata e Francesco, Dante, che in seguito (1931) avrebbe suonato nel<br />

complesso bandistico di Gioia Tauro assieme allo zio Ciro.<br />

Quella mattina il buon <strong>Di</strong>o, assopito un po’ di più, non vide quel che stava accadendo a Gioia.<br />

Mentre il Capitano e suo figlio erano intenti al loro lavoro, si presentarono dal barone Musco<br />

alcune camicie nere che gli chiesero di prestare giuramento al fascismo. I Serra‐Cardinale maritata<br />

Musco, pur appartenendo alla ricca nobiltà terriera latifondista, che in altre parti d’Italia<br />

sostennero le idee fasciste con mezzi finanziari, erano rimasti “freddi” nei confronti di questo<br />

movimento che poi diventò di massa. Non perché fossero contrari, ma erano rimasti borbonici<br />

dentro l’anima. E il bello era che lo stesso barone, nonostante annoverasse un fratello, alto<br />

ufficiale di cavalleria fascista, manifestava la sua freddezza nei confronti dei fascisti locali. Alla<br />

richiesta di questi di adesione al fascio locale, il barone che li aveva fatti accomodare, li guardò<br />

uno per uno in faccia con un’espressione seria, ma di disgusto. Poi disse:<br />

“Vedete signori, si dice, che normalmente gli uomini accettino le catastrofi, ma non le seccature …<br />

ora nella mia vita di catastrofi ne ho viste e subite tante, sia io che la mia grande <strong>famiglia</strong>, i Serra‐<br />

Cardinale e i Musco, ed anche la catastrofe <strong>del</strong> fascismo sono disposto a subirla, senza sentimento,<br />

ma la seccatura no … questo no ! E voi siete per me una seccatura !” e si alzò dalla poltrona:<br />

“Perciò uscite immediatamente da questa casa onorata !”. I fascisti rimasero sorpresi, ma si<br />

ripresero subito:<br />

“Caro Musco, non vi chiamiamo neanche barone‐ disse l’ufficiale <strong><strong>del</strong>la</strong> milizia ‐ come c’insegna il<br />

nostro Duce “me ne frego !” anche noi siamo gente dura e a noi i contrasti non ci piacciono … e<br />

quando non ci piace una cosa la serviamo a dovere: per ora ci accontentiamo di darvi una curetta”<br />

e mise sul tavolo una bottiglia di olio di ricino “che vi ricorderà che siamo i padroni d’Italia !”.<br />

“Errato, cari camerati ‐ rispose subito il barone ‐ voi fate pure … ma vi assicuro che i padroni sono<br />

sempre coloro che hanno i soldi ! Chi ha i soldi trova sempre da comprare”!<br />

Il barone si bevve il suo olio di ricino, ma quelle camicie nere furono più purgate di lui !<br />

L’imbarazzo fu grande in città, perché il barone era un benefattore: non era affatto uno di quei<br />

nobili attempati, sguardo severo, accigliato, riservato o molto distaccato. Anzi. E tutti tifavano per<br />

lui.<br />

Intanto a Melfi Francesco con i figli continuavano a costruire baracche per i senzatetto. Il lavoro<br />

c’era, ma veniva pagato tardi. I giovanotti lavoravano tanto, mentre Pineo preparava da mangiare<br />

o sbrigava qualche servizio o aiutava i fratelli. Francesco, quasi settimanalmente, rientrava a Gioia<br />

a rivedere l’altro pezzo <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong>, risiedente in via Risorgimento, una stradina nei pressi <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

chiesa di Portosalvo. Qualche volta, rientravano tutti assieme. Spesso a Melfi andavano a bussar al<br />

municipio a quattrini; il bando di gara era chiaro: il comune avrebbe provveduto a pagare ogni<br />

baracca richiesta. Qualche lavoro privato c’era pure: ed erano soldi in più che entravano. Ma gran<br />

parte <strong>del</strong>l’introito proveniva dall’ente pubblico. E quando l’introito non arrivava Francesco si<br />

recava a chiederne ragione al podestà Ferretti, un uomo piccolo e macilento, con un paio di<br />

baffetti da sorcio e da sorcio erano pure i due dentini che gli uscivano dalla bocca: uno, vedendolo<br />

fuori sede, gli avrebbe suscitato pietà e gli avrebbe regalato qualche tornese.<br />

Sempre dubitare <strong>del</strong>le prime impressioni che poteva dare un vecchio vestito! Ferretti aveva un<br />

paio di fessure come orbite e due occhietti che appena, appena si vedevano, poggiati su due<br />

zigomi alti e puntuti, che gli davano un’espressione da duro. E lo era anche nel tono <strong><strong>del</strong>la</strong> voce,<br />

molto autorevole e ferma.<br />

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Alla domanda di Francesco, sui motivi <strong>del</strong> ritardo nei pagamenti, Ferretti gli puntò gli occhietti<br />

addosso come volesse trapassarlo e scrutargli l’anima, e rispose così, mentre con il dito pollice e<br />

indice si lisciava il baffo destro: “Egregio camerata, perché lei è sicuramente un camerata e non un<br />

sovversivo, il fascismo non manca mai di parola. Voi avrete i soldi <strong>del</strong> lavoro fatto.” Francesco, nel<br />

frattempo, aveva tirato dal portafoglio la tessera <strong>del</strong> fascio, e pensava tra se e se: “E’ inutile con<br />

questa gente la musica è sempre la stessa, cambi piazza o via o paese, i fanatici sono tutti uguali<br />

…” e rispose:<br />

“Camerata podestà ecco la mia tessera d’iscrizione alla Camera di Commercio di Reggio Calabria:<br />

avete la fotocopia in mezzo ai documenti da me presentati … non ho mai messo in dubbio la<br />

serietà <strong>del</strong> fascismo e <strong>del</strong> nostro Duce, ma volevo solo ricordarvi che sono padre di otto figli. E se i<br />

miei numerosi figli non mangiano, non potranno servire a dovere il Duce “.<br />

Il podestà Ferretti, mentre Francesco esponeva le sue ragioni, aveva preso in mano la sua tessera<br />

d’iscrizione, poi rispose:<br />

“Bene, bene … ma ho avuto l’impressione che entrando non abbiate usato il saluto romano …”<br />

Francesco si rese conto di avere trascurato quest’aspetto che sembrava marginale, ma non lo era.<br />

A Francesco non andava giù quel tipo di saluto, ma per il fascista fanatico era importante. Si<br />

riprese subito: “Camerata podestà, spero che mi abbiate ben osservato: non posso alzare il braccio<br />

destro, e trascino la gamba …” e lui di rimando:<br />

“Si avvicini, caro Camerata, venga, venga …” mentre si avvicinava al podestà, sgranando gli occhi<br />

azzurri, Francesco si chiedeva cosa volesse il topo. Appena fu vicino alla scrivania, di colpo, il<br />

podestà aprì un cassetto e chiese:<br />

“Vedete soldi qui?”<br />

“No !” rispondeva Francesco sempre più stupito. Poi tirava a se l’altro cassetto:<br />

“Vi sono soldi qua?”<br />

“No!” ripeteva Francesco.<br />

“Come vede, caro camerata, ora soldi non ne abbiamo. Appena arriveranno, sarete pagato. “ e<br />

Francesco ritornava <strong>del</strong>uso dai figli. Vincenzo furibondo con la sua voce afona e alterata, diceva:<br />

“Lasciate che vada io a parlar con il topo e vedrete che i soldi spunteranno !” “Tu stai fermo dove<br />

sei … “ lo rimproverava Francesco aspramente “finora la galera l’abbiamo evitata tutti a Gioia, qui<br />

non sappiamo come può andare !”. Ma era dura da mandare giù. Non bastava il sacrificio di stare<br />

lontani da casa, ma, perdinci, non avere quello che ci tocca è il colmo ! Pensava Francesco.<br />

“Allora vuol dire che ci fermeremo fin quando non ci avranno pagati !” confermava il primogenito.<br />

“Questo è sicuro”‐ diceva Francesco ‐ noi siamo venuti qua perché il lavoro a Gioia era pochino,<br />

mica possiamo ritornare così, e dare soddisfazione ai compaesani? No, dobbiamo avere pazienza.<br />

“ E ripresero a tagliare tavole per baracche.<br />

Quando meno se lo aspettavano il podestà pagava il dovuto a Francesco. E si riprendeva con<br />

rinnovato rigore.<br />

Rimasero a Melfi circa 2 anni.<br />

Quando il lavoro si ridusse parecchio e nulla si notava all’orizzonte, i due fratelli più grandi,<br />

andavano a lavorare con imprese che ripristinavano il manto stradale. Quelle erano battute da<br />

carretti a trazione animale, asini o buoi o cavalli. Le strade erano lastricate da lastroni lavici<br />

rettangolari: quando erano bagnate facevano scivolare gli animali da tiro. Gli operai scalpellini<br />

rendevano antisdrucciolevoli i lastroni di pietra, forandoli con martello e punzone. I due fratelli<br />

lavoravano a “giornata”.<br />

L’inverno <strong>del</strong> 1932, l’ultimo anno di permanenza a Melfi, fu il più tremendo. Francesco, finito il<br />

lavoro, si decise di rientrare a Gioia. Ma furono bloccati lì per parecchio tempo da una grande<br />

quantità di neve,mai vista a memoria d’uomo. Ed il rientro fu impossibile per il tempo, per il<br />

consumo dei fondi: con il podestà sul podio la musica era sempre quella. E, mentre il freddo si<br />

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poteva tagliare con il coltello e la neve era tutt’uno con le baracche, il castello e la natura,<br />

Francesco mandò uno dei figli a spedire un telegramma: “Paese bloccato da neve e freddo. Spedite<br />

soldi per rientro stop Francesco”.<br />

Dopo qualche settimana con l’attrezzatura già sul punto di essere caricata sul treno, ecco che il<br />

podestà Ferretti lo fece chiamare e liquidò la rimanente parte <strong>del</strong> loro lavoro. Successivamente al<br />

loro rientro da Melfi,la stentata economia gioiese, antica da tempo immemore, aumentò per gli<br />

effetti <strong>del</strong> crollo <strong><strong>del</strong>la</strong> borsa di “Nuova York”, che fu devastante per il mondo intero, ma che già<br />

per conto suo soffriva di mali endemici: tasso di disoccupazione alto, imprese ferme, senza<br />

commesse ,economia stagnante. Rimaneva una sola strada da battere per il governo fascista:<br />

l’investimento pubblico. Francesco prima di rientrare a Gioia, ritirò i suoi macchinari anche da<br />

Sulmona, cittadina anch’essa distrutta dal terremoto, in Abruzzo, provincia <strong>del</strong>l’Aquila. Infine<br />

rientrò definitivamente a Gioia. Quivi Francesco, successivamente con gli affari che andavano<br />

benino, prese in affitto un terreno più grande, sempre in quell’area, in via Monacelli, allora una<br />

strada di campagna battuta da buoi, muli, asini, che metteva in comunicazione il ponte ferroviario<br />

di via commercio con la S.S. 18.<br />

Andando verso quella strada di campagna, il lato destro era abitato da bovari, contadini, pecorai.<br />

Sul lato sinistro vi era la segheria, vigneti, agrumeti, oliveti giù fino in fondo. Sembravano luoghi<br />

vuoti, invece era un brulicare di persone che svolgevano il loro lavoro tra gli alberi. Nei momenti di<br />

crisi economica, il settore primario assumeva un ruolo importante: la terra, la sua natura, la grazia<br />

di <strong>Di</strong>o, non ti tradisce mai.<br />

In effetti senza il frutto <strong>del</strong>le campagne, la fame in quegli anni sarebbe stata fatale. Identico<br />

discorso valeva per le industrie di trasformazione come segherie, oleifici, distillerie.<br />

L’antipatia di Francesco verso il fascismo fu sempre gagliarda; ma era un po’ più prudente. Il solo<br />

fatto che avesse dovuto iscriversi al partito in quanto: “Requisito indispensabile per la stessa<br />

capacità di diritto pubblico dei cittadini” lo obbligava alla prudenza. Ma nell’ambito familiare si<br />

sfogava. Ed il Capitano, la moglie, le cognate lo mettevano in guardia dal dire certe cose: il<br />

<strong>del</strong>atore di turno poteva stare li vicino, o, passare in quel momento, e, lui con quel carattere<br />

irruento per una parola detta in più, poteva passare guai.<br />

In effetti la <strong>del</strong>azione, la denuncia nascosta, pur essendo per la nostra cultura, un aspetto<br />

deprecabilissimo, durante il fascismo diventò una filosofia di vita. Il fascismo, nella sua ansia<br />

feroce di costringere la volontà altrui a obbedire, ad assoggettarsi completamente, capiva di aver<br />

vinto, ma non convinto gli italiani. Per colpire meglio i riottosi usò questa arma a proprio uso e<br />

consumo, pagando profumatamente i <strong>del</strong>atori. Sul piano <strong><strong>del</strong>la</strong> società civile, questa filosofia,<br />

spinse le persone a diffidare anche dei propri amici.<br />

Uno dei poche svaghi <strong>del</strong> tempo era la visione di qualche film muto, proiettato presso il locale<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> società operaia o qualche spettacolo teatrale. Durante la proiezione dei film muti, vi era Ciro<br />

che con un pianoforte accompagnava le vicende raccontate dal film.<br />

Oppure vi era la frequentazione dei circoli aperti dal fascismo stesso, per tutte le persone, i<br />

lavoratori, chiamati “dopolavoro” una sorta di “camera di compensazione” ove la gente comune<br />

veniva assillata, torturata nelle glorificazioni di Mussolini e <strong>del</strong> fascismo. Un aspetto umano,<br />

personalissimo come lo spasso, il divertimento, il tempo libero era proprietà <strong>del</strong> fascismo e dei<br />

suoi accoliti. Anche le tradizionali feste religiose divennero oggetto simbolico per decantare il<br />

sacro ed il profano: sia la religione che tutto ciò che riconduceva alla nazionalità, al fascismo, così<br />

fu inventata la festa <strong><strong>del</strong>la</strong> Marcia su Roma; la Befana fascista; la festa di Roma caput mundi. La<br />

befana fascista era in camicia nera con i regali per i buoni e il manganello per i cattivi. Le iniziative<br />

<strong>del</strong> fascismo che, al pari degli imperatori romani controllavano le masse con la filosofia <strong>del</strong> “Panem<br />

et circenses”, ebbero tanto successo in altri regimi dittatoriali fuori Italia, che fu imitato. Anche<br />

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Hitler che in Germania intanto conquistava, con la violenza, il potere, usò La concezione <strong>del</strong> tempo<br />

libero come sistema di aggregazione sociale al nazismo.<br />

Così Gioia Tauro in quegli anni ebbe il cinema pubblico, prima chiamato cinema teatro “O.N.D.”.<br />

Poi cinema teatro “Impero” (con la democrazia fu chiamato Mazzini). Era situato in piazza<br />

municipio a sinistra dei “tre canali” o uscendo dal municipio alla sua destra. Fu ristrutturato un<br />

vecchio magazzino d’olio (appartenuto al cavaliere Giffone) ed adibito a luogo d’intrattenimento<br />

pubblico.<br />

Il fascismo s’inventò i treni popolari, le colonie, le otto ore di lavoro. Le littorine furono, allora,<br />

quelle che sostituirono la vecchia ciuf‐ciuf nelle ferrovie secondarie. Una invenzione che non fece<br />

piacere agli imprenditori e agli artigiani fu la creazione <strong>del</strong> sabato fascista. Il sabato tutti dovevano<br />

partecipare, obbligatoriamente, alle loro manifestazioni : ma nessuno dei partecipanti, specie se<br />

operaio, perdeva nulla: le imprese dovevano pagare comunque.<br />

“Che il governo si dia da fare a stimolare l’economia, piuttosto che farci perdere denaro!”<br />

Francesco non si tratteneva, nonostante i garbati rimproveri <strong>del</strong> Capitano e quelli di suo cognato<br />

Peppino.<br />

Vincenzo al compimento <strong>del</strong> 20° anno partì militare. Il primogenito fu esentato. Francesco era<br />

favorevole che partisse il secondogenito:<br />

“Vediamo se sotto la vita militare cambia un poco”. Scampò alla guerra d’Africa ed a quella di<br />

Spagna: ma diede ugualmente notizia di sé.<br />

Un giorno <strong>del</strong> 1936, per fare lo spiritoso con i camerati di fronte a un gruppo di belle donnine,<br />

Vincenzo si tuffò forte <strong><strong>del</strong>la</strong> sua esuberanza giovanile, da uno scoglio nel mare di La Spezia. Ma<br />

fece male i suoi calcoli sulla profondità <strong>del</strong>l’acqua in quel punto: per poco non ci rimise il collo. I<br />

suoi amici non vedendolo riemergere si tuffarono e lo salvarono; era svenuto per il colpo.<br />

Quanto era chiuso di carattere Vincenzo come suo fratello Peppino o Renato; tanto era di<br />

compagnia Francesco jr. Che non disdegnava spassarsela con i suoi anici più cari: mastro Mico<br />

Romeo; Ciccio Costa e suo fratello Felice, giocando a carte o a padrone e sotto. Il sottofondo<br />

comune era, per tutti i fratelli, l’irascibilità. Il papà evitava di fare discussioni in <strong>famiglia</strong> in<br />

presenza di Vincenzo, su questioni attinenti mancati pagamenti da parte di alcuni clienti. Le sue<br />

reazioni potevano portare rogne. Una volta sfuggì ad uno dei suoi fratelli che quel tale cliente non<br />

aveva pagato. Vincenzo partì senza avvisare alcuno. Tornò con una “balilla”.<br />

“Che hai combinato stavolta?” urlava Francesco.<br />

“Mi sono fatto pagare il debito da Saffioti, non aveva soldi … mi sono preso la sua macchina a<br />

compensazione !”.<br />

Apriti cielo !<br />

Un vocabolario di parolacce uscì dalla bocca di Francesco, oltre le solite bestemmie.<br />

“Noi abbiamo bisogno di denaro fresco, non di macchine … voi avete le motociclette, la macchina<br />

non ci serve !”<br />

Giuseppe, orso come la mamma, era il più buono dei figli, danni a casa di suo padre non ne aveva<br />

mai portati, anzi, si sentiva poco ed era riservato.<br />

Ma era di una sveltezza incredibile, sia nel camminare, sia nel lavorare. Le cassette per agrumi<br />

erano costituite da listelle di legno (tre o quattro) che poggiavano su quattro “cunei portanti<br />

triangolari”. Le listelle sia di sotto che lateralmente si dovevano chiodare.<br />

Questa operazione si faceva manualmente. La produttività di una organizzazione è il rapporto tra<br />

prodotto e unità di tempo. Nessuno riusciva a batterlo in questo: metteva tra le labbra una decina<br />

di chiodi, poi ad una ad una inchiodava le listelle, prendendo un chiodo e col martello lo batteva:<br />

ma lo faceva con un movimento rapidissimo: era un piacere vederlo: qualche volta invece <strong>del</strong><br />

chiodo trovava il suo dito … ed allora … le stelle stanno a guardare.<br />

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Aveva capelli lisci e nerissimi, di corporatura esile e bassino di statura.<br />

Durante uno dei suoi viaggi, imbarcato da nostromo su una <strong>del</strong>le navi <strong><strong>del</strong>la</strong> “cooperativa Garibaldi”<br />

(nata nel 1920 durante il biennio rosso) di Genova, Rocco, il marito di Domenica, secondogenita<br />

<strong>del</strong> Capitano <strong>Carresi</strong>, comprò una <strong>del</strong>le prime radio, quelle con le valvole che sembravano<br />

lampadine per la luce. La portò a Gioia e ad alto volume faceva ascoltare le voci che venivano fuori<br />

da quel cubo di colore marrone, fornito di bottoncini, una rete ed un’asta che ruotava, indicante<br />

tante capitali nel suo muoversi. Per la gente, per i vicini, quella scatola era una magia: si sentiva<br />

parlare, cantare o si ascoltava la voce stentorea <strong>del</strong> duce:<br />

“Ma come fa la gente a stare là dentro? In una scatola così piccola?” diceva qualcuno. E<br />

muovendo uno dei bottoncini la voce si alzava o spostando l’altro bottone invece di parlare,<br />

cantavano.<br />

La gente addirittura si portava la sedia ed ascoltava per ore canzoni <strong>del</strong>l’Eiar o la propaganda <strong>del</strong><br />

duce che annunziava grandi vittorie future per l’Italia, la numero uno <strong><strong>del</strong>la</strong> nazioni ! Al suono di<br />

“Giovinezza, giovinezza primavera di bellezza !”.<br />

L’uso <strong><strong>del</strong>la</strong> radio utilizzata dal fascismo locale, portava la voce <strong>del</strong> duce direttamente tra le gente<br />

ed era una formidabile arma di propaganda.<br />

Intanto tra una crisi e l’altra, l’economia che non decollava, gli investimenti pubblici fascisti che<br />

riguardavano solo il settore degli armamenti, per via <strong>del</strong>le continue guerre intraprese dai<br />

“guerrieri italici” contro la politica <strong><strong>del</strong>la</strong> “perfida Albione”, esaurirono la pazienza di Francesco che<br />

si era stancato di pagare la gente, il sabato, senza che gli operai lavorassero. Così, una mattina si<br />

presentò dal federale di Gioia Tauro per fare rimostranza contro quella legge che imponeva agli<br />

imprenditori di pagare lo stesso gli operai che si recavano alle manifestazioni loro:<br />

“Dovreste provvedere a dare lavoro alle nostre attività, piuttosto che imporci dei dazi !”‐ disse<br />

rabbioso Francesco.<br />

“Attento a come parlate signor <strong>Caratozzolo</strong>, gli ordini <strong>del</strong> duce e <strong>del</strong> fascismo, non si discutono!”‐<br />

rispose il federale con quel ghigno che di solito hanno i cattivi.<br />

“Io discuto quest’iniziativa: pagatela voi la giornata a costoro, altrimenti fate <strong>del</strong> male agli<br />

imprenditori!”‐ riprese con passione Francesco; e tra una domanda e l’altra, la tensione era<br />

cresciuta … Francesco alla fine buttò sul tavolo <strong>del</strong> federale la sua tessera d’iscrizione al fascio. E<br />

mal gliene incolse. La camicia nera Labate e gli altri, si erano avvicinati al federale ed al cenno <strong>del</strong><br />

“signore” lo presero (un uomo indebolito dalla paralisi) lo legarono, gli tagliarono i capelli e gli<br />

fecero bere l’olio di ricino. E fu mandato a casa.<br />

Figuratevi i figli, specie Vincenzo. Avrebbero incendiato il paese, ma la prudenza, la saggezza <strong>del</strong><br />

Capitano e <strong>del</strong>le zie impedirono di fare ancora fesserie.<br />

Un giorno d’estate Francesco dopo aver salutato la moglie che gestiva l’unico tabacchino <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

Marina, si recò in segheria. Qui dopo aver portato il carrozzino dentro la stalla, vide una contadina,<br />

che prendeva un secchio, c’infilava dentro una bottiglia d’acqua e la calava in un pozzo artesiano.<br />

Un paio d’ore più tardi la stessa contadina riportava su il secchio con la bottiglia raffreddata.<br />

La tracannava con gran soddisfazione mentre due rivoli d’acqua le scendevano dai lati <strong><strong>del</strong>la</strong> bocca.<br />

Poi si asciugava con l’avambraccio, riempiva di nuovo la bottiglia e la riportava giù. Allora il<br />

ghiaccio, in estate, era portato da una carrozza. Il barrocciaio comprava il ghiaccio a Bagnara, lo<br />

copriva con segatura e lo vendeva a Gioia. Bagnara essendo un grosso centro peschereccio che<br />

viveva dei prodotti <strong>del</strong> mare, utilizzava il ghiaccio secco per la conservazione <strong>del</strong> pescato.<br />

Francesco, in quel momento fu illuminato: perché il ghiaccio non si può produrre A Gioia? Può<br />

servire la Piana, anche i pescatori nostrani, le nostre cantine o il bar “sport”e quelli <strong>del</strong> circondario.<br />

La <strong>famiglia</strong> <strong>Caratozzolo</strong>, allora, viveva in via Risorgimento, una viuzza prospiciente il forno degli<br />

“ursulini”e<br />

casa Morgante su fino all’abitazione <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> Vasta, qui era nato Albino, il futuro sacerdote.<br />

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Più il tempo passava più l’idea si presentava alla mente con insistenza. Ma come si fabbrica il<br />

ghiaccio? Che macchinari servono? Ne parlò con i figli più grandi e con la moglie. Ma Fortunata<br />

non era convinta:<br />

“Lascia perdere, non fare altre iniziative, basta la segheria e il tabacchino, ora come ora non<br />

abbiamo problemi, i debiti li stiamo pagando … “<br />

“L’idea è buona, c’è un bacino di centomila persone che si può servire d’estate.” E Fortunata a<br />

ribattere:<br />

“E se poi va male? Che facciamo? Ci vuole fortuna anche per le idee buone e noi non ne abbiamo<br />

tanta!”.‐ diceva tesa la moglie‐<br />

“Ma perché sei tanto pessimista? Dai problemi ne siamo sempre usciti … “ rispondeva Francesco<br />

ma Fortunata era inconvincibile.<br />

“E non pensare che, nella difficoltà, vada a bussare a quattrini da qualche sorella !” e si chiudeva<br />

la discussione.<br />

Francesco quando era preso da un’ idea, per lui buona, non si fermava: il suo spirito<br />

d’imprenditore aveva il sopravvento. Così una mattina prese il treno e si reco’ a Bagnara con uno<br />

dei figli; passò dai parenti, si fece dare <strong>del</strong>le indicazioni sul proprietario <strong><strong>del</strong>la</strong> fabbrica <strong>del</strong> ghiaccio<br />

ed assieme a loro andò da costui, tale Musolino. Fece finta di comprare <strong>del</strong> ghiaccio, cominciò a<br />

parlare <strong>del</strong> più e <strong>del</strong> meno, sul come si formava il ghiaccio, la ditta di provenienza <strong>del</strong> macchinario,<br />

e se ne ritornò a casa con le idee più chiare. Il tabacchino era posto sull’unica strada percorribile<br />

tra Gioia centro e la Marina. La più frequentata, ovviamente, da barocciai, pedoni che erano di<br />

passaggio, contadini, marinai dei pochi velieri che ancora facevano rotta verso porti vicini o le isole<br />

Eolie, caricando merce varia; rispetto a qualche decennio prima, i velieri s‘erano muniti di motore<br />

ausiliario, come il Cutter “Assunta in cielo” di 27 tonnellate dei fratelli, Padroni Marittimi Matteo e<br />

Antonio Longo. Ogni mattina, prima di prendere il largo, zio Ciccio “u fasciano” con Matteo Longo,<br />

acquistavano sigarette e sale da portare a bordo alla nave. Zio Ciccio, già allora con la voce roca<br />

per il fumo, dopo lo scambio di gentilezze, discorrevano <strong>del</strong> più e <strong>del</strong> meno: il tempo, l’annata<br />

agricola, i velieri, la pesca andata quest’anno male. Fortunata chiedeva dove andassero ora e zio<br />

Matteo rispondeva che avevano un carico di botti d’acqua da portare a Lipari. Zio Ciccio “u<br />

fasciano” comprava, col cappellino alla siciliana di traverso, tabacco e cartine, e poi andavano via.<br />

Intanto Francesco trattava con il Banco di Napoli; accompagnato dal suocero e da una telefonata<br />

<strong>del</strong> barone Musco. Al direttore <strong><strong>del</strong>la</strong> filiale, spiegò l’intento suo di fare questo nuovo investimento<br />

acquistando il macchinario necessario per produrre il ghiaccio, utilizzabile dai circoli, bar,<br />

pescatori, privati, ospedali, per la consumazione di cibi e quant’altro. Alla richiesta di garanzia la<br />

trattativa si fermò. Così in <strong>famiglia</strong>, per compiere l’operazione, fu deciso di vendere il tabacchino,<br />

dopo l’ennesima discussione. Furono presi accordi con chi produceva quelle macchine, la<br />

Termomeccanica di La Spezia, e l’impianto fu montato a Gioia Marina, in via Trinacria. Nacque la<br />

prima industria <strong>del</strong> “freddo” <strong><strong>del</strong>la</strong> piana di Gioia Tauro.<br />

Si trattava di un motore elettrico che trascinava, tramite <strong>del</strong>le cinghie trapezoidali di gomma, una<br />

puleggia. Coassialmente collegata a questa vi erano due globi metallici che pescavano entro due<br />

vasche ripiene d’acqua. Le due vasche erano separate. Dentro la prima vasca il globo era vuoto e<br />

durante la rotazione riscaldava l’acqua. L’altro era ripieno di un gas (anidride carbonica) che<br />

ruotava entro una vasca di 6metri quadrati circa, ripiena d’acqua salata o salamoia. Il globo, per<br />

effetto <strong>del</strong> gas al suo interno si gelava e per induzione gelava l’acqua, ma l’acqua salata non<br />

ghiacciava . Longitudinalmente e trasversalmente vi erano dei longheroni in ferro che lasciavano<br />

degli spazi entro cui venivano calate le formelle piene d’acqua dolce che si ghiacciavano<br />

generando un blocco. Quando era pronto, le formelle venivano estratte dalla salamoia e calate<br />

nella vasca con acqua calda. Il ghiaccio si scioglieva qualche millimetro lateralmente, a quel punto<br />

si mandava il blocco in uno scivolo, pronto per la vendita. Non c’era <strong>famiglia</strong>, o bar o cantina <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

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zona che non acquistasse un pezzo o un blocco o mezzo blocco di quella cosa fredda che ti<br />

bruciava la mano; il freddo lo si conosceva d’inverno o quando nevicava o quando lo vendevano in<br />

strada, ma avere per tutta l’estate qualcosa che ti desse refrigerio era un avvenimento. Non<br />

cambiò il costume <strong><strong>del</strong>la</strong> gente <strong><strong>del</strong>la</strong> Piana o dei gioiesi, ma raffreddare le bibite da bere,<br />

conservare il pescato o le carni, per qualche giorno, dava l’impressione <strong><strong>del</strong>la</strong> magia. Non vi era<br />

carrettiere o contadino o nobile che, passando, non si fermasse ad acquistare bibite ghiacciate o<br />

un pezzo di ghiaccio da mettere dentro il vino o l’acqua.. I pescatori lo compravano in gran<br />

quantità per i pesci, che poi vendevano nei paesi <strong><strong>del</strong>la</strong> Piana raggiunti con la “littorina” o con<br />

carrozze, senza rischio che il prodotto si deteriorasse prima <strong>del</strong> previsto. Ogni festa patronale fu<br />

allietata, non solo dagli scoppi dei fuochi artificiali o dalle bande, ma anche dal poter gustare<br />

“calia” accompagnato da una bella birra fresca !<br />

Da un’idea ne nasceva un’altra: come sfruttare questa novità al massimo? Vendere le bibite<br />

fresche a quella massa di persone che d’estate si recava al mare in cerca di frescura . E come fare?<br />

Concentrando, pensò Francesco, la gente, che d’estate, affollava la spiaggia di Gioia con la<br />

costruzione di un lido fornito di baracchine per spogliarsi, altalene di legno o a corde, zone di<br />

rinfresco. Era nato il primo lido di Gioia e, forse , <strong><strong>del</strong>la</strong> CALABRIA.<br />

Negli anni trenta, le spiagge, in estate, erano rigidamente separate. Vi era il settore <strong>del</strong>le donne e<br />

il settore degli uomini. Anche i costumi erano particolarmente castigati: le donne con vestaglie<br />

lunghe fino ai piedi; gli uomini con costumi interi. Era noto (e lo è ancora) che più proibizioni si<br />

mettevano più si spingeva l’essere umano a peccare. Ed era un via vai di gente che si muoveva, chi<br />

dalle cabine, dai giuochi o a comprare in baracca bibite fresche: gazzose, birra, acqua. Non era raro<br />

che la “lavatura”, così i vecchi marinai chiamavano la maestralata, portasse via tutto.<br />

Si ricominciava da capo. Le cose andavano bene allora. Anche la pace fatta da Francesco con il<br />

fascismo, personificata, successivamente alla purga, dal federale De Fazio col quale ci fu un<br />

rapporto di stima e simpatia. Intanto il cinema Impero era pronto. Bisognava darlo in gestione a un<br />

privato. Il De Fazio durante uno degli incontri con Francesco, lo invitava a fare domanda per<br />

ottenere in gestione il cinema Impero. In vero a Francesco gli frullava già in testa un’idea <strong>del</strong><br />

genere. Un giorno mentre era in segheria ad assistere alle operazioni di lavoro, si presentò la<br />

guardia Rocco Toscano. Nel rapporto d’amicizia chiedeva in prestito la moto Guzzi per un viaggio a<br />

Vibo.<br />

“Ma sarò di ritorno molto presto.” <strong>Di</strong>ceva Rocco Toscano.<br />

Francesco non rifiutava mai nulla. E nel discorrere, da ingenuo, rivelò all’amico che quanto prima<br />

avrebbe avuto in gestione il cinema. Il Toscano riuscì durante il viaggio di ritorno a rompere il<br />

motore <strong><strong>del</strong>la</strong> moto e rientrò in treno. Francesco quando si presentò al comune per fare la sua<br />

offerta, scoprì che il cinema era stato affidato in gestione ad un'altra persona, proprio in assenza<br />

<strong>del</strong> De Fazio.<br />

“E come può essere? Nessuno sapeva <strong>del</strong> fatto … nessuno?” Francesco mangiò la foglia. L’amico<br />

Rocco oltre al danno gli aveva procurato la beffa!<br />

Nonostante tutto, le sue attività andavano benino. Lo stesso vituperato fascismo gli dava lavoro:<br />

per le esercitazioni guerriere faceva costruire i fucili in legno e gran parte di questo lavoro veniva<br />

affidato a lui. La domenica dopo aver ringraziato il Creatore con la Santa Messa, i fratelli, ognuno<br />

con i propri amici si recava chi a fare un a partita a carte, chi al cinema, chi si dedicava al semplice<br />

passeggio o a corteggiare qualche ragazza (molto alla lontana) e spesso, come tutti i giovani <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

provincia, le discussioni futili erano all’ordine <strong>del</strong> giorno:<br />

“Ti piace quella ragazza?”<br />

“A me no, perché quella dopo il primo figlio diventerà con un culo grosso così. Preferisco quelle<br />

magre …” frasi a doppio senso, battute salaci: oppure, con decisione, la domenica gli amici<br />

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partivano col treno e andavano a Messina, dove esisteva l’unico casino più vicino a Gioia. Qualche<br />

volta ci si recava sulla spiaggia a vedere il mare in burrasca.<br />

“Tu lo faresti il bagno con un mare simile per una lira?”<br />

“Per una lira? Anche di meno … “ e giù una risata, mentre il vento di maestrale portava il rumore<br />

<strong>del</strong>le loro voci molto lontane. Poi si faceva una disamina <strong>del</strong>le belle ragazze <strong>del</strong> paese: la figlia di<br />

Tizio, di Caio, a cui ognuno di loro ci aveva fatto un pensierino. Vincenzo, ad esempio, era un<br />

bell’uomo, non solo forte e muscoloso: aveva un viso allungato e levigato con capelli lisci castani;<br />

aveva la faccia <strong><strong>del</strong>la</strong> madre. Allora corteggiava una bella ragazza <strong>del</strong> luogo, una certa Olga<br />

Stancampiano. Bella ragazza, alta, capelli scuri, viso perfettamente ovale, su cui luccicavano due<br />

occhi neri e grandi, anche lunghe rispetto al busto più tozzo, ma provvisto di seni non prosperosi,<br />

ma a misura, proporzionati. Anche a lei, Vincenzo, non era indifferente.<br />

Così, su una battuta semiseria di uno degli amici suoi, che sosteneva che non riusciva manco ad<br />

avvicinarla, Vincenzo rispose:<br />

“Ti farò vedere che io la bacerò in strada !” scommessa fatta. L’indomani, mentre la ragazza si<br />

recava in piazza per acquistare frutta e verdura, Vincenzo le si parò dinanzi e avvicinatosi<br />

rapidamente, la strinse sulle spalle e la baciò sulla bocca, tra i gridolini <strong><strong>del</strong>la</strong> ragazza (non si sa se di<br />

piacere o di paura), fra la meraviglia <strong><strong>del</strong>la</strong> gente per l’accaduto, Vincenzo si era allontanato mentre<br />

i suoi amici osservavano con stupore la scena, perdendo la scommessa. Ci fu in paese qualcosa che<br />

assomigliò ad una scossa di terremoto. Già parlare con una ragazza in mezzo alla strada, senza<br />

vincolo di parentela, era disdicevole . Figuriamoci un bacio. Roba da “fuitina” e, quindi, da<br />

matrimonio riparatore.<br />

Immediate le razioni da parte <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong> di lei: il fratello lo voleva sparare. “Che venga a farlo !”<br />

gli rispondeva Vincenzo “Lo aspetto sulla spiaggia !”<br />

Francesco, il padre, era alterato, non gli rivolse la parola per diverso tempo, anzi lo scacciò di casa.<br />

Intanto il fratello di lei Pietro continuava a minacciare. Per tutta risposta Vincenzo ripetè l’impresa<br />

e, ancora una volta, dimostrò la sua natura ribelle.<br />

Nell’anno 1937, nel mese d’ottobre, mentre Pineo in segheria produceva listelle per cassette, un<br />

nodo <strong>del</strong> grosso legno che stava segando, lo costrinse a spingere con forza il legno, quello si ruppe<br />

all’improvviso, e la sua mano finì sul nastro <strong><strong>del</strong>la</strong> sega il quale gli tranciò di netto un dito (l’indice) e<br />

per metà il medio. Immediatamente soccorso fu portato in ospedale a Taurianova.<br />

Intanto il Capitano <strong>Carresi</strong> cominciava a sentire sempre più il fastidio al ditone. Era sempre<br />

infiammato, nonostante cure e lavaggi, uso di tinture e fasciature, gli doleva. Il medico visitandolo,<br />

non poteva che avvisarlo, di fare molta attenzione, altrimenti il dito poteva andare in cancrena.<br />

Felicia invece combatteva la sua battaglia con il suo sistema nervoso fragile ed esaltato. Ogni sua<br />

manifestazione diveniva oggetto di risate: bastava chiedere il racconto di barzellette a doppio<br />

senso, che subito cominciava a parlare come se si trattasse di una favola da raccontare ai bambini.<br />

Il Capitano, rassegnato e paziente, assieme ai figli e ai numerosi nipoti, agivano per difenderla dai<br />

vicini maliziosi.<br />

Negli anni trenta, meglio tardi che mai diceva un vecchio adagio, un gruppo di facoltosi olivicoltori<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> Piana aveva dato vita alla società ‘Olivo’ (una cooperativa per azioni) con sede a Gioia Tauro<br />

sulla S.S. 18 lato Rosarno all’incrocio di via Valleamena.<br />

Finalmente gli imprenditori locali avevano capito che la produzione e la commercializzazione in<br />

proprio <strong>del</strong>l’oro verde, avrebbe potuto arrecare a loro e al territorio vantaggi e risorse da poter,<br />

successivamente, reinvestire sul posto. Considerando la frantumazione <strong><strong>del</strong>la</strong> proprietà fondiaria, il<br />

fatto che tanti produttori si fossero riuniti in cooperativa, rompeva quella cultura sociale<br />

<strong>del</strong>l’individualismo a tutti i costi, <strong>del</strong>eterio per se e per l’economia <strong><strong>del</strong>la</strong> piana. Il prodotto spedito<br />

con ferrovia in botti o, molto più raramente in nave, in varie parti d’Italia riportava all’origine il<br />

valore aggiunto ricavato e quivi reinvestito, con un effetto moltiplicatore che si immagina: operai,<br />

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impiegati, servizi indotti, altri dipendenti e salari spesi sul posto, che incrementavano altri<br />

comparti economici. “La cooperativa Olivo, nel progresso dei tempi ebbe momenti gloria, ma poi<br />

fu costretto ad affrontare grosse difficoltà specie con l’ammasso <strong>del</strong>l’olio durante il periodo<br />

bellico. L’obbligo <strong>del</strong>l’ammasso impedì una normale attività commerciale. La rettifica, poi, <strong>del</strong>l’olio<br />

con altri tipi di grassi vegetali, portarono alla condanna <strong><strong>del</strong>la</strong> cooperativa.<br />

Intanto fra una tensione e l’altra, gli stati europei stavano affastellando mattone su mattone, per<br />

arrivare ad una nuova guerra. L’Italia contro la Germania per l’Austria (Anchluss); la Francia e<br />

l’Inghilterra contro la Germania nazista; poi tutti contro l’Unione Sovietica, mentre ogni stato<br />

europeo o asiatico subiva le grandi pressioni dei più forti: bastava una scintilla e i fragilissimi<br />

accordi, compreso quello di Monaco, si sarebbero sciolti seduta stante. Gli Stati Uniti osservavano<br />

sonnacchiosi l’andazzo, però pronti ad intervenire, come Brenno, poggiando la loro forte<br />

economia ed il loro armamento sul piatto <strong><strong>del</strong>la</strong> bilancia politica internazionale.<br />

Mentre l’orizzonte europeo si offuscava, Giuseppe nel 1938 partì per la leva nella regia marina. Fu<br />

imbarcato a bordo <strong>del</strong>l’incrociatore “Cadorna”, come cannoniere; il fascismo con in mano tutti gli<br />

strumenti di propaganda preparava con la Germania di Hitler “Il patto d’acciaio” che obbligava ad<br />

intervenire militarmente nel caso che uno dei due stati fosse coinvolto in una guerra. Ciò voleva<br />

dire allontanarsi politicamente da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti: e questo scatenava il<br />

risentimento di Francesco:<br />

“Si sta inimicando con tutta Europa … abbandona tutte le nazioni economicamente più forti, per<br />

gettarsi nelle mani di un esaltato … !”‐ sbottava Francesco.<br />

“Ed è in contrasto con la nazione che ci ha aiutato durante l’embargo per la guerra contro l’Etiopia,<br />

l’America”. Questi avvenimenti sembravano molto lontani dalle preoccupazioni <strong><strong>del</strong>la</strong> gente:<br />

“Tanto noi non capiamo quello che dicono …!”. Ogni tanto qualche coraggioso antifascista faceva<br />

trovare fogli di giornali <strong>del</strong>l’opposizione: l’Unità o l’Avanti, con i quali si metteva sull’avviso la<br />

popolazione di quanto stava accadendo e <strong>del</strong>le reali intenzioni <strong>del</strong> fascismo e <strong>del</strong> nazismo.<br />

Ma il regime continuava nella sua opera propagandistica tendente a creare sdegno contro le<br />

nazioni “plutocratiche”; regalava patacche, premi, diplomi alle famiglie numerose. “<br />

“Così diventano carne da macello”. commentavano le sorelle <strong>Carresi</strong>.<br />

Giuseppe navigò 7 mesi sul Cadorna, e non furono per lui mesi felici; a parte le preoccupazioni<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> guerra . Qualcuno sosteneva che nella propria vita s’incontra sempre un “caporale”, un<br />

omuncolo che solo per aver un nastrino sulla spalla pensava di essere un generale, questo<br />

omuncolo cominciò a vessare Giuseppe: turni massacranti, dispetti, sfottò. Finchè, un giorno, una<br />

bottiglia non partì come un siluro e colpì il “caporale di giornata” sulla testa. Giuseppe arrestato,<br />

ma subito liberato per le testimonianze di un suo superiore, un ufficiale di Reggio, per punizione,<br />

fu mandato a finire la leva nelle isole <strong>del</strong> “Dodecanneso” con sede a Rodi, destinato ad una<br />

batteria costiera.<br />

Prima di ripartire per la nuova destinazione, fu mandato in licenza a Gioia. Invano il papà tentò,<br />

tramite il suo amico federale De Fazio o il nonno <strong>Carresi</strong> con il barone Musco, di trovare un modo<br />

di lasciarlo in Italia.<br />

Ma il tribunale militare lo aveva condannato; non era permesso che la bassa forza potesse reagire,<br />

alzando le mani, su un “piccolo superiore”; il fascismo puniva pesantemente “i normali” per<br />

tutelare la sua onorabilità, lasciando chiusi gli occhi per vicende più gravi. Non si potè far nulla. Da<br />

Brindisi fu portato a Rodi dove risiedeva il comando generale, guidato dall’ammiraglio Campioni.<br />

La sua prima destinazione fu l’isola di Lero a nord di Rodi. Poi Stampalia più verso ovest, ancora più<br />

piccola di Lero.<br />

Quando Giuseppe partì il primogenito Francesco jr, stanco degli alti e bassi <strong>del</strong>le attività <strong>del</strong> padre,<br />

prese la decisione di partire per cercare fortuna al nord. Tutti cercarono di convincerlo a rinunciare<br />

quell’idea.<br />

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“Mi lasci ora che abbiamo buone quantità di lavoro … ! Come faccio ? Servi alla <strong>famiglia</strong> … tuo<br />

fratello è militare in Egeo … qua non si sa come finirà … ci sarà, forse, la guerra … !”<br />

Nonostante le preghiere, non si convinceva:<br />

“Mi devo sistemare, sono grande! E non ho intenzione di farlo in questo fottuto paese !”<br />

“E’ proprio vero ‐ diceva mesto Francesco ‐ la <strong>famiglia</strong> non esiste più … non siamo più ai tempi di<br />

una volta, quando bastava guardare negli occhi un figlio che subito ubbidiva !” dimenticando che i<br />

figli derivano da un padre e una madre, ne ereditano, i caratteri somatici e psicologici.<br />

Il Capitano <strong>Carresi</strong>, anziano e stanco, camminava poco: il ditone s’infiammava continuamente. Si<br />

dedicava alla lettura o a dar consigli chi per documenti, chi per gli esami di capobarca, chi per<br />

rinnovare il libretto di navigazione, o qualche lettera di raccomandazione. Quando leggeva il<br />

giornale non nascondeva la stizza, alle notizie riportate dai quotidiani.<br />

Non riusciva a capire, se la guerra che stava per scoppiare, fosse colpa dei tedeschi, degli inglesi o<br />

dei francesi, oppure, se tutti assieme tiravano verso l’abisso. Una sera che il Capitano si sentiva<br />

una leggera febbricola, nel medicarsi il ditone, se lo trovò dolorante e nero. Fu chiamato il medico<br />

condotto dottore Gullace e l’esito fu temibile: inizio cancrena. Bisognava ricoverarlo presso<br />

l’ospedale di Rosarno. Il dottor Laghi, chirurgo, lo visitò e decise di amputare un pezzo di dito e<br />

bloccare l’avanzata <strong><strong>del</strong>la</strong> cancrena. Così fu fatto. Tutti i figli e i nipoti fecero a gara per<br />

accompagnarlo e assisterlo in ospedale.<br />

Donna Felicia, poverina, era come vivesse in un mondo tutto suo: non capiva quanto stava<br />

accadendo. La sera, al solito orario, quando non vedeva rientrare l’ultimo figlio, si piazzava<br />

all’angolo con i pugni a fianco e lo chiamava. Vicino al padre, costantemente, vi era Carmela. Era,<br />

come sempre, pronta a darsi da fare: parlava con i medici, gli infermieri, assisteva il padre nella<br />

recita <strong>del</strong> Santo Rosario.<br />

Aveva una grande ammirazione per questo papà, saggio ed esperto Capitano di Velieri e di<br />

Piroscafi, di fede diamantina, moralmente integro e notevolmente acculturato per il tempo.<br />

E tutte le sue virtù le aveva trasmesse ai figli. Le piaceva stare li al suo fianco, parlare con lui per<br />

ore intere di tutto e di tutti. Chiedeva dei figli, dei generi e dei cari nipoti, quando non li vedeva li<br />

voleva sempre intorno: forse, pensava che, potesse essere l’ultima volta. Come infatti, diversi<br />

giorni dopo, il medico aprì la fasciatura e notò che la cancrena era avanzata; la febbre non era<br />

sparita. Si decise per una nuova amputazione; un altro pezzetto. La sensazione di tutti fu di dolore<br />

e mestizia. Vincenzo, il solito figlio di Fortunata, che non aveva peli sulla lingua, prese a dire:<br />

“Ma perché non lo avete fatto subito il taglio più sopra? Invece che un pezzo per volta ?” Il<br />

dottore Laghi, infastidito, avvisò i parenti che quell’uomo non voleva vederlo più, altrimenti<br />

avrebbe chiamato i carabinieri. Così Vincenzo non ci andò più in ospedale. Ma non ce ne fu<br />

bisogno: la cancrena aveva preso la rincorsa. Un sacerdote gli diede l’estrema unzione. In piena<br />

coscienza, in attesa che la setticemia invadesse tutti gli organi più importanti pregava:<br />

“Signore abbi pietà di me che sono un peccatore. Però Tu sai leggere nel mio cuore, sai bene che<br />

ti voglio bene, come so che Tu ne vuoi a me. A Te affido la mia anima.”<br />

E’ il 29 ottobre <strong>del</strong> 1939 il Capitano spirò, tra le braccia <strong>del</strong>le figlie e di tutti gli altri parenti .<br />

Gaetano e Carmela, come si usava allora, fidanzarono la primogenita Giuseppina con un marinaio<br />

<strong>del</strong> luogo, certo Rafele, detto “quartina”. Era costui una brava persona, gran lavoratore, onesto:<br />

per l’ambiente di allora era un nulla osta indiscutibile. Pur non essendo un “latin lover”. E pur<br />

ammettendo che la sua bellezza fosse un aspetto secondario nell’immaginario <strong>del</strong>le famiglie <strong>del</strong><br />

tempo (e non è vero !) la rozzezza non lo era di certo; a Giuseppina non piaceva quell’ometto<br />

basso e tarchiato. Ma la donna, allora, era una merce da vendere a tutti i costi: con un minimo di<br />

garanzie, ma al primo richiedente. I sentimenti <strong><strong>del</strong>la</strong> donna o i suoi desideri contavano come il due<br />

di coppe con la briscola a danari. Eppure corteggiatori, Peppina, ne aveva. Ma la forza <strong>del</strong><br />

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“tradizionale” era dura a morire. Le famiglie nobili si apparentavano con altre famiglie nobili, in un<br />

paese di tradizioni marinare come la marina di Gioia Tauro, le figlie o i figli di marinai, nelle quasi<br />

totalità dei casi, si sposavano con marinai. Era un concetto forte e antico e molto resistente anche<br />

se, con lentezza, stava cambiando anche nel meridione d’Italia.<br />

Il legame affettivo tra sorelle e cognati era molto solido. Ma per ognuno di loro il punto di<br />

riferimento, il porto sicuro dove approdare nella buona e nella cattiva sorte era rappresentato<br />

dalla <strong>famiglia</strong> di Gaetano e Carmela. Francesco li stimava moltissimo: se li sentiva più vicino degli<br />

altri, sapeva di poter contare su di loro, sulla loro generosità d’animo. Per usare una parafrasi li<br />

definiva i “buoni samaritani”. Per questo motivo vedeva di buon occhio un matrimonio tra suo<br />

figlio Giuseppe e sua nipote Giuseppina, che intanto occhieggiavano, anche se era necessaria la<br />

dispensa ecclesiastica, trattandosi di primi cugini. Quando poteva, Francesco, metteva in cattiva<br />

luce quel fidanzato, buono e lavoratore per carità! ma dozzinale, rozzo. Francesco quando andava<br />

in visita dai cognati, tra una chiacchiera e l’altra, faceva un complimento alla nipote:<br />

“Guardate che bella nipote che ho! e poi, per tale bellezza ci vorrebbe un bell’uomo, fine e<br />

educato. “<br />

Carmela, quando suo cognato parlava così, capiva che Francesco volesse parare da qualche parte.<br />

E così, le sorelle si confidarono una sera e Fortunata espresse il desiderio <strong>del</strong> marito di vedere suo<br />

figlio Giuseppe legato ad una <strong>famiglia</strong> come la sua e diceva:<br />

“ Il grande è partito, il secondo dei miei figli sembra non avere né padre e né madre … io vorrei che<br />

il più buono dei miei figli si sistemasse con la figlia dei cognati che preferisco, piuttosto che cadere<br />

preda di qualche <strong>famiglia</strong> poco seria!” e Carmela rispondeva:<br />

“Ma Peppina è fidanzata … come si fa ?”. Francesco a questa opposizione rispondeva:<br />

“Perché quel pastore sembra adatto a tua figlia ?”. Questo discorso lo faceva a denti stretti: il figlio<br />

Mario infatti corteggiava una bella ragazza, appartenente ad una <strong>famiglia</strong> che a lui non piaceva.<br />

Non che fosse balorda, ma il padre <strong><strong>del</strong>la</strong> ragazza era un “senza bandiera”, un apolide, un privo<br />

d’ogni cittadinanza. In quella società, essere apolide, era come dire “senza onore”. Perciò era<br />

contrarissimo.<br />

I fratelli e le sorelle di Gaetano, da tempo, si erano trasferiti a Reggio Calabria, ed egli, quando era<br />

a casa, portava Peppina spesso dagli zii, i quali, da benestanti, la riempivano di regali: vestiti alla<br />

moda, scarpe, cappelli. Portati in un paese, che tendeva a crescere, ma ancora piccolo come Gioia,<br />

faceva bella figura davanti a tutti.<br />

I genitori di Peppina, pur lusingati <strong><strong>del</strong>la</strong> richiesta di Francesco, non sapevano come uscire dalla<br />

situazione a testa alta. Andare lì, un bel giorno, dal fidanzato e dire: la promessa è stracciata. Si<br />

faceva la figura degli sciocchi in un paese moralista per elezione. L’intenzione c’era. Mancava solo<br />

la motivazione. Un bel giorno, questa, arrivò sotto forma <strong>del</strong> fratello Mico. Egli era il<br />

secondogenito di Gaetano e Maria. Faceva il chierichetto nella chiesa di Portosalvo. Quella<br />

domenica, il fidanzato di Peppina fu invitato a pranzo dai suoceri e si aspettava il rientro di Mico.<br />

Ma i suoi genitori non sapevano dove fosse. A questa domanda il povero Rafele rispose:<br />

“Mico? Io l’ho visto in chiesa vestito da ‘chicaro! “: a volere esagerare, la parola assomigliava<br />

lontanamente ad una mala parola. Ma fu la motivazione che giustificò la rottura <strong><strong>del</strong>la</strong> promessa di<br />

matrimonio.<br />

“Come vi permette a dire a questa parola, di fronte ad una vergine ?! Vergognatevi e, per favore<br />

allontanatevi da questa casa onorata, la promessa è rotta !”<br />

Così si espresse Carmela di fronte al povero fidanzato che, incredulo, con gli occhi stupiti, non<br />

riusciva a capire quel che stava accadendo. Balbettando riprese:<br />

“Ma che ho detto ? Io ho solo detto che a Mico l’ho visto in chiesa vestito da “chicaro”! e Carmela<br />

finta offesa, continuava la sceneggiata:<br />

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“Peppina, vai via di quà, allontanati e non ascoltare queste parolacce! Basta, basta così!” Il<br />

poveretto stupefatto, si allontanò senza capire perché avesse perso la fidanzata.<br />

In compenso Peppina trovò un nuovo fidanzato in Giuseppe, il cugino. E quando egli venne in<br />

licenza da Rodi, fu suggellato il fidanzamento ufficiale con una festicciola.<br />

Giuseppe era un uomo molto romantico e lo manifestava in lunghe lettere che inviava a tutti i<br />

parenti, oltre che alla fidanzata o agli amici, da ogni isola in cui veniva spostato come<br />

destinazione.<br />

E quelle lettere alla fidanzata, scritte con una scrittura piccola ed elegante ma leggibile, erano<br />

cariche di sentimenti di amore, come fossero innamorati da tanto tempo. Sembrava si<br />

conoscessero da una vita. Peppina si affezionò a quelle lettere che provenivano da quella lontana<br />

parte <strong>del</strong> mondo; e s’accorse, poi, di aspettarle con sempre maggiore desiderio. Quelle belle<br />

lettere descrivevano i luoghi dove si trovava, i suoi compagni o i rapporti con gli abitanti o i<br />

momenti <strong>del</strong> calar <strong>del</strong> sole quando i grilli chiacchieravano tra loro: “cri, cri”, ruppero qualche<br />

lontana eventuale ritrosia di Peppina.<br />

Intanto l’attività di Francesco era portata avanti da Vincenzo, Mario e i soliti dipendenti di fiducia:<br />

Mastro Augusto Tedeschi, Marzano, il simpatico mastro Peppe Tomaselli u’ burdinu, amico per la<br />

pelle di Francesco, ed altri numerosi operai. Intanto Mario proseguiva imperterrito a corteggiare<br />

Gina.<br />

E le discussioni in <strong>famiglia</strong> erano continue, sembrava si fosse ritornati ai tempi di Francesco e<br />

Fortunata e al contrastato antico amore: evidentemente la storia non è poi tanto”maestra di<br />

vita”!.<br />

Dante era il quinto figlio di Fortunata e Francesco. Egli nacque affascinante ed affascinante<br />

cresceva.<br />

Aveva un ovale perfetto, due labbra carnose, due sopracciglia ad arco lunghe, perfette che<br />

coprivano due orbite con gli occhi piccoli, nerissimi e vispi. Gli zigomi alti gli davano un aspetto<br />

ironico, lo rendevano un “sex simbol” <strong>del</strong> tempo. La pelle non era levigata come, in genere, era<br />

definito il classico bello; ma diventava un aspetto secondario quando sorrideva o parlava in<br />

maniera naturale, con quel profilo da attore; la figura piccola e asciutta come la mamma e, come<br />

lei, il naso lungo; ogni pezzo, era inserito al posto giusto, il deambulare e il gesticolare, attirava<br />

ogni ragazza da marito: un “latin lover”. I suoi capelli ricci e fini lo rendevano ineguagliabile.<br />

Quando Dante discorreva con qualche ragazza, questa lo guardava con gli occhi stupiti come se di<br />

fronte avesse un ipnotizzare che gli carpiva l’anima e la plasmava a suo piacimento. Era sveglio<br />

d’ingegno e vestiva alla moda.<br />

Dante suonava il clarinetto nella banda <strong>del</strong> paese dall’età di nove anni. Il padre, essendo il ragazzo<br />

portato per lo studio, lo mandò a scuola. Completò le scuole <strong>del</strong>l’obbligo e la scuola media a Palmi,<br />

poi si iscrisse al liceo classico di Reggio Calabria. Era un gran chiacchierone, parlava in modo così<br />

colorito e simpatico che non ci si stancava di ascoltarlo. Grande spendaccione.<br />

Vezzoso e narcisista, amava vestirsi sempre in maniera impeccabile, con grandi sciarpe colorate<br />

d’inverno, cappelli all’americana o il borsalino, vestiti chiari in estate con paglietta.<br />

Per mantenersi qualche vizietto o aiutava il padre o dava lezioni di musica. Si sbizzarriva anche con<br />

il disegno, essendo un ottimo disegnatore e, spesso, partecipava a concorsi banditi dal fascismo.<br />

Una volta ne vinse uno per avere disegnato il Duce (la sua testa) con il casco da combattente<br />

denominato: “testa di ferro”. Poi partecipò ad un concorso nazionale per fare l’attore. Era molto<br />

fotogenico.<br />

L’arrivo <strong><strong>del</strong>la</strong> radio in casa <strong>Caratozzolo</strong>, ruppe le vecchie abitudini familiari. Dopo Rocco toccava a<br />

Francesco fare i biglietti per l’ascolto <strong>del</strong>lo strumento radio. Era di forma rettangolare di marca<br />

Marelli color marrone. Sul lato sinistro c’erano le tre vecchie manopole color chiaro poste le une<br />

accanto all’altra; sopra le manopole vi era l’altoparlante coperto con <strong><strong>del</strong>la</strong> stoffa retinata. A destra<br />

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il quadro con tutte le città <strong>del</strong> mondo scritte a colori diversi. Possedere la radio, allora, significava<br />

non solo ascoltare notizie o canzoni con tutti i mitizzati cantanti di allora, che si vedevano o al<br />

cinema o sui giornali. Era uno “status‐simbol”. Piuttosto che coricarsi con le galline e rischiare di<br />

fare figli, si restava, per buona parte <strong><strong>del</strong>la</strong> sera ad ascoltare le trasmissioni EIAR. Così la domenica<br />

mattina i soliti rumori <strong><strong>del</strong>la</strong> piazza davanti alla chiesa <strong><strong>del</strong>la</strong> Marina, erano interrotti dal rumore di<br />

una musichetta fascista o dalla voce di Carlo Buti o il motivo in voga: “Se potessi avere mille lire al<br />

mese “. Che era il sogno, ovviamente, di coloro che guadagnavano molto meno di mille lire al<br />

mese. Un sogno, tutto sommato, modesto.<br />

Dante mentre si cambiava, affacciandosi ogni tanto dal balcone che dava sulla piazzetta antistante<br />

la chiesa di Portosalvo e a sinistra casa Morgante e Purrone, canticchiava la sua canzone preferita:<br />

“Fiorellin <strong>del</strong> prato, messagger d’amore, bacia la bocca che non ho mai baciato! Fiorellin <strong>del</strong> prato<br />

non mi dir di no !” osservato dai fratelli più piccoli Renato e Renzo. Chi era più attratto dal fratello<br />

maggiore era Renzo, quello che gli rassomigliava di più caratterialmente.<br />

Intanto il fascismo compiva un altro passo verso la tragedia <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra. Il patto d’acciaio era stato<br />

firmato anche dal Giappone. Il fascismo sostenne le annessioni fino al corridoio di Danzica. Si<br />

tentava con la politica di evitare il nuovo scontro in Europa: ma tutte le volte che si adoperava la<br />

parola pace si continuavano a costruire carri armati e cannoni e aerei e bombe …<br />

Solo chi era nei centri di comando o leggeva la stampa capiva ciò che stava accadendo, la tragedia<br />

che aleggiava sul mondo intero. Non che i giornali dicessero apertamente: è guerra; ma si capiva<br />

dalle cose non scritte .<br />

“Se la Germania continua ad annettere pezzi d’Europa, poi non reagiranno nazioni come Francia,<br />

Gran Bretagna ?”diceva Francesco.<br />

La sua preoccupazione, come quella di tante famiglie, erano i figli militari, che, in una guerra,<br />

potevano rimetterci la pelle.<br />

Intanto Giuseppe dalle isole spediva lettere e foto. Qualche volta veniva in licenza. Ed ogni suo<br />

ritorno era una festa per tutti. Da quei posti tanto lontani Giuseppe rientrava sempre con il sacco<br />

militare pieno di sigarette estere, che offriva a tutti, compreso il caro amico Pasquale De Gennaro.<br />

Mentre il fratello Renato gliele fregava e le fumava con i suoi amici: Nunziato Fiore, Arturo<br />

Panzazza, Gianni ‘u Vecchiu.<br />

Renato, settore Fortunata, chiuso di carattere, buono, di poche parole, serio aveva labbra e mento<br />

di Giuseppe, la parte superiore <strong>del</strong> fratello Mario, capelli ondulati e castani. Renzo, magro,<br />

chiacchierone, scherzoso, sempre pronto con la battuta, nervoso aveva gli zigomi <strong><strong>del</strong>la</strong> madre, alti<br />

e puntuti.<br />

Per sfotterlo il papà di sera, in inverno, lo mandava ad acquistare il vino; Renzo, come sempre, si<br />

era già piazzato con ciabatte e calzettoni lunghi invernali vicino al braciere e rispondeva:<br />

“Papà potevate dirmelo prima … ho i reumatismi alti e con questo freddo, mi fa male!” La verità<br />

vera risiedeva nei discorsi che spesso si facevano sulla presenza degli spiriti, folletti, … vicino a<br />

quel palo <strong><strong>del</strong>la</strong> luce hanno ammazzato uno… .<br />

Figurarsi se Renzo, di sera, d’inverno con quel vento sibilante che spostando le chiome degli alberi<br />

o il tronco stesso, faceva danzare le loro ombre come fossero “tagghiacori”, andava per il vino … e<br />

tutto finiva in risate.<br />

Le lettere di Giuseppe servivano a tranquillizzare tutti quando le spediva. Era lontano, è vero, ma<br />

tutto sommato faceva la “pacchia”. Era in una zona tranquilla. Tra una guerra e l’altra, la<br />

manutenzione al cannone, lo scherzare con i camerati e l’amicizia con le famiglie <strong>del</strong> luogo, che,<br />

per fortuna, non sentivano gli italiani come occupati, ma come dei vicini, tutto sommato ci si<br />

annoiava.<br />

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Ogni tanto arrivava una vecchia puttana, che non faceva perdere il gusto e le gioie <strong>del</strong>l’amore ai<br />

militari italiani che non potevano usare bor<strong>del</strong>li. Era talmente esperta che conosceva tutti i militari<br />

italiani che erano lì, forse dal 1911 anno <strong><strong>del</strong>la</strong> prima occupazione. Conosceva le debolezze di tutti:<br />

un militare di Udine voleva essere accarezzato dalla donna sui capelli; con un altro militare doveva<br />

gridare: “Il paradiso ! Il paradiso !”; un siciliano voleva essere chiamato con il nome di donna: solo<br />

allora raggiungeva l’orgasmo. Era una donna di <strong>famiglia</strong>.<br />

Un giorno Francesco ascoltò la notizia che non avrebbe mai voluto ascoltare: la trasmissione si aprì<br />

con le parole <strong><strong>del</strong>la</strong> canzone: “Giovinezza, giovinezza … “<br />

Era il 10 giugno <strong>del</strong> 1940. “Ci siamo” disse Francesco “l’ora è giunta !” e dalla radio si diffuse la<br />

voce di Mussolini:<br />

“Combattenti di terra, di mare e <strong>del</strong>l’aria ! Camicie nere <strong><strong>del</strong>la</strong> rivoluzione e <strong>del</strong>le legioni ! Uomini e<br />

donne d’Italia, <strong>del</strong>l’impero e <strong>del</strong> regno d’Albania ! Ascoltate !<br />

Un’ora segnata dal destino batte nel cielo <strong><strong>del</strong>la</strong> nostra patria. L’ora <strong>del</strong>le decisioni irrevocabili.<br />

La dichiarazione di guerra è già stata consegnata …<br />

Francesco ascoltava con le mascelle serrate mentre il popolo assiepato in Piazza Venezia<br />

acclamava: “Guerra ! Guerra !”<br />

“… Agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie<br />

plutocratiche e reazionarie <strong>del</strong>l’occidente che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso<br />

insidiato l’esistenza medesima <strong>del</strong> popolo italiano …”<br />

“Che bugiardo ! Che bugiardo !” sbraitava Francesco.<br />

“Zitto non farti sentire !”diceva suo cognato Peppino o Fortunata la moglie.<br />

Le urla dalla piazza in <strong>del</strong>irio si alzavano altissime prorompendo dalla membrana <strong>del</strong>l’altoparlante<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> radio: “Duce ! Duce ! Duce !”<br />

“L’avevo detto io, questo gaglioffo di Hitler con l’amico suo Mussolini ci hanno portato in guerra:<br />

ho due figli che sono militari di leva … e dobbiamo pregare <strong>Di</strong>o che duri poco !”<br />

Francesco aveva capito tutto perché da qualche mese prima, il Ministero <strong>del</strong>le corporazioni aveva<br />

ordinato la mobilitazione in tutta l’Italia e le colonie.<br />

“Il 20 maggio 1940 il Prefetto di Reggio Calabria organizzava una riunione per avviare la<br />

mobilitazione civile, in base agli ordini impartiti dal Ministro <strong>del</strong>le corporazione con circolare<br />

riservata n° 1069/96‐12 <strong>del</strong> 26 aprile 1940.<br />

“Ora voglio vedere quanti di quelli che gridavano: “Guerra ! Guerra !” va veramente a farla la<br />

guerra !” Ad ascoltare la dichiarazione di guerra alla radio di Francesco vi erano vicini, amici e<br />

parenti. Vi erano Gaetano, Carmela, Peppina e i più piccoli, l’amico Nicola Gargano nonché<br />

padrone di casa di Francesco, con Luigi Purrone, il signor Cannizzaro proprietario <strong><strong>del</strong>la</strong> distilleria<br />

posta di fronte alla casa di Francesco; il cognato Peppino, Nino, figlio di Peppino era partito a fare<br />

il corso di ufficiale di complemento nella fanteria.<br />

Erano un po’ tutti preoccupati: fino a quando tutto era tranquillo, gridare il proprio coraggio o<br />

guerra, guerra non costava nulla. Ma di fronte al pericolo che realmente si parava davanti, ognuno<br />

rimaneva solo con se stesso. Era come il povero che prima di comprare <strong>del</strong> pane, controllava<br />

sempre le sue tasche per verificare che avesse soldi.<br />

Così facevano tutti coloro che gridavano … Guerra ! Guerra !<br />

Francesco di fronte alla catastrofe che si rifletteva anche sulla sua attività, in quanto tutti i giovani<br />

di età uguale a quella dei suoi figli, furono chiamati perla leva, perdeva giovani braccia e si<br />

sostituivano con quelle di persone più anziane. Lo stesso trattamento subirono gli imprenditori, di<br />

ogni specializzazione, di tutta la Piana.<br />

“Nel mese di luglio <strong>del</strong> 1940 la Piana di Gioia fu interessata dalle prime incursioni aeree alleate.<br />

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Nell’agosto <strong>del</strong>lo stesso anno il Prefetto, in esecuzione alla circolare <strong>del</strong> Ministero <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra<br />

n°7570 <strong>del</strong> 25 agosto 1940, ordinava l’oscuramento parziale nell’intera provincia.”<br />

L’economia locale già sfruttata dagli “stranieri” fu messa in ginocchio dalle decisioni <strong>del</strong> fascismo.<br />

“In esecuzione alla legge 25‐5‐1940 n°415, il Ministero <strong>del</strong>l’agricoltura emana un decreto con il<br />

quale si obbliga a ciascun detentore di bestiame bovino di tener vincolata fino al termine <strong>del</strong> 30<br />

giugno 1941, una quota pari al 30% <strong>del</strong> peso vivo <strong>del</strong> bestiame posseduto …”<br />

Nelle fasi successive tale obbligo toccherà anche a cereali ed altri alimentari: vi era l’obbligo<br />

<strong>del</strong>l’ammasso.<br />

Tutte queste riserve dovevano servire per le nostre truppe. Ma gran parte <strong>del</strong>le cifre denunciate<br />

erano false: la merce, più avanti, sarebbe stata destinata al mercato nero.<br />

Quando passavano gli aerei, i bambini, ed anche gli uomini, alzavano gli occhi al cielo e<br />

saltellavano gridando:<br />

“Gli aerei, gli aerei !” sembrava una festa per tutti. La guerra era ancora lontana. Ma i ricognitori<br />

passavano sempre sopra la Piana:<br />

“Perché?” si domandava Francesco. Che intanto provvedeva a rifornire la casa con una buona<br />

scorta alimentare. Partiva con l’amico mastro Peppe ed andava a Decollatura a comprare fagioli,<br />

patate, grano, salami e prosciutti ed altro.<br />

Il quartogenito, Mario, era partito per il militare di leva nella Regia Marina e fu mandato in Sicilia,<br />

a porto Empedocle, proprio di fronte all’Africa. Egli era il tecnico <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong>: castani e ondulati i<br />

capelli, alto come il padre, gran chiacchierone e gran giocatore di pallone. Sempre in continua<br />

discussione con il padre per via di quella ragazza che, al papà non piaceva. La fabbrica <strong>del</strong> ghiaccio<br />

la seguiva lui dal punto di vista tecnico. Quando si doveva risparmiare sul conto <strong>del</strong>l’acqua e<br />

<strong>del</strong>l’energia elettrica, era lui che sapeva come fare. Intanto, Vincenzo. durante uno dei suoi viaggi<br />

per servizio a Reggio era tornato con una nuova “fidanzata”. Il precedente fidanzamento, voluto e<br />

forzato dal padre, era fallito dopo tre mesi. La nuova era una ragazza di vent’anni, Can<strong>del</strong>ora<br />

Rappocciolo.<br />

Il papà, quando se lo vide arrivare con costei in un rapporto di convivenza, senza alcuna intenzione<br />

di sposarla, fece fuoco e fiamme per impedire che la ragazza rimanesse con lui. Ma Vincenzo non<br />

si convinse, anzi … più gliene parlavano peggio era. Neanche le buone sorelle, tutte assieme,<br />

riuscivano a spostarlo di un centimetro dalle sue convinzioni. Il primogenito, intanto, a Genova, si<br />

era sposato ed aveva avuto una bambina, che aveva chiamato come il nonno: Francesca.<br />

L’Italia in guerra, a parte qualche successo iniziale, andava male.<br />

La Regia Marina, ebbe il primo mortale colpo con il bombardamento <strong><strong>del</strong>la</strong> flotta navale in rada nel<br />

Mar Grande a Taranto, la prima volta nel novembre <strong>del</strong> 1940. Gli aerei, cacciabombardieri e<br />

aerosiluranti, provenivano da Malta e nonostante la difesa antiaerea e i palloni esplosivi, volavano<br />

al di sotto <strong>del</strong> tiro minimo <strong>del</strong>l’antiarea e sganciarono il loro carico micidiale sulla città affondando<br />

buona parte <strong><strong>del</strong>la</strong> flotta. Questo fece capire a tantissima gente che la guerra non sarebbe stata<br />

breve, e che non c’erano città o paesi sicuri dal conflitto che insanguinava, ormai, l’Europa: con un<br />

tale aereo, si raggiungeva qualsiasi porto. Ma tutto ciò non traspariva dalla propaganda <strong>del</strong><br />

fascismo. Anzi con il prolungarsi <strong><strong>del</strong>la</strong> guerra, la propaganda sulla stampa e alla radio si accentuava<br />

sempre di più. Ma bisognava riaffermare nei notiziari, i successi dei nostri militari o dei camerati<br />

tedeschi, esaltandoli. La sera però, i più coraggiosi ascoltavano il Maggiore Stevens che da radio<br />

Londra, affermava esattamente il contrario di quanto raccontato dal fascismo. Un po’ di verità si<br />

conosceva solo quando rientrava qualche militare in licenza. Anche sul fronte terrestre le cose non<br />

andavano affatto bene come si sosteneva con la stampa o con i notiziari radio presentati dal signor<br />

“Appelius”: la guerra d’Albania e di Grecia ne furono un esempio; senza l’arrivo dei soldati<br />

tedeschi, l’Italia sarebbe stata ributtata in mare.<br />

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L’economia locale, per i provvedimenti di politica fiscale fu messa in ginocchio definitivamente.<br />

Alcuni grossi allevatori come Filoreto Fondacaro e tanti altri, si videro ridurre il numero <strong>del</strong>le<br />

bestie. Ma, come sempre, fatta la legge trovato l’inganno. I notabili <strong>del</strong> fascio, molto spesso, in<br />

accordo con allevatori e agrari, chiudevano un occhio. La corruzione cominciava a dilagare. Anche<br />

il grano, l’orzo, l’avena si dovevano ammassare. Cereali e farine, per esigenze di guerra, furono<br />

razionate per tutta la popolazione civile, quella senza potere; mentre quella dei notabili viveva<br />

bene come sempre.<br />

La maggior parte <strong><strong>del</strong>la</strong> gente riceveva la quantità di merce o derrate alimentari, con il controllo dei<br />

tagliandi di una tessera che limitava l’acquisto al necessario. Chi aveva “imboscato” la merce,<br />

specie le cibarie, le vendeva di contrabbando alla “borsa nera”, arricchendosi. Alcuni di questi<br />

contrabbandieri si contentavano di vendere un po’ d’olio o di farina, in cambio di altro tipo di<br />

merce o in moneta sonante.<br />

Ma c’erano quelli che riuscivano ad accaparrare fortune: la gente comune li chiamava “pescecani”.<br />

Appena le prefetture <strong>del</strong>iberavano per l’obbligo <strong>del</strong>l’ammasso, i “pescecani” portavano la merce in<br />

mercati proficui, raddoppiando i prezzi, ovviamente dopo aver corrotto i funzionari fascisti.<br />

Uno di questi pescecani tale Rocco Morrone, pur essendo analfabeta si arricchì. Riusciva a<br />

trasportare ingenti quantità d’olio o altra merce con diversi mezzi: con velieri che non attiravano<br />

l’attenzione di alcuno (e caso mai si compravano), in treno o in camion. Seguiva sempre di persona<br />

i trasporti e trattava con i mediatori. Non cedeva sui prezzi da lui imposti. Era un uomo deciso e si<br />

faceva rispettare. A volte con le armi. Ma non era l’unico. In quegli anni bui tutti si dedicarono alla<br />

borsa nera. Bisognava sopravvivere.<br />

Con la situazione di guerra peggiorata, le misure di politica economica <strong>del</strong> fascismo continuarono a<br />

stringere ancor di più i consumi interni; la stampa di nuova carta moneta; emissione di bot;<br />

riduzione dei consumi di energia elettrica e la logica conseguenza <strong>del</strong>le diminuzione <strong>del</strong>le attività<br />

industriali e artigianali.: solo l’industria pesante o i cantieri navali erano esclusi dalle riduzioni,<br />

ovviamente, l’energia serviva per fabbricare armi. E per un paese senza materie prime, come<br />

rifornimento per le industrie pesanti spinse gli strateghi fascisti a far fronte alla costruzione di<br />

nuove armi con mille espedienti: si dava la caccia a tutto ciò che era ferro, cancellate, cerchi <strong>del</strong>le<br />

botti ecc.<br />

Dal 1941 a tutti i mezzi di locomozione a benzina fu proibita la circolazione. Insomma il<br />

razionamento anche dei beni di prima necessità non fece altro che rafforzare il mercato nero. Le<br />

tanto celebrate forze armate italiane si rivelarono un bluff.<br />

Francesco, Fortunata, i parenti che avevano figli al fronte soffrivano le pene <strong>del</strong>l’inferno. Ma<br />

continuavano a pregare, a chiedere alla Provvidenza <strong>Di</strong>vina la protezione sui loro figli; in special<br />

modo sul primogenito di Serafina e Giuseppe che s’imbarcò su un mercantile a 16 anni. Allo<br />

scoppio <strong>del</strong>le ostilità, si trovava in Egitto (Port said) protettorato inglese, assieme a tutto<br />

l’equipaggio fu dichiarato prigioniero di guerra: ritornò solo alla fine <strong>del</strong>le ostilità.<br />

A Gioia sembrava scorrere normalmente la vita. Ciò che rompeva il tran tran era il continuo<br />

arrivare in stazione F.S. di militari tedeschi, italiani, sulla S.S. 18, camion e carri armati facevano un<br />

rumore assordante; tutti i ragazzi si divertivano a seguire tutte le operazioni di scarico di mezzi,<br />

cannoni, tende militari ecc.<br />

Per loro era uno spettacolo. Come lo era osservare il milite tedesco tanto decantato dalla<br />

propaganda fascista.<br />

<strong>Di</strong> norma, durante le guerre, si militarizzano ampie zone territoriali, strategicamente interessanti<br />

dal punto di vista bellico. Uno di questi luoghi fu la Piana di Gioia Tauro. “Tra Gioia Tauro e<br />

Rizziconi, nel tratto che va dalla stazione F.S. a villa Cordopatri era attestata la munitissima<br />

divisione tedesca Goering”. “A Cittanova era dislocata la 211° divisione costiera, che si prolungava<br />

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fino ai contrafforti montuosi, nelle contrade Fendetti, Barone e Spina”. “Mentre il 53° reggimento,<br />

il cui comando era a Gioia Tauro, era accampato alla foce <strong>del</strong> fiume Petrace”.<br />

Su tutta la superficie <strong><strong>del</strong>la</strong> spiaggia di Gioia Tauro, il fascismo vi aveva fatto costruire <strong>del</strong>le grandi<br />

postazioni militari, affondate sotto la sabbia, con il miglior cemento armato.<br />

A Cannavà, in contrada Cavallaro, nel comune di Rizziconi, vi era “ospitato” un piccolo aeroporto,<br />

nei pressi <strong>del</strong> passaggio a livello. Ad ottobre <strong>del</strong> 1942, per effetto di una legge fascista che<br />

prevedeva il diritto di avvicinamento dei militari che da almeno due anni, si trovavano lontani,<br />

Giuseppe rientrò in Italia, per la felicità dei suoi genitori, <strong><strong>del</strong>la</strong> fidanzata e suoceri.<br />

Francesco sapendo come andavano le cose in Italia, che non vi era base militare risparmiata dagli<br />

attacchi anglo‐americani, si preoccupò non poco <strong>del</strong> rientro in Italia <strong>del</strong> figlio.<br />

“Forse rimanere a Rodi sarebbe stato meglio visto che non avete sparato un solo colpo di cannone,<br />

ora potrebbero mandarti in zone molto più pericolose.” gli diceva.<br />

Come si sbagliava Francesco! Appena Pineo rientrato che fu il Dodecanneso, specie Lero, furono<br />

bombardate a più non posso dall’aviazione inglese. Successivamente, dopo l’otto settembre 1943<br />

completarono la strage gli ex camerati tedeschi.<br />

“Ma no papà, vedrete, al massimo mi manderanno a Reggio o a Villa S.Giovanni”.<br />

Infatti fu mandato a Villa, batterie costiere di Punta Pezzo, proprio quando gli anglo‐americani<br />

bombardavano a tappeto basi militari e città industriali. Gaetano che assieme a Francesco<br />

ascoltavano “Appelius” alla radio, che gli anglo‐americani avevano bombardato e provocato morti<br />

“solo” fra i civili, si sdegnavano:<br />

“Posso giustificare, in una guerra, che si colpiscano obiettivi militari …. Ma non giustifico le bombe<br />

nelle città contro civili inermi !”<br />

Peppino il marito di Serafina rispondeva:<br />

“Forse lo fanno per stancarci, demoralizzare la popolazione civile !”.<br />

Intanto ogni tardo pomeriggio, all’imbrunire, i ragazzini, si recavano sulla spiaggia per assistere a<br />

ciò che accadeva all’altezza <strong>del</strong>lo stretto di Messina: ondate di fortezze volanti sganciavano sulla<br />

base militare siciliana il loro carico di morte e distruzione. La contraerea rispondeva al fuoco con i<br />

suoi proiettili traccianti: sembrava la festa patronale, scoppi in cielo e tanto fumo, scoppi sulla<br />

terra ed altre alte colonne fumose che si levavano verso l’alto. Poi di colpo la calma, di nuovo una<br />

nuova ondata di aerei, e lo spettacolo riprendeva con più vigore come un crescendo rossiniano.<br />

Tutti i ragazzini restavano con gli occhi sbarrati e pieni di paura, ma non riuscivano ad allontanarsi.<br />

Anche i militari <strong><strong>del</strong>la</strong> postazione vicina al Petrace, con i loro visi che si illuminavano e<br />

s’imbrunivano per via <strong>del</strong>le continue esplosioni erano preoccupati:<br />

“Madonna bona”‐ diceva un soldato toscano al suo camerata ‐“i nostri colleghi stanno ballando un<br />

po’ più <strong>del</strong> solito!”<br />

“Meno male che siamo abbastanza lontani da quell’inferno !” rispondeva un altro.<br />

Anche il figlio Mario, alla fine, per la medesima legge, fu trasferito da porto Empedocle in<br />

Calabria, esattamente a Palmi come segnalatore. Quell’anno il Natale tutta la parentela dei passò<br />

insieme le feste natalizie: zeppole, ragù di maiale e salsicce, polpettone, pasta di casa. A seguire i<br />

dolci fatti in casa, come pure i liquori: il rosolio.<br />

Era un liquore preparato con alcool, zucchero ed acqua nella stessa proporzione poi si aggiungeva<br />

un’essenza che dava il gusto ed il nome al rosolio: menta, arancio. Era un preparato di moderata<br />

gradazione alcolica ed al gusto si presentava forte e morbido.<br />

Intanto, da un poco di tempo, Francesco spingeva il figlio Albino, penultimo dei maschi a studiare<br />

in seminario. Ci teneva molto. L’avere un figlio sacerdote in <strong>famiglia</strong>, una <strong>famiglia</strong> cristiano‐<br />

cattolica come la sua, era motivo di orgoglio. Albino, capelli ricci e neri, come la madre , somigliava<br />

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in viso al padre; ma dal carattere materno. Come tutti i ragazzi <strong>del</strong> tempo, frequentava la<br />

parrocchia <strong>del</strong> Duomo; ci andava molto volentieri, si sentiva attratto dall’ambiente <strong><strong>del</strong>la</strong> chiesa,<br />

dai suoi riti, dalla maestosità <strong>del</strong> suono <strong>del</strong>l’organo e dalla immobile vocalità <strong>del</strong> canto gregoriano.<br />

Gli piaceva quell’altare pieno di piante e fiori e di can<strong>del</strong>e illuminate che adornavano l’ urna ove<br />

era custodito il S.S. Sacramento, mentre in alto si stagliava la statua di S. Ippolito martire a cavallo,<br />

patrono <strong><strong>del</strong>la</strong> città, le icone <strong><strong>del</strong>la</strong> madonna o di altri santi, gli piaceva anche quell’odore di cera che<br />

impregnava l’aria e quell’atmosfera di spiritualità che si respirava all’interno <strong><strong>del</strong>la</strong> chiesa. Ci<br />

rimaneva volentieri. Anche zia Carmela lo spingeva a frequentare il seminario. Ma era un tipetto<br />

vispo che facilmente perdeva le staffe, a dispetto <strong><strong>del</strong>la</strong> Santità . Una volta mentre con alcuni cugini<br />

si recava in chiesa con la tonaca da seminarista, fu fatto oggetto di scherno da alcuni tipacci:<br />

“Ahi, ahi … tocchiamoci passa il corvo nero !” non l’avesse mai detto, si alzò la tonaca e si scagliò<br />

contro i malcapitati, tirando pugni e calci.<br />

Frequentava il seminario di Mileto: Gioia Tauro ricadeva, allora, nel vescovado di Mileto. Lo<br />

accompagnavano il padre, e, spesso qualche fratello<br />

Mario era sempre innamorato di quella ragazza che suo padre non vedeva di buon occhio, Dante<br />

frequentava il liceo e nello stesso tempo corteggiava una <strong>del</strong>le figlie di Rocco Morrone, il<br />

pescecane <strong>del</strong> mercato nero.<br />

Intanto Francesco jr era arrivato da Genova. La città era continuamente sottoposta ai<br />

bombardamenti degli anglo‐americani. Pensava che qui si fosse più sicuri che non in una città<br />

industriale <strong>del</strong> nord .<br />

Vincenzo con quella ragazza di Reggio, che di fatto era diventata sua moglie, partorì un bimbo<br />

(1942) a cui fu dato il nome di <strong>Franco</strong>, come il nonno. Abitavano quasi di fronte alla segheria; la<br />

ragazza era in cinta <strong>del</strong> secondo figlio. Ma le discussioni tra padre, madre, parenti ecc. non<br />

finivano mai. Francesco voleva legalizzare la loro situazione con il matrimonio religioso. Ai<br />

rimbrotti <strong>del</strong> padre si aggiungeva il coro <strong>del</strong>le sorelle <strong>Carresi</strong> . Ma ottenevano l’effetto contrario.<br />

Durante la guerra, poche navi di poche compagnie navigavano: il rischio era troppo alto per<br />

l’equipaggio. Così Gaetano si adattava a lavorare a terra. Spesso andava dal cognato Francesco con<br />

il figlio Mico.<br />

Lo spettacolo di Messina continuamente bombardata era un chiaro segnale che gli anglo‐<br />

americani avrebbero quanto prima invaso l’Italia: a cominciare dalla Sicilia.<br />

Quel sabato 20 febbraio dal 1943, Francesco, come al solito, si alzò di buonora. Riscaldò un po’ di<br />

caffè d’orzo. Fumò mezza sigaretta africa; in cucina versò <strong>del</strong>l’acqua in un bacile, si lavò con il<br />

sapone; pulì con uno spazzolino dove andava messo <strong>del</strong> bicarbonato per sbiancare i denti,<br />

sciacquò la bocca e fece qualche gargarismo. Mentre asciugava le mani, si sentì toccare la schiena:<br />

era l’ultimo figlio maschio Ciro di 10 anni. Francesco lo guardò e gli disse:<br />

“Ciro che fai alzato a quest’ora ?”<br />

“Papà”‐ rispose Ciro‐ “portami con te, la scuola non mi piace, non ci voglio andare. Fammi venire<br />

con te sul carrozzino !” e Francesco l’accontentava. Era l’ultimo dei figli maschi, Francesco si era<br />

fermato con il cantiere solo alla nascita di una femmina. Infatti, l’ultima nata fu chiamata Maria, in<br />

memoria di Maria Minutolo, madre di Francesco, di poche parole, chiusa e riservata come la<br />

madre. Ciro era come il fratello Giuseppe e come lui buono; era un amante degli animali e <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

natura, amava le cose semplici. In segheria, spesso, faceva il carbone con la legna, proprio come lo<br />

facevano i carbonari. Seguiva le api che si appoggiavano sui fiori, o le farfalle.<br />

La stessa mattinata si alzarono pure Mario in licenza e Renato che doveva pigliare il treno e recarsi<br />

al liceo scientifico di Reggio. Il resto si recò in segheria.<br />

Francesco scese le scale, incontrò Nicola Gargano sottocasa, si salutarono. Poi salutò il signor<br />

Cannizzaro che aveva già aperto il distillatore. Andò vicino alla stalla, posta a fianco <strong><strong>del</strong>la</strong> casa di<br />

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Luigi Purrone; dove alloggiava il carrozzella e il cavallo. Con Ciro e Renato e Mario legò il cavallo<br />

alla carrozzella e si avviarono.<br />

Quella fu una giornata che solo febbraio poteva regalare. Chiara e fredda: tutto era terso. Il cielo<br />

azzurrissimo si specchiava regalando il suo colore al mare. Intanto il freddo aveva trasformato la<br />

rugiada in ghiaccio e lungo la rotabile che portava verso Gioia Tauro centro, gli alberelli d’ontano<br />

ancora giovani, piantati lungo il percorso, sembravano immobili come volessero gustarsi quel<br />

chiarore. Si sentiva un odore fradicio di terra, di radici, di agrumi ancora in albero, mischiato al<br />

profumo di menta e rosmarino che proveniva da tutte quelle campagne. Ciro ogni tanto dava un<br />

colpetto al posteriore <strong>del</strong> cavallo, mentre osservava il fiato <strong>del</strong>lo stesso che vaporizzava al contatto<br />

con l’aria fredda. Gli stessi rumori, amplificati dal silenzio, si riconoscevano tutti: carri di buoi,<br />

greggi di pecore, qualche motoretta o macchina. Padre e figlio si acquattavano e si stringevano<br />

l’un l’altro per riscaldarsi. Un militare qualunque, che avesse avuto un’esperienza minima di<br />

guerra, con una giornata così avrebbe detto: “E’ ideale per bombardare qualunque obiettivo”.<br />

La giornata ideale durò tutto il pomeriggio. Davanti alla segheria, Vincenzo aveva aperto il grande<br />

cancello. Poi arrivò il cognato Gaetano con suo figlio Mico. Poi arrivarono, di seguito, Augusto<br />

Tedeschi, Marzano . Vi lavoravano circa venti persone. Non si pensava alla guerra, se non quando<br />

passava qualche aereo o compagnia di militari. La guerra era ormai persa ma la verità non veniva<br />

fuori. Tutti i fronti erano persi, e si stava verificando la profezia di Nenni di tanti anni fa.<br />

I tedeschi con i loro mezzi presenti sul territorio, non sembravano in smobilitazione. Anzi.<br />

Sembravano i padroni.<br />

Un giorno uno di questi si acquartierò in casa <strong>del</strong> <strong>capitano</strong> <strong>Carresi</strong>: come hanno fatto sempre gli<br />

eserciti invasori. Spesso, da ubriaco, raccontava <strong><strong>del</strong>la</strong> sua casa, di Dresda che intanto subiva<br />

tremendi bombardamenti, e <strong><strong>del</strong>la</strong> sua <strong>famiglia</strong> che era “kaputt”. Quel giorno il militare tedesco,<br />

eccitato, dal racconto estrasse la sua pistola d’ordinanza e sparò un colpo contro la foto <strong>del</strong><br />

Capitano che era appesa al muro. Grande spavento per i residenti, ma di nulla di serio : solo un<br />

grande dolore perché il proiettile bucò il ritratto <strong>del</strong> Capitano.<br />

A Gioia centro, invece, ci fu un episodio che rese ancor più odiosi i militari tedeschi: una giovane<br />

donna fu violentata da uno di questi.<br />

Il fratello di costei, tale Ippolito, lo ammazzò a coltellate.<br />

I militari tedeschi lo imprigionarono e lo torturarono, strappandogli i denti crudamente; tanto che<br />

lo stesso Ippolito impazzì per il dolore.<br />

Il paese di Gioia Tauro alle 17:00 <strong>del</strong> pomeriggio era ancora nel pieno <strong><strong>del</strong>la</strong> sua attività lavorativa.<br />

Era sabato, giornata di paga. Francesco, mentre si lavorava, Ciro giocava dentro la stalla col<br />

cavallo, chiamò suo nipote Mico e lo mandò dai “caconghi” a cambiare dei soldi. Mico si avviò<br />

piano, piano a compiere il servizio. Per evitare un po’ di lavoro. D’improvviso si sentì il rumore di<br />

un aereo, poi spuntò la sua sagoma da sud. Ciro uscì correndo dalla stalla e gridava: “Gli<br />

apparecchi ! Gli apparecchi!” con felicità come fecero quel giorno tutti i bambini di Gioia. Mico<br />

intanto era rientrato con i soldi cambiati ed era nel capannone. Francesco stava davanti al cancello<br />

e chiacchierava con un vicino:<br />

“Don Ciccio, questi sono aerei americani !” Francesco annuiva.<br />

“Si vede che sono molto vicini e pronti a sbarcare in Sicilia”.<br />

Fu un attimo. Il rumore assordante ritornò, questa volta accompagnato da sibili strani seguiti da<br />

forti esplosioni.<br />

Le “fortezze volanti” avevano bombardato, la ferrovia, il campo d’aviazione, i militari lì assiepati,<br />

depositi di carburanti (sic) e i civili. La segheria fu colpita in pieno. E tra il fumo, l’odore di polvere<br />

da sparo, come fosse la festa di un santo, le urla di spavento, ognuno, correndo, cercava di<br />

mettersi in salvo. Mico con la testa rotta da un mattone, Augusto Tedeschi ferito e Gaetano<br />

correvano in mezzo alla campagna circostante. Vincenzo, dopo gli scoppi e in mezzo al fumo,<br />

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correva per raggiungere la sua casa dove stavano sua moglie e i suoi due figli. Accecato dal fumo<br />

passò vicino al padre morente e corse verso casa, per trovare ciò che non c’era più. Mario<br />

tremante, assieme al fratello Renato, rientrato da scuola e si trovava in segheria e qualche operaio<br />

soccorsero Francesco che dava segni di vita, mentre il piccolo Ciro, il silenzioso Ciro, l’amante <strong>del</strong>le<br />

cose semplici, era rimasto intatto, ma morì per una misera scheggia di bomba che gli aveva bucato<br />

la tempia destra. Era steso, a fianco <strong>del</strong> cavallo morto anch’esso. Mario, Renato e gli operai<br />

caricarono Francesco su una carriola e cercavano disperatamente di portarlo da qualche medico.<br />

Mario, con le lacrime che gli colavano a fiotti e gli impedivano di vedere la strada, gridava:<br />

“Un medico ! Un medico ! chiamate un medico !”.<br />

Francesco era stato colpito al fianco destro ed al collo proprio sotto la mandibola, che gli<br />

penzolava sul petto.<br />

I bombardamenti <strong>del</strong> 20 febbraio avevano ucciso parecchi civili e provocato danni a parecchi<br />

palazzi, compresa la chiesa principale che dieci anni prima era stata inaugurata in pompa magna<br />

dal fascismo.<br />

Nei pressi <strong>del</strong> Duomo Mario, tra la gente terrorizzata e assiepata incontrò un giovane sacerdote:<br />

don Peppino Minà. Vedendo le gravi condizioni di Francesco, si avvicinò per confessarlo, e disse:<br />

“Vi pentite dei vostri peccati?” Francesco girò gli occhi da moribondo verso di lui, abbassò il capo<br />

più volte in senso affermativo e don Minà:<br />

“Ego te absolvo in nomine patris et filio et spiritus sancto”, Francesco subito dopo spirò.<br />

Vincenzo, intanto, aveva trovato la propria casa distrutta. Trovò <strong>Franco</strong> senza una gamba, la<br />

moglie senza testa. Li abbracciò con forza, alzò gli occhi al cielo e cominciò a piangere<br />

disperatamente, urlando il proprio dolore, imprecando contro la malasorte che ancora una volta si<br />

era ricordata di questa <strong>famiglia</strong>. Intanto i soccorsi, in modo particolare dei militari, arrivarono con<br />

sollecitudine. I corpi furono portati con mezzi al cimitero, perché non vi erano bare sufficienti,<br />

ammucchiati l’uno sull’altro, tutti i ragazzi tra cui Turi, il terzogenito di Gaetano e Carmela, uno<br />

scavezzacollo, gran lavoratore ed altri cugini, Vincenzo, Ciccio e tanta gente osservavano il triste,<br />

sconvolgente spettacolo, un altro dei suoi figli Renzo, che era stato avvisato di quanto successo,<br />

mentre saliva verso la segheria, incontrò il carretto con i morti suoi. Lo seguì, piangendo e<br />

chiamandoli per nome. Il ragazzo rimase particolarmente scosso dall’avvenimento. Ogni aereo che<br />

sarebbe passato, non era per lui una festa, ma un motivo per scappare alterato e farsi proteggere<br />

dai militari.<br />

Fortunata, in seguito, accolse tutti i suoi cari con l’anima lacerata. Non riusciva a capire <strong>del</strong> tutto<br />

quel ch’era successo: le sembrava un brutto romanzo <strong>del</strong>l’orrore. Ma cinque morti in un colpo solo<br />

erano lì a raccontare la verità, quella che ogni madre di <strong>famiglia</strong> non avrebbe mai voluto vedere.<br />

Quei corpi intrisi di sangue e di terra davanti a se, le parlavano di una realtà inumana, violenta,<br />

cru<strong>del</strong>e che si accaniva sempre verso innocenti persone, i più deboli e indifesi che non dava<br />

tregua; quando sembrava che la vita seguisse il verso giusto, questa le sfuggiva, scivolava come il<br />

sapone tra le sue dita:<br />

“Quando sembra che le cose in terra vanno male, alzate sempre gli occhi al cielo e dite: Signore ti<br />

affido queste sofferenze ! Tu che conosci il mio cuore aiutami … mio <strong>Di</strong>o… “.<br />

Queste parole <strong>del</strong> Capitano venivano nella mente a Fortunata: ma, nello stesso tempo, la cruda<br />

realtà si scontrava con la fede: perché? Signore perché la malasorte si accanisce sempre sulle<br />

stesse persone ? Sulle stese famiglie ? Sembra un solco tracciato nella propria vita, che viene da<br />

molto lontano. Con gli occhi gonfi di lacrime e arrossati, in un pianto lento, continuo, composto, le<br />

veniva in mente che il marito non aveva conosciuto il padre, morto annegato nella lontana<br />

Argentina, dove era emigrato per stare meglio; o come l’altro fratello <strong>del</strong> suocero, Rosario, morto<br />

anch’esso in tragiche circostanze. Questo destino cru<strong>del</strong>e, pensava, si trasmette da padre in figlio<br />

ininterrottamente. Ma la fede dava forza e coraggio a tutte le sorelle: “Guardate sempre in alto, là<br />

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itroverete ristoro e forza”. Ricordavano tutti gli insegnamenti <strong>del</strong> padre. Mentre Fortunata<br />

accarezzava la testa di Ciro, che aveva i capelli sempre ispidi, e impolverati con quel forellino sulla<br />

testa; Carmela cercava di consolarla, abbracciandola, parlandole dolcemente.<br />

“Quanti sacrifici, quanti sforzi, quanti problemi, quante contrarietà abbiamo passato insieme nella<br />

vita, breve, ma intensa che abbiamo vissuto” ripeteva con amarezza Fortunata.<br />

Le buone iniziative, le idee brillanti, la voglia di fare devono sempre essere accompagnate da una<br />

buona dose di fortuna: che era come il coraggio di don Abbondio, “Se uno non ce l’ha, non se lo<br />

può dare da solo”.<br />

Gioia Tauro quel 20 febbraio 1943 capì che la guerra era vicina violenta e mortale. La stessa<br />

formazione aerea aveva bombardato la Piana quasi al completo, compreso il comune di Cittanova.<br />

Dove erano piazzate le batterie costiere <strong>del</strong> 211° battaglione. Anche lì provocò morte e distruzione<br />

tra i civili, più che a Gioia. E, nonostante, la presenza di tanti militari, non vi fu una sirena che<br />

allertasse per l’arrivo di “fortezze volanti”. Da allora, il prefetto con i comandi militari, decisero di<br />

piazzare anche a Gioia Tauro le sirene d’allarme aereo. Durante la tragedia, la gente <strong><strong>del</strong>la</strong> marina<br />

si era riparata in mezzo al boschetto di eucalipti, nei pressi <strong>del</strong> fiume Bu<strong>del</strong>lo. Quando ritennero<br />

che i bombardamenti fossero finiti rientrarono alle proprie case: ciò dimostrava come il fascismo<br />

operasse superficialmente, alla cieca, senza organizzazione logistica, senza informazione corretta,<br />

senza preparazione. Da quella volta, ogni notte si ascoltava un aereo inglese, detto il “ferroviere”,<br />

che mitragliava le tradotte militari.<br />

Giuseppe l’indomani di quel tragico giorno fu mandato in licenza da Punta Pezzo. Mentre si<br />

trovava sulla strada nei pressi <strong>del</strong> fiume Petrace lato Palmi, ove tutti erano scesi perché il treno si<br />

era fermato per un bombardamento, il signor Cannizzaro, in macchina, diretto verso Palmi,<br />

incontrò Giuseppe e lo invitò a salire, raccontandogli quanto fosse successo in quel disgraziato<br />

giorno precedente, lo accompagnò a casa. Il pianto fu doloroso, alla vista dei suoi cari dentro due<br />

bare che ne contenevano i corpi. Anche in questo caso i suoceri, la fidanzata e gli amici cercarono<br />

di consolarlo.<br />

Nello stesso giorno Vincenzo, di buon mattino, era partito con buona lena verso la sua abitazione<br />

crollata per effetto <strong>del</strong>le bombe. Voleva trovare a tutti i costi la sua bambina di meno di un anno,<br />

che ancora giaceva sotto le macerie. E scavò per tante ore, senza tregua, spostava traverse di<br />

legno e blocchi di pietra, mattoni e calcinacci, le sue dita erano sanguinanti, ma non si fermava;<br />

non si stancava.<br />

Alla fine la trovò. La trovò ancora nella sua culletta, con una traversa in legno che l’aveva salvata<br />

dallo schiacciamento, ma non dalla polvere che l’aveva soffocata. La sua vestina bianca era<br />

diventata grigia come pure il suo visino. La raccolse dolcemente, se la strinse al petto forte, forte,<br />

con gli occhi che grondavano sangue e non acqua. E mentre squassato dal pianto, la sollevò, la<br />

gente, i militari si avvicinarono per offrire il loro aiuto. Ma rifiutò. Poi, sempre, tenendola stretta al<br />

petto, si avviò verso la casa <strong><strong>del</strong>la</strong> madre, alla Marina, seguito dai fratelli e dagli amici. Mano a<br />

mano che la gente lungo la via si rendeva conto di quanto stava accadendo, faceva ala al suo<br />

passaggio; si segnava con la croce o si inginocchiava; si accompagnava alla triste processione,<br />

sciogliendosi in lacrime, assieme a quelle di Vincenzo che diventavano una preghiera unica che<br />

raggiungeva i piedi di Cristo in cielo. Il corpicino <strong><strong>del</strong>la</strong> bambina fu messo nella stessa bara accanto,<br />

anzi sopra la madre e il fratellino <strong>Franco</strong>, uniti nella morte come uniti erano stati in vita. E<br />

qualcuno urlava:<br />

“Smaliditti i ‘ngrisi, smaliditti americani e cchiù di tutti smaliditti i fascisti, chi ‘ndi portastivu sta<br />

cruci, nui chi cruci ‘ndavivamu tanti, a decini !”<br />

“I feriti gravi furono portati chi a Taurianova, chi a Reggio. I feriti leggeri furono curati negli<br />

ospedali da campo militare”.<br />

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Lo stesso giorno dei funerali (fu dichiarato lutto cittadino), mentre la carrozza <strong><strong>del</strong>la</strong> Società di M.S.<br />

addobbata con lustri e lustrini, i cavalli coperti con il drappo nero e il corteo d’onore<br />

s’incamminava verso il cimitero, dopo la funzione funebre officiata da Don Peppino Minà, di colpo<br />

un rumore d’aerei in volo, scatenò paura tra la folla, che abbandonò immediatamente il corteo<br />

funebre. Compreso Renzo il figlio di Francesco che tremando, si rifugiò presso i militari vicino la<br />

casa <strong><strong>del</strong>la</strong> zia Peppina, sorella di Francesco.<br />

Ogni giorno Fortunata, vestita a lutto completamente, si recava al camposanto a piangere le<br />

ultime lacrime che le rimanevano, accompagnata dalla sorella Carmela.<br />

Oltre la paura di altri bombardamenti, vi era la paura <strong><strong>del</strong>la</strong> morte per fame. Tutto scarseggiava.<br />

Tutto bisognava procurarsi. “La provvidenza <strong>Di</strong>vina ci aiuterà !” diceva Carmela. “<strong>Di</strong>o affligge ma<br />

non abbandona !” rispondeva Domenica.<br />

I figli più grandi di Francesco, tentarono di rimettere in sesto la segheria, cercando di recuperare<br />

ciò che era recuperabile. Gaetano andava a pescare con qualche amico e portava <strong>del</strong> pesce fresco,<br />

che veniva diviso con gli altri se era abbondante. Un altro cercava di procurarsi cibo con il baratto:<br />

un quadro o altra merce per il pane di mais o frutta racimolata nelle campagne. La roba di valore<br />

veniva scambiata al mercato nero. L’affascinante Dante, veniva mandato al municipio. Qui vi<br />

lavoravano diverse ragazze da marito. Tra una moina, una battuta, un occhiolino, otteneva le<br />

tessere per il cibo contingentato. Ogni capacità era buona per sopravvivere. Ciro operava con il<br />

Barone a cui non mancava di certo il cibo. Spesso Gaetano con il cognato Peppino, a rischio<br />

affondamento, partivano con una barca a vela verso Messina portando olio e scambiandolo con<br />

fave secche, fagioli, farina; poi rientravano.<br />

La guerra andava talmente male che furono richiamati anche coloro che avevano fatto già il<br />

militare. Fra questi vi fu Vincenzo; e stava per partire anche Dante. Anzi partì subito dopo il<br />

bombardamento <strong>del</strong> 20 febbraio. Fu mandato all’isola d’Elba come furiere.<br />

Per fiaccare psicologicamente le popolazioni ed i militari italiani, dopo i bombardamenti a tappeto<br />

gli alleati lanciavano manifestini che spingevano alla ribellione con parole <strong>del</strong> tipo: “ Italiani, i veri<br />

nemici sono coloro che vi hanno portato alla guerra. Ribellatevi alla dittatura fascista!”. Era uno<br />

stress continuo. Ogni sera aerei alleati mitragliavano, i posti militari <strong><strong>del</strong>la</strong> piana.<br />

Il 6 maggio <strong>del</strong> ’43, dopo tanti falsi allarmi, Reggio fu massicciamente bombardata per la prima<br />

volta, da fortezze volanti, provenienti dalla Tunisia. Vi furono 327 morti civili. Il 18 giugno <strong>del</strong> 1943<br />

ci fu l’ennesimo bombardamento su Gioia. Gran parte <strong>del</strong>le famiglie, comprese le nostre, si<br />

rifugiarono al solito boschetto di eucalipti.<br />

Poi capirono, che ci si doveva allontanare un po’ di più. Si rifugiarono nelle campagne <strong>del</strong> Sovereto<br />

di Gioia, fra gli alti alberi di olivo e agrumeti e per tetto usavano un pagliaio. Qui partorì la moglie<br />

di Francesco jr, Valentina. Al neonato fu dato i nome di Ciro Marcello come lo sventurato figlio di<br />

Fortunata. Il povero bambino dopo qualche giorno fu aggredito dalle pulci che infestavano la zona.<br />

Se gli alleati non bombardavano Gioia, bombardavano Palmi o Rosarno o Siderno. Nessuno era<br />

risparmiato. Così il gran consiglio di <strong>famiglia</strong> decise che fosse ora di allontanarsi ancora di più:<br />

decisero di rifugiarsi a Melicuccà su suggerimento di Rosaria la moglie di Ciro, l’ultimo figlio <strong>del</strong><br />

Capitano <strong>Carresi</strong>, che aveva partorito un maschietto nel marzo <strong>del</strong> ’43 a cui fu dato il nome di<br />

Francesco come il nonno.<br />

Facciamo qualche passo indietro.<br />

Rosaria era una ragazza bionda e con gli occhi azzurri, bassina ma sveltissima in casa, orfana <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

mamma. In fatto di matrimoni, da queste parti, l’ultima parola toccava ai genitori (quando ci<br />

riuscivano, vedi Fortunata) e se non c’erano i genitori, le sorelle o i fratelli (di norma). Nel caso<br />

nostro, le sorelle <strong>Carresi</strong>. Le quali si ponevano al centro <strong>del</strong> ring, per trattare la dote <strong><strong>del</strong>la</strong> ragazza.<br />

La zia di Rosaria rispondeva:<br />

74


“La cassapanca c’è, piena di roba, che la sua povera mamma … <strong>Di</strong>o l’abbia in gloria, prima di<br />

morire ha lasciato per lei … “ e si asciugava una lacrima da un occhio semichiuso dalla nascita, per<br />

effetto, forse più di congiuntivite che di commozione.<br />

Le sorelle <strong>Carresi</strong>, commosse veramente, mentre Carmela sosteneva la contrattazione, le altre<br />

sorelle spiegavano a Felicia, la loro mamma, la situazione e lei rispondeva:<br />

“Ah, bonu, bonu, iti cu’ pondu !” Naturalmente si cercava di vedere la cassapanca ed il contenuto:<br />

“Quanto prima ve la faremo vedere … vediamo se arriviamo al quaglio !”<br />

“Nostro fratello Ciro ha un lavoro di tutto rispetto; esattore <strong>del</strong> Barone Musco, suona tanti<br />

strumenti musicali, violino, pianoforte, clarinetto e fa l’organista in chiesa.<br />

La cosa alla fine sembrava fatta, perché tutti ci si baciavano, ma prima si doveva verificate la<br />

cassapanca. Che quando arrivava, le sorelle trovavano insufficiente ed il matrimonio si bloccava.<br />

Le nacatole, sotto il letto di nonna, intanto le mangiavano i nipoti, nell’attesa che il contratto fosse<br />

firmato. Questa discussione si interruppe per ben due volte, prima di concludersi nel matrimonio.<br />

Quella mattina con le poche masserizie, in fila indiana, i parenti si rifugiarono a Melicuccà. Ogni<br />

uomo si dava da fare per racimolare da mangiare. Chi raccogliendo fichi, o pomodori che<br />

barattavano con altro. I figli di Fortunata di giorno tornavano in segheria o alla fabbrica <strong>del</strong><br />

ghiaccio per riprendere l’attività. Un giorno Gaetano, con una vecchia bici, si recò a Gioia per<br />

trovare <strong>del</strong> cibo: pesci o “pane rosso” (pane di mais). Quando “la spesa” era fatta rientrava a<br />

Melicuccà, gettandosi al lati <strong><strong>del</strong>la</strong> strada quando, all’improvviso sentiva gli aerei volare bassi. Poi si<br />

rialzava e riprendeva a pedalare. Il buon Gaetano era un ottimo marinaio con il patentino di<br />

Padrone Marittimo, ma era uno scarso ciclista. Cosicché quel pomeriggio nei pressi di Sant’Anna,<br />

con la strada in discesa, si lanciò con la bici per far riposare le gambe stanche, quando dietro una<br />

curva, ad un incrocio, vide una pattuglia di soldati tedeschi che fermavano tutti i passanti per<br />

controllarne i documenti. Gaetano, capace di cazzare la randa, di orzare, di rallentare un veliero,<br />

non fu lesto a fermare una misera bici. I tedeschi vedendolo arrivare, con voce gutturale,<br />

gridarono:<br />

“Halt, halt… !” macchè. Gaetano cadde, perdendo l’equilibrio, sopra un sottufficiale tedesco,<br />

buttandolo a terra. Fu pestato di botte e il cibo che aveva racimolato gli fu sequestrato.<br />

Quando se lo vide arrivare, Carmela si mise le mani i capelli assieme a tutti i figli e ai parenti.<br />

La provvidenza divina, a volte, si manifestava sotto forma <strong>del</strong> fratello Domenico, che residente a<br />

Reggio Calabria, da anni, faceva il negoziante di generi alimentari. Riusciva ad avere la roba da<br />

smerciare come voleva il fascismo e la distribuiva con la tessera. Ma il grosso <strong>del</strong> profitto,<br />

Domenico, chiamato “zi abate”, perché sembrava un monaco, lo guadagnava con il mercato nero.<br />

Così periodicamente esso con un’auto e tanto di autorizzazione andava a Melicuccà dal fratello,<br />

carico di generi alimentari: ed era festa per tutti.<br />

In questo periodo, mentre gli alleati si apprestavano ad invadere la Sicilia, Giuseppe e Mario,<br />

quando potevano rientravano in licenza. Mario era sempre innamorato di quella ragazza, anzi lo<br />

era ancora di più. Ma la madre, forse memore <strong><strong>del</strong>la</strong> posizione di suo marito e per rispetto <strong>del</strong>lo<br />

stesso, era sempre contraria a quel fidanzamento e non voleva saperne di ufficializzare la cosa. E<br />

Mario restava incavolato di brutto.<br />

Il 15 luglio 1943 Gioia Tauro fu di nuovo bombardata.<br />

Ma questa volta le sirene d’allarme, come il 18 giugno, suonarono in tempo e la gente guadagnò<br />

subito i ricoveri. Ma questa fu un'altra data che la <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong> non avrebbe più dimenticato.<br />

Lo stesso giorno fu bombardata anche Bagnara.<br />

Vincenzo il primogenito <strong>del</strong> Capitano <strong>Carresi</strong> stava in un bar vicino casa sua. La <strong>famiglia</strong> di Vincenzo<br />

era composta da cinque persone: marito, moglie, il primogenito Francesco che faceva il meccanico<br />

a Gioia Tauro, Felicia e l’ultimo nato Gino. La mamma, Domenica, mandò il figlioletto Gino a<br />

chiamare il papà, era ora di pranzo. Ad un tratto i rumori quotidiani, furono interrotti dal suono<br />

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cupo come ruggito degli aerei e dal sibilo <strong>del</strong>le bombe che, sganciate, colpirono per l’ennesima<br />

volta la popolazione civile: il piccolo Gino e suo padre Vincenzo, assieme a tanti altri civili, furono<br />

colpiti mortalmente. Anche Bagnara, come Gioia, pagò il suo tributo alla guerra. Ancora di più il<br />

nucleo familiare dei <strong>Carresi</strong>.<br />

Domenica, la moglie di Vincenzo, corse come una pazza fuori di casa, quando sentì gli scoppi e le<br />

urla dei feriti. Un fosco presentimento l’aveva avvisata che qualcosa di grave fosse accaduto: e si<br />

trovò il piccolo Gino dilaniato assieme a suo padre, in una pozza di sangue. Le sue urla di dolore<br />

squarciarono l’aria afosa di quel 15 luglio. Domenica, da allora, non si riebbe più da quel dolore<br />

<strong>del</strong>l’anima che provano le mamme quando perdono i figli. Le sorelle affrante, distrutte, si recarono<br />

a Bagnara per i funerali. I poveri morti furono seppelliti in mezzo alla strada in fretta e furia visto il<br />

pericolo.<br />

Intanto alcuni giorni prima, il 10 luglio, le forze alleate avevano invaso la Sicilia, con la VII armata<br />

USA <strong>del</strong> Generale Patton e la VIII armata britannica. Dopo 38 giorni la Sicilia era occupata. Gli<br />

alleati ora si preparavano a sbarcare in Calabria.<br />

Come ha insegnato ogni guerra moderna, prima di uno sbarco bisognava fare terra piana con il più<br />

classico bombardamento sia dal cielo, sia dal mare. Le navi alleate cominciarono a sparare con i<br />

305 mm e gli aerei a bombardare.<br />

Il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio <strong>del</strong> fascismo dimissionò Mussolini. Fu un grido unico:<br />

“Adesso al guerra finirà !”<br />

Giuseppe e Vincenzo si trovavano sul treno fermo a Sant’Eufemia Lamezia quando fu annunciata la<br />

caduta <strong>del</strong> fascismo: anche loro pensarono che presto la guerra sarebbe finita.<br />

Intanto, però, essi furono mandati in servizio a Taranto. Giuseppe a Buffoluto, il deposito<br />

munizioni <strong><strong>del</strong>la</strong> Regia Marina. Vicenzo al castello Angioino, settore trasmissioni.<br />

Intanto tutta la costa tirrenica da Reggio fino a Napoli era battuta dagli aerei e dalle navi. Bombe e<br />

mitraglia su tutto ciò che si muoveva: tanto che una mitragliata uccise un uomo nel cimitero di<br />

Gioia Tauro. Mentre gli alleati sbarcavano a Reggio, i tedeschi cercavano di rallentare l’avanzata<br />

alleata.<br />

Intanto i nostri parenti, sotto l’incalzare <strong>del</strong>le incursioni aeree, se ne contarono sette nel mese di<br />

agosto, lasciarono pure Melicuccà e si rifugiarono sotto la galleria <strong><strong>del</strong>la</strong> ferrovia a scartamento<br />

ridotto. Lì facevano tutto, mangiare, dormire, fra i cespugli i bisogni; ed in quella galleria<br />

arrivavano tante persone di tanti paesi. Era una gran confusione. Ma si sa che in questi casi non vi<br />

erano questioni razziali, di religione o di censo che potevano porre limiti o portare a discussioni o<br />

ad atti di superbia fra loro. Anzi, la disperazione, la paura e la fame, riavvicinavano le persone.<br />

Accadevano anzi situazioni comiche. Come quella notte che un uomo s’alzò zitto, zitto, si portò nei<br />

pressi <strong>del</strong>l’ingresso <strong><strong>del</strong>la</strong> galleria per orinare: aveva paura ad allontanarsi. Renzo e Ture, se ne<br />

accorsero, lo rimbrottarono:<br />

“vai a pisciare più in là, sporcaccione!”<br />

“ma solo un pochetto ne devo fare!” rispondeva costui.<br />

“vai fuori a pisciare!” gridava Renzo.<br />

Un giorno il figlio di Fortunata, Albino il seminarista, mentre con gli altri parenti rientravano da<br />

Gioia alla galleria, videro lungo la strada un accampamento tedesco abbandonato.<br />

“Chissà se c’è da mangiare !” diceva Albino mentre inghiottiva saliva.<br />

“E se è avvelenato quel cibo ? Vi ricordate di quella bicicletta lasciata lì, vicino alla caserma <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

finanza? Sembrava senza padrone invece era minata e il figlio di mastro Luigi “u pirio” è saltato in<br />

aria ‐ diceva dall’alto dei suoi 18 anni, suo fratello maggiore Renato. Egli aguzzava gli occhi e<br />

diceva:<br />

“Io non m’avvicino … “ ma la fame ebbe la meglio sulle opinioni più o meno giuste degli altri.<br />

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“Facendo così moriremo per la fame, per lui … “ e si lanciò a “pesce” in quell’accampamento<br />

abbandonato e trovarono tanto cibo.<br />

Dopo diversi giorni dallo sbarco degli alleati a Reggio, più a nord i tedeschi cercavano di rallentarne<br />

l’avanzata. La vallata <strong>del</strong> Petrace si prestava allo scopo. Una mattina un gruppo d’ufficiali tedeschi<br />

fu visto alla Marina, mentre discutevano fra di loro con alle spalle la riproduzione esatta, stampata<br />

sul muro <strong>del</strong> vecchio magazzino borbonico posto sul lato destro <strong><strong>del</strong>la</strong> spiaggia scendendo lungo via<br />

Tripodi. Stavano discutendo <strong>del</strong>l’avanzata alleata e di bloccarla facendo saltare i ponti sul fiume. Vi<br />

erano riprodotti i piloni, le misure esatte di questi e lo spessore.<br />

Verso la fine di agosto <strong>del</strong> 1943 i tedeschi dopo averli minati li fecero saltare tutti e tre: <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

ferrovia <strong>del</strong>lo stato, quello <strong>del</strong>le littorine, e quello <strong><strong>del</strong>la</strong> S.S. 18, un vecchio ponte di legno.<br />

Il Sud <strong><strong>del</strong>la</strong> Calabria fu separato dal resto <strong>del</strong> paese. I treni provenienti da Nord si fermavano a<br />

Gioia non potendo più proseguire.<br />

Intanto dopo l’evento <strong>del</strong> 25 luglio ’43, Mussolini, per ordine <strong>del</strong> Re fu arrestato. Il Re nominava il<br />

Maresciallo Badoglio Capo <strong>del</strong> governo e sciolse il partito fascista, e, pur dichiarando di voler<br />

rimanere in guerra al fianco dei nazisti, mandò degli emissari presso gli alleati anglo‐americani per<br />

trattare la resa. Che fu firmata il 3 settembre 1943 a Cassibile.<br />

Gioia Tauro intanto era divenuta, dopo l’abbattimento dei ponti sul Petrace, “il capolinea, il<br />

terminale ferroviario e, conseguentemente, luogo nevralgico di traffici leciti e illeciti”. Tutti si<br />

davano da fare, per racimolare qualche soldo ed acquistare qualcosa per sopravvivere: altri<br />

continuavano a essere “pescecani”. Gaetano con i cognati, partiva sempre, stavolta a rischio<br />

ridotto, con una barca a vela portando olio di contrabbando e scambiato con altra merce a<br />

Messina.<br />

Il baratto, spesso, era olio contro sigarette americane. Che al ritorno si consegnavano ai ragazzini,<br />

ai propri figli: Mico, Turi figli di Gaetano e Carmela; Vincenzo e Francesco figli di Antonietta e zio<br />

Peppe, che in questo momento aveva intrapreso il viaggio da Genova a Gioia: parte <strong>del</strong> viaggio a<br />

piedi, parte con mezzi di fortuna; a codesta attività partecipavano tutti.<br />

In mezzo a quella gran confusione, quel caos che caratterizza il capolinea di una stazione<br />

ferroviaria, gente che va, gente che viene, carrozze con cavalli, asini, buoi, sembrava si fosse<br />

ritornati agli anni belli dei velieri e di carretti che portavano la merce da caricare, tutti<br />

approfittavano di tutto, i ragazzini si avvicinavano ai clienti come gli sciuscià napoletani, accento<br />

diverso, ma identici nella necessità, nel bisogno, gridando:<br />

“Sigaretti, sigaretti … cesterfield, marboro, luchi strica !”. Questo facevano, a volte ci riuscivano a<br />

vendere, a volte no. Turi, quasi sempre, portava a casa buoni guadagni; gli altri di meno e Vincenzo<br />

quando non ne vendeva s’incavolava. A volte la fame prendeva il sopravvento e Mico, che<br />

conosceva qualche parola d’inglese, si avvicinava ai soldati americani, che intanto avevano<br />

sostituito i tedeschi in città, e chiedeva: “Biscuit, biscuit … avere biscuit for me ?” e i generosi<br />

americani spesso accompagnavano i “biscuit” con cake e chocolat.<br />

Intanto Mario, da Palmi, rientrò a Gioia. In quella confusione chi si poteva accorgere di un militare<br />

assente ? A casa, siccome lingua batte dove il dente duole, tornava alla carica per la fidanzata. La<br />

risposta era sempre no. Cosicché i due decisero di fuggire. Si allontanarono assieme, rimasero<br />

fuori, forse, un giorno, poi rientrarono a Gioia Tauro. Ma quando Fortunata vide suo figlio Mario<br />

con la ragazza, non si rese conto di quanto fosse successo, troppa era la confusione, troppi i<br />

pensieri, come per gli altri parenti. <strong>Di</strong> fronte alla freddezza di tutti i due decisero di fuggire un'altra<br />

volta, questa volta avvisando con lettera.<br />

E si sposarono.<br />

Giuseppe, intanto, quando venne fuori la notizia che l’armistizio era stato firmato a Cassibile, a<br />

parte la manifestazione di giubilo di tutti i militari, raccolse la roba e lasciò il suo reparto assieme a<br />

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centinaia di altri soldati. Lungo le strade che da Taranto portavano a sud si vedevano lunghe teorie<br />

di militari che in fila indiana camminavano.<br />

Ma sbagliavano, poiché ufficialmente la guerra continuava. Così Giuseppe prima di prendere il<br />

treno per Gioia, passò dal Castello a chiamare Vincenzo e rientrare assieme. Ma egli aveva fatto<br />

venire da Reggio la sorella di Lea, la donna morta con i due figli a Gioia: era la sua nuova amante.<br />

Vincenzo chiese un favore a Giuseppe:<br />

“Per favore, vai in Via Principe Amedeo numero 38 e porta questo pacco a Tina , poi prendi le<br />

strade di campagna per rientrare a Gioia. Noi sappiamo qui, che la guerra continua, e se ti<br />

prendono ti considereranno disertore e ti possono fucilare. “ Giuseppe seguì alla lettera i consigli<br />

di Vincenzo. Si nutrì di frutta, riposò in pagliai, ogni tanto qualche buon uomo gli dava un<br />

passaggio; incontrò altri militari sbandati calabresi che facevano lo stesso tragitto suo. Qualche<br />

<strong>famiglia</strong> dava loro da mangiare:<br />

“Grazie signora, sono sei anni di militare che ho sul groppone, ora basta, mi sono stancato. La<br />

guerra per me è finita !” ma si sbagliava. Ai confini <strong><strong>del</strong>la</strong> provincia di Catanzaro, mentre dieci<br />

militari camminavano a passo spedito, sentirono un camion sopraggiungere carico di reali<br />

Carabinieri. Giuseppe ed i restanti militari scapparono e si nascosero dentro una galleria <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

ferrovia. Ma dietro ai carabinieri vi era un automezzo di soldati tedeschi. Anche loro videro i<br />

“disertori”, scesero subito dal mezzo, presero le loro mitragliatrici e le piazzarono agli imbocchi<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> galleria, pronti a sparare se non fossero usciti. Così il comandante dei reali Carabinieri il<br />

maresciallo Greco parlò loro dicendo:<br />

“Sentite camerati, vi hanno dato false notizie. La guerra ancora continua con i tedeschi, perciò vi<br />

consiglio di uscire a mani in alto, prima che questi strunzi vi sparano addosso”. Dopo un breve<br />

consulto i militari uscirono. I tedeschi chiesero loro di continuare a combattere assieme a loro,<br />

altrimenti, sarebbero stati fucilati sul posto.<br />

Giuseppe intimorito da questo, pregò il maresciallo Greco di lasciarlo andare via. E gli raccontò<br />

tutto quello che lui e la sua <strong>famiglia</strong> avevano subito con i bombardamenti:<br />

“ho perduto cinque persone in una volta!”.<br />

Il Greco s’impietosì e con una scusa gli diede il lasciapassare per una postazione militare vicina.<br />

Così Giuseppe rientrò a Gioia.<br />

Intanto il “bello” di casa, Dante, dopo essere partito per l’isola d’Elba, era rientrato a Gioia in<br />

licenza. Si era alla data successiva all’otto settembre ’43.<br />

I fascisti sentendosi traditi avevano fondato la R.S.I. di Salò e promettevano la fucilazione a coloro<br />

che disertavano la guerra: vi erano i manifesti appesi. Dante non voleva partire. Tutti i fratelli suoi<br />

erano rientrati. Pure Vincenzo da Reggio. Era rientrato a piedi portando un carico di 50kg sulle<br />

spalle pieno di sigarette e merce varia.<br />

Dante tante volte era andato alla stazione, ma poi ritornava indietro:<br />

“Ma i treni non arrivano, non parte nessuno” diceva all’amico e collega militare Caruso in via<br />

Tripodi, pronto anch’esso a partire. Ma sotto le insistenze <strong>del</strong>le sorelle <strong>Carresi</strong> e <strong><strong>del</strong>la</strong> mamma che<br />

voleva non gli succedesse nulla per mano dei fascisti, dopo quello che era successo agli altri, lo<br />

pregavano:<br />

“Parti, parti perché questa gente è spietata”. E lui una sera partì. E non tornò più. Durante un<br />

bombardamento sull’isola d’Elba, Dante non fu trovato. Il Caruso morì annegato dentro un<br />

sommergibile.<br />

Intanto la <strong>famiglia</strong> <strong>Carresi</strong> fu convocata a Bagnara per la mesta e dolorosa cerimonia <strong>del</strong><br />

disseppellimento dei corpi <strong>del</strong> fratello Vincenzo e <strong>del</strong> di lui figlio Gino. Dopo che i corpi furono<br />

tumulati nel cimitero di Bagnara, i parenti gioiesi rientrarono a casa. Sbarcati dal treno nel<br />

versante palmese, a piedi si recarono a Gioia alle loro abitazioni. Giunti all’altezza di “due pompe”<br />

in via Tripodi, furono fermati da tre soldati americani, abbastanza alticci. Chiedevano notizie di una<br />

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“buona donna” <strong>del</strong> posto, che faceva il mestiere più vecchio <strong>del</strong> mondo e meno rischioso.<br />

Chiedevano <strong><strong>del</strong>la</strong> “sgargiata” e lo chiesero con lingua italiana stentata, mezzo inglese e mezzo<br />

italiano: “You conoscia “sgargiata?” Quella che fa “gig‐gig”? il marito di Antonietta, zio Peppe, e<br />

Gaetano si fermarono e non capivano cosa volessero. Si avvicinarono e zio Peppe ripeteva: “I don’t<br />

understand!” così gli americani con gesti in lingua internazionale, fecero capire di cercare una<br />

donna per “fuck”, muovendo il pugno sopra e sotto. “Oh ia … !” disse zio Peppe e la parola gli<br />

rimase sulla bocca, perché gli era arrivato uno schiaffone che l’aveva mandato a gambe all’aria.<br />

“You tedesco, fuck you! Sanama bicth, you tetesco”. Gaetano cercava di bloccarli, di spiegar loro<br />

che sbagliavano, ed anche lui per la seconda volta fu preso a botte da un soldato di nazionalità<br />

diversa. A quel punto il seminarista Albino, Vangelo o non vangelo, cominciò a scagliare sassi<br />

contro i soldati americani. Giuseppe, che sul piano fisico non poteva competere con costoro, usava<br />

la sua arma più nota, l’agilità. Così colpiva con cazzotti ben assestati sullo stomaco gli americani e<br />

scappava, poi tornava, un nuovo colpo e fuggiva passando sotto le gambe degli stessi bacchettoni<br />

americani. Alla lotta partecipavano anche le donne <strong><strong>del</strong>la</strong> comitiva, fra queste la più potente era<br />

Antonietta perché robusta e ben piantata, tirando i capelli e calci negli stinchi. Poi furono divisi da<br />

altri commilitoni e passanti che si trovavano al momento.<br />

Perché successe questo episodio ?<br />

Bisogna sapere che in America l’inglese parlato è diverso (quello ufficiale) dall’inglese vero. E<br />

ancora più differente è lo slang (un dialetto). Il buon zio Peppe pronunciò il “yes” in slang<br />

italianizzato, che assomigliava più a un “ya” che a un “yes”. Quelli ubriachi com’erano non<br />

capirono nulla ed alzarono le mani.<br />

Verso la fine <strong>del</strong> ’43, mentre Carmela sulla spiaggia di Gioia aspettava con altre persone, il rientro<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> barca con cui Gaetano e i suoi amici erano andati a pescare, vide sotto una barca un militare<br />

febbricitante. Carmela lo soccorse, ed al rientro di Gaetano decisero assieme di curarlo. Lo<br />

tennero in casa per una settimana, dimostrando ancora una volta la loro generosità e nobiltà<br />

d’animo. Una volta curato, il militare che era siciliano, fu accompagnato da Gaetano, con una<br />

barca a vela fino a Messina.<br />

Intanto l’orribile guerra si spostava verso il nord a mietere altre vittime innocenti.<br />

Verso la fine <strong>del</strong> mese di settembre <strong>del</strong> 1943, Fortunata ascoltando alla radio dei continui raid<br />

aerei sull’isola d’Elba, si preoccupò <strong>del</strong>le sorti <strong>del</strong>l’ultimo dei figli, Dante, ancora militare nell’area<br />

isolana: le morti e distruzioni furono molte.<br />

Si recava molto spesso ai vari comandi militari posti vicino ai cognati Arlacchi o al comune che<br />

reggevano l’amministrazione comunale per avere notizie <strong>del</strong> figlio.<br />

La risposta fu che la confusione regnava sovrana in quel lembo di terra, né si avevano notizie<br />

precise sul numero dei militari deceduti sotto quella valanga di bombe sganciate dalle fortezze<br />

volanti alleate. Un brutto presentimento attraversava la mente di Fortunata:<br />

“Spero che <strong>Di</strong>o mi risparmi l’ennesimo dolore, cinque innocenti vittime più due a Bagnara<br />

dovrebbero bastare anche per il più esigente dio!” Sperava tanto in una prigionia <strong>del</strong> figlio, da<br />

parte tedesca.<br />

Fu un andirivieni continuo dagli uffici preposti a fornire notizie di militari defunti o meno. Un<br />

giorno la <strong>famiglia</strong> decise di fare ricerche dirette recandosi sul posto. Fu Francesco a partire poiché<br />

esonerato dal servizio militare. Vincenzo, Peppino, Mario evitarono di muoversi, visto che non si<br />

erano presentati ai richiami <strong><strong>del</strong>la</strong> R.S.I., rischiavano la pelle.<br />

Portoferraio era diventata una località spettrale. In quei fatidici giorni che vanno da settembre<br />

1943 fino agli inizi <strong>del</strong> 1944, furono sganciate migliaia di bombe per distruggere gli impianti per<br />

l’estrazione <strong><strong>del</strong>la</strong> materia prima, la ferrite, che serviva alla costruzione di armi pesanti, prima dagli<br />

alleati, in una fase successiva dagli ex alleati tedeschi, i quali deportarono migliaia di soldati italiani<br />

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che si erano rifiutati di combattere al loro fianco. Al suo arrivo Francesco cominciò le ricerche<br />

recandosi presso la caserma dove Dante prestava servizio come furiere.<br />

Un vecchio maresciallo alla domanda di Francesco rispose:<br />

“La caserma, l’ufficio, la città non esistono più.” Rispose il graduato.<br />

“Quest’ultimo bombardamento è stato spaventoso, ci sono stati centinaia di morti. Il ragazzo me<br />

lo ricordo, era simpatico e filava con la figlia <strong>del</strong> comandante <strong><strong>del</strong>la</strong> compagnia. Vi converrebbe<br />

recarvi in ospedale, sapere se è stato ricoverato lì ferito….. e nella migliore <strong>del</strong>le ipotesi sapere se<br />

è stato deportato in Germania. Altro non so, non ho altri consigli da darvi.”<br />

Francesco cosi fece, mostrò la foto di Dante, in tanti, locali, lo ricordavano perché tipo ameno e<br />

ciarliero. Ma dopo l’ultimo bombardamento non l’avevano visto più.<br />

Francesco decise di recarsi presso l’abitazione <strong>del</strong> comandante, a parlare direttamente con quella<br />

ragazza con cui Dante aveva filato nei tragici giorni precedenti la guerra.<br />

Neanche da lei ebbe notizie più precise, se non che era sempre in compagnia di un conterraneo,<br />

un militare di Locri, tale Santoro. Quando Francesco rientrò senza buone nuove, la <strong>famiglia</strong> al<br />

completo cominciò ad intuire che, forse, bisognava aggiungere alla loro lunga lista, l’ennesimo<br />

nome: ma la Speranza che potesse esser stato deportato in Germania, teneva tutti col desiderio di<br />

aspettare, di continuare a cercare.<br />

Da qui la decisione di recarsi e trovare il Santoro, che era stato l’ultimo a vederlo vivo. Mario lo<br />

trovò e chiese con la speranza di sapere qualcosa di più.<br />

“Mi dispiace, amico mio, vi posso solo dire che al momento che l’allarme era cominciato a<br />

suonare, io e Dante corremmo verso i rifugi antiaerei. Sentimmo uno scoppio, io mi riparai sotto<br />

un porticato ferito alle gambe. Al risveglio mi ritrovai nell’ospedale militare. Chiesi di Dante e mi<br />

risposero che c’erano stati centinaia di morti, alcuni irriconoscibili.” Mario rientrò <strong>del</strong>uso e con una<br />

gran pena nel cuore.<br />

La vita continua. Bisognava ricominciare, la guerra era lontana, bisognava rimuoverla dal proprio<br />

cuore e dalla propria mente anche se molto difficile, dopo quei tragici avvenimenti familiari. Solo<br />

una grande fede nel <strong>Di</strong>o <strong>del</strong>l’Amore ed il sostegno morale, la solidarietà, di chi vuole bene senza se<br />

e senza ma, disinteressatamente, poteva compiere il miracolo di far dimenticare.<br />

La segheria fu riattata completamente. Qualche sega a nastro si era pensato di spostarla vicino ai<br />

luoghi di taglio dei tronchi in montagna. Segarli in grosse tavole e spostarle giù per un’ulteriore<br />

lavorazione.<br />

Una mattina <strong>del</strong> 1944, Fortunata in compagnia <strong>del</strong> figlio Renzo, si era recata a far spesa per la<br />

<strong>famiglia</strong> in piazza Tre Canali. Fortunata osservava la merce sulle varie bancarelle e ne chiedeva il<br />

prezzo mentre Renzo, individuato Melo il micone, gli chiedeva insistentemente se gli fosse<br />

spuntato il “pelo d’oro”, nel di dietro.<br />

Melo il micone, con quello sguardo intelligente, lo guardava stupito senza capire e domandava:<br />

“E che è questo pelo d’oro, che significa?”<br />

“Ma scherzi? Non sai cosa è? Ad una certa età deve nascere, come i denti: se i denti non ti<br />

spuntano ad una certa età, tu che pensi Melo? Che sei malato, no? Per il pelo d’oro è la stessa<br />

cosa, se non spunta è la stessa cosa. E deve nascere al centro <strong>del</strong> “cinque lire”, ricordati. Se esce<br />

da un’altra parte ti devono operare. Perciò Melo, ogni sera culo allo specchio e verifica, va bene?<br />

Se vuoi chiedi a tua madre.”<br />

Durante questo dialogo, Fortunata stava discutendo alquanto animatamente con un venditore. <strong>Di</strong><br />

colpo vide la mamma cadere a terra spinta dall’energumeno. Renzo era troppo ragazzo per<br />

reagire, se non a parole. Bastò la gente ad aiutarla e a rimproverare l’uomo.<br />

Renzo accompagnò la mamma a casa, poi andò in segheria, non prima <strong><strong>del</strong>la</strong> raccomandazione<br />

<strong><strong>del</strong>la</strong> mamma di non dire nulla ai suoi fratelli. Salì verso la segheria ed avvisò i fratelli presenti.<br />

Vincenzo, Peppino, Renato, senza pensarci due volte, formarono la spedizione punitiva. Si<br />

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ecarono in piazza a chiedere ragione <strong>del</strong>l’azione all’uomo. L’uomo tentò di spiegare che non<br />

voleva….ecc. prima che costui potesse dire più di due parole, Peppino gli scaricò un pugno in pieno<br />

viso, a ruota seguirono gli altri a menare. Vincenzo con un nodoso bastone, completò l’opera<br />

mentre l’uomo disperatamente cercava aiuto, correndo verso il comando vigili, inseguito dai<br />

fratelli che continuavano a menare botte da orbi. L’uomo si ritrovò con il braccio fratturato.<br />

Furono avvisati i carabinieri che intervenuti sul posto, fermarono Vincenzo. Peppino e Renato si<br />

dileguarono. Più tardi, imprudentemente, Renato si avvicinò alla caserma per avere notizie di<br />

Vincenzo, pensando di farla franca.<br />

Fu riconosciuto e fermato immediatamente dai carabinieri: l’assassino ritorna sempre sul luogo <strong>del</strong><br />

<strong>del</strong>itto!<br />

Peppino stava commettendo lo stesso errore ma, l’appuntato Azzarà, si affacciò dalla finestra <strong><strong>del</strong>la</strong><br />

caserma e avvisò Mico, che, intanto, si era avvicinato per avere notizie <strong>del</strong>l’avvenimento.<br />

Azzarà lo avvisò di non far avvicinare Peppino altrimenti finiva in gattabuia pure lui.<br />

Pineo cosi fece e non si avvicinò.<br />

Il 1944 fu l’anno dei matrimoni nella <strong>famiglia</strong> <strong>Caratozzolo</strong>.<br />

Pineo e Peppina si sposarono l’undici marzo <strong>del</strong> 1944, a dicembre <strong>del</strong>lo stesso anno partorì un<br />

bambino nato morto per soffocamento da cordone ombelicale. Un nuovo dolore si era aggiunto<br />

agli altri.<br />

Lo stesso anno si dovette fare una triste operazione al cimitero.<br />

Per infiltrazioni d’acqua si dovettero spostare le bare dei defunti di Fortunata. Francesco, il marito<br />

di Fortunata, per via <strong>del</strong>le infiltrazioni d’acqua che avevano bucato la bara, si era quasi dissolto.<br />

Fortunata non potette che fare un’affermazione dolorosa:<br />

“Neanche in morte hai avuto fortuna!”<br />

Vi erano presenti i parenti più stretti, Carmela, Grazia, Domenica, Ciro e poi Renato.<br />

Quando fu rimossa la bara bianca di Ciro, ormai di colore diverso, Fortunata per un gesto d’amore<br />

di mamma, chiese al camposantaro:<br />

“Me lo fate vedere, signore?” l’uomo rispose spaventato:<br />

“Donna Fortunata, non si può, è proibito dalla legge!”<br />

Poi, in un attimo di distrazione <strong>del</strong>l’uomo, Fortunata vide un foro sulla bara <strong>del</strong> piccolo Ciro, infilò<br />

un dito fece forza ed il coperchio si aprì cadendo fragorosamente a terra: Fortunata vide il<br />

corpicino <strong>del</strong> figlioletto, bianco cinereo, la testolina girata in un lato e un foro sulla tempia destra, i<br />

capelli ispidi, una espressione di dolce serenità stampata sul viso. A quella scena Renato svenne.<br />

Fortunata abbracciò il figliolo con forza.<br />

Il camposantaro urlava per il timore di perdere il posto, altri parenti soccorsero Renato, il resto<br />

fece allontanare Fortunata e ritornarono assieme a Gioia.<br />

A casa di zia Serafina una buona notizia sconvolse la giornata <strong><strong>del</strong>la</strong> <strong>famiglia</strong>: Antonino stava per<br />

tornare dalla prigionia egiziana. Una bella notizia senza dubbio ma, impegnativa. La fame era<br />

tantissima. Come accogliere Nino? Tramite i parenti si preparò un mediocre pranzetto: pane,<br />

stoccafisso, vino. Zio Peppino si vestì elegante per accogliere il figlio, non avendo una camicia,<br />

indossò una canottiera e sopra vi piazzò una bella ed elegante cravatta. Poi andarono alla stazione.<br />

Il treno arrivò e Nino no. Zio Peppino e Serafina rientrarono a casa.<br />

La fame era tanta. Cosi nell’attesa, mangiavano un pezzetto di pane ed un pezzetto di stoccafisso.<br />

Alla fine quando Nino arrivò su quel tavolo nulla era rimasto <strong>del</strong> misero pranzetto.<br />

FINE<br />

81


Da <strong>Carresi</strong> Vincenzo e Ruggiero Fortunata nacque <strong>Carresi</strong> Francesco che ha sposato Patamia<br />

Felicia.<br />

<strong>Carresi</strong> Vincenzo ha sposato Domenica Fe<strong>del</strong>e.<br />

82


Bibliografia<br />

“Gioia che cambia” Ing. Marino<br />

“Gioia Tauro” Prof. Orso<br />

“Gioia Tauro nel contesto storico calabrese” Achille Barbaro<br />

“<strong>Storia</strong> <strong>del</strong> fascismo” A. Petacco<br />

“Documenti archivio” c.c.i.a. di RC<br />

“Le società di M.S. V. Savoia<br />

“Gioia Tauro” R. Liberti<br />

“fascismo,borghesia agraria e lotte popolari:<br />

Rizziconi 1918 – 1946” R. Lentini<br />

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