17 settembre 2022 - 07:57

«Moby Prince, ecco come siamo arrivati alla presenza della terza nave»

Parla il consulente della commissione parlamentare, i dubbi sul peschereccio somalo

di Giulio Gori

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La nuova verità sulla tragedia della Moby Prince — la presenza di una terza nave che ha costretto il traghetto a virare all’improvviso, andando a colpire la petroliera Agip Abruzzo — è il risultato di 13 mesi di lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta, tra perizie, incrocio di dati, studi di scenario, nuove analisi delle testimonianze, comprese quelle apparentemente contraddittorie. Con una relazione finale firmata all’unanimità, per dare il segnale di una visione condivisa, che contrasta con tante delle ricostruzioni emerse lungo tre decenni di inchieste. Ma come è stato possibile raggiungere un risultato che getta nuova luce sulla morte di 140 persone, a oltre 31 anni di distanza da quella sera del 10 aprile 1991?

La terza nave

Un ruolo centrale ce l’ha una società specializzata di Genova, Ceterna, che ha condotto studi sui possibili scenari dell’incidente. Una volta stabiliti i punti fermi — ovvero dove si trovava la petroliera e con quale orientamento, le condizioni del mare, l’orario di partenza, la destinazione Olbia, l’orario della collisione, la velocità del traghetto — sono emersi 1.239.700 diversi possibili scenari. Sulla base delle indicazioni della commissione, presieduta da Andrea Romano, Ceterna ha via via raffinato il suo lavoro (a partire dal punto esatto dell’Agip Abruzzo su cui la Moby Prince è andata a infrangersi). Gli analisti, per precauzione, hanno lavorato con margini di confidenza maggiori rispetto alle stime della magistratura, oggi non più verificabili: così, per l’angolo d’incidenza dell’impatto, di 70 gradi, è stato preso in considerazione un intervallo tra i 64° e i 76°; per la rotta è stata valutata una forbice possibile di 20 gradi. Ciò nonostante, gli scenari possibili sono risultati solo due: la Moby Prince ha improvvisamente virato a sinistra o tra i 600 e i 900 metri dall’Agip Abruzzo, o tra i 200 e i 400. Tanto da colpirla sulla fiancata destra, quella opposta alla costa toscana da cui proveniva. Così, l’ingegner Gabriele Bardazza, consulente tecnico della commissione, che ne ha curato i rapporti con la società genovese, spiega che «quando da Ceterna ci hanno telefonato per chiederci se nello scenario avevamo contemplato la presenza di una terza nave, siamo sobbalzati: perché loro stavano facendo una ricerca solo sulla base di dati oggettivi, mentre in commissione, una volta escluse la nebbia, la bomba a bordo, l’errore del pilota e l’avaria, eravamo arrivati al punto di parlare di una terza nave, sia per esclusione, sia sulla base di elementi circostanziali, sia rianalizzando le testimonianze oculari». «In conclusione — prosegue il consulente, che del caso Moby Prince si occupa da più di 10 anni — il traghetto ha virato a sinistra per evitare una nave che gli arrivava da sinistra. E dei due scenari il più probabile è il secondo, una svolta 200-400 metri prima dell’impatto che poi è risultato fatale, perché il primo avrebbe forse dato il tempo al traghetto di reagire».

Il caos della bettolina

Come denunciato da Andrea Romano, la commissione non ha potuto individuare la terza nave per la chiusura anticipata della legislatura. Eppure ha tentato anche a contattare la Nato per avere eventuali tracciati radar. Ci ha provato persino con la Russia (prima della guerra in Ucraina) per sapere se l’Urss all’epoca spiasse Camp Darby. I limiti dell’inchiesta sono legati al fatto che la magistratura non ha mai indagato sull’Agip Abruzzo, senza svolgervi quindi particolari rilievi, ma oggi sappiamo che era ancorata in zona vietata e che a causa di una perdita di vapore era avvolta nel fumo e a luci spente: «Allora si diede la colpa alla Moby Prince, ma è come se avesse tamponato un furgone nero parcheggiato di notte a fari spenti nella corsia di sorpasso di un’autostrada», dice Bardazza.

Nel dicembre 1991 sulla rivista «Antincendio» dei vigili del fuoco esce un servizio in cui chi era salito a bordo per spegnere le fiamme riferisce che la cisterna 6 era aperta e aveva un manicotto infilato dentro, un elemento che oggi spinge Romano a parlare esplicitamente di «bunkeraggio», un rifornimento clandestino. Così i sospetti cadono su una bettolina. Ma un articolo pubblicato nel 1996 da Luigi Grimaldi su Avvenimenti parlò per la prima volta della presenza in rada (poi riscontrata) del peschereccio somalo 21 Oktoobar II, spiegando la stranezza di una nave addetta a trasportare pesce congelato dalla Somalia all’Italia che aveva prima fatto scalo a Belfast e Beirut. E che dopo l’incidente alla Moby Prince risultò danneggiata, ma dichiarò di avere avuto uno scontro a Zanzibar il 23 gennaio precedente con un’altra nave (guarda caso dello stesso armatore), la Cusmaan Geedi. Ma la Cusmaan a Zanzibar in quella data non risulta essere presente. Mentre sulla 21 Oktoobaar II, spiega ancora Bardazza, «abbiamo riscontri che abbia sostituito due delle tre celle frigo con due serbatoi». Insomma, una bettolina mascherata. E qui entra in gioco Eni, proprietaria di Agip Abruzzo, che nel ‘91 ha stretto un accordo con Navarma per dividersi i costi assicurativi dell’incidente: «Ma se all’epoca la colpa risultava tutta della Moby Prince, perché Eni doveva accollarsi delle spese? — dice Bardazza facendo eco a Romano — finora le sue risposte sono state quantomeno parziali».

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