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Il valore della sofferenza

IN OCCASIONE della 32esima edizione della "Giornata Mondiale del Malato", l'intervento del dottor Stefano Ojetti, presidente di Ascoli e segretario nazionale dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (Amci)
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Stefano Ojetti

 

«”Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18). Fin dal principio, Dio, che è amore ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Siamo creati per stare insieme, non da soli. L’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria.

 

Così Papa Francesco nel messaggio in occasione della XXXII Giornata Mondiale del Malato.

 

Proprio sul valore del “Farsi Prossimo”, mi ha molto colpito la scritta che è sul portale dell’Hotel Dieu, il più antico ospedale di Parigi, che testualmente dice: “Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò”.

 

Guarire, curare, consolare, tre verbi che si compendiano nell’eterno mistero del dolore che pone al sofferente la domanda: perché? – perché proprio a me?

 

E l’interrogarsi prosegue sul senso della sofferenza e su quale ne sia il significato.

 

L’uomo sente di essere fatto per la vita e la malattia viene avvertita come un limite ed è subita come una negatività fino ad una sorta di schiavitù, ed allora la liberazione da essa diviene una vera e propria necessità.

 

Certamente la sofferenza pone l’uomo in crisi, ed è per questo che cerca di liberarsene in ogni modo, ma può rappresentare anche un’occasione salvifica particolare nella vita di una persona in cui si è chiamati a verificare sé stessi, a mostrare il vero volto e ad indicare il proprio valore.

 

Come afferma Papa Francesco “La sofferenza non è un valore in sé stesso, ma una realtà che Gesù ci insegna a vivere con l’atteggiamento giusto” ed aggiunge “ci sono, infatti modi giusti e modi sbagliati di vivere il dolore e la sofferenza”.

 

Come ben sappiamo, la professione del medico ogni giorno lo mette in contatto con quegli aspetti della vita quali – la malattia, la sofferenza e la morte – vale a dire con tutto ciò che ci rende esseri umani, in contatto con altri esseri umani che in qualche modo richiedono la nostra assistenza, la nostra solidarietà e la nostra carità.

 

Se un Medico infatti, non si accontenta di essere semplicemente un operaio della salute, allora è inevitabile che nel suo incontro con l’altro, non si limiterà soltanto a chiedersi la ragione della sua malattia, ma si domanderà del “perché del dolore.

 

E proseguendo nell’assistere la persona gravemente ammalata che sta per morire, non si limiterà solamente a fornire le cure per togliergli qualunque forma di sofferenza, ma allargherà il suo orizzonte mentale fino a domandarsi: “Chi è costui? Qual è la sua storia umana?

 

La morte ed il morire sono stati sottoposti dalla nostra società ad un radicale occultamento. Poco infatti si parla di morte, sicché oggi la morte è diventata un tabù.

 

Già Epicuro nel III secolo A.C. spiegava che “la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi”. Di fatto, la evitava.

 

Un po’ come Schopenhauer (filosofo tedesco del XIX secolo), il quale sosteneva che “non c’è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l’intervallo”.

 

Sul fronte del fine vita, dobbiamo constatare infatti un cambiamento, che oggi di morte si parli poco non è un mistero, parlarne apertamente è diventato quasi proibito; l’odierno occultamento, in realtà, ne nasconde la nostra grande paura.

 

La nostra è l’epoca in cui la morte è scomparsa, in cui la generazione dei più giovani è definita “la generazione senza la morte”, dove non si muore più in casa, è l’epoca in cui sembra di poter registrare una vittoriosa morte della morte.

 

Se ne parla solo quando si vuole difendere, in nome dell’Autodeterminazione, il diritto a morire come l’attuale tentativo di normare la legge sul suicidio medicalmente assistito c’insegna.

 

Nascita, vita, dolore, sofferenza, malattia, vecchiaia e morte fanno parte della “Condizione umana”.

 

La nostra società, tesa ad esaltare i valori dell’individualismo, dell’efficientismo tecnologico e del massimo rendimento economico, ha finito per ridurre l’uomo ad “uno strumento ottimale ai fini del profitto”, dequalificando, squalificando, emarginando o annullando chi non è più inserito in un ruolo produttivo.

 

E d’altronde, non senza personale meraviglia, è quello che pensava anche un illustre clinico quale Veronesi quando afferma: (nel libro L’Eutanasia ed etica del medico, Bioetica 2003, 330) Morire è un dovere biologico e anche un dovere sociale nel senso che la sopravvivenza della specie dipende dalla capacità produttiva di ciascuno e quindi, gli individui improduttivi, una volta assolto anche il compito di trasferire ai nuovi individui esperienza e conoscenze, è giusto che scompaiano”».

 


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