Responsabilità civile

Scoperta di bene archeologico: la proprietà pubblica è presunta

Cassazione civile, sez. II, sentenza 26/04/2017 n° 10303

I beni archeologici presenti in Italia si presumono, “salva prova contraria gravante sul privato che ne rivendichi la proprietà, provenienti dal sottosuolo o dai fondali marini italiani ed appartengono, pertanto, al patrimonio indisponibile dello Stato”.

E' questo il principio confermato dalla Cassazione con la sentenza 26 aprile 2017, n. 10303, secondo la quale, in relazione alle cose d'interesse archeologico rinvenute in Italia dopo l’entrata in vigore della L. 20 giugno 1909, n. 364 sull’inalienabilità delle antichità e delle belle arti, il privato che agisce in rivendicazione deve fornire la prova del loro ritrovamento avvenuto all’estero o comunque dimostrare l’esercizio sulle stesse di legittime cause di possesso.

L’appartenenza allo Stato dei beni di valore storico-artistico, introdotta con la legislazione di tutela di inizio secolo, poi rafforzata dalla legge 1° giugno 1939, n. 1089 (legge Bottai), trova costante conferma nella più recente evoluzione legislativa, approdando al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cd. Codice Urbani, sostitutivo del D.Lgs. n. 490/1999, Testo Unico Melandri-Veltroni) per il quale le cose mobili o immobili di interesse storico-artistico e archeologico, da chiunque ritrovate o scoperte entro i confini italiani, entrano a far parte del demanio o del patrimonio indisponibile ai sensi degli artt. 822 e 826 c.c. (art. 91)

Il caso

Oggetto del contendere è una collezione di reperti archeologici che il ricorrente dichiarava essergli pervenuta per via successoria e a seguito di un possesso familiare durato oltre cinquant'anni.

Dopo l'archiviazione del procedimento penale per il reato d'impossessamento di beni culturali, la parte evocava avanti il Tribunale di Venezia il Ministero per i Beni e le attività culturali per l'accertamento della proprietà privata dei pezzi e riottenerne il possesso dalla Soprintendenza per il Veneto cui erano stati devoluti dal giudice penale.

Le sue richieste tuttavia venivano respinte con successiva conferma della sentenza in appello.

Dalla relazione tecnica di due funzionarie della Soprintendenza, nominate ausiliarie di polizia giudiziaria nel processo penale, la Corte territoriale aveva rilevato, ai sensi dell'art. 826 c.c., comma 2 e degli artt. 10 e 91 del Codice Urbani, il carattere pubblicistico della pregiata raccolta di cui l'attore non aveva dimostrato la provenienza straniera o il legittimo possesso in luogo dell’indennità di occupazione o come premio per il ritrovamento (art. 89, comma 4, t.u. citato, art. 92 Codice). Conseguentemente, irrilevante era stato ritenuto il possesso familiare degli oggetti per un tempo esteso, poiché, rientrando nel patrimonio indisponibile dello Stato, non potevano essere usucapiti.

Il ricorso e la decisione della Cassazione

La Suprema Corte confermava la sentenza d'appello in ogni sua statuizione e rigettava il ricorso.

La parte aveva contestato la proprietà statale dei beni per i quali il Ministero non aveva fornito prova di un rinvenimento entro i confini nazionali, nè accertato degli stessi la speciale prerogativa d'interesse culturale con un procedimento amministrativo.  Allo stesso modo l’elemento della provenienza italiana non poteva essere desunto con certezza dalla relazione della Soprintendenza acquisita in sede penale in quanto, estremamente generica e semplice atto d'indagine, non aveva la stessa e necessaria efficacia probatoria di una consulenza tecnica d'ufficio.

L'inoperatività della presunzione di proprietà statale rendeva pertanto inapplicabile il D.Lgs. n. 42/2004 e valida l'acquisizione privata dei beni per maturata usucapione.

La Corte tuttavia riteneva infondati i motivi di ricorso, confermando un proprio precedente orientamento (Cass. Civ., Sez. I, 10/02/2006, n. 2995) secondo il quale, considerata la natura e le caratteristiche dei beni, nonchè la tutela costituzionale garantita al patrimonio storico-artistico nazionale, il privato in rivendicazione deve dimostrare la circostanza del ritrovamento degli oggetti archeologici in aree non appartenenti allo Stato italiano poiché la presenza degli stessi in Italia, ai sensi del citato art. 91 del Codice Urbani, costituisce prova logica della loro provenienza dal sottosuolo o dai fondali marini italiani, salva, appunto, la prova contraria.

Dalla relazione tecnica delle ausiliarie di polizia giudiziaria, correttamente utilizzata dal giudice civile pur se acquisita in altro procedimento, era emerso piuttosto la raccolta progressiva negli anni da siti del Veneto e della Magna Grecia dei singoli pezzi cui era possibile attribuire valore di interesse archeologico, senza che altre risultanze probatorie fossero intervenute a smentire le uniche conclusioni raggiunte.

Ai sensi dell’art. 2697 c.c. la parte avrebbe dovuto fondare le sue ragioni su esiti probatori ben precisi ma non ottenuti in giudizio: la provenienza non italiana della collezione contesa o, quale circostanza eccezionale che poteva costituire un' ipotesi di legittimo possesso privato, il ritrovamento degli oggetti in data anteriore all'entrata in vigore della L. n. 364/1909.

Il mancato accertamento, infine, del requisito di “culturalità” attraverso un iter amministrativo  di verifica “non dimostra” ha precisato la S.C. “il carattere privato dei beni e l'impossibilità di ascriverlo al patrimonio indisponibile dello Stato, essendo il requisito culturale insito negli stessi beni, per il loro appartenere alla categoria delle cose di interesse archeologico (Cass., sentenza n. 2995 del 2006, cit.).

Di conseguenza, i beni sottoposti a tale vincolo non possono essere sottratti alla loro destinazione (se non nei modi stabiliti dalla legge) e alla pubblica fruizione (art. 98 e ss. T.U. cit., art. 102, Codice Urbani), ciò escludendo in ogni caso che possano costituire oggetto di possesso valido per l’usucapione (Cass. Civ., Sez. II, 28/08/2002, n. 12608).

L’attribuzione al privato rappresenta dunque un’eccezione rispetto alla regola generale dell’appartenenza allo Stato che rimane, in via assoluta per gli artt. 822 e 826 c.c., il riservatario della proprietà delle scoperte archeologiche. Lo scopo è chiaro e risiede nell’interesse generale della salvaguardia del patrimonio storico artistico nazionale; l’acquisizione statale, in deroga agli istituti privati dell’occupazione e dell’invenzione riferiti alla disciplina del “tesoro”, prevale sui diritti del proprietario del fondo o dello scopritore ai quali, come già accennato, viene assegnata un’indennità o concesso il rilascio del bene in natura quale premio per il suo rinvenimento.

Accanto alle ipotesi di un possesso antecedente alla L. n. 364/1909 o della provenienza estera dei beni, come confermato dalla sentenza in commento, qualora nei casi di scoperta fortuita o scavi autorizzati l’amministrazione statale voglia rientrare nel possesso di beni trasferiti o acquistati lecitamente ex art. 54 Codice Urbani, graverà sul privato l’onere di provare le legittime cause di possesso, proprio perchè circostanze eccezionali. Nella prima fase della loro vita giuridica difatti le cose ritrovate sono affidate ad un sistema di tutela e classificazione che ne impedisce la soggezione al diritto comune con il sorgere dei diritti privati, in vista proprio di quell’interesse generale esclusivamente finalizzato alla loro conservazione, per tramandarne storia e bellezza alle future generazioni.

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(Altalex, 4 agosto 2017. Nota di Antonella Matricardi)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 29 marzo - 26 aprile 2017, n. 10303

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