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1.Il Giardino di Epicuro

◗ Gli epicurei e la pace dello spirito


La prima delle grandi scuole ellenistiche, in ordine cronologico, sorse ad Atene verso la fine del IV secolo a.C. (probabilmente nel 307/306 a.C.) a opera di Epicuro .
Epicuro nacque a Samo nel 341 a.C. e morì nel 270 a.C. Nel 306-307 si trasferì ad Atene dove fondò la Scuola del Giardino. Epicuro aveva già insegnato a Colofone, a Mitilene e a Lampsaco, ma fu il trasferimento della scuola ad Atene a costituire un vero e proprio atto di sfida di Epicuro nei confronti dell’Accademia e del Peripato, l’inizio di una rivoluzione spirituale.
Epicuro aveva capito di avere qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che aveva il futuro dalla sua parte, mentre le scuole di Platone e Aristotele avevano per sé, ormai, quasi solo il passato: un passato che, per quanto fosse prossimo cronologicamente, a seguito dei nuovi eventi era d’improvviso diventato remoto dal punto di vista spirituale. Del resto, i successori stessi di Platone e Aristotele, come abbiamo già visto, stavano svuotando dall’interno il messaggio dei fondatori.

Lo stesso luogo scelto da Epicuro per la sua scuola è l’espressione della novità rivoluzionaria del suo pensiero: non una palestra, simbolo della Grecia classica, ma un edificio con un giardino (anzi un orto) nei sobborghi di Atene . Il Giardino era lontano dal tumulto della vita pubblica cittadina e vicino al silenzio della campagna, quel silenzio e quella campagna che ai filosofi classici non dicevano nulla, ma che per la nuova sensibilità ellenistica diventano di grande importanza. Di qui il nome Giardino (che in greco si dice képos) passò a indicare la scuola e le espressioni "quelli del Giardino" e "i filosofi del Giardino" divennero sinonimi di seguaci di Epicuro, epicurei.
Della ricchissima produzione di Epicuro ci sono giunte per intero le Lettere indirizzate a Erodoto, a Pitocle, a Meneceo (che sono trattazioni riassuntive), due raccolte di Massime e vari frammenti.
Le dottrine che venivano dal Giardino possono riassumersi in poche proposizioni generali:
  • • la realtà è perfettamente penetrabile e conoscibile dall’intelligenza dell’uomo;
  • • nelle dimensioni del reale c’è spazio per la felicità dell’uomo;
  • • la felicità è mancanza di dolore e di turbamento;
  • • per raggiungere questa felicità e questa pace, l’uomo ha bisogno solo di se stesso;
  • • sono quindi inutili la città, le istituzioni, la nobiltà, le ricchezze, le cose tutte e perfino gli dei: l’uomo è perfettamente "autarchico".
    È chiaro che, nei confronti di questo messaggio, tutti gli uomini diventano uguali, perché tutti aspirano alla pace dello spirito, tutti ne hanno diritto e tutti possono aspirare a raggiungerla, se vogliono. Di conseguenza, il Giardino volle aprire le sue porte a tutti: a nobili e a non nobili, a liberi e a schiavi, a uomini e a donne, e perfino a prostitute in cerca di redenzione.

    2.La canonica epicurea

    ◗ I criteri di verità della conoscenza


    Epicuro accolse sostanzialmente la tripartizione della filosofia in logica, fisica ed etica, così come l’aveva concepita Senocrate, uno dei successori di Platone. La prima deve elaborare i canoni secondo i quali riconosciamo la verità (e per questo fu detta "canonica"), la seconda studia la costituzione del reale, la terza il fine dell’uomo (la felicità) e i mezzi per raggiungerlo. La prima e la seconda sono elaborate solo in funzione della terza.
    Platone aveva affermato che la sensazione confonde l’anima e distoglie dall’essere; Epicuro capovolge esattamente questa posizione, affermando che essa e solo essa "coglie l’essere" in modo infallibile: nessuna sensazione può mai fallire. Gli argomenti che Epicuro adduceva a prova della veridicità assoluta di tutte le sensazioni sono i seguenti.
    • In primo luogo, la sensazione è un’"affezione", e quindi passiva, e, come tale, è prodotta da qualcosa di cui essa è il corrispondente e adeguato effetto.
    • In secondo luogo, la sensazione è oggettiva e vera, perché è prodotta e garantita dalla stessa struttura atomica della realtà (di cui diremo più avanti). Da tutte le cose emanano complessi di atomi, che costituiscono "immagini" o "simulacri", e le sensazioni sono esattamente prodotte dalla penetrazione in noi di tali simulacri.
    • Infine, la sensazione è arazionale e, quindi, incapace di togliere o aggiungere a se medesima qualcosa; dunque è oggettiva (non è in alcun modo manipolata dall’attività del soggetto).
    Come secondo criterio di verità Epicuro poneva le prolessi (o anticipazioni, prenozioni), che sono le rappresentazioni mentali delle cose, le quali altro non sono se non memoria di ciò che spesso si è mostrato dall’esterno. L’esperienza lascia quindi nella mente una impronta delle passate sensazioni, che ci permette di conoscere in anticipo i caratteri delle cose corrispondenti anche senza averle attualmente di fronte.
    Queste prolessi assolvono, dunque, la funzione dei concetti, ma la loro validità dipende direttamente ed esclusivamente dal legame che hanno con la sensazione. I "nomi" sono espressioni "naturali" di queste prolessi, e quindi costituiscono anch’essi una naturale – cioè non convenzionale – manifestazione dell’originaria azione delle cose su di noi.
    Come terzo criterio di verità Epicuro pose i sentimenti di "piacere" e di "dolore". Le affezioni del piacere e del dolore sono oggettive per le medesime ragioni per cui lo sono tutte le sensazioni (possono considerarsi, infatti, come una risonanza interiore della sensazione). Esse hanno tuttavia un’importanza del tutto particolare, perché, oltre che criterio per discriminare il vero dal falso, l’essere dal non essere, come tutte le altre sensazioni, costituiscono il criterio assiologico per discriminare il "bene" dal "male", e, quindi, costituiscono il fondamentale criterio della scelta o della non scelta, ossia la regola del nostro agire.

    ◗ Evidenza e opinione


    Sensazioni, prolessi e sentimenti di piacere e dolore hanno una comune caratteristica che garantisce il loro valore di verità, e questa consiste nell’evidenza immediata. Pertanto, finché ci fermiamo all’evidenza e accogliamo come vero ciò che è evidente, non possiamo errare, perché l’evidenza è sempre data dalla diretta azione che le cose esercitano sul nostro animo. "Evidente" in senso stretto è, allora, solo ciò che è immediato come le sensazioni, le anticipazioni e i sentimenti, ma poiché il ragionare non si può fermare all’immediato, essendo operazione di mediazione, nasce così l’opinione e, con essa, la possibilità dell’errore. Pertanto, mentre le sensazioni, le prolessi e i sentimenti sono sempre veri e non hanno bisogno di alcun criterio estrinseco di verificazione e di convalida, le opinioni potranno essere a volte vere e a volte false.
    Epicuro ha cercato di determinare i criteri in base ai quali si distinguono le opinioni vere da quelle false. Sono vere quelle opinioni che:
    • "ricevono attestazione probante", cioè conferma da parte dell’esperienza e dell’evidenza;
    • "non ricevono attestazione contraria", ossia non ricevono smentita dall’esperienza e dall’evidenza. Invece sono false quelle opinioni che:
    • "ricevono attestazione contraria", ossia che sono smentite dall’esperienza e dall’evidenza;
    • "non ricevono attestazione probante", ossia non ricevono conferma dall’esperienza e dall’evidenza.
    È da notare che l’evidenza resta sempre il parametro in base al quale si misura e si riconosce la verità: ma è, in ogni caso, un’evidenza solamente empirica: è l’evidenza quale appare ai sensi e non già quale appare alla ragione. Più che mai sono qui rilevabili le pesanti ipoteche sensistiche della canonica epicurea, che la rendono inadeguata e insufficiente alle esigenze della costruzione della stessa fisica epicurea. Infatti i concetti base della fisica epicurea, come gli "atomi", il "vuoto", la "declinazione degli atomi" non sono cose per sé evidenti, per il motivo che non sono in alcun modo sensorialmente accertabili; però, dice Epicuro, sono cose non evidenti supposte e opinate per dare ragione ai fenomeni e in accordo con i fenomeni. Ma che proprio gli atomi, il vuoto, la declinazione, ecc. siano le sole e uniche cose che si possano supporre per spiegare i fenomeni, evidentemente, Epicuro è ben lungi dal poterlo dimostrare, perché altri principi, del tutto diversi da questi, potrebbero ugualmente vantare la "mancanza di attestazione contraria" da parte dell’esperienza.

    ◗ Limiti e aporie della canonica epicurea


    Da tempo gli studiosi hanno rilevato come dall’affermazione che tutte le sensazioni sono vere si può dedurre sia l’oggettivismo assoluto, come fa Epicuro, sia il soggettivismo assoluto, come faceva Protagora . L’oggettivismo, infatti, deriverebbe dall’aver posto nella sensazione un criterio saldo e assoluto su cui fondare ogni opinione, e di conseguenza ogni ragionamento. Il relativismo verrebbe, invece, dal fatto che la sensazione non fa riferimento diretto alla realtà in sé, ma ai simulacri – cioè ai flussi di atomi – i quali possono essere diversi a seconda delle condizioni esterne o del soggetto. In tal modo ciascuno può avere diverse sensazioni, pur in presenza del medesimo oggetto, e si cade pertanto nel relativismo.
    La verità è che sia la fisica sia l’etica epicurea, in ogni caso, vanno molto al di là di quello che la canonica, a motivo dei suoi limiti strutturali, di per sé permetterebbe.

    3.La fisica epicurea

    ◗ Scopo e radici della fisica epicurea


    Perché è necessario elaborare una fisica o scienza della natura, della realtà nel suo insieme? Risponde Epicuro : la fisica è necessaria per dare fondamento all’etica.
    La fisica di Epicuro è un’ontologia, una visione generale della realtà nella sua totalità e nei suoi principi ultimativi. Epicuro, per la verità, non sa creare una nuova ontologia: per esprimere la propria visione materialistica della realtà in maniera positiva (ossia non negando semplicemente la tesi platonico-aristotelica), egli si rifà a concetti e figure teoretiche già elaborate, appunto, nell’ambito della filosofia presocratica.
    E fra tutte le prospettive presocratiche era pressoché inevitabile che Epicuro scegliesse quella degli atomisti, proprio perché essa, dopo la platonica "seconda navigazione", risultava senz’altro la più materialistica di tutte.
    Ma l’Atomismo, come abbiamo visto, è una precisa risposta alle aporie sollevate dall’Eleatismo, un tentativo di mediare le opposte istanze del logos eleatico da un lato, e dell’esperienza dall’altro. Nella logica dell’Atomismo era infatti passata gran parte della logica eleatica (Leucippo, il primo atomista, fu discepolo di Melisso, e, in generale, l’Atomismo fu, fra le proposte pluralistiche, la più rigorosamente eleatica), di conseguenza, era inevitabile che questa passasse anche in Epicuro .

    ◗ I capisaldi della fisica epicurea


    I fondamenti della fisica epicurea possono essere enucleati e formulati come segue.
    • «Nulla nasce dal non essere», perché, altrimenti, ogni cosa potrebbe assurdamente generarsi da qualsiasi cosa senza bisogno di nessun seme generatore; e nessuna cosa si dissolve nel nulla, perché, altrimenti, a questo momento, tutto sarebbe ormai perito e nulla più sarebbe. E poiché nulla nasce e nulla perisce, così il tutto, cioè la realtà nella sua totalità, fu sempre quale ora è, e sarà tale sempre; infatti, oltre il tutto, non vi è nulla in cui esso possa mutarsi, né vi è nulla da cui possa essere mutato.
    • Questo "tutto", ossia la totalità della realtà, è determinato da due costitutivi essenziali: i corpi e il vuoto. L’esistenza dei corpi è provata dai sensi stessi, mentre l’esistenza dello spazio e del vuoto è inferita dal fatto che esiste il movimento; infatti, perché ci sia movimento, è necessario che ci sia uno spazio vuoto in cui i corpi possano spostarsi. Il vuoto non è assoluto non essere, ma appunto "spazio" o, come dice Epicuro, "natura intangibile". Oltre i corpi e il vuoto tertium non datur, perché null’altro è pensabile che sia di per sé esistente e che non sia affezione dei corpi.
    • La realtà quale è concepita da Epicuro è infinita. In primo luogo, è infinita come totalità. Ma è evidente che, perché il tutto possa essere infinito, infinito deve essere ciascuno dei suoi principi costitutivi: infinita dovrà essere la moltitudine dei corpi e infinita l’estensione del vuoto (se fosse finita la moltitudine dei corpi, questi si disperderebbero nell’infinito vuoto e, se fosse finito il vuoto, questo non potrebbe accogliere gli infiniti corpi). Il concetto di infinito torna così a reimporsi, contro le concezioni platoniche e aristoteliche.
    • Alcuni corpi sono composti, altri semplici e assolutamente indivisibili, gli atomi. L’ammissione di atomi si rende necessaria perché, nel caso contrario, bisognerebbe ammettere una divisibilità all’infinito dei corpi, la quale porterebbe, al limite, alla dissoluzione delle cose nel non essere, il che, come sappiamo, è assurdo.

    ◗ Differenze fra l’Atomismo di Epicuro e quello di Democrito


    La concezione dell’atomo di Epicuro differisce da quella degli antichi atomisti (Leucippo e Democrito ) in tre punti fondamentali.
    Gli antichi atomisti indicavano come caratteristiche essenziali dell’atomo la figura, l’ordine e la posizione. Epicuro, invece, indica come caratteristiche essenziali la figura, il peso e la grandezza. Le forme differenti degli atomi (che non sono solo di carattere geometrico, ma sono forme di ogni foggia e tipo e, in ogni caso, sono sempre e solo forme quantitativamente differenti e non qualitativamente diverse come quelle platoniche o aristoteliche, dato che gli atomi sono tutti di natura identica) risultano necessarie per spiegare le diverse qualità fenomeniche delle cose che ci appaiono. Lo stesso vale per la grandezza degli atomi (il peso, invece, come vedremo, è necessario per spiegare il movimento degli atomi). Le forme atomiche devono essere diversissime e numerosissime, ma non infinite (per essere infinite dovrebbero poter variare all’infinito la grandezza; ma, allora, diverrebbero visibili, il che non accade), mentre è infinito il numero degli atomi in generale.
    Una seconda differenza consiste nell’introduzione della teoria dei "minimi". Secondo Epicuro tutti quanti gli atomi, dai più grandi ai più piccoli, sono fisicamente e ontologicamente indivisibili; tuttavia, lo stesso fatto di essere corpi dotati di figura e quindi di estensione e con grandezze diverse (pur nell’ambito dei due limiti sopra segnalati) implica che essi abbiano delle parti (se così non fosse, non avrebbe neppure senso parlare di atomi piccoli e di atomi grandi). Ovviamente si tratterà di "parti" ontologicamente non separabili, ma solo logicamente e idealmente distinguibili, appunto perché l’atomo è strutturalmente indivisibile. E anche la grandezza di queste "parti" dell’atomo dovrà arrestarsi a un limite, che Epicuro chiama appunto "minimo" e che costituisce, come tale, l’unità della misura. Epicuro – si noti – parla dei "minimi" in riferimento non solo agli atomi, ma anche allo spazio (al vuoto), al tempo, al movimento e alla "declinazione" degli atomi (di cui diremo più avanti); in tutti questi casi, i minimi costituiscono l’unità di misura analogica.
    La terza differenza riguarda la concezione del moto originario degli atomi. Epicuro intende questo moto non come quel volteggiare in tutte le direzioni di cui parlavano gli antichi atomisti, ma come un moto di caduta verso il basso nell’infinito spazio, dovuto appunto al peso degli atomi, come un moto velocissimo quanto il pensiero e uguale per tutti gli atomi, pesanti o leggeri che siano. Ma come mai gli atomi non cadono secondo linee parallele, all’infinito, senza mai toccarsi? Per risolvere la difficoltà, Epicuro introdusse la teoria della "declinazione" degli atomi (clinamen), secondo cui gli atomi possono deviare in qualsiasi momento del tempo e in qualsiasi punto dello spazio per un intervallo minimo dalla linea retta e così incontrare altri atomi.

    ◗ La teoria della "declinazione" degli atomi


    La teoria della "declinazione" degli atomi (clinamen) fu introdotta non solo per ragioni fisiche, ma anche e soprattutto per ragioni etiche. Infatti, nel sistema dell’antico Atomismo tutto avviene per necessità: il Fato e il Destino sono sovrani assoluti; ma in un mondo in cui predomini il Destino, non c’è posto per la libertà umana e, quindi, per una vita morale quale Epicuro la concepisce, ovvero per la vita del saggio. Ecco ciò che Epicuro scrive, opponendosi alla necessità dominante nel sistema degli antichi atomisti: «E in verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dei che non rendersi schiavi di quel Fato che predicano i fisici: quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dei con onori, mentre nel Fato vi è una necessità implacabile». Come già gli antichi rilevavano, questa "declinazione" degli atomi contraddice le premesse del sistema, perché si genera senza causa dal "non essere"; il che è tanto più grave, in quanto Epicuro ribadisce energicamente che «dal nulla nulla deriva». Peraltro, proprio queste aporie sono fra le cose che meglio ci aiutano a comprendere la complessità del pensiero di Epicuro e la sua vera statura.

    ◗ L’infinità dei mondi


    Dagli infiniti principi atomici derivano mondi infiniti; alcuni sono uguali o analoghi al nostro, altri molto diversi.
    È poi da rilevare che tutti questi infiniti mondi nascono e si dissolvono, alcuni più rapidamente, altri più lentamente, nella durata del tempo. Perciò non solo i mondi sono infiniti nell’infinitudine dello spazio, in un dato momento del tempo, ma sono altresì infiniti nell’infinita successione temporale. Malgrado in ogni istante vi siano mondi che nascono e mondi che muoiono, Epicuro può ben affermare che il tutto non muta: infatti, non solo gli elementi costitutivi dell’universo rimangono perennemente quali sono, ma anche tutte le loro possibili combinazioni rimangono sempre attuate, appunto a causa dell’infinitudine dell’universo che dà luogo sempre all’attuazione di tutte le possibilità.
    Alla radice di questa costituzione di infiniti universi non sta, dunque, alcuna Intelligenza, alcun progetto, alcuna finalità; e neppure sta la Necessità, ma, come si è visto, il clinamen e, dunque, il casuale e il fortuito. Epicuro e non Democrito è il filosofo che veramente «’l mondo a caso pone», come dice Dante nell’Inferno.

    ◗ L’anima e gli dei


    L’anima, come tutte le altre cose, è un aggregato di atomi. Aggregato formato in parte di atomi ignei, aeriformi e ventosi, i quali costituiscono la parte irrazionale e alogica dell’anima, e in parte di atomi che sono "diversi" dagli altri e che non hanno un nome specifico, i quali costituiscono la parte razionale. Pertanto l’anima, come tutti gli altri aggregati, non è eterna, ma mortale. È questa una conseguenza che scaturisce necessariamente dalle premesse materialistiche del sistema.
    Sull’esistenza di dei, Epicuro non nutre alcun dubbio. Nega, invece, che essi si occupino degli uomini o del mondo. Essi vivono beati negli "intermondi", ossia negli spazi esistenti fra mondo e mondo; sono numerosissimi, parlano una lingua simile al greco (la lingua dei saggi) e trascorrono la vita nella gioia, alimentata dalla loro sapienza e dalla loro compagnia. Epicuro adduce addirittura argomenti per dimostrare l’esistenza di dei:
    • noi abbiamo di essi una conoscenza evidente e quindi inoppugnabile;
    • tale conoscenza è posseduta non solo da alcuni, ma da tutti gli uomini di ogni tempo e luogo;
    • la conoscenza che di essi abbiamo, così come ogni altra nostra conoscenza, non può essere prodotta se non da "simulacri" o "effluvi" che da essi provengono, e, quindi, è oggettiva.

    È molto importante rilevare il fatto che Epicuro, come sottolinea la "diversità" degli atomi che costituiscono l’anima razionale rispetto a tutti gli altri, così ammette che la conformazione degli dei «non è corpo, ma "quasi corpo", non è anima, ma "quasi anima"». È ora il caso di rilevare che, qui, il "quasi" rovina tutto il ragionamento filosofico e mette irreparabilmente a nudo l’insufficienza del materialismo atomistico, rivelando inesorabilmente la strutturale incapacità dell’Atomismo a spiegare non solo gli dei, ma anche l’unità della coscienza che è in noi, proprio come il clinamen si rivela strutturalmente insufficiente a spiegare la libertà.

    4. L’etica epicurea

    ◗ L’edonismo


    Se materiale è l’essenza dell’uomo, materiale sarà necessariamente anche il suo specifico bene, quel bene che, attuato e realizzato, rende felici. Quale sia questo bene, la natura, considerata nella sua immediatezza, ce lo dice senza mezzi termini, come abbiamo già visto: il bene è il piacere.
    Questa conclusione era già stata tratta dai cirenaici, ma Epicuro riforma radicalmente l’edonismo di questi ultimi. Infatti i cirenaici sostenevano che il piacere è un "movimento dolce", mentre il dolore un "movimento violento", e negavano che lo stato di quiete intermedio, ossia l’assenza di dolore, fosse piacere. Epicuro non solo ammette questo tipo di piacere in quiete ("catastematico"), ma gli dà la massima importanza, considerandolo come il limite supremo, il culmine del piacere. Inoltre, mentre i cirenaici consideravano i piaceri e i dolori fisici superiori a quelli psichici, Epicuro sostiene esattamente l’opposto. Da fine indagatore della realtà dell’uomo quale egli era, Epicuro aveva perfettamente compreso che ben più che i godimenti o le sofferenze del corpo, che sono circoscritti nel tempo, contano le risonanze interiori e i moti della psiche che a quelli si accompagnano e che durano ben più a lungo.
    Il vero piacere, per Epicuro, viene così a essere l’assenza di dolore nel corpo (aponía) e la mancanza di turbamento nell’anima (atarassía). Ecco le affermazioni del filosofo:
    «Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male; ma alludiamo all’assenza di dolore dal corpo, all’assenza di perturbazione nell’anima. Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte, né il godersi fanciulli e donne, né il mangiare pesci e tutto il resto che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice: ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, e che scaccia le false opinioni per via delle quali grande turbamento s’impadronisce dell’anima». Se così è, la regia nella vita morale non è il piacere come tale, ma la ragione che giudica e discrimina, ossia la saggezza pratica che sceglie fra i piaceri quelli che non comportano con sé dolore e turbamenti e scarta quei piaceri che danno momentaneo godimento, ma portano con sé dolori e turbamenti successivi.

    ◗ I vari tipi di piaceri


    Per garantire il raggiungimento dell’aponia e dell’atarassia Epicuro ha distinto:
  • piaceri naturali e necessari;
  • piaceri naturali ma non necessari;
  • piaceri non naturali e non necessari.
    Egli ha poi stabilito che si raggiunge l’obiettivo desiderato soddisfacendo sempre il primo tipo di piaceri, limitandosi nei confronti del secondo tipo e rifuggendo dal terzo. A questo proposito, Epicuro manifesta una presa di posizione che non è eccessivo chiamare "ascetica", per le ragioni che seguono.
    • Fra i piaceri del primo gruppo, cioè quelli naturali e necessari, egli pone unicamente i piaceri che sono strettamente legati alla conservazione della vita dell’individuo: sono questi gli unici che veramente giovano, in quanto sottraggono il dolore del corpo, come ad esempio il mangiare quando si ha fame, il bere quando si ha sete, il riposare quando si è stanchi, e simili. Egli esclude da questo gruppo il desiderio e il piacere d’amore, perché fonte di turbamento.
    • Fra i piaceri del secondo gruppo, naturali, ma non necessari, egli pone, invece, tutti quei desideri e piaceri che costituiscono le variazioni superflue dei piaceri naturali: mangiare bene, bere bevande raffinate, vestire in modo ricercato, e così via.
    • Infine, fra i piaceri del terzo gruppo, non naturali e non necessari, Epicuro poneva i piaceri "vani", nati cioè dalle "vane opinioni degli uomini", quali sono tutti i piaceri legati al desiderio di ricchezza, potenza, onori e simili.
    I desideri e i piaceri del primo gruppo sono gli unici che vanno sempre e comunque soddisfatti, perché da natura hanno un preciso "limite", che consiste nell’eliminazione del dolore: raggiunta l’eliminazione del dolore, il piacere non cresce ulteriormente.
    I desideri e i piaceri del secondo gruppo non hanno già più quel "limite" perché non sottraggono il dolore corporeo, ma variano solo il piacere e possono provocare un notevole danno.
    I piaceri del terzo gruppo non tolgono il dolore corporeo, e, per giunta, arrecano sempre turbamento all’anima.
    Sfrondiamo, dunque, i nostri desideri, riduciamoli a quel primo nucleo essenziale, e ce ne verrà ricchezza e felicità copiosa, perché per procurarci quei piaceri noi bastiamo a noi stessi, e in questo bastare-a-noi-stessi (autarchia) sta la più grande ricchezza e felicità.

    ◗ Il male e la morte


    Ma quando ci colgono i mali fisici non voluti che cosa dobbiamo fare? Epicuro risponde: se è lieve, il male fisico è sempre sopportabile e non è mai tale da offuscare la gioia dell’animo; se è acuto, passa presto; e, se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale, in ogni caso, come vedremo, è uno stato di assoluta insensibilità.
    E i mali dell’anima? Su questi non è il caso di diffondersi, perché essi non sono altro che quelli prodotti dalle fallaci opinioni e dagli errori della mente. E contro questi tutta quanta la filosofia di Epicuro si presenta come il più efficace rimedio e il più sicuro antidoto.
    E la morte? La morte è un male solo per chi nutre false opinioni su di essa. Poiché l’uomo è un "composto anima" in un "composto corpo", la morte non è altro che la dissoluzione di questi composti e, in questa dissoluzione, gli atomi si dileguano per ogni dove, la coscienza e la sensibilità cessano totalmente, e così dell’uomo non restano che macerie che si disperdono, cioè nulla. Per questo motivo la morte non è paurosa né di per sé, perché, al suo sopravvenire, noi non sentiamo più nulla, né per un suo "dopo", perché, appunto, di noi nulla resta, dissolvendosi totalmente la nostra anima così come il nostro corpo; né, infine, essa toglie nulla alla vita che abbiamo trascorso, perché all’assoluta perfezione del piacere non è necessario l’eterno.

    ◗ Svalutazione della vita politica


    La vita politica per il fondatore del Giardino è sostanzialmente innaturale. Essa comporta, per conseguenza, continui dolori e turbamenti; compromette l’aponia e l’atarassia e, quindi, anche la felicità. Infatti quei piaceri che dalla vita politica molti si ripropongono sono pure illusioni: ci si aspetta potenza, fama e ricchezza, che sono, come sappiamo, desideri e piaceri né naturali né necessari e, dunque, vuoti e ingannevoli miraggi. Ben si comprende, quindi, questo invito di Epicuro : «Liberiamoci una buona volta dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica». La vita pubblica non arricchisce l’uomo, ma lo disperde e lo dissipa, perciò l’epicureo si apparterà e vivrà in disparte dalle folle: «Ritirati in te stesso, soprattutto quando sei costretto a stare tra la folla». «Vivi nascosto», suona il celebre comandamento epicureo.
    Solo in questo rientrare in sé e rimanere in sé può essere trovata la tranquillità, la pace dell’anima, l’atarassia. E, per Epicuro, non le corone dei re e dei potenti della terra, ma l’atarassia è il bene supremo: «La corona dell’atarassia è incomparabilmente superiore alla corona dei grandi imperi».
    Sulla base di queste premesse, è chiaro che Epicuro doveva dare del diritto, della legge e della giustizia un’interpretazione in netta antitesi sia con l’opinione classica dei Greci sia con le tesi filosofiche di Platone e di Aristotele . Diritto, legge e giustizia hanno senso e valore unicamente quando e nella misura in cui sono legati all’"utile"; non altro che l’utilità è il loro fondamento oggettivo. Così lo Stato, da realtà morale dotata di validità assoluta qual era in passato, diventa istituzione relativa, nata dal semplice contratto in vista dell’utile; anziché fonte e coronamento dei supremi valori morali, diviene semplice mezzo di tutela dei valori vitali; è condizione necessaria alla vita morale, ma tutt’altro che sufficiente. La giustizia si rivela un valore relativo, subordinato all’utile.

    ◗ Esaltazione dell’amicizia


    Il rovesciamento del mondo ideale platonico non potrebbe essere più radicale e la frattura con il sentimento classicamente greco della vita non potrebbe essere più decisa: l’uomo ha cessato di essere uomo-cittadino ed è diventato puro uomo-individuo.
    Fra questi individui l’unico legame ammesso come veramente fattivo è l’amicizia, la quale è un libero legame che insieme unisce chi in modo identico sente, pensa e vive. Nell’amicizia nulla viene imposto dal di fuori e in modo innaturale e, dunque, nulla viola l’intimità dell’individuo. Nell’amico l’epicureo vede quasi un altro se stesso. L’amicizia non è altro dall’utile, ma è l’utile sublimato. Infatti, prima si ricerca l’amicizia per conseguire determinati "vantaggi" estranei a essa, poi, una volta nata, diventa essa stessa fonte di piacere e perciò un fine da perseguire. Dunque, Epicuro può ben affermare quanto segue: «Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l’acquisto dell’amicizia»; «L’amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l’un l’altro».

    ◗ Il quadrifarmaco e l’ideale del saggio


    Epicuro ha dunque fornito agli uomini il quadruplice rimedio dimostrando che:
  • sono vani i timori degli dei e dell’aldilà;
  • è assurda la paura della morte, la quale non è nulla;
  • il piacere, quando lo si intenda correttamente, è a disposizione di tutti;
  • il male, infine, o è di breve durata oppure è facilmente sopportabile.
    L’uomo che sappia applicare a sé questo quadruplice rimedio (quadrifarmaco) acquista la pace dello spirito e la felicità, che nulla e nessuno possono intaccare. Diventato, così, totalmente padrone di sé, il saggio non ha più nulla da temere, nemmeno i più atroci mali e le torture: «Il saggio sarà felice anche fra i tormenti».
    È evidente che si tratta di un modo paradossale per affermare l’assoluta "imperturbabilità" del saggio: e di questo Epicuro stesso diede dimostrazione, quando, fra gli spasimi del male che lo portava a morte, scrivendo a un amico l’ultimo addio, proclamava la vita dolce e felice.
    E così Epicuro ritiene di poter dire, forte della sua atarassia, che il saggio può contendere in felicità perfino con gli dei: ove si tolga l’eternità, Zeus non possiede nulla più del saggio.
    Agli uomini del suo tempo, tormentati dalla paura e dall’angoscia del vivere, Epicuro indicava una nuovissima via per ritrovare la felicità, e porgeva una parola che era come una sfida alla sorte e alla fatalità, perché mostrava come la felicità possa venire da dentro noi stessi, comunque stiano le cose fuori di noi, perché il vero bene, nella misura in cui viviamo e finché viviamo, è sempre e solo in noi: il vero bene è la vita, e a mantenere la vita basta pochissimo, e quel pochissimo è a disposizione di tutti, di ogni uomo; tutto il resto è vanità.
    Socrate ed Epicuro sono i paradigmi di due grandi fedi, anzi, di due religioni "laiche": la fede e la religione della "giustizia", la fede e la religione della "vita".

    ◗ Fortuna dell’Epicureismo e Lucrezio


    Epicuro non solo propose, ma impose ai suoi seguaci la dottrina con fermissima disciplina, al punto che nel Giardino non poterono aver luogo conflitti di idee e sviluppi dottrinari di rilievo, almeno sulle questioni di fondo. Gli scolarchi si succedettero in Atene dalla morte di Epicuro (271/270 a.C.) fino alla prima metà del I secolo a.C.; nella seconda metà di questo stesso secolo si sa che il terreno su cui sorgeva la scuola di Epicuro era stato venduto, e quindi che il Giardino era ormai morto in Atene .
    Il verbo di Epicuro doveva però trovare una seconda patria in Italia. Nel I secolo a.C. per opera di Filodemo di Gadara (nato verso la fine del II secolo a.C. e morto fra il 40 e il 30 a.C.), si costituì un circolo di epicurei, di carattere aristocratico, che trovò la sua sede in una villa di Ercolano di proprietà di Calpurnio Pisone, noto e influente uomo politico (fu console nel 58 a.C.) e grande mecenate. Gli scavi compiuti a Ercolano hanno portato al ritrovamento dei resti della villa e della biblioteca, costituita da scritti di epicurei e dello stesso Filodemo .
    Il contributo più cospicuo all’Epicureismo venne da Tito Lucrezio Caro (nato all’inizio del I secolo a.C. e morto verso la metà di esso), che costituisce un unicum nella storia della filosofia di tutti i tempi. Il De rerum natura, che egli compose cantando in mirabili versi il verbo di Epicuro, rappresenta il più grande poema filosofico di tutti i tempi.
    Quanto alla dottrina, Lucrezio ripete fedelmente Epicuro . La sua novità consiste nella poesia, ossia nel modo con cui seppe porgere il messaggio che veniva dal Giardino. «Per liberare gli uomini, Lucrezio ha capito che non si trattava di ottenere, nei momenti di fredda riflessione, la loro adesione ad alcune verità di ordine intellettuale, ma che bisognava rendere queste verità, come avrebbe potuto dire Pascal, comprensibili al cuore» (P.Boyancé@a:P.Boyancé: ). In effetti, se si mettono a confronto i passi del poema lucreziano con i corrispondenti passi di Epicuro, si troverà che la differenza è quasi sempre questa: il filosofo parla con il linguaggio del logos, il poeta aggiunge i toni suadenti del sentimento, dell’intuizione fantastica: in breve, è la magia dell’arte. Una sola differenza sussiste, per il resto, fra Epicuro e Lucrezio: il primo seppe placare le sue angosce anche esistenzialmente; Lucrezio, invece, ne restò vittima, e morì suicida a 44 anni.
    L’Epicureismo sopravviverà anche in età imperiale, ma senza innovazioni. Il più significativo documento attestante la vitalità dell’Epicureismo è un grandioso libro murale che Diogene di Enoanda (in Asia Minore) fece incidere nel II secolo d.C. Nel secolo successivo l’Epicureismo si spense.