Lo ius variandi quale “boomerang” che rafforza il repêchage: il lavoratore esce dalla porta ma rientra dalla finestra

Download articolo (PDF)

Nota a Corte di cassazione, ordinanza 13 novembre 2023, n. 31561

di Michelangelo Salvagni

Il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore (Massima a cura dell’Autore).

Sommario

1. Considerazioni preliminari: lo ius variandi e l’effetto “boomerang” per la ricollocazione del lavoratore.

2. L’evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di repêchage dopo il D.Lgs. n. 81 del 2015.

3. Il repêchage quale elemento interno al fatto e l’allargamento delle possibilità di ricollocazione del lavoratore ex art. 2103 c.c.

4. I principi dell’ordinanza di Corte di cassazione del 13 novembre 2023, n. 31561.

5. Repêchage e obblighi formativi ex art. 2103 c.c. ai fini della salvaguardia del posto di lavoro.

1. Considerazioni preliminari: lo ius variandi e l’effetto “boomerang” per la ricollocazione del lavoratore.

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi! A distanza di 8 anni dalla emanazione del c.d. Jobs Act siamo di fronte all’ennesimo provvedimento giudiziale che, in un certo senso, “smantella” quello che era il progetto del legislatore del 2015. È innegabile che l’impianto normativo del D.Lgs. n. 23/15 e del D.Lgs. n. 81/15 fosse caratterizzato dall’intento di limitare le tutele, ridisegnando le disposizioni in materia sia del risarcimento del danno sia della reintegrazione in caso di recesso, eliminando poi quest’ultima completamente nelle fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi. E non poteva passare inosservata anche l’operazione del D.Lgs. n. 81/2015 di “allargare” le maglie dello ius variandi consentendo quello che, fino a quel momento, era stato considerato un tabù; da una parte, cancellando il principio di equivalenza ex art. 2103 c.c. con riferimento all’assegnazione di mansioni nel rispetto della capacità professionale acquisita; dall’altra, ridisegnando la professionalità in modo orizzontale e verticale. Con la possibilità di consentire la dequalificazione del lavoratore di un livello in caso di riorganizzazione, fino ad arrivare a cosiddetto patto di demansionamento. In tal senso, la giurisprudenza antecedente al 2015 ammetteva una deroga al divieto di variazione in peius ex art. 2103 c.c., giustificandola sul presupposto del prevalente interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro (sull’adibizione a mansioni inferiori che non contrasta la tutela della professionalità se essa rappresenta l’unica alternativa al licenziamento, si veda: Cass. Civ., Sez. Un., n. 7755 del 1998, in Riv. it. dir. lav., 1, 1999, II, 170, nonché Cass. Civ. 13 agosto 2008, n. 21579, pubblicata rispettivamente in Mass. giur. lav., 2009, 3, 159, con nota di C. Pisani, Il licenziamento impossibile: ora anche l’obbligo di modificare il contratto, e in Riv. it. dir. lav., 2009, 3, II, 664; cfr. anche Cass. Civ. 23 ottobre 2013, n. 24037, in Riv. it. dir. lav., 2014, 2, II, 296; nonché Cass Civ. 22 maggio 2014, n. 11395, in D&G, 2014).

Sicuramente il legislatore, nell’operazione effettuata per le modifiche apportate all’art. 2103 c.c., non aveva considerato che questo ampliamento dello ius variandi potesse rappresentare un vero e proprio “boomerang” per quanto riguarda la fattispecie del recesso per giustificato motivo oggettivo, con riferimento all’obbligo di repêchage del lavoratore. E così, citando una frase di un’autorevole dottrina, nelle specie Gino Giugni, il lavoratore esce dalla porta principale ma rientra dalla finestra grazie proprio allo ius variandi che obbliga il datore di lavoro a cercare soluzioni per la salvaguardia del posto di lavoro. In un perimetro sempre più ampio che riguarda, non solo le mansioni del medesimo livello contrattuale del dipendente, ma anche quelle di tipo inferiori; obbligandolo anche a valutare e porre in essere un iter formativo ai fini della ricollocazione del dipendente in altre mansioni, prima di procedere al recesso.

2. L’evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di repêchage dopo il D.Lgs. n. 81 del 2015.

La Suprema Corte, nel tempo, ha ampliato l’ambito di applicazione dell’obbligo di repêchage, anche alla luce della abrogazione del principio di equivalenza ex art. 2103 c.c. post D.Lgs. n. 81 del 2015, affermando che lo stesso si estende inevitabilmente anche a mansioni inferiori (in merito si segnalano, ex multis: Cass. Civ. 26 maggio 2017, n. 13379, in Riv. giur. lav., 2017, 4, II, e ss., con nota di M. Salvagni, Repêchage in mansioni inferiori dopo il Jobs Act: obbligo o facoltà?, nonché Cass. Civ. 9 novembre 2016, n. 22798; Cass. Civ. 21 dicembre 2016, n. 26467 e Cass. Civ. 5 gennaio 2017, n. 160, tutte pubblicate in Riv. giur. lav., 2017, 2, II, 245, con nota di G. Calvellini, Obbligo di repêchage: vecchi e nuovi problemi all’esame della Cassazione. Sull’obbligo del datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza di mansioni inferiori in alternativa al recesso per soppressione del posto di lavoro, si veda anche Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467, in Arg. dir. lav., 2016, 4-5, 887 e ss., con nota di G. Gaudio, Repêchage tra riforma Fornero e Jobs Act).

I cambiamenti apportati dal legislatore in ambito di ius variandi sembrano aver definitivamente superato il limite posto al datore di lavoro del rispetto della capacità professionale acquisita dal prestatore. Occorre comprendere allora quali siano le ricadute della rimozione del principio dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. sulla conservazione del posto di lavoro. Il datore, in realtà, dispone oggi di un potere più ampio con riferimento ad una collocazione flessibile del prestatore nell’ambito della propria organizzazione del lavoro in senso sia orizzontale che verticale (intendendosi, in questi termini, la possibilità di adibizione del prestatore a mansioni inferiori).

L’imprenditore, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, con riferimento all’obbligo di repêchage non è più vincolato al rispetto delle stringenti disposizioni in materia di divieto di variazione delle mansioni, così come previste dalla precedente formulazione dell’art. 2103 c.c.

La nuova impostazione normativa consente, invece, l’adibizione del lavoratore a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore in ragione di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla sua posizione (art. 2103 c.c., comma secondo). La norma in parola poi, al successivo comma sesto, permette anche la stipula di patti di dequalificazione con il prestatore aventi la funzione di tutelare il posto di lavoro. Al riguardo, sono state infatti disciplinate ipotesi legali di tipo tassativo nelle quali è ammesso il cosiddetto “patto in deroga” alle mansioni del livello posseduto, tra le quali viene espressamente prevista quella della “conservazione del posto di lavoro”.

3. Il repêchage quale elemento interno al fatto e l’allargamento delle possibilità di ricollocazione del lavoratore ex art. 2103 c.c.

In ragione delle modifiche legislative apportate all’art. 2103 c.c., il repêchage, come sin qui anticipato, estende sicuramente il proprio raggio di azione obbligando il datore, prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a ricercare posizioni alternative, non solo con riferimento a mansioni riconducibili alla categoria di appartenenza o, comunque, al livello posseduto dal prestatore al momento del recesso, ma anche a quelle di tipo inferiore (sul demansionamento, quale unica alternativa al recesso datoriale che non necessita di apposito patto o richiesta, si veda anche Cass. Civ. 19 novembre 2015, n. 23698, in Riv. giur. lav., 2016, 2, II, 182, con nota di F. S. Giordano, Sui limiti dell’obbligo direpêchage).

Sul punto, concorrono due argomentazioni collegate eziologicamente tra loro.

Da una parte, l’obbligo di repêchage da configurarsi quale elemento interno e costitutivo della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (in merito, si veda una ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale e, in particolare: Cass. Civ. 2 maggio 2018, n. 10435, in Riv. giur. lav., 2018, 3, II, 359, con nota di M. Salvagni, Violazione del repêchage e reintegra: l’obbligo di ricollocazione è un elemento del fatto, Cass. Civ. 22 marzo 2016, n. 5592 e Cass. Civ. 13 giugno 2016, n. 12101, entrambe in Riv. giur. lav., 2016, 3, II, 302, con nota di L. Monterossi, Licenziamento per giustificato motivo e repêchage: nessun onere di allegazione).

Dall’altra, gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. (sul rispetto dei principi di correttezza e buona fede cfr. Cass. Civ. 15 maggio 2012, n. 7509, in Riv. it. dir. lav., 2013, 323, con nota di R. Galardi, Note in tema di licenziamento connesso a trasferimento di ramo d’azienda).

Elementi questi che, proprio in virtù del loro collegamento funzionale, impongono al datore di vagliare ogni soluzione possibile tesa alla conservazione del posto di lavoro, compresa quella di assegnare il dipendente anche a mansioni inferiori (per una completa ricostruzione sull’evoluzione giurisprudenziale in tema dell’obbligo di repêchage, anche in mansioni inferiori, sia consentito rimandare a M. Salvagni, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prima o dopo il Jobs Act, in Lavoro e prev. oggi, 2017, 5-6, 254 e ss.).

In virtù di quanto sin qui esposto, l’obbligo di ricollocazione rappresenta l’ulteriore requisito di verifica della correttezza delle scelte imprenditoriali che, inteso in una visione più elastica, completa la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

4. I principi dell’ordinanza di Corte di cassazione del 13 novembre 2023, n. 31561.

Venendo al provvedimento in annotazione, l’ordinanza della Corte di cassazione, n. 31561 del 13 novembre 2023, riguarda un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage.

Il provvedimento si occupa della rilevanza dello ius variandi con riferimento al tema della ricollocazione di una lavoratrice licenziata per soppressione del posto di lavoro. Nel caso di specie, la prestatrice aveva svolto le mansioni di cassiera e, a seguito di una riorganizzazione aziendale dovuta all’incendio dei locali dell’esercizio commerciale, veniva licenziata in quanto la società non riteneva più utile tale posizione lavorativa. La società poi, al contempo del recesso, assumeva nuovi lavoratori per ricoprire le posizioni di addetti al bancone, camerieri e lavapiatti. Il datore di lavoro, tuttavia, assumeva di non aver proceduto alla ricollocazione della lavoratrice in quanto le nuove assunzioni non riguardavano propriamente i profili di cassiere e, quindi, riguardavano una diversa professionalità da quella posseduta dalla medesima.

Alla luce delle circostanze sopra evidenziate, i giudici di legittimità hanno osservato che in tema diripescaggio del prestatore l’eterogeneità delle esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda può far venire meno il fondamento stesso dell’obbligo di repêchage che, evidentemente, postula il principio per cui le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate. Tuttavia, ciò non significa che si possa affidare al datore di lavoro la potestà di far operare la riallocazione su posto vacante secondo una sua valutazione meramente discrezionale, riservata e insindacabile, la quale si tradurrebbe nello svuotamento dell’obbligo di ripescaggio da ogni contenuto prescrittivo (in termini: Cass. n. 13809 del 2017; conf. Cass. n. 23340 del 2018). Sempre a parere della Suprema Corte, nel caso in cui il datore di lavoro, contestualmente o in periodo prossimo al licenziamento, abbia proceduto ad una serie di assunzioni occorre una verifica in concreto, e non in astratto, rispetto alla eventuale non idoneità professionale del prestatore estromesso di svolgere le mansioni, anche inferiori, alle quali sono stati destinati i neoassunti. Accertamento che va effettuato “sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili allegate dal datore ed avuto riguardo alla specifica condizione e alla storia professionale di un ben individuato lavoratore”. In particolare, secondo l’ordinanza della Cassazione, tale verifica non può esclusa a priori solo sulla base della circostanza che le nuove posizioni non siano riconducibili alle mansioni oggetto di soppressione, ma occorre la dimostrazione da parte del datore per cui il prestatore non fosse in grado di occupare nessuno dei ruoli per i quali sono state assunte le nuove risorse. Ai fini della impossibilità di ricollocazione del lavoratore licenziato in tali posizioni, prosegue il provvedimento in esame, non è sufficiente richiamare “massime di esperienza” per cui il lavoratore non sarebbe stato in grado di espletare tali mansioni. Ma ciò che valorizza maggiormente la Suprema Corte sono le disposizioni del novellato art. 2103 c.c., in quanto ritiene “dirimente e non neutra” (come asserito invece dalla Corte territoriale) la circostanza per cui i nuovi assunti fossero stati inquadrati nel medesimo livello del prestatore estromesso o in livelli inferiori. Osservano in merito i giudici di legittimità che, “scomparso” il parametro del giudizio dell’equivalenza, “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte (comma 1)”. In tal modo, l’area delle mansioni esigibili dall’imprenditore nei confronti del lavoratore è delimitata per relationem dal livello di inquadramento individuato sulla base della disciplina collettiva applicabile, oltre che dalla categoria legale. Con la conseguenza, osservano ancora i giudici di cassazione, che l’inquadramento del dipendente diventa «lo strumento della mobilità orizzontale, consentendo al datore di mutare le mansioni del dipendente purché “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento”». Sempre a parere della Suprema Corte, l’art. 2103 c.c. novellato, al comma 2, assume valore di “norma cardine” ai fini della ricollocazione del dipendente laddove consente la dequalificazione professionale di un livello “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, modifiche organizzative, e questo appare uno dei passaggi più interessanti della motivazione, tra le quali “non può certo escludersi la soppressione del posto che incide sulla posizione di un determinato lavoratore tanto da candidarlo al licenziamento”.

I giudici di legittimità completano infine il ragionamento osservando che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel quadro così delineato dalle modifiche apportate dal Jobs act allo ius variandi, “il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore”.

5. Repêchage e obblighi formativi ex art. 2103 c.c. ai fini della salvaguardia del posto di lavoro.

Da ultimo, anche se la Suprema Corte non tocca direttamente tale tematica, pare opportuno anche un richiamo al dovere di formazione previsto dall’art. 2103 c.c., comma 3, che stabilisce, in caso di mutamento di mansioni, l’assolvimento di tale obbligo formativo. Disposizione questa che può essere utilizzata quale ulteriore “rimedio” ai fini della salvaguardia del posto di lavoro. Secondo la dottrina tale obbligo formativo, a seguito della novella del 2015, assume una rilevanza maggiore rispetto al passato e, anche se non “assurge ad elemento costitutivo del contratto (…), costituisce generale espressione degli obblighi di correttezza e buona fede ex art. 1175 e 1375 c.c. nell’esecuzione dello stesso” (in tal senso, L. Buconi, Il nuovo art 2103 c.c. e licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Piccinini I., Pileggi A., Sordi P. (a cura di), La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs act, Edizioni Lav. prev. oggi, 92-93).

In termini, deve segnalarsi un precedente del Tribunale di Lecce del 19 giugno 2020, est. Carbone, le cui statuizioni risultano innovative in quanto qualificano il dovere formativo previsto dalla riforma del 2015 come “una rilevantissima aggiunta normativa all’articolo 2103 c.c. che si ritiene influenzi direttamente gli oneri datoriali in vista del repêchage, ampliando anche gli oneri di allegazione e prova del datore in simili ipotesi” (cfr. Tribunale di Lecce, 19 giugno 2020, in Riv. giur. lav., n. 4, II, 2020, 623 e ss., con nota di M. Salvagni, Jobs acte licenziamento per g.m.o: obblighi formativi,repêchage e quantificazione dell’indennizzo in funzione dissuasiva).

Sul punto, il magistrato salentino osserva che il possibile repêchage dei dipendenti mediante un iter formativo deve “considerarsi come un contraltare della maggiore flessibilità in uscita consentita dal D.Lgs. 23/2015 che ha escluso, p. es., l’ipotesi di manifesta insussistenza del gmo e ha rimodulato (anche se cfr. C. Cost. 194/2018) il sistema degli indennizzi”.

Tale obbligo formativo non va inteso in modo assoluto ma va calato sempre nella realtà fattuale del caso specifico, con particolare riferimento alla professionalità che il dipendente dovrebbe acquisire. Ad esempio, anche nella normativa antidiscriminatoria è previsto che gli accomodamenti ragionevoli obbligano il datore di lavoro ad adottarli, purché essi non siano eccessivamente onerosi. A parere di chi scrive, occorre verificare, caso per caso, quanto possa essere realmente rilevante tale costo, ove la cartina di tornasole per comprenderlo è rappresentata sempre dai doveri di correttezza e buona fede nell’adempimento del contratto, tra cui rientrano certamente anche tali obblighi formativi. Come osservato dall’ordinanza della Corte di cassazione in commento, l’idoneità di un lavoratore estromesso a svolgere mansioni, anche inferiori, va valutata “sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili allegate dal datore di lavoro ed avuto riguardo alla specifica condizione e alla storia professionale di un ben individuato lavoratore”. Per la Suprema Corte, occorre la dimostrazione da parte del datore di lavoro per cui il prestatore non fosse in grado di occupare nessun ruolo per i quali erano stati assunti nuovi lavoratori. Quindi, tornando alla formazione, tenendo conto della professionalità del lavoratore da estromettere, il costo della stessa potrebbe ritenersi eccessivo nel momento in cui venga dimostrata dal datore che quella mansione, a cui il lavoratore potrebbe in astratto essere addetto per mantenere il posto di lavoro, comporti l’acquisizione di una professionalità talmente diversa ed elevata da non poter sostenere tale onere economico in termini di costi e tempo. Tuttavia, per calarci nella realtà fattuale del caso in commento, non vi sarebbe stato alcun costo eccessivo nella formazione anche per la vicenda affrontata dalla Corte di cassazione n. 31561/2023, ove la cassiera licenziata, ai fini della fungibilità delle mansioni, comprendente magari anche una formazione per ricollocarla, ben avrebbe potuto andare a ricoprire le mansioni di addetta ai tavoli o al bancone, senza oneri economici elevati per il datore con riferimento ad un iter formativo che magari le consentisse di ricoprire tali nuove posizioni. E così l’effetto boomerang si completa e il cerchio si chiude, assumendo ancor più valore, ai fini del repêchage, quel rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. che la parte datoriale deve osservare nell’adempimento dei propri obblighi contrattuali.